Dispensa 2014-5 - Università degli studi di Bergamo

Filosofia e
argomentazione
(cod. 10657)
a.a. 2014-5
primo semestre
Richard Davies
Indicazioni di lettura
per frequentanti
e per non-frequentanti
Indice
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1)
Obblighi comuni
(2)
Obblighi per i frequentanti
(3)
Obblighi per i non-frequantanti
Seminario di supporto: ‘Il guscio della filosofia’
Programma delle lezioni del semestre
3
3
3
3
4
6
Testi (in ordine cronologico)
Platone di Atene,
Repubblica, 357e-60a
Teeteto, 169d-72c
Aristotele di Stagira, Protrettico, fr. 2
Sull’interpretazione, ix
Metafisica, IV, iii-iv (fino a 1006a28)
Sesto Empirico,
Schizzi pirroniani, I, capitoli scelti
Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, VII, 39-41
Sant’Agostino,
Confessioni, XI, 14-7
Sant’Anselmo,
Proslogion 2-5
San Tommaso,
Somma Teologica, I, qu. 2
R. Cartesio,
Meditazioni, I-II
T. Hobbes:
Leviatano, I, cap. xiii
J. Locke:
Secondo trattato, cap. ii
C. Beccaria,
Dei delitti e delle pene, cap. xxviii
B. Bolzano,
Dottrina della scienza, §§ 30-3
J. Rawls:
Una teoria della giustizia, §24
8
14
18
20
24
27
30
34
39
42
48
62
66
72
77
84
Letture autonome
Percorsi di approfondimento
Suggerimenti di lettura autonoma
Introduzioni alla filosofia
89
91
92
Prontuario per la stesura di una tesina
93
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi
universitari [CFU])
Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con Julian Baggini, Il maiale che vuole
essere mangiato, Cairo Editore, Milano, 2006, §§ 1-4, 6, 9, 11, 13, 19, 21, 24-5, 28, 30-2, 38-41,
46, 51, 54, 59, 62-3, 68-9, 72-3, 76, 81, 88, 90, 93, 98
e
i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-88
(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)
Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo.
L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i testi di cui sopra
(‘Obblighi comuni’).
In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre
modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.
La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una
scelta di tre domande delle sei proposte per quanto riguarda il contenuto delle lezioni.
La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina
in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una
tesina’, pp. 93-9). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i nonfrequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 89-91) o proporre un percorso personale
inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle
letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti
universitari (CFU).
(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)
I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli
approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 89-91). Per la
preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione
orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.
3
Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare
una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura
di una tesina’ pp. 93-9) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un percorso personale
inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle
letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari
(CFU)
Seminario di supporto: “Il guscio della filosofia”
30 ore: 3 ore la settimana nel primo semestre
A sostegno non solo del corso di Teorie dell’argomentazione dello stesso docente ma anche di
quelli dei professori Bottani (Filosofia teoretica) e Paternoster (Filosofia del linguaggio), il
laboratorio si prefigge di illustrare ed esaminare alcuni dei concetti e delle tecniche basilari della
logica formale e simbolica.
Mentre per Aristotele, la teoria del ragionamento (analitica) era uno strumento non solo per la
filosofia ma anche per le scienze più in generale, per gli antichi stoici, lo studio delle
argomentazioni (dialettica) stava alle altre discipline filosofiche (fisica ed etica) come il guscio
di un uovo sta all’albume e al tuorlo (vedi il testo di Diogene Laerzio più giù a pp. 30-3).
Partendo dagli elementi delle inferenze, come la distinzione tra premessa/e e conclusione, si
distinguono i vari rapporti che possono istaurarsi all’interno di un discorso argomentativo,
individuando ed esemplificando le tre grandi famiglie di deduzioni, induzioni e abduzioni.
Poiché le induzioni e le abduzioni non si prestano a trattamento propriamente formale, la
tradizione di studi logici ha dedicato loro relativamente poco interesse, mentre le deduzioni,
ossia i ragionamenti in cui, poste certe cose, qualcosa d’altro ne consegue di necessità e in virtù
di esse, sono state teorizzate in modo sistematico. La nozione di ‘conseguire di necessità’, di
‘trasmettere la verità’ o di ‘validità’ sta, dunque, al cuore dell’elaborazione dei vari sistemi
deduttivi. Questa nozione viene esemplificata attraverso una riconstruzione della ‘analitica’
aristotelica, ossia la teoria del sillogismo.
Anche se Aristotele stesso non la esplicita, il suo operato dipende da una distinzione tra le
costanti logiche e le variabili; nel suo caso, questa si esprime nella differenza tra termini come
‘tutti’ e ‘qualche’ da un lato e i nomi di proprietà come ‘essere uomo’ e ‘essere mortale’
dall’altro. Un sistema logico è formale nella misura in cui le sue costanti determinano rapporti di
inferenza valida a prescindere dalle sostituzioni delle variabili.
A partire degli ultimi decenni dell’Ottocento, la logica ha preso una svolta decisamente
simbolica, sostituendo per le espressioni del linguaggio ordinario, come ‘non’, ‘e’, ‘se’, ‘ogni’,
‘il/la’ ‘deve’ ecc., dei segni grafici di non immediata interpretabilità, ma con definizioni molto
4
precise e univoche. Tali simboli sono stati adottati nella filosofia di stampo analitico, non solo
per l’elaborazione di sistemi che generalizzano e integrano la teoria del sillogismo aristotelica,
ma anche per l’espressione di ragionamenti e tesi propriamente filosofici. Nell’esporre e
indagare questi sviluppi si discuterà anche la questione di ‘traduzione’ tra linguaggi naturali e
simbolismi artificiali.
Non essendo contemplati crediti formativi universitari, non si prevede valutazione formale,
ma gli studenti sono incoraggiati a partecipare attivamente alla discussione e agli esercizi in
classe.
Letture pertinenti
Francesco BERTO: Logica da zero a Gödel, Laterza, Bari-Roma, 2007 (capp. 1-3, con esercizi a
fine capitolo)
Andrea IACONA: L’argomentazione, Einaudi, Torino, 20102 (capp. 1 e 2, con esercizi a fine
sezione)
Dario PALLADINO: Corso di logica, Carocci, Roma, 2004 (con esercizi a fine capitolo)
Achille VARZI (et al.): Logica, McGraw-Hill, Milano, 2004 (capp. 1-7, con esercizi a fine
sezione)
5
Programma delle lezioni
N°
Argomento trattato
Testo di riferimento
Materiali e modalità del corso
Diogene Laerzio, Vite, VII, 39-
– la logica come il “guscio della filosofia”
41
lezione
1
2
Un ragionamento dilemmatico contro il non- Aristotele, Protrettico, 2
filosofare
3
Delle due una: come dovrebbe funzionare un tropo Sesto Empirico, Schizzi, I, xii,
scettico: l’equipollenza
e xxvii
4
Mangiatori di credenze: follia e sogni
Cartesio, Meditazioni, I
5
Il divoratore di credenze: il dèmone
Cartesio, Meditazioni, I
6
‘L’uomo è misura di tutte le cose’
Platone, Teeteto
7
L’autoconfutazione del relativismo
Platone, Teeteto
8
La consequentia mirabilis e il ‘cogito’ di Cartesio
Cartesio, Meditazioni, II
9
Il posto del Principio di Non-Contraddizione (PNC) Aristotele, Metafisica, IV, iii
nel pensiero aristotelico
10
La difesa ‘confutatoria’ di PNC
Aristotele, Metafisica, IV, iv
11
L’ineliminabilità della nozione di verità
Bolzano, Dottrina della
scienza, 30-33
12
Rapporti tra il PNC e la ‘Legge’ del Terzo Escluso
(LTE)
13
Eccezioni alla LTE: vaghezza, passati remoti e Aristotele, Sull’
futuri contingenti
interpretazione, ix
14
Rapporti tra Dio e tempo
Sant’Agostino, Confessioni, XI
15
È l’esistenza di Dio nota di per sé?
San Tommaso, Somma, I, 2,
art. i
16
Cosa dice l’insipiente di Dio?
Sant’Anselmo, Proslogion, 2-5
17
Può l’esistenza di Dio essere dimostrata?
San Tommaso, Somma, I, 2,
art. 3
18
‘Se Dio non c’è tutto è permesso’
19
Una tripartizione delle cose da scegliere
Platone, Repubblica, II
20
La fortuna (?) di Gige
Platone, Repubblica, II
6
21
La
generalizzazione
dell’anello:
l’insorgere Hobbes, Leviatano, xiii
dell’anarchia
22
Problemi con il contratto sociale a partire dallo stato
di natura hobbesiano
23
Strategie
di
ragionevolezza:
il
dilemma
del
prigioniero
24
Un approccio alla generazione dello stato basato sui Locke, Scondo trattato, ii
diritti
25
L’autoinvisibilità dietro il Velo di Ignoranza
Rawls, Teoria della giustizia,
§24
26
I princìpi basilari dell’equità e della ridistribuzione
27
Il diritto di punire
28
Princìpi contro la pena di morte e ragionamenti non Beccaria, Dei delitti, XXVIII
generalizzabili
29
Immagini della punizione
30
Sinossi delle tappe percorse
Beccaria, Dei delitti, XXVIII
7
Platone di Atene (428/4-347/8 aec)
Repubblica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578
Traduzione: Giovanni Caccia
[Stephanus vol. II p. 357]
(È Socrate che, in esordio al secondo libro, narra la discussione)
L’opinione comune sulla giustizia
Dopo aver detto questo io credevo di essermi sbrigato dalla discussione; ma quello, a quanto
pare, era soltanto il proemio. Infatti Glaucone, che in ogni circostanza è sempre il più
combattivo, anche in quel caso non accettò la rinuncia di Trasimaco, ma disse:
‘Socrate, vuoi dare l’impressione di averci persuasi, o vuoi veramente persuaderci che il
giusto è in ogni modo migliore dell’ingiusto?’
‘Se dipendesse da me’, risposi, ‘preferirei persuadervi davvero’.
‘Allora non raggiungi il tuo scopo’, ribatté.
I beni desiderabili solo per sé
‘Dimmi un po’: ti sembra che esista un bene tale che potremmo accettarlo non per il desiderio
dei vantaggi che ne derivano, ma perché ci è caro per se stesso, come la gioia e tutti i piaceri che
non arrecano danno e che per il tempo a venire non comportano altro che il godimento del loro
possesso?’
‘A me sembra che qualcosa del genere esista’, risposi.
I beni desiderabili per sé e per gli effetti che procurano
‘E che dire allora di quel bene che amiamo per se stesso e per ciò che ne deriva, come possedere
l’intelligenza, la vista e la buona salute? Beni di questo genere li apprezziamo per entrambe le
ragioni’.
‘Sì’, dissi.
I beni apprezzabili solo per i loro effetti
‘E riconosci’, proseguì, ‘una terza specie di beni, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione
da una malattia, l’esercizio della medicina e le altre professioni redditizie? Potremmo dire che
8
queste attività sono faticose ma ci danno giovamento, e non accetteremmo di possederle per se
stesse, ma per il compenso e per tutti gli altri vantaggi che ne derivano’.
‘Sì’, dissi, ‘esiste anche questa terza specie. E allora?’
‘In quale di esse collochi la giustizia?’, chiese. [pag. 358]
La giustizia si trova fra i beni del secondo tipo
‘Nella migliore, credo’, dissi, ‘quella che chi vuole essere beato deve apprezzare sia per se stessa
sia per ciò che ne deriva’.
‘Tuttavia la gente non la pensa così’, ribatté, ‘ma colloca la giustizia nella specie dei beni che
costano fatica e si devono coltivare per i compensi e la buona fama che procurano, ma si devono
fuggire per se stessi in quanto molesti’.
‘Lo so’, dissi, ‘che la gente la pensa così e già da un pezzo Trasimaco biasima la giustizia in
quanto tale, e loda l’ingiustizia; ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio’.
Glaucone si fa difensore dell’ingiustizia per sollecitare le risposte di Socrate
‘Via’, disse, ‘ascolta anche me, per vedere se resti ancora della tua opinione. Mi sembra che
Trasimaco sia stato incantato da te troppo presto, come un serpente, e la dimostrazione dei
concetti di giustizia e ingiustizia non mi ha ancora convinto; desidero infatti ascoltare che cos’è
l’una e l’altra cosa, e quale forza possiedono di per sé quando agiscono sull’anima, lasciando
perdere i compensi e ciò che ne deriva.
‘Farò dunque così, se anche tu sei d’accordo: rinnoverò il discorso di Trasimaco, e
innanzitutto esporrò l’opinione comune sulla giustizia e sulla sua origine; in secondo luogo dirò
che tutti coloro che la praticano lo fanno contro voglia, come una necessità e non come un bene,
in terzo luogo che la loro condotta è ragionevole, perché secondo loro la vita dell’ingiusto è di
gran lunga migliore di quella del giusto.
‘Io però, Socrate, non sono di questo avviso: tuttavia mi trovo nel dubbio, perché ho le
orecchie rintronate dai discorsi di Trasimaco e di tantissime altre persone, ma non ho ancora
sentito nessuno esporre nel modo in cui voglio la tesi che la giustizia è migliore dell’ingiustizia;
io voglio sentirla elogiare per se stessa, e mi aspetto questo discorso soprattutto da te. Pertanto
mi sforzerò di tessere le lodi della vita ingiusta, e con le mie parole ti mostrerò come voglio
sentirti biasimare a tua volta l’ingiustizia ed elogiare la giustizia. Vedi dunque se la mia proposta
ti piace’.
‘Più d’ogni altra!’, risposi. ‘Su quale argomento una persona assennata
potrebbe aver piacere di parlare e ascoltare più spesso?’
9
I più ritengono la giustizia un compromesso fra l’utile del debole e quello del forte
‘Molto bene’, disse. ‘Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos’è
la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il
subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di
conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le
condizioni, non potendo evitare l’una [pag. 359] e a scegliere l’altra sembra loro vantaggioso
accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. ‘
‘Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla
legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l’origine e l’essenza della giustizia, che sta a
metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la
condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia,
essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma
come un qualcosa che è tenuto in conto per l’incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti
potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non
commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e
l’origine della giustizia, secondo l’opinione corrente.
‘Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per
l’impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a
ciascuno dei due, al giusto e all’ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli
osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la
stessa strada dell’ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire
come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l’uguaglianza.
Il racconto del anello di Gige
‘E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige,
l’antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l’allora sovrano di
Lidia. Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una
fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo.
‘Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia,
vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un
cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto
nulla tranne un anello d’oro che portava a una mano, uscì fuori.
‘Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato
delle greggi, si presentò anch’egli, con l’anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli
altri, girò per caso il castone dell’anello verso di sé, all’interno della mano, e così [pag. 360]
10
divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se
fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l’anello girò il castone verso
l’esterno, e appena l’ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se
l’anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il
castone verso l’interno, visibile quando lo girava verso l’esterno. Non appena si accorse di
questo fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l’obiettivo
divenne l’amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo
si impadronì del potere.
‘Se dunque esistessero due anelli di tal genere e uno se lo mettesse al dito l’uomo giusto,
l’altro l’uomo ingiusto, non ci sarebbe nessuno, a quel che sembra, così adamantino da persistere
nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neanche toccarli, potendo
prendere impunemente dal mercato ciò che vuole, entrare nelle case e congiungersi con chi
vuole, uccidere e liberare di prigione chi vuole, e fare tutte le altre cose che lo renderebbero tra
gli uomini pari agli dèi. Agendo così non farebbe niente di diverso dall’altro uomo, ma
batterebbero entrambi la stessa via.
‘E questa può essere definita una prova decisiva del fatto che nessuno è giusto di sua volontà,
ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia un bene di per sé: ciascuno, là dove pensa
di poter commettere ingiustizia, la commette. Ogni uomo infatti crede che sul piano personale
l’ingiustizia sia molto più vantaggiosa della giustizia, e ha ragione a crederlo, come dirà
chiunque voglia difendere questa tesi; poiché se uno, venuto in possesso di un simile potere, non
volesse commettere ingiustizia alcuna e non toccasse i beni altrui, agli occhi di quanti lo
venissero a sapere parrebbe l’uomo più infelice e più stupido, ma in faccia agli altri lo
loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di subire ingiustizia.
‘Così stanno le cose.
L’uomo perfettamente giusto e totalmente ingiusto a confronto
‘Potremo valutare correttamente la vita delle persone di cui stiamo parlando se distingueremo
l’uomo più giusto e l’uomo più ingiusto; altrimenti no. E il criterio distintivo sarà il seguente:
non togliamo nulla all’ingiustizia dell’ingiusto e alla giustizia del giusto, ma poniamoli entrambi
al più alto grado di perfezione nella loro condotta. Innanzitutto supponiamo che l’ingiusto si
comporti come i bravi artigiani: ad esempio, come un timoniere molto esperto o un medico sa
discernere nell’esercizio della propria arte ciò che è possibile da ciò che non lo è [pag. 361],
mette mano a certe cose e ne tralascia altre, e inoltre, se per caso commette uno sbaglio, è in
grado di porvi rimedio, così anche l’uomo ingiusto deve intraprendere le sue azioni delittuose
con accortezza, senza farsi scoprire, e vuole essere veramente ingiusto. Chi viene colto sul fatto
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dev’essere giudicato una persona dappoco, poiché il massimo dell’ingiustizia consiste nel
sembrare giusto senza esserlo. Pertanto a chi è perfettamente ingiusto bisogna concedere la più
perfetta ingiustizia senza togliergli nulla, anzi gli si deve permettere di procurarsi la più grande
reputazione di giustizia compiendo le azioni più ingiuste; inoltre deve avere la possibilità di
rimediare agli errori che eventualmente commette, di parlare in modo persuasivo se qualche sua
ingiustizia viene denunciata, e di ricorrere alla forza nelle circostanze che la richiedono, grazie al
suo coraggio, al suo vigore e alla disponibilità di amici e sostanze.
‘Stabilita in questi termini la sua indole, supponiamo di collocargli accanto il giusto, uomo
schietto e nobile, “desideroso”, come dice Eschilo, “di non sembrare buono, ma di esserlo”.
Bisogna però togliergli l’apparenza di giustizia, perché se sembrerà giusto, avrà per questa sua
fama onori e ricompense, e non sarebbe chiaro se si comporta così per amore di giustizia o per
ricevere donativi e onori.
‘Perciò bisogna spogliarlo di tutto, tranne che della giustizia, facendo in modo che si trovi
nella condizione opposta a quella dell’individuo di prima: senza commettere ingiustizia alcuna
abbia la fama della più grande ingiustizia, così verrà provato se la sua giustizia non si lascerà
piegare dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; resti però irremovibile fino alla morte, giusto
per tutta la vita pur nell’apparenza di ingiustizia, e quando entrambi saranno giunti al culmine,
l’uno della giustizia, l’altro dell’ingiustizia, si giudicherà chi dei due sia più felice’
‘Ahimè, caro Glaucone’, feci io, ‘con quanto vigore levighi i due
individui, come una statua da sottoporre al giudizio!’.
La tragica sorte del giusto e la fortuna dell’ingiusto
‘Faccio del mio meglio’, rispose. ‘Rappresentando così i due caratteri credo che non sia più
difficile spiegare quale vita attende l’uno e l’altro. Diciamolo dunque; e se le mie parole
riusciranno un po’ rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano
l’ingiustizia anziché la giustizia.
‘Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, [pag.
362] gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà
impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo. Il verso di Eschilo
sarebbe molto più corretto applicarlo all’ingiusto. In realtà diranno che l’ingiusto, dal momento
che dedica i suoi sforzi a una cosa attinente alla verità e non vive secondo l’apparenza, non
sembra ingiusto ma vuole esserlo, “nella mente frutto traendo da profondo solco, donde
germogliano gli accorti intendimenti”. In primo luogo, grazie alla sua fama di giusto, egli
governa nella sua città, poi prende moglie dove vuole e dà le figlie in sposa a chi vuole, stipula
contratti e associazioni con chi gli pare, e oltre a tutto ciò ha il vantaggio di ricavarne un
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guadagno, perché non gli ripugna commettere ingiustizia. Perciò, quando prende parte a contese
pubbliche e private, ne esce vincitore e ha la meglio sugli avversari; in questo modo si
arricchisce, benefica gli amici e danneggia i nemici, offre agli dèi sacrifici e doni votivi con il
dovuto decoro, e si procura il favore degli dèi e di qualsiasi uomo desideri molto meglio
dell’uomo giusto. Di conseguenza è probabile che a lui, più che all’uomo giusto, tocchi di essere
caro agli dèi. Per questo motivo, Socrate, essi sostengono che gli dèi e gli uomini riservano
all’ingiusto una vita migliore che al giusto’.
Io avevo già in mente una risposta da dare alle parole di Glaucone, ma suo fratello Adimanto
intervenne: ‘Non credi, Socrate, che ci siamo dilungati abbastanza sull’argomento?’
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Platone di Atene (428/4-347/8 aec)
Teeteto
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578
tr. it. G.Giardini, Bompiani, Milano, 2001
[Stephanus, vol. I, p. 169]
(Socrate sta discutendo la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora secondo
cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’)
La dottrina di Protagora
SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e
consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che
presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma Protagora
non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni si distinguono
di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?
TEODORO: Sì.
SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece dovuto
ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di riprendere la
questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci senza diritto di fare
questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore concordare in maniera più
chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco se a cosa sta così o in maniera
diversa.
TEODORO: È vero.
SOCRATE: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel modo più
breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.
TEODORO: Come?
SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale pare?
TEODORO: Lo dice, sì.
L’apparente esclusione dell’opinione falsa
14
SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di tutti
gli uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non consideri se
stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri migliori di sé, e che in
mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e malattie, al mare in tempesta,
come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di queste circostanze hanno il potere,
perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono diversi in altro da loro, se non per il sapere.
E ogni condizione umana è piena di persone alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per
altri esseri viventi, o per iniziative che intendono compiere, ma lo è di individui che ritengono di
essere capaci di insegnare e di esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa
diremo, se non che gli stessi uomini pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?
TEODORO: Niente altro.
SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza opinione
falsa?
TEODORO: Ebbene?
Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?
SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli
uomini nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne viene
che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti tu stesso,
Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con forza che
nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?
TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.
SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le cose.
TEODORO: E come?
SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su
quella stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà vero,
ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre giudicare
che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si contrastano
pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.
TEODORO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero, che
mi cagionano ogni sorta di difficoltà.
SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false per
tutte queste migliaia di uomini?
TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.
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SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto che
l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la pensano
neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli delineò non
esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza degli uomini non
la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto a quelli cui non pare,
tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.
TEODORO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.
La verità per il relativista della tesi anti-relativista
SOCRATE: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto alla
sua opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini, riconosce
che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il quale pensano
che egli abbia affermato il falso.
TEODORO: Proprio così.
SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che riconosce
come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?
TEODORO: Necessariamente.
SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.
TEODORO: Certamente no.
SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione in
conseguenza di ciò che ha scritto.
TEODORO: Pare.
SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un dilemma:
ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo può nutrire una
opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane, né il primo uomo che
capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato. Non è così?
TEODORO: È così.
SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di
Protagora può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.
TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.
Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora
SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile però, che
lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui, all’improvviso, balzasse fuori
fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da dire contro di me che vado
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disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi, calandosi giù di nuovo, se ne andrebbe via
a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io penso, servirci di noi stessi, così come siamo e
ribattere il nostro modo di pensare, sempre alla stessa maniera. E, anche ora, cos’altro possiamo
dire che chiunque riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più
ignorante?
TEODORO: A me pare così.
SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo punto
che noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose, le calde, le
aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per ciascuno. Ma se
poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e l’altra, come quello che
è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere che non ogni donnetta, o
ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi, conoscendo bene ciò che è giovevole alla
loro salute, ma proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c’è differenza tra l’uno e l’altro.
TEODORO: A me pare così. [pag. 172]
SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il non
santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo beneficio; ed in
queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino, né città di città. Ma nel
porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo caso Protagora, se in altri mai,
concederà ancora una volta che esiste diversità tra consigliere e consigliere, tra una città e l’altra
nella loro valutazione del vero e non avrà certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti
che una città vara, ritenendoli utili a sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di
quello di cui parlavo, del giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si
ostina ad affermare che non c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua essenza, ma
che la valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio allora mentre pare
valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in maniera assoluta il
ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco così. Ma da un
ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un altro più
grande.
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Aristotele di Stagira (384-22 aec)
Protreptico
lingua originale: greco
edizione di riferimento: W.D. Ross Aristotelis fragmenta selecta, Oxford, 1955
tr. it. G. Giannantoni, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma, 1973
Frammento 2 [= 2 Walzer; 51 Rose]
1. ALEX. APHROD. In Aristot. top. [C.A.G. II 2] p. 149, 9-17.
Vi sono casi nei quali, qualunque interpretazione sia assunta, è possibile, sulla base di essa,
confutare l’asserzione di partenza. Ad esempio, se uno dicesse che non si deve filosofare. E
poiché per filosofare si intende sia il ricercare proprio questo, e cioè se si deve filosofare oppure
no – come disse Aristotele nel Protreptico –, sia il seguire una teoria filosofica, mostrando che
l’una o l’altra di queste cose è propria dell’uomo, in ogni caso avremo confutato l’asserzione di
partenza. In questo caso è possibile provare l’asserzione di partenza secondo l’una o l’altra delle
due considerazioni, ma negli esempi prima citati non è possibile né da tutte le considerazioni né
o dall’una o dall’altra, bensì soltanto da una o da più.
2. SCHOL. IN ARISTOT. An. pr. cod. Paris. 2064 f. 263 a.
Di tal genere è anche il ragionamento di Aristotele nel Protreptico: sia che si debba filosofare,
sia che non si debba filosofare, si deve filosofare; ma o si deve filosofare o non si deve
filosofare: dunque in ogni caso si deve filosofare.
3. OLYMPIOD. In Plat. Alcib. p. 144 Creuzer.
E Aristotele nel Protreptico disse che, sia che si debba filosofare, si deve filosofare; sia che non
si debba filosofare, si deve filosofare; ma allora in ogni caso si deve filosofare.
4. ELIAS In Porphyr. isag. [C.A.G. XVIII 1] p. 3, 17-23.
Oppure, come dice Aristotele nell’opera intitolata Protreptico, nella quale esorta i giovani alla
filosofia; dice dunque così: se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si
deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo
certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo
caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal
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momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia.
5. DAVID Prol. philos. [C.A.G. XVIII 2] p. 9, 2-12.
E Aristotele in un suo scritto protreptico, in cui esorta i giovani alla filosofia, dice che sia nel
caso che non si debba filosofare, si deve filosofare, sia nel caso che si debba filosofare, si deve
filosofare, e che quindi in ogni caso si deve filosofare. Ciò vuol dire che sia nel caso in cui uno
dica che non vi è filosofia, fa uso di dimostrazioni con le quali nega la filosofia: e se fa uso di
dimostrazioni, è chiaro che filosofeggia (la filosofia è infatti madre delle dimostrazioni); sia nel
caso che uno dica che vi è filosofia, ancora una volta filosofeggia; si serve infatti di
dimostrazioni, con le quali fa vedere che essa esiste. In ogni caso dunque filosofeggia tanto colui
che nega la filosofia quanto colui che non la nega; l’uno e l’altro infatti fanno uso di
dimostrazioni con le quali rendere credibile quel che dicono; e se fanno uso di dimostrazioni è
evidente che filosofeggiano: la filosofia è infatti madre delle dimostrazioni.
6. LACTANT. Div. inst. III 16, 9.
L’Ortensio di Cicerone, disputando contro la filosofia, finisce per cadere in una conclusione del
tutto evidente, perché nel momento in cui asserisce che non si deve filosofare, non di meno,
all’apparenza, fa filosofia, perché è proprio del filosofo discutere cosa si deve e cosa non si deve
fare nella vita. Noi siamo immuni e liberi da questa accusa, noi che facciamo alta stima della
filosofia, perché è una scoperta della riflessione umana, difendiamo la sapienza, perché è
tradizione divina, e testimoniamo dell’opportunità che tutti ne diventino partecipi.
7. CLEM. ALEX. Strom. VI, XVIII 162, 5.
E a me sembra che sia ben fondato il ragionamento: se si deve filosofare, si deve filosofare. E
questo ne consegue: ma anche se non si deve filosofare; nessuno infatti potrebbe avere
un’opinione di qualcosa se non sa prima questo: dunque bisogna filosofare.
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Aristotele di Stagira (384-22 aec)
Sull’interpretazione
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Colli, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma, 1973)
Capitolo ix [Bekker pagina 18a]
Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra
l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio
vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma
universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.
Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non
risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti singolari
che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e negazione, in
ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario che ogni
determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza, quando una
persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è
chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si ammette che ogni
affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non potranno infatti appartenere
simultaneamente a tali oggetti.
In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso
sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco,
oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione
non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi
attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene
all’oggetto. In tal caso è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera
e l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità indifferenti,
e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per necessità, e non
sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da chi afferma o da
chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi oppure non prodursi:
ciò che può accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in una certa situazione
piuttosto che nella situazione contrapposta.
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Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato
bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi, che
sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi stato, non è
possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile, d’altro canto,
che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è impossibile che
non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che sarebbero poi stati, è
dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà essere secondo due
possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per caso, non sarebbe più
determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né l’affermazione né la
negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà. In tal caso risulterebbe
anzitutto necessario che la negazione non sia vera, quando l’affermazione è falsa, e che
l’affeimazione non sia vera, quando la negazione è falsa.
Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che
entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali
determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani necessariamente.
Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere in due modi
indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe dire, in effetti,
che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.
Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol
sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi queste ad
oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –, che uno dei due
giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuoi dire che nulla tra
ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto tutte le cose sono e
divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni,
né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che compiendo una determinata azione
si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo invece una determinata azione non si
verificherà un determinato fatto.
Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un fatto, e
che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà necessariamente quella
delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era vero dire. Né certo ha
alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due giudizi contraddittori: in
realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo non ha affermato qualcosa
ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure
affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo
diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo.
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Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero
esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia
prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità.
Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari,
rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.
Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo
infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea
generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o di
non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere,
cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano
evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir
tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello sussiste
poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non risulterebbe
consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in due. Di
conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un cosiffatto
potere.
E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire,
piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui
l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una
delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la
seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.
Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo
necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In
effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità,
assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso
discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non è,
come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata
dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia
navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia
navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece
risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale.
Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli
oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente
in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà
necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono
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sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle
due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una
determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra due possibilità, e
quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise
sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che non sempre [pag. 19b], riguardo ad
un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà necessario che una di esse sia vera e
l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti che sono non vale allo stesso modo per
quelli che non sono ed hanno la possibilità di essere o di non essere. Le cose stanno piuttosto
come si è detto.
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Aristotele di Stagira (384-22 aec)
Metafisica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993
Libro IV (G), capitolo iii [Bekker pag. 1005a]
Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare
quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è evidente che
l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del
filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di qualche
genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi assiomi,
perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere. Ciascuno,
però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in cui si estende il
genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Di conseguenza, poiché è evidente che gli
assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è
comune a tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche lo studio di questi
assiomi.
Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere, si
preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il geometra e non il
matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi
ritenevano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.
D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è
solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza prima,
competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza, ma non è la
prima sapienza.
Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di
determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che essi
nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una preliminare
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conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste
lezioni.
È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza
tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in
qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali
sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che
possiede la conoscenza degli esseri io in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più
sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al
quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti,
tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico.
Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia
cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia
conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. E
evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti.
Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa,
ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si
aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare
difficoltà di indole dialettica ). E questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso, infatti, possiede quei
caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e
non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno
ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un
identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che
è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un
tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non
esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie.
Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché essa,
per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi.
.
Capitolo iv
Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere,
e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo anche molti
dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso
tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più
sicuro di tutti i principi.
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Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato:
infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,
invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto:
in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto
dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, io essi non
potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione.
Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via dí
confutazione: a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario non dice
nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in
quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un vegetale. E la
differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste
in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio;
invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di
dimostrazione.
Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che
qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un
ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per
gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui
non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l’avversario
concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa
di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui
che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si
avvale di un ragionamento.
Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche
indipendentemente dalla dimostrazione.
26
Sesto Empirico (c. 180-c. 220 ec)
Schizzi pirroniani
lingua originale: greco
edizione di riferimento: R.G. Bury, Cambridge, Ma., 1933
tr. it. R. Davies
Libro I Capitolo iv: ‘La natura dello Scetticismo’
Lo scetticismo è una capacità o atteggiamento mentale che contrappone le apparenze ai giudizi
in qualunque modo, con il risultato che, in forza dell’equipollenza degli oggetti e le ragioni così
contrapposti, siamo portati in primo luogo ad uno stato di sospensione mentale e dopo ad uno
stato di imperturbabiltà. Ora, parliamo di una ‘capacità’ non in un senso astruso ma
semplicemente come l’essere in grado. Con le ‘apparenze’ intendiamo gli oggetti di percezione
sensoriale, per cui li contrapponiamo agli oggetti del pensiero o ai ‘giudizi’. La frase ‘in
qualunque modo’ può qualificare o la parola ‘capacità’, in modo tale da rendere il senso
semplice della parola ‘capacità’ di cui abbiamo detto, o alla frase ‘contrapponendo le apparenze
ai giudizi’, perché nella misura in cui contrapponiamo questi in vari modi – le apparenze alle
apparenze, i giudizi ai giudizi e vice versa le apparenze ai giudizi – per includere tutte le
contrarietà possibili, utilizziamo la frase ‘in qualunque modo’. Oppure, aggiungiamo la frase ‘in
qualunque modo’ a ‘apparenze e giudizi’ per non dover indagare come appaiono le apparenze o
come vengono giudicati gli oggetti dei giudizi, ma invece per poter prendere questi termini nel
loro senso più semplice. Non utilizziamo la frase ‘giudizi opposti’ solo nel senso di negazioni ed
affermazioni, ma semplicemente come ‘giudizi contraddittori tra loro’. Per ‘equipollenza’
intendiamo quella uguaglianza in fatto di probabilità o improbabilità che indica che nessun
giudizio ha la precedenza rispetto ad un altro per quanto riguarda la credibilità. ‘Sospensione’ è
uno stato di quiete mentale grazie al quale non neghiamo e non affermiamo niente.
L’’imperturbabilità’ è una condizione calma e tranquilla dell’anima. Il modo in cui
l’imperturbabilità sorge nell’anima in conseguenza della sospensione, lo spiegheremo nel
capitolo sul fine <dello scetticismo (cap xii)>.
Capitolo v: ‘Dello scettico’
Nella definizione del sistema scettico, includiamo anche il filosofo pirroniano: è colui che
partecipa della capacità.
27
Capitolo vi:’ Dei princìpi dello Scetticismo’
Diciamo che il principio dello scetticismo è la speranza di arrivare all’imperturbabilità. Uomini
di grande talento, che erano turbati dalle contraddizioni nelle cose e in dubbio riguardo
all’alternativa da accettare, sono stati portati ad indagare sulla verità delle cose nella speranza di
arrivare all’imperturbabilità. Il principio basilare dello scetticismo è quello di contrapporre ad
ogni ragionamento un ragionamento dello stesso peso, perché ci sembra che, come risultato di
questo, finamo per cessare di essere dogmatici.
-–ooOoo–Capitolo xii: ‘Qual è il fine dello Scetticismo’.
A quanto abbiamo detto dovrebbe seguire l’esposizione del fine dell’indirizzo scettico. Per fine
intendiamo ciò a cui si riferisce tutta la nostra attività pratica o teoretica, mentre esso non si
riferisce a nulla. Oppure: il fine è il termine del1e cose appetibili. Diciamo fin d’ora che il fine
dello scetticismo è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni che
sono per necessità. Avendo, infatti, lo scettico cominciato a filosofare circa la maniera di
comprendere e distinguere quali delle apparenze sensibili fossero vere, quali false, in modo da
conseguire la imperturbabilità, s’abbatté a un disaccordo di ragioni contrarie di ugual peso, e,
non riuscendo a dirimerlo, ha sospeso il proprio giudizio; e a questa sua sospensione casuale
tenne dietro la imperturbabilità nelle cose opinabili. Chi, infatti, crede nell’esistenza di qualche
cosa che sia bene o male per natura, si conturba continuatamente, e quando non possiede quello
ch’egli ritiene esser bene, e quando crede d’essere perseguitato da quello che ritiene essere male
per natura, e persegue i beni, come egli li considera. I quali se egli consegue, crescono i suoi
turbamenti, e perché s’imbaldanzisce fuor di ragione e misura, e perché, temendo un
cambiamento, fa di tutto per non perdere quelli ch’egli considera beni. Chi, invece, dubita se una
cosa sia bene o male per natura, né fugge né persegue nulla con ardore: perciò è imperturbato.
Pertanto allo scettico è accaduto quello che si narra del pittore Apelle. Dicono che Apelle,
dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma. Non riuscendovi in nessun
modo, vi rinunciò, e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale puliva il pennello intinto di
diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta che pareva schiuma. Anche gli
scettici speravano di conseguire la imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza che si trova tra
le apparenze del senso e quelle della ragione; ma non potendo riuscirvi, hanno sospeso il
giudizio, e a questa sospensione, come per caso, ne è conseguita la imperturbabilità, quale
l’ombra al corpo. Non, perciò, riteniamo che lo scettico vada del tutto esente da turbamenti, ma
diciamo che egli è turbato da fatti che sono per necessità, giacchè ammettiamo che talora egli
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soffra il freddo e la fame e simili affezioni. Ma in questi fatti il volgo soffre doppiamente, e per
le affezioni stesse e, nello stesso tempo, perché questi stati penosi giudica mali per natura. Lo
scettico, invece, sopprimendo quell’opinamento che gli altri aggiungono all’affezione, cioè che
ciascuno di questi stati è un male per natura, se ne libera con turbamento minore. Per questo,
dunque, diciamo che il fine dello scettico è la imperturbabilità nelle cose opinabili e la
moderazione nelle affezioni che sono per necessità. Alcuni scettici degni di considerazione,
hanno aggiunto a queste due cose la sospensione del giudizio nelle investigazioni.
-–ooOoo–Capitolo xxvii: ‘Della frase “ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso”’
Quando diciamo ‘ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso’ intendiamo ‘ad
ogni ragionamento’ da noi indagato, e la parola ‘ragionamento’ la utilizziamo non nel suo senso
semplice, ma per indicare uno che sostiene un dogma, vale a dire, che ha a che fare con le cose
non-evidenti, e che lo sostiene in qualsiasi modo e non necessariamente in termini di premesse e
conclusioni. Diciamo ‘uguale’ in rapporto alla credibilità o incredibilità, e utilizziamo la parola
‘contrapposto’ nel senso di ‘contraddittorio’, a cui aggiungiamo mentalmente ‘a quanto mi pare’.
Quindi, quando dico ‘ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso’ quello che
voglio dire è ‘ad ogni ragionamento da me indagato che sostiene una tesi dogmaticamente, mi
sembra che ci sia un altro, volto a sostenere una tesi dogmaticamente, che è di ugual peso al
primo per quanto riguarda la credibilità o la incredibilità’; in questo modo, il proferimento di
questa frase non è dogmatico, ma l’annuncio dello stato mentale umano della persona che lo
vive.
Ma altri <scettici> proferiscono l’espressione nella forma, ‘ad ogni ragionamente è da
contrapporre un altro di ugual peso’, intendendo l’ingiunzione, ‘contrapponiamo ad ogni
ragionamento che sostiene una tesi dogmatica un altro che indaga dogmaticamente, che di ugual
peso al primo per quanto riguarda la credibilità e l’incredibilità, e che risulta in conflitto con
esso’; perché indirizzano le loro parole ad uno scettico nonostante usino la forma infinita ‘da
contrapporre’ invece di quella imperativa ‘contrapponiamo’. E rivolgono questa ingiunzione allo
scettico per evitare che egli venga fuorviato dal dogmatico a cessare l’indagine scettica e, a causa
della fretta, a perdere quella imperturbabilità che gli scettici approvano e che – come abbiamo
detto – suppongono sia effetto della sospensione universale di giudizio.
29
Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.)
Le vite dei filosofi
lingua originale: greco
edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533
tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991
Libro VII (Vita di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo)
[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato a
Cizio, che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli da
Antigono per il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di Antigono.
Una volta Antigono volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa notizia che i suoi
campi erano stati saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e Antigono: «Vedi? La
ricchezza non è cosa indifferente».
Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle nozze,
Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti, in quattro
libri; Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.
[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che introdusse la
dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza. Dionisio detto
l’Apostata che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua grave malattia agli
occhi non ebbe più la forza di affermare che il dolore è cosa indifferente. Dionisio era nato ad
Eraclea. Sfro del Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad Asso che fu successore nello
scolarcato. Zenone era solito paragonarlo a quelle tavolette spalmate di dura cera su cui è
faticoso scrivere, ma che conservano a lungo quel che v’è stato scritto. Sfero fu poi alunno di
Cleante, dopo la morte di Zenone; e di lui parleremo nella seguente Vita di Cleante.
[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto,
Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.
In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta insieme la
dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica. Abbiamo già dato la
lista dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico. Le opinioni comuni a tutti
gli Stoici sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il medesimo solito criterio che
abbiamo applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la filosofia in tre parti: Fisica, Etica,
Logica.
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[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi Crisippo
nel primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo nel primo libro
dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi elementari di Etica e
Diogene di Babilonia e Posidonio.
Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano generi.
[40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi corrisponde
la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la
parte esterna, il guscio (ektos), è la Logica, la parte seguente, l’albume, è l’Etica, la parte più
interna (esotatos), il tuorlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe
esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una
città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra,
come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche
l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo
posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla
Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo.
[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo posto
l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo di
Posidono, nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti: Dialettica,
Retorica, Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non alla Logica, ma
alla stessa filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono la parte logica del
sistema in due scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono l’ufficio di definire e di fornire
canoni e criteri; altri tuttavia le eliminano l’officio della definizione.
[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le regole
per la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle definizioni per
riconoscere la verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti. Definiscono la Retorica
la scienza di dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la Dialettica la
scienza di discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò danno anche
quest’altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero
né falso.
Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica
[43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro
espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso
retorico le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa e
l’epilogo.
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La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione o
parola.
Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva
rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni
enunciate sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e specie,
e così pure parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o dall’argomento.
[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e simili a
questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il nessuno), il
mietitore.
Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina della
lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia quali siano le
parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle anfibolie,
dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle definizioni, delle divisioni e degli stili.
[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei sillogismi.
Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla formulazione corretta dei
giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì a possedere con salda sicurezza
le cognizioni scientifiche.
Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un ragionamento
conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che per mezzo di
nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.
La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un termine
proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello col sigillo
imprime nella cera.
[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie immediatamente la
realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione. La prima,
che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente , conforme all’esistente
stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata dall’esistente oppure se
procede dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né
distinta.
Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù
speciali o particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui
dobbiamo dare o negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la semplice
verisimiglianza, così da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel ragionamento
così da non lasciarci trarre da esso al contrario; la serietà o assenza di leggerezza è la capacità di
riportare le rappresentazioni alla retta ragione.
32
La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una
facoltà di ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo
studio della Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della
Dialettica si distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso
ambiguamente. Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere
metodicamente.
[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che accade
nella realtà, sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono nel disordine
e nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e soprattutto abile nelle
argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e rettamente pensare, discutere le
questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi requisiti possiede chi è scaltrito nella
Dialettica.
Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.
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Sant’Agostino di Ippona (354-430)
Confessioni
lingua originale: latino
edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700
tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999
Libro XI
Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE
Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la
terra?». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà
della domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo».
Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta. Preferirei
dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una domanda
profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.
Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con le
parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di creare
il cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se
non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei contento di
conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna creatura!
Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE
Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia
che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto
per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si
convinca che la sua maraviglia manca di base.
Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non
avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da
Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?
Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del cielo
e della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né
potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo
non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non
esisteva nemmeno un «allora».
E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i
34
tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini tutto
il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo stesso, i
tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e vengono,
perché vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli che passano
sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti quando non saranno
più. Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo
oggi non si annulla nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi
coeterno generasti colui a cui hai detto: «Io ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti
li precedi: non si può parlar--.: di tempo quando il tempo non esisteva.
Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO
Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai
creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se
permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una
breve e facile definizione? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi far parola?
Ed invece, vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo? Certo,
quando ne parliamo, sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne sentiamo
parlare gli altri.
Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne
chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non
esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse, non
vi sarebbe un presente.
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non
esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre
presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente,
perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua
condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il
tempo esiste in quanto tende a non esistere?
Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO
Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e al
futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo lungo
un tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci giorni fa, e
così per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è? Il passato non è più, il
futuro non è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma si dica: «Fu lungo», per il passato, e:
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«Sarà lungo», per il futuro.
O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo
passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente?
perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere lunga:
ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.
Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente che
fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece: «fu
lungo quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora passato al
non essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere lungo, avendo
cessato di esistere.
Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto
infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti
son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando
il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono
ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli altri
futuri. Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati,
dall’altra i futuri. Dunque cento anni non possono essere presenti.
Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo
mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro.
Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto,
l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente; gli
altri sono passati o futuri.
Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è un
giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e
futuri.
Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto
alla durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di un
giorno si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro ore:
per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per l’intermedia un
po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi; quello volato via è
passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può
chiamare presente che non si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma
anche quel punto trasvola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di
durata. Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette
estensione.
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Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi
usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece:
«Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora
quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora — ha
incominciato e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non
poter essere un tempo lungo.
Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE
Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e
diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel tempo
sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo semplice o tanto
quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione
che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste
ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque
si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è
possibile, perché non esiste.
Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO
Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.
C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato da
fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma che
solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e il
tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in qualche
occulto recesso quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato
avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può certo
vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non le
vedessero con la loro mente: e non potrebbero assolutamente essere viste, se non esistessero.
Esistono dunque anche il passato e il futuro.
Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO
Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in questo
mio proposito io non mi lasci sviare.
Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so però
che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là
sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi, dovunque
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siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si raccontano
avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma
espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per
mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non
esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è
ancora nella mia memoria.
Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il
fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti siano
presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni future; che
codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non esiste ancora,
perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto avevamo pensato,
quell’azione non sarà più futura, allora, ma presente.
In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si può
vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò quando si
dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono
forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente appare alla nostra
vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite con lo spirito: forme
concepite che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come presenti.
Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti.
Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio è
futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro; sorgere però che io, se
non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma nemmeno l’aurora che vedo
in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e nemmeno lo è l’immagine del mio animo:
ambedue sono visti nel presente perché si possa preannunciare, il futuro. Il futuro dunque non
c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si
può preannunciarlo dai segni presenti che già esistono e si possono vedere.
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Sant’Anselmo (1033-1109)
Proslogion
lingua originale. latino
edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938
tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001
Proemio
Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo come esempio
di meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi, ragionando
silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che quell’opuscolo era
costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a chiedermi se per caso fosse
possibile trovare un argomento unico, tale che per essere dimostrato non avesse bisogno di altro,
ma solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il
sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per benessere, e tutto ciò che crediamo della divina sostanza.
Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava di
poter già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia mente;
alla fine, privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile trovare.
Ma quando volevo escludere completamente da me quel pensiero, affinché non impedisse alla
mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare
progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più ad imporsi, con una certa
importunità, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre dunque, un giorno, fortemente mi
affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto stesso dei pensieri mi si presentò ciò di
cui avevo disperato, sì da farmi applicare con passione a quel pensiero che mi ero preoccupato di
respingere.
Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a
qualche lettore, su questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi nella
posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di comprendere ciò
che crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra ho ricordato fossero
degni del nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo tuttavia che non si
dovessero pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in qualche modo,
colui nelle cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando il primo Esempio
di meditazione sulla ragione della fede e il successivo La fede che cerca l’intelletto.
Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi
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sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato apostolico in
Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica») a scrivere il mio nome su di essi. Per fare ciò
più adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioè soliloquio, e questo
invece Proslogion, cioè colloquio.
Parte prima DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO
-–ooOoo–2. Dio esiste veramente.
Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai
che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O
forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma
certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si
può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo
intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia
nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa a
ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende
ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha
già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che,
almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché
quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.
Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo
intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il
che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello
stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma
evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste,
senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.
3. Non si può pensare che Dio non esista.
Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può
pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò
che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere
pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si
può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui non si può pensare il
maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.
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E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che
non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente
potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e
sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è,
all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e
perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e,
quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste»,
quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo,
se non perché è stolto e insipiente?
4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare.
Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo
non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e
pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia
non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel cuore o
si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la
significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si
può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il quale
comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste
parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non
si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in
modo tale che neppure nel pensiero può non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non
può pensare che egli non esista.
Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora
per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non
potrei non comprenderlo.
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S. Tommaso d’Aquino (1225-74)
Somma teologica
lingua originale: latino
edizione di riferimento: ‘Leonina’ emendata dalle Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988
tr. it., i padri domenicani italiani (34 voll.), ESD, Bologna, 1984
Parte I, Questione 2
Proemio
Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma
anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole, come appare
dal già detto; nell'intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo: I - di Dio (I Parte); II - del
movimento della creatura razionale verso Dio (II Parte, divisa in I-II e II-II); III - del Cristo, il quale,
in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio (III Parte). L'indagine intorno a Dio comprenderà
tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti
la distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano la derivazione delle creature da Dio. Intorno
all'Essenza divina poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esista; 2. Come egli sia o meglio come non
sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la
potenza. Sul primo membro di questa divisione si pongono tre quesiti: 1. Se sia di per sé evidente che
Dio esiste; 2. Se sia dimostrabile; 3. Se Dio esista.
Articolo 1 Se sia di per sé evidente che Dio esiste
SEMBRA che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti: 1. Noi diciamo evidenti di per sé quelle
cose, delle quali abbiamo naturalmente insita la cognizione, com'è dei primi principi. Ora, come
assicura il Damasceno "la conoscenza dell'esistenza di Dio è in tutti naturalmente insita". Quindi
l'esistenza di Dio è di per sé evidente.
2. Evidente di per sé è ciò che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini; e questo
Aristotele lo attribuisce ai primi principi della dimostrazione: conoscendo infatti che cosa è il tutto e
che cosa è la parte, subito s'intende che il tutto è maggiore della sua parte. Ora, inteso che cosa
significhi la parola Dio, all'istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome un
essere di cui non si può indicare uno maggiore: ora è maggiore ciò che esiste al tempo stesso nella
mente e nella realtà che quanto esiste soltanto nella mente: onde, siccome appena si è inteso questo
nome Dio, subito viene alla nostra mente (di concepire) la sua esistenza, ne segue che esista anche
nella realtà. Dunque che Dio esista è di per sé evidente.
3. È di per sé evidente che esiste la verità; perché chi nega esistere la verità, ammette che esiste una
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verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di
vero, bisogna che esista la verità. Ora, Iddio è la Verità. "Io sono la via, la verità e la vita". Dunque
che Dio esista è di per sé evidente.
IN CONTRARIO: Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega
Aristotele riguardo ai primi principi della dimostrazione. Ora, si può pensare l'opposto
dell'enunciato: Dio esiste, secondo il detto del Salmo: "Lo stolto dice in cuor suo "Iddio non c'è"".
Dunque che Dio esista non è di per sé evidente.
RISPONDO: Una cosa può essere di per sé evidente in due maniere: primo, in se stessa, ma non per
noi; secondo, in se stessa e anche per noi. E invero, una proposizione è di per sé evidente dal fatto
che il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come questa: l'uomo é un animale; infatti
animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del
soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi di
dimostrazione, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il
tutto e la parte, ecc. Ma se per qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la
proposizione sarà evidente in se stessa, non già per coloro che ignorano il predicato ed il soggetto
della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti
solo per i dotti, questo, p. es.: "le cose immateriali non occupano uno spazio". Dico dunque che
questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col
soggetto; Dio infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo
l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose
che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È vero che noi abbiamo da natura una conoscenza generale
e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo; perché l'uomo desidera
naturalmente la felicità, e quel che naturalmente desidera, anche naturalmente conosce. Ma questo
non è propriamente un conoscere che Dio esiste, come non è conoscere Pietro il vedere che qualcuno
viene, sebbene chi viene sia proprio Pietro: molti infatti pensano che il bene perfetto dell'uomo, la
felicità, consista nelle ricchezze, altri nei piaceri, altri in qualche altra cosa.
2. Può anche darsi che colui che sente questa parola Dio non capisca che si vuol significare con essa
un essere di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che alcuni hanno creduto che Dio
fosse corpo. Ma dato pure che tutti col termine Dio intendano significare quello che si dice, cioè un
essere di cui non si può pensare il maggiore, da ciò non segue però la persuasione che l'essere
espresso da tale nome esista nella realtà delle cose; ma soltanto nella percezione dell'intelletto. Né si
può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si
può pensare una maggiore: ciò che non si concede da coloro che dicono che Dio non esiste.
3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente; ma che vi sia una prima Verità non è per noi
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altrettanto evidente.
Articolo 2 Se [l’esistenza di Dio] sia dimostrabile
SEMBRA non sia dimostrabile che Dio esiste. Infatti: 1. Che Dio esista è un articolo di fede.
Ora, le cose di fede non si possono dimostrare, perché la dimostrazione ingenera la scienza,
mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può
dimostrare che Dio esiste.
2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ora, di Dio noi non
possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non
possiamo dimostrare che Dio esiste.
3. Se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi
effetti non sono a lui proporzionati, essendo egli infinito, ed essi finiti; infatti tra il finito e
l'infinito non vi è proporzione. Non potendosi allora dimostrare una causa mediante un effetto
sproporzionato, ne segue che non si possa dimostrare l'esistenza di Dio.
IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "le perfezioni invisibili di Dio comprendendosi dalle cose
fatte, si rendono visibili", Ora, questo non avverrebbe, se mediante le cose create non si potesse
dimostrare l'esistenza di Dio; poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno ad un dato
soggetto è se esso esista.
RISPONDO: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla (cognizione della) causa, ed è
chiamata propter quid, e questa muove da ciò che di suo ha una priorità ontologica. L'altra, parte
dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che hanno una priorità soltanto
rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per
conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché
gli effetti siano per noi più noti della causa); perché dipendendo ogni effetto dalla sua causa,
posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Dunque l'esistenza di Dio, non essendo rispetto
a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si
possono conoscere con la ragione naturale, non sono, al dire di S. Paolo, articoli di fede, ma
preliminari agli articoli di fede: difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia
presuppone la natura, come (in generale) la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla
impedisce che una cosa, la quale è di suo oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata
come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione.
2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in
luogo della definizione (o natura) della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale
specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere
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per termine medio la sua definizione nominale, non già la definizione reale, poiché la questione
riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di
Dio provengono dai suoi effetti, come vedremo in seguito: perciò nel dimostrare l'esistenza di
Dio mediante gli effetti, possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome Dio.
3. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una cognizione perfetta;
tuttavia da qualsiasi effetto noi possiamo avere manifestamente la dimostrazione che la causa
esiste, come si è detto. E così dagli effetti di Dio si può dimostrare che Dio esiste, sebbene non si
possa avere per mezzo di essi una conoscenza perfetta della di lui essenza
Articolo 3 Se Dio esista
SEMBRA che Dio non esista. Infatti: 1. Se di due contrari uno è infinito, l'altro resta
completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s'intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio
esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio non
esiste.
2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba
compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero
essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si
riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana.
Nessuna necessità, quindi, dell'esistenza di Dio.
IN CONTRARIO: Nell'Esodo si dice, in persona di Dio: "Io sono Colui che è".
RISPONDO: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella
che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si
muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia
potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto.
Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può
essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco
che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così
lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso
aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in
atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque
impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè
che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se
dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro,
e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché
altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i
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motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone
non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo
motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La seconda via parte dalla
nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause
efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima;
ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle
cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa
dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora,
eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse
una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle
cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure
l'effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna
ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal possibile
(o contingente) e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono
essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e
non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che
può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che)
possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche
ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per
qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa
cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso.
Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di
necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure
no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può
procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque
bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la
propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio. La quarta via si
prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il
nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si
attribuisce alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di
sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi
è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche
cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è
tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli
appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice
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il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della
bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio. La quinta via si desume dal governo
delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici,
operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso
modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione
raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è
diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un
qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere
chiamiamo Dio.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente
buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse
tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male". Sicché appartiene all'infinita
bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni.
2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la
direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro prima
causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della
ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è
mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e
di per sé necessaria, come si è dimostrato.
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Renato Cartesio (1596-1650)
Meditazioni di prima filosofia (1641)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery (12 voll.), Paris, 1897-1913
tr. it. basata su A. Tilgher (1928)
SINOSSI DELLE SEI MEDITAZIONI CHE SEGUONO
Nella prima, espongo le ragioni per le quali possiamo dubitare generalmente di tutte le cose, e
particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti nelle
scienze, che quelli che abbiamo avuti fin qui. Ora, l’utilità di un dubbio così generale, benché
non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera da
ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito a
distaccarsi dai sensi; ed infine, grazie ad esso, non potremo più avere alcun altro dubbio su quel
che scopriremo in appresso esser vero.
Nella seconda, lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose,
della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce essere
assolutamente impossibile che, frattanto, non esista egli stesso. Ed anche ciò è di una
grandissima utilità, poiché per questo mezzo egli distingue facilmente le cose che
appartengono a lui, cioè alla natura intellettuale, e quelle che appartengono al corpo. Ma
poiché può accadere che alcuni attendano da me in quel luogo delle ragioni per provare
l’immortalità dell’anima, io credo doverli adesso avvertire che, avendo cercato di non
scrivere niente in questo trattato, di cui non avessi delle dimostrazioni esattissime, mi sono
visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si servono i geometri, e cioè a
premettere tutte le cose, dalle quali dipende la proposizione che si cerca, prima di
concluder qualcosa. Ora, la prima e principale cosa che si richiede per conoscere
l’immortalità dell’anima, è di formarne un concetto chiaro e lucido, e interamente distinto
da tutti i concetti che si possono avere del corpo: il che è stato fatto in quel luogo. Ho
richiesto, oltre ciò, di sapere che tutte le cose che noi concepiamo chiaramente e
distintamente sono vere, secondo che noi le concepiamo: e questo non ha potuto essere
provato prima della quarta Meditazione. Di più, bisogna avere un concetto distinto della
natura corporea, il quale si forma in parte nella seconda, in parte nella quinta e sesta
Meditazione. Ed infine si deve concludere da tutto ciò, che le cose che concepiamo
chiaramente e distintamente come sostanze differenti, quali lo spirito e il corpo, sono in
effetto delle sostanze diverse, e realmente distinte le une dalle altre: e questo si conclude
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nella sesta Meditazione. Ed in questa stessa Meditazione ciò si conferma anche per il fatto
che noi non concepiamo nessun corpo se non come divisibile, mentre lo spirito, o l’anima
dell’uomo, non si può concepire che come indivisibile: ed in effetti non possiamo
concepire la metà dl nessun’anima, come invece possiamo fare del più piccolo di tutti i
corpi, si che le loro nature: non sono solamente riconosciute come diverse, ma anche, in
certo snodo, come contrarie. Ora è necessario si sappia che io non mi sono impegnato a
dirne di più nel presente trattato, sia perché ciò basta a mostrare chiaramente che dalla
corruzione del corpo non segue la morte dell’anima, e così a dare agli uomini la speranza
di una seconda vita dopo la morte; sia anche perché le premesse, dalle quali si può
conchiudere l’immortalità dell’anima, dipendono dalla spiegazione di tutta la Fisica. In
primo luogo, per sapere che generalmente tutte le sostanze, cioè tutte le cose che non
possono esistere senza essere create da Dio, sono di per natura incorruttibili, e non possono
mai cessare di essere, se non sono ridotte a niente da quello stesso Dio, che voglia negare
per il suo concorso ordinario. Ed in séguito, affinché si noti che il corpo, preso in generale,
è una sostanza, e per questa ragione anch’esso non perisce; ma che il corpo umano, in
quanto differisce dagli altri corpi, non è formato e composto che da una configurazione di
membra e di altri simili accidenti, e l’anima umana, al contrario, non è composta di nessun
accidente, ma è una pura sostanza. Poiché, sebbene tutti i suoi accidenti si cangino, e, per
esempio, essa concepisca certe cose, ne voglia altre, ne senta altre ecc. è sempre tuttavia la
medesima anima: mentre il corpo umano non è più lo stesso, per ciò solo che la figura di
alcune delle sue parti si trova cambiata. Dal che segue che il corpo umano può facilmente
perire, ma che lo spirito, o l’anima dell’uomo (cose che io non distinguo), è immortale di
sua natura.
Nella terza Meditazione, mi sembra di avere spiegato abbastanza lungamente il
principale argomento di cui mi servo per provare l’esistenza di Dio. Tuttavia, affinché lo
spirito del lettore si potesse più facilmente astrarre dai sensi, non ho voluto servirmi in quel
luogo di nessuna comparazione tratta dalle cose corporee, sì che forse vi sono rimaste
molte oscurità, le quali, come spero, saranno interamente spiegate nelle risposte da me fatte
alle obbiezioni, che poi mi sono state proposte. Così, per esempio, è assai difficile
intendere come l’idea di un essere sovranamente perfetto, la quale si trova in noi, contenga
tanta realtà oggettiva, cioè partecipi per rappresentazione a tanti gradi di essere e di
perfezione da dover necessariamente venire (la una causa sovranamente perfetta. Ma io
l’ho spiegato in quelle risposte con la comparazione di una macchina assai ingegnosa,
l’idea della quale si trovi nello spirito di qualche operaio; poiché, come l’artificio oggettivo
di questa idea deve avere qualche causa, e cioè la scienza dell’operaio o di qualche altro
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dal quale egli l’abbia appresa, è egualmente impossibile che l’idea di Dio, che è in noi, non
abbia per causa Dio stesso.
Nella quarta, è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente sono
tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell’errore o falsità: ciò che
deve necessariamente essere saputo, tanto per confermare le verità precedenti, quanto per
meglio intendere quelle che seguono. Ma tuttavia è d’uopo notare che in quel luogo io non
tratto in nessun modo del peccato, e cioè dell’errore che si commette nella ricerca del bene e del
male, ma solo di quello che si produce nel giudizio e nel discernimento del vero e del falso; e
che non intendo parlare delle cose che appartengono alla fede, o alla condotta della vita, ma solo
di quelle che riguardano le verità speculative, conosciute con l’aiuto del solo lume naturale.
Nella quinta, oltre ad essere spiegata la natura corporea presa in generale, l’esistenza di Dio è
ancora dimostrata da nuove ragioni, nelle quali tuttavia si possono trovare alcune difficoltà, che
saranno risolte nelle risposte alle obbiezioni che mi sono state fatte; e così a scopre in qual modo
è vero che la certezza stessa delle dimostrazioni geometriche dipende dalla conoscenza di un
Dio.
Infine, nella sesta, distinguo l’azione dell’intelletto da quella dell’immaginazione e descrivo i
caratteri di questa distinzione. Mostro che l’anima dell’uomo è realmente distinta dal corpo, e
tuttavia gli è così strettamente congiunta ed unita, che quasi compone una sola cosa con lui. Tutti
gli errori che procedono dai sensi sono esposti, con i mezzi di evitarli. Ed infine porto tutte le
ragioni, dalle quali si può concludere l’esistenza delle cose materiali: non che io le giudichi
molto utili per provare ciò che esse provano, cioè che vi è un mondo, che gli uomini hanno dei
corpi, ed altre cose simili, che non sono mai state messe in dubbio da nessun uomo di buon
senso; ma perché considerandole da vicino, si viene a conoscere che esse non sono così ferme,
né così evidenti come quelle che ci conducono alla conoscenza di Dio e della nostra anima; di
guisa che queste sono le più certe e le più evidenti che possano cadere sotto la conoscenza dello
spirito umano. Ed è tutto quello che ho voluto provare in queste sei meditazioni, il che è causa
che io ometta qui molte altre questioni, di cui ho anche parlato occasionalmente in questo
trattato.
PRIMA MEDITAZIONE
DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO
Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una
quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal sicuri, non
poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere seriamente una
volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per
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cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di
durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho atteso di aver
raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più adatta; il che mi
ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi
ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire.
Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro
in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di
tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono
tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già
che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono
interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il
menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v’è
bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma,
poiché la rovina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell’edificio, io
attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.
Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi,
o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è
regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.
Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto
lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare,
benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco,
vestito d’una veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E
come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei ? a meno che, forse, non mi
paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori
della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere
vestiti d’oro e di porpora, mentre sono nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o
d’avere un corpo di vetro. Ma costoro sono pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul
loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di
dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora,
che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero
in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio
letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta,
che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito
io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto
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come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato,
mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così
manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia
possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è
tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo.
Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè
che apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle false
illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quali noi li
vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel
sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a
somiglianza di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè
degli occhi, una testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie, ma vere
ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi pittori, anche quando si sforzano con il maggior artificio di
rappresentare Sirene e Satiri in forme bizzarre e straordinarie, non possono tuttavia attribuire
loro forme e nature interamente nuove, ma fanno soltanto una certa mescolanza e composizione
delle membra di diversi animali; ovvero, se per avventura la loro immaginazione è abbastanza
stravagante da inventare qualche cosa di così nuovo, che mai noi non abbiamo visto niente di
simile, in modo tale che la loro opera ci rappresenti una cosa puramente finta ed assolutamente
falsa, certo almeno i colori di cui la compongono debbono, essi, essere veri.
E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e
simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più
semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più né
meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che risiedono
nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate. Di questo
genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la figura delle cose
estese, la loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo dove esse sono, il
tempo che misura la loro durata, e simili.
Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la
medicina e tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte, sono
assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo, le quali
non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se
esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia che io
vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il quadrato
non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano
essere sospettate di falsità o d’incertezza.
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Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un
Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può
assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra, nessun cielo,
nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che, tuttavia, io senta
tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre,
come io giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere
con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo
l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra
cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto
che io fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono. Tuttavia, se
ripugna alla sua bontà l’avermi fatto tale che io m’inganni sempre, sembrerebbe esserle contrario
anche il permettere che io m’inganni qualche volta; e tuttavia io non posso mettere in dubbio che
egli lo permetta.
Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così
potente, piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro, e
supponiamo, in loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia, in
qualunque maniera essi suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che possiedo, sia
che l’attribuiscano a qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso, sia che sostengano
che ciò accade per un continuo concatenamento e legame delle cose, è certo che, poiché errare ed
ingannarsi è una specie d’imperfezione, quanto meno potente sarà l’autore che essi attribuiranno
alla mia origine, tanto più probabile sarà che io sia talmente imperfetto da ingannarmi sempre.
Alle quali ragioni io non ho certo nulla da rispondere, ma sono costretto a confessare che, di tutte
le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora
dubitare, non già per inconsideratezza o leggerezza, ma per ragioni fortissime e maturamente
considerate: di guisa che è necessario che io arresti e sospenda oramai il mio giudizio su questi
pensieri, e che non dia loro più credito di quel che darei a cose, che mi paressero evidentemente
false, se desidero di trovare alcunché di costante e di sicuro nelle scienze.
Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di
ricordarmene; perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel pensiero,
poiché il lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il mio volere, e
di rendersi quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di aderire loro e di
aver confidenza in esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in qualche modo dubbie,
come testé ho mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha molto più ragione di credervi
che di negarle. Ecco perché io penso di farne un uso più prudente, se, prendendo un partito
contrario, impiego tutte le mie cure ad ingannare me stesso, fingendo che tutti questi pensieri
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siano falsi e immaginari; finché, avendo talmente posto in. equilibrio i miei pregiudizi, che essi
non possano fare inclinare il mio parere più da un lato che da un altro, il mio giudizio non sia più
oramai dominato da cattivi usi e distolto dal retto cammino che può condurlo alla conoscenza
della verità. Io sono sicuro, infatti, che non può esserci pericolo né errore in questa via, e che non
saprei oggi conceder troppo alla mia diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di
meditare e di conoscere.
Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo
cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che
abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i
colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di
cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di
mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di
aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo
mezzo, non e in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere
di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità,
e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per
potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla.
Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel
corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d’una
libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme
d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente
ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura di
risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla
tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella
conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle
difficoltà che sono state agitate testé.
SECONDA MEDITAZIONE
DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO È PIÙ FACILE A
CONOSCERSI CHE IL CORPO
La meditazione che feci ieri mi ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio
potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto
fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i
piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò
da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò
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immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e
continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o
almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non
v’è nulla di certo.
Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un
sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza
fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.
Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla
c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di
non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non
siano che finzioni [chimeræ] del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero ?
Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.
Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre a quelle che testé ho giudicato incerte,
della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra
potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono
capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di
avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente
dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che
non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi
sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo ? No, certo; io esistevo senza dubbio,
se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale
ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre.
Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà
mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo
avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener
fermo, che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la
pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.
Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che sono certo di essere; di
guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere
imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io
sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto in precedenza.
Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi
ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le
ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è interamente indubitabile. Che cosa,
dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma
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che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe,
dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione,
cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate, ed io non vorrei
abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma
mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevano prima da se stessi nel mio
spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla
considerazione del mio essere. Io mi consideravo dapprima come avente un viso, delle mani,
delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un
cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo. Io consideravo, oltre a ciò, che mi
nutrivo, che camminavo, che sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all’anima; ma
non mi fermavo a pensare che cosa fosse quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo
che essa fosse qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria
delicatissima, insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo,
non dubitavo per nulla della sua natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se
avessi voluto spiegarla secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei descritta in questa maniera: per
corpo intendo tutto ciò che può esser determinato in qualche figura; che può- essere compreso in
qualche luogo, e riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può
essere sentito o col tatto, o con la vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere
mosso in più maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui
riceva l’impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura
corporea il privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario,
mi stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.
Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso
dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi? Posso
io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura
corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio
spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi fermi a
enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che
siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero
anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non
si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose
durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il
pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere
distaccato da me: io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto
tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in
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pari tempo d’essere o d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero:
io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un
intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. Ora, io
sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto: una cosa che pensa. E che
altro? Ecciterò ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono
quest’unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono un’aria sottile e penetrante,
diffusa in tutte queste membra; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò
che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente; eppure, senza
cambiare questa supposizione, io continuo a essere certo che sono qualcosa.
Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere, poiché mi
sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io non ne so niente;
per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle cose che mi sono note: io
ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere. Ora è
certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non dipende
dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, ‘né, per conseguenza, ed a più forte
ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed inventate dall’immaginazione. Ed anche questi
termini di fingere ed immaginare mi avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se
immaginassi di essere qualcosa, poiché immaginare non è se non contemplare la figura o
l’immagine d’una cosa corporea. Ora io so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte
quelle immagini, e in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono non
essere altro che sogni o chimere. In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto poco
ragione dicendo: - io ecciterò la mia immaginazione per conoscere più distintamente chi sono –,
che se dicessi: – io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma, poiché non
la percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta, affinché i miei sogni
mi rappresentino quella stessa cosa con maggior verità cd evidenza. E, così riconosco con
certezza, che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo dell’immaginazione appartiene
a quella conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario richiamare e distogliere il proprio
spirito da questa maniera di concepire, affinché possa esso stesso riconoscere con la massima
distinzione la sua natura.
Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una
cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina
anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma
perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che dubito quasi di
tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed affermo quelle sole esser
vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più, che non voglio essere
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ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose
sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è qualcosa in tutto ciò che non sia
tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche dormissi sempre, e colui che m’ha
dato l’essere si servisse di tutte le sue forze per ingannarmi? V’è anche alcuno di questi attributi,
che possa essere distinto dal mio pensiero, o del quale si possa dire che esso è separato da me
stesso? Poiché è di per sé così evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che
non v’è qui bisogno di aggiunger nulla per spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà
d’immaginare; poiché sebbene possa accadere (come ho supposto in precedenza) che le cose che
immagino non siano vere, tuttavia questa facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in
me, e fa parte del mio pensiero. Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le
cose come per mezzo degli organi dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il
calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è
certissimo almeno che mi sembra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel
che in me si chiama sentire, e che, preso così precisamente, non è null’altro che pensare. Da tutto
ciò comincio a conoscere chi sono, con un po’ più di luce e di distinzione.
Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si formano
per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più distintamente di
quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione: benché, in effetti, sia
una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano più chiaramente e più
facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che appartengono alla mia propria
natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si compiace di smarrirsi, e non può
contenersi ancora nei giusti limiti della verità. Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le
briglie, affinché, venendo dopo a ritrargliele dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente
regolarlo e condurlo.
Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere
nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo parlare dei corpi in
generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in
particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto
dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora
qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua
grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono.
Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo.
Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala,
l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, diventa liquido, si
riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la
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cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può
negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera?
Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che
cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambiate, e tuttavia la
cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del
miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono,
ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta
sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in
questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non
appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di
flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io
immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal
quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di
ricevere un’infinità di simili cambiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest’infinità con la
mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per
mezzo della facoltà d’immaginare.
Ma che cos’è questa estensione ? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde
aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è interamente fusa, e molto più grande
ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa
è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo
l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con
l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio
intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in
generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è questa cera, che non può essere concepita se
non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che
conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della
quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è mai stata
tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente [solius mentis
inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta,
com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e
di cui essa è composta.
Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia debole ed
incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io consideri tutto
ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del
linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non già di
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giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde quasi concluderei che si
conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la sola ispezione dello spirito, se
per caso non guardassi da una finestra degli uomini che passano nella strada, alla vista dei quali
non manco di dire che vedo degli uomini, proprio come dico di veder della cera. E, tuttavia, che
vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o
degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così
comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nel mio spirito, ciò che credevo
di vedere con i miei occhi.
Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna di
trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io preferisco passar
oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la cera, quando l’ho
dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi esteriori, o almeno del senso
comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà immaginativa, di quel che non la concepisca
adesso, dopo avere più esattamente esaminato ciò che essa è, ed in quale maniera può essere
conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in quella prima
percezione, che fosse distinto ed evidente, e che non potesse cadere in egual guisa sotto il senso
del più piccolo fra gli animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue forme esteriori, e, come
se le avessi tolto i suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo, benché si possa ancora
incontrare qualche errore nel mio giudizio, non la posso concepire in questa maniera se non con
mente umana.
Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in me
altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di me, che sembro concepire con tanta
distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con molto maggior
verità e certezza, ma ancora con molto maggior distinzione e nettezza ? Poiché, se io giudico che
la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo, certo dal fatto ch’io la vedo segue molto più
evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso. Poiché può essere che ciò che io vedo non sia in
effetti cera; può anche accadere ch’io non abbia neppure degli occhi per vedere alcuna cosa; ma
non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non distinguo più) quando penso di vedere, io
che penso non sia qualche cosa. Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal fatto che la
tocco, ne seguirà ancora la stessa cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto
che la mia immaginazione me ne persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la
stessa cosa. E ciò che ho notato qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono
esteriori, e che si trovano fuori di me.
Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo clic
essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre cause, con
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quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me stesso, poiché tutte
le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o di qualche altro corpo,
provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio spirito ? E nello spirito stesso
si trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a spiegarne la natura, che quelle
dipendenti dal corpo, non meritano quasi d’essere enumerate.
Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco
che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà
d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo pel
fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li concepiamo per mezzo del
pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio
spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un’antica opinione, sarà bene
che mi fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia meditazione,
imprima più profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza.
61
Thomas Hobbes (1588-1679)
Leviatano (1651)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: R. Tuck, Cambridge, 1991
traduzione: G. Micheli
Libro I
Cap. XIII: Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la
sua miseria
LA NATURA ha fatto gli uomini cosi uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si
trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro,
pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole,
che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa
pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente
per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui
nello stesso pericolo.
E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e
specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata
scienza, che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale, nata con
noi, ne conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io trovo tra gli
uomini una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la prudenza non è che
esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli uomini, in quelle cose in
cui si applicano in egual misura. Ciò che può forse rendere incredibile una tale eguaglianza non è
che un vano concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere in un
grado maggiore del volgo, cioè di tutti gli uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per
la loro fama, o perché concordano con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto
possano riconoscere che molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente
crederanno che ci siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da
vicino e quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel
punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual
distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte.
Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini.
E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla,
diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e
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talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde
accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se
uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente
aspettare che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del
frutto della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un
pericolo simile a quello in cui era l’altro.
Da questa diffidenza dell’uno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di
assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più
persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande
per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria conservazione richiede, ed è
generalmente concesso. Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel
contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto
richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro
modesti limiti. non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo
stare solo sulla difensiva. di sussistere a lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli
uomini, essendo necessario per la conservazione dell’uomo, deve essergli concesso.
Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in
compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti
bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno
di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che
non hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si
distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano
arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio.
Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la
competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo l’orgoglio.
La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la
terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle
persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per
difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e
qualunque altro segno, di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di
riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione
o del loro nome.
Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che
li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale
guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella
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battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente
conosciuta la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella
natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura
delle condizioni atmosferiche cattive non sta solo in un rovescio o due di pioggia, ma in una
inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non consiste nel
combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante
tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo, è GUERRA.
Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni
uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che
la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non c’è posto per
l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né
navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né
macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia
della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è
continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole,
animalesca e breve.
Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così
dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò, non
fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia confermata
dall’esperienza. Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di
andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella
sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e pubblici ufficiali armati per
vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale opinione egli ha dei suoi
consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando chiude le porte; dei suoi figli e
dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli l’umanità con le sue azioni, come
faccio io con le mie parole? Ma nessuno di noi accusa in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le
altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono
da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta; tali leggi, finché non si sono
fatte, non possono essere conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati
sulla persona che la deve fare.
Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra
come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi
luoghi ove attualmente si vive così. Infatti. in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si
eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale,
non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale che ho detto
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prima. Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore di
un potere comune, dalla maniera di vita in cui sono usi degenerare gli uomini che già hanno
vissuto sotto un governo pacifico, una guerra civile.
Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui gli individui fossero in condizione di
guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana., a
causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere nello stato e nella
posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro, cioè, con
forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con spie continuamente nei territori che
sono vicini a loro; ciòè una posizione di guerra. Ma per il fatto che così essi sostengono
l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella miseria che accompagna la libertà degli
individui.
A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può
essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia e dell’ingiustizia
non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è
ingiustizia. La forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali. La giustizia e l’ingiustizia
non sono facoltà né del corpo né della.mente. Se lo fossero, potrebbero essere in un uomo che
fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che sono relative
agli uomini in società, non in solitudine. Consegue anche alla medesima condizione che non ci
sia né proprietà né dominio, né un mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che
può prendersi e per tutto il tempo che può tenerselo. E ciò basti per quel che riguarda la triste
condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una
possibilitá di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione.
Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle
cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la
loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono
essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di
natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti.
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John Locke (1632-1704)
Secondo trattato sul governo (1690)
Lingua originale: inglese
Edizione di riferimento: P. Laslett, Cambridge 1988
traduzione A. Gialluca, Rizzoli, Milano 2009
Capitolo II
Dello stato di natura
4. Per comprendere rettamente cosa sia il potere politico e derivarlo dalla sua origine, occorre
considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato
di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come
meglio credono, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla
volontà di un altro.
È anche uno stato di eguaglianza in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone
nessuno più di un altro. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e
grado, destinate senza discriminazione al godimento dei benefici della natura e all’uso delle
stesse facoltà, debbono essere anche uguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a
meno che il signore e padrone di tutte loro non ne abbia, con manifesta dichiarazione della sua
volontà, anteposta una alle altre conferendole con una evidente e chiara designazione, un
incontestabile diritto al dominio e alla sovranità.
5. Il saggio Hooker* considera questa eguaglianza naturale degli uomini così evidente in se
stessa e al di là di ogni dubbio, da porla a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli
uomini sul quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui egli deriva i grandi
principi della giustizia e della carità. Ecco le sue parole:
Il medesimo impulso naturale ha portato gli uomini a riconoscere che è loro dovere amare gli
altri non meno che se stessi. Infatti, considerato che le cose uguali devono di necessità avere una
sola misura, se non posso non desiderare di ricevere il bene dagli altri nello stesso identico modo
in cui gli altri possono desiderarlo nel loro cuore, come potrei sperare di veder soddisfatto in
qualche modo il mio desiderio, se io stesso non fossi attento a soddisfare il desiderio simile che è
indubbiamente negli altri, dato che noi condividiamo una medesima natura? Offrire agli altri
qualcosa che ripugna a quel desiderio deve necessariamente essere penoso per loro quanto per
*
Richard Hooker (1554-1600), uno dei massimi teologi anglicani dell’epoca [nota di Davies].
66
me, cosicché se faccio un torto devo aspettarmi di subirne, non essendovi ragione che gli altri
dimostrino per me un grado di amore maggiore di quello che io ho dimostrato per loro. Perciò il
mio desiderio di essere amato quanto più possibile da coloro che sono miei eguali per natura, mi
impone il dovere naturale di avere nei loro confronti lo stesso identico affetto. Nessuno ignora le
diverse regole e canoni che la ragione naturale ha ricavato per la direzione della vita da quella
relazione di eguaglianza che sussiste tra noi e coloro che sono come noi.°
6. Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in
questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi
averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo
possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo più nobile che la semplice
conservazione., Lo stato di natura è governato dalla legge di natura che è per tutti vincolante, e la
ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che
essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute,
nella libertà o negli averi. Infatti, essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore Onnipotente
e infinitamente saggio, tutti servitori di un solo supremo Signore, inviati nel mondo per suo
ordine e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono opera, creati per durare fintanto
che piaccia a lui e non ad altri. Ed essendo forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una
comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione fra noi tale da autorizzarci a
distruggerci l’un l’altro, come se fossimo stati creati gli uni ad uso di altri, così come gli ordini
inferiori delle creature sono fatti per i nostri usi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e
a non abbandonare intenzionalmente il suo posto, così per la stessa ragione – quando non sia in
gioco la sua stessa conservazione – deve, per quanto può, preservare gli altri uomini, e non può –
se non nel caso di far giustizia di un trasgressore – privare o ledere la vita di un altro o quanto
contribuisce alla conservazione della vita come la libertà, la salute, le membra o i beni.
7. E affinché tutti gli uomini possano essere frenati nella violazione dei diritti altrui e nel
danneggiarsi l’un l’altro, affinché sia rispettata la legge di natura che vuole la pace e la
conservazione di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge di natura in quello stato è
affidata nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge
in misura tale da impedirne la violazione. Ciò in quanto la legge di natura, come tutte le altre
leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe vana se non ci fosse qualcuno che
nello stato di natura ha il potere di renderla esecutiva e così proteggere gli innocenti e reprimere i
trasgressori. E se nello stato di natura a uno è dato di punire un altro per un male commesso, la
stessa cosa è permessa a ciascuno. Infatti in quello stato di perfetta uguaglianza, dove per natura
°
R. Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity, [Politica ecclesiastica] (1591-7) I, viii,.
67
non vi è alcuna superiorità o giurisdizione di uno su un altro, ciò che uno può fare per rendere
esecutiva quella legge ognuno deve di necessità avere il diritto di farlo.
8. In tale modo nello stato di natura un uomo consegue un potere su un altro; ma non il potere
assoluto o arbitrario di disporre di un criminale, quando è nelle sue mani, secondo gli
appassionati furori o le stravaganze della sua volontà; ma soltanto di retribuire ciò che è
proporzionato alla sua trasgressione, secondo quanto gli dettano la serena ragione e la coscienza,
vale a dire tanto quanto può servire come riparazione e prevenzione. Infatti, queste ultime sono
le due uniche ragioni per cui un uomo può legalmente fare ad un altro quel male che chiamiamo
punizione. Nel trasgredire la legge di natura, il trasgressore dichiara di vivere secondo una regola
diversa da quella della ragione e della comune giustizia, che è la misura che Dio ha imposto alle
azioni degli uomini per la loro reciproca sicurezza; e così egli diventa pericoloso per gli uomini
poiché tiene in poco conto o addirittura recide il vincolo inteso a garantirli dall’offesa e dalla
violenza. Essendo questo un reato contro l’intera specie e la sua pace e sicurezza cui presiede la
legge di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza
dell’umanità in generale, può reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che è ad essa
nocivo, e quindi recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a
pentirsi d’averlo fatto e con ciò dissuadere lui, e sul suo esempio altri, dal commettere lo stesso
male. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire i trasgressori e
rendersi esecutore della legge di natura.
9. Non dubito che questa sembrerà ad alcuni una dottrina assai strana. Ma prima di condannarla,
vorrei mi si chiarisse in base a quale diritto un sovrano o uno Stato possono mandare a morte, o
punire uno straniero per un reato che questi commette nel loro paese. E certo che le loro leggi,
quale che sia la sanzione che esse ricevono dalla proclamata volontà del legislativo, non
riguardano uno straniero: non si rivolgono a lui, e se lo facessero non sarebbe tenuto a darvi
ascolto. Il potere legislativo, in forza del quale le leggi sono vincolanti per i sudditi di quello
Stato, non ha alcun potere su di lui. Coloro che in Inghilterra, in Francia o in Olanda hanno il
supremo potere di fare leggi sono per un indiano, come per il resto del mondo, uomini privi di
autorità. E dunque, se non è per legge di natura che ogni uomo ha il potere di punire le offese a
quella legge, secondo quanto col buon senso si giudica che il caso richiede, non vedo come i
magistrati di una comunità possano punire uno straniero d’un altro paese, dato che nei suoi
confronti non possono avere maggior potere di quello che ciascuno per natura può avere su un
altro.
10. Al reato che consiste nel violare la legge e nel deviare dalla retta norma della ragìone, per la
qual cosa l’uomo degenera e dichiara di abbandonare i principi della natura umana e di essere
una creatura nociva, si unisce di solito l’offesa fatta ad una o ad un’ altra persona; e a qualcuno
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la trasgressione arreca danno. In questo caso, colui che ha subito il danno, oltre al diritto di
punire – comune a lui e agli altri uomini – ha il diritto particolare di chiedere riparazione da colui
che glielo ha arrecato; e ogni altra persona che lo riconosca giusto può anche associarsi a chi è
stato offeso e assistirlo nel recuperare dall’offensore quanto basti per avere soddisfazione per il
danno che egli ha sofferto.
11. In ragione di questi due distintì dìritti, l’uno di punire il reato per reprimerlo e prevenire
analoghe offese – diritto che appartiene a ognuno – l’altro di esigere riparazione, che spetta solo
alla parte offesa, accade che il magistrato, che per essere tale ha nelle sue mani il comune diritto
di punire, può spesso, laddove il pubblico bene non richiede l’esecuzione della legge, condonare
di propria autorità la punizione di violazionì delittuose; ma non può tuttavia condonare la
riparazione dovuta ad un privato per il danno che questi ha subito. Colui che ha subito il danno
ha il diritto di chiedere la riparazione a suo nome, e lui solo può condonarla; la persona
danneggiata ha il potere di appropriarsi dei beni e dei servigi dell’offensore in base al diritto alla
conservazione di sé, cosi come ciascuno ha il potere di punire l’offesa per impedire che si
commetta di nuovo, in base al diritto che ha di conservare tutto il genere umano, facendo a tal
fine tutto ciò che è ragionevole fare. Ed è per questo che ogni uomo nello stato di natura ha il
potere di uccidere un assassino, sia per dissuadere altri dal compiere la stessa offesa – che
nessuna riparazione può compensare – con l’esempio della punizione che sempre segue per
mano di ognuno; sia anche per mettere al sicuro gli uomini dalle aggressioni di un criminale che,
avendo rinunciato alla ragione – comune norma e misura che Dio ha dato all’umanità – ha, con
l’ingiusta violenza e il brutale assassinio commesso nei riguardi di uno solo, dichiarato guerra
all’intero genere umano. Quegli può perciò essere ucciso come un leone o una tigre, una di
quelle bestie selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né riceverne sicurezza.
Su ciò si fonda quella grande legge di natura secondo cui: «chi ha sparso così il sangue
dell’uomo, dall’uomo avrà sparso il suo sangue». E Caino era così pienamente convinto che
ciascuno avesse il diritto di uccidere un tale criminale che dopo l’assassinio di suo fratello grida:
«chiunque mi troverà mi ucciderà»; così chiaramente quella legge era scrìtta nel cuore di tutti gli
uomini.
12. Per lo stesso motivo nello stato di natura un uomo può punire le infrazioni minori di quella
legge. Forse si domanderà: con la morte? Rispondo: ogni trasgressione potrà essere punita in
misura tale, e con così tanta severità, da essere sufficiente a renderla un cattivo affare per il
trasgressore, dargli motivo di pentirsi e dissuadere gli altri nell’intento di fare altrettanto. Ogni
offesa che può essere commessa nello stato di natura può, nello stato di natura, essere punita allo
stesso modo e nella stessa misura che in uno Stato. Per quanto esuli dal mio attuale proposito
l’entrare qui in particolari riguardo la legge di natura o i suoi criteri di punizione, tuttavia è certo
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che vi è una tale legge, e anche che essa è tanto intelligibile e evidente ad una creatura razionale
e a uno studioso di quella legge, quanto le leggi positive degli Stati; forse, anzi più evidente,
tanto quanto la ragione è di più facile comprensione delle fantasie e degli intricati espedienti
degli uomini che pongono in parole interessi contraddittori e nascosti. Infatti sono proprio così
una gran parte delle leggi locali dei singoli paesi, che in tanto sono giuste in quanto sono fondate
sulla legge di natura sulla cui base debbono essere regolate e interpretate.
13. A questa strana dottrina, vale a dire che nello stato di natura ognuno ha il potere esecutivo
della legge di natura, non dubito si obietterà che è irragionevole per gli uomini essere giudici
della propria causa; che l’amore di sé renderà gli uomini parziali nei confronti di se stessi e dei
propri amici; e che d’altra parte l’indole cattiva, la passione, lo spirito di vendetta li porterà ad
esagerare nel punire gli altri; che quindi non ne seguirà che confusione e disordine; e che
appunto per questo Dio ha affidato al governo il compito di reprimere la parzialità e la violenza
degli uomini. Concedo facilmente che il governo civile sia il rimedio adatto agli inconvenienti
dello stato di natura, che debbono certamente essere gravi qualora gli uomini possono essere
giudici nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi sia stato così tanto ingiusto da
recare offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò. Ma vorrei che
coloro che sollevano questa obiezione ricordassero che i monarchi assoluti non sono che uomini;
e se il governo deve essere il rimedio di quei mali che necessariamente seguono dal fatto che gli
uomini sono giudici delle loro proprie cause – perciò lo stato di natura non deve durare – mi
chiedo che genere di govemo sia questo, e quanto migliore sia dello stato di natura in cui un
uomo, comandando sulla moltitudine, ha la libertà di essere giudice della sua propria causa e può
fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole senza che gli altri abbiano la minima libertà di
discutere o controllare coloro che eseguono il suo volere, e in tutto ciò che fa – sia esso guidato
da ragione, da errore o da passione – devono essergli sottomessi. Molto meglio è lo stato di
natura in cui gli uomini non sono costretti a sottomettersi all’ingiusta volontà di un altro e in cui
colui che giudica, se giudica male della causa propria o altrui, ne deve rispondere al resto degli
uomini.
14. Si domanda spesso, come ad avanzare una grande obiezione: dove sono o vi furono mai
uomini in siffatto stato di natura? A ciò sarà sufficiente, per ora, rispondere che poiché tutti i
principi e governanti di governi indipendenti, in ogni parte del mondo, sono in uno stato di
natura è chiaro che il mondo non fu mai, né sarà mai, senza un certo numero di uomini in quello
stato. Ho fatto riferimento a tutti coloro che governano comunità indipendenti, siano esse o meno
consociate con altre, perché non ogni patto mette fine allo stato di natura fra gli uomini, ma solo
quello in cui si concorda, insieme e reciprocamente, di entrare in un’unica comunità e costituire
un solo corpo politico: gli uomini possono farsi l’un l’altro promesse e stringere patti e tuttavia
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rimanere ancora nello stato di natura. Le promesse e i contratti per un carro, ecc. fra due uomini
nell’isola deserta di cui parla Garsilao de la Vega nella sua storia del Perù§ o tra uno svizzero e
un indiano nelle foreste d’America, sono vincolanti per loro, sebbene essi si trovino in un
perfetto stato di natura. Ciò in quanto la sincerità e il tenere fede alla parola data competono agli
uomini in quanto tali e non in quanto membri della società.
15. A coloro che affermano che non vi furono mai uomini nello stato di natura, non solo opporrò
l’autorità del saggio Hooker che nella sua Politica Ecclesiastica (1, 10) dice:
Le leggi di cui fin qui si è detto [cioè le leggi di natura] vincolano gli uomini in modo assoluto
proprio in quanto uomini, anche qualora non abbiano né costituito una società, né abbiano
stabilito un accordo solenne fra di loro relativamente a che cosa fare o non fare. Ma in quanto
noi non siamo sufficienti a noi stessi per fornirci di una adeguata scorta di cose necessarie a una
vita quale la nostra natura desidera, una vita conforme alla dignità umana, allora per sopperire a
quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e isolatamente
per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunione e la società con altri. Questa è
stata la causa per cui gli uomini si sono uniti fra di loro in società politiche#.
Ma in più affermo anche che tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato e vi
rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica, ciò che non
dubito di rendere evidente nel seguito di questo discorso.
§
#
Garcilaso de la Vega, (storico latinoamericano), Comentarios reales (1609-1617) I, viii .
R. Hooker, Politica ecclesiastica, I, x, 1.
71
Cesare Beccaria (1738-1794)
Dei delitti e delle pene (1764)
Edizione di riferimento: vol I delle Opere Nazionali
a cura di G. Francioni, Mediobanca, Milano1984
Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad
esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può
essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello
da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della
privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle
particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come
mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i
beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è
padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è
una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo
essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa
dell’umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando
anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della
nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo
di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti
della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse
piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le
ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un
cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal
commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini
determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno
dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre
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esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non
persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello
dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione.
Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di
essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate
impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale
sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di
lei aiuto, cosi l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.
Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato
esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue
fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché
spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosi lunga e misera
condizione se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli
uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta
dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni.
Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però
sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei
Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti
che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione
mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che
non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il
sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al
rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere
su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a
rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e
perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque
l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per
rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la
morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre
accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o
di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone,
sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia.
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L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed
all’incessante noia; perché egli può per dir cosi condensar tutto se stesso per un momento per
respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione
dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella
pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante
che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto
distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio
sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia
utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la
morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della
schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta
la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi
la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il
secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono
nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non
credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro
contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del
proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe
bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo
rispettare, che lasciano un cosi grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li
cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi?
Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che
non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le
lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi
ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato
d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e
della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo
tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero,
correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di
colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si
affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed
una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita
che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e
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sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò
coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti.
L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una
impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo
corregge.
Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la
necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della
condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la
morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno
esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.
Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero
osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina
con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli
negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un
innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico,
lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori.
Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo
sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú
d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non
essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro
regge l’universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia,
che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre
un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con
insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i
comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e
le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per
immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del
dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure
senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte
violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di
momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di
doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno
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gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che
la religione medesima.
Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data
pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della
quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di
errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani
sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e
per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che
contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che
un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta
l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da
questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza
infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla
cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco
nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un
monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di
tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la
giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei
Traiani.
Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i
troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri
de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi
perché toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano
soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se
essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli
errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare
con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.
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Bernard Bolzano (1781-1848)
Dottrina della scienza (1837)
lingua originale: tedesco
edizione di riferimento a cura di E. Winter (et al) Stuttgart, 1969
tr. it. G. Rigamonti e L. Fossati, Bompiani, Milano 2014
§ 30.*
Senso dell’affermazione che si danno verità in sé
L’espressione darsi di cui mi servo quando affermo che si danno verità in sé ha bisogno di una
spiegazione a parte per non essere fraintesa. Infatti nel suo significato proprio e usuale, quello
che ha per esempio nella proposizione «Si danno angeli», essa indica l’essere o esserci
(l’esistenza) di una cosa; qui però non possiamo prenderla in questo senso perché le verità in sé,
come ho già ricordato più volte, non hanno un esserci. Ma allora che cosa intendiamo quando
diciamo che si danno simili verità? Rispondo: nient’altro, se non che certe proposizioni hanno la
proprietà di essere verità in sé.
Tuttavia riguardo al numero di queste proposizioni, cioè se se ne dia più d’una oppure
una sola, inizialmente non ci pronunceremo, così che la nostra affermazione possa essere
considerata dimostrata anche se avessimo provato solo il darsi di un’unica verità, o – che poi è lo
stesso – che la tesi che non si danno verità è falsa.
Se mettiamo insieme questo punto con quello immediatamente precedente vediamo,
infine, che il senso della tesi che qui vogliamo illustrare può essere espresso nel modo più chiaro
così: «La proposizione che nessuna proposizione ha verità non ha a sua volta verità», o anche,
più brevemente, «Non è vero che nessuna proposizione sia vera».
§ 31.*
Dimostrazione che si dà almeno una verità in sé
La chiarissima espressione alla quale abbiamo appena ricondotto (§ 30) questa asserzione è tale
che la sua dimostrazione non sfugge nemmeno ai più miopi. Infatti che nessuna proposizione
abbia verità è autocontraddittorio perché è a sua volta una proposizione e dunque se volessimo
dichiararla vera dovremmo contemporaneamente dichiararla falsa; infatti se ogni proposizione
fosse falsa lo sarebbe anche la stessa proposizione che ogni proposizione è falsa. Perciò non tutte
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le proposizioni sono false ma si danno anche proposizioni vere; si danno anche delle verità –
almeno una.
Osservazione. Gli antichi conoscevano già benissimo il ragionamento col quale dimostro
che si dà almeno una verità. Aristotele (Metafisica, IV, 8) sottolinea l’autocontraddittorietà della
proposizione che niente è vero. Sesto Empirico (Contro i logici, II, 55) espone molto
accuratamente il nostro stesso ragionamento: «Quanto a quelli che asseriscono tutte le cose
essere false, abbiamo precedentemente mostrato che essi vengono confutati» (cioè già nel Lib. I,
390 e 398, però non in modo così serrato); «se, infatti, tutte le cose sono false, risulterà falsa
anche l’espressione “tutte le cose sono false” essendo essa una di tutte le cose. Ed essendo falsa
l’espressione “tutte le cose sono false”, risulterà vera l’espressione opposta ad essa, ossia quella
“non tutte le cose sono false”». (Avrebbe dovuto però invece di pavnta, «tutte le cose», dire, in
modo più preciso, pa`sai ajpofavntei", «tutte le proposizioni»). Nell’Organo di Lambert, Vol. I,
§§ 258 e 262, troviamo un’affermazione simile e similmente dimostrata; e anche Bouterweck
(Idea di un’apodittica, Vol. I, pp. 375 e 378) aveva concezioni analoghe. D’altronde questa
dimostrazione si potrebbe condurre pure in altri modi. Per esempio, per provare che qualcosa è
vero non è indispensabile servirsi proprio della proposizione che tutto è falso ma si può scegliere
una qualsiasi proposizione «A è B» e osservare che se essa è falsa l’affermazione che lo è è
invece vera. E in ogni caso potremmo far notare a chi ritiene che nulla sia vero che se questo è
vero c’è almeno una proposizione vera; se poi qualcuno continuasse a dubitare, basterebbe fargli
capire che le parole «Non ci sono proposizioni…» contengono già una proposizione, ecc. Io non
credo però che simili dimostrazioni sarebbero più evidenti.
§ 32.*
Dimostrazione che si danno più verità, anzi infinite
1) Dal § precedente risulta che si dà almeno una verità oggettiva, perché l’affermazione opposta
contraddice se stessa. Ma si dà forse una sola verità oggettiva – solo questa, che si dà una verità?
Ora per eliminare questo dubbio mostrerò che si danno più verità, anzi infinite.
2) Supponiamo infatti che qualcuno affermi che si dà una sola verità, e mi sia consentito,
comunque essa suoni, di indicare questa verità con «A è B»; mostrerò ora che accanto a essa se
ne dà almeno una seconda. Chi ammette l’opposto, infatti, deve considerare vera l’affermazione
«A parte la verità “A è B” non si dà nessun’altra verità», ma tale affermazione è chiaramente
altra cosa da «A è B», essendo formata da parti completamente diverse. Perciò se fosse vera
sarebbe già una seconda verità; dunque non è vero che si dà una sola verità, ma se ne danno
almeno due.
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3) Ma procedendo in questo modo si può dimostrare che nemmeno due verità possono
essere le sole. Comunque suonino queste due, infatti, è chiaro che l’affermazione «Niente è vero
se non le due proposizioni “A è B” e “C è D”» è una proposizione ben distinta sia da «A è B»
che da «C è D»; perciò se fosse vera questa proposizione costituirebbe immediatamente una
nuova – e quindi una terza – verità, per cui sarebbe un errore supporre che si diano solo due
verità.
4) Si vede subito che questo tipo di ragionamento può proseguire all’infinito; ne segue
che si danno infinite verità perché l’ipotesi che esse formino un insieme finito comunque grande
racchiude in sé una contraddizione. Così, se supponiamo che qualcuno voglia ammettere solo n
verità, queste, comunque suonino (anche se una di esse consistesse, ove possibile,
nell’affermazione che si danno solo n verità), si possono rappresentare con le n formule A è B, C
è D … Y è Z. Ora, se l’avversario pretende che al di fuori di queste n proposizioni non possiamo
ammettere come vero assolutamente niente, affermerà qualcosa cui possiamo dare la seguente
forma, «Al di fuori delle proposizioni “A è B”, “C è D” … “Y è Z”, nessun’altra proposizione è
vera». Ma questa proposizione è fatta in modo tale che le sue parti costitutive sono, chiaramente,
del tutto diverse da quelle delle n proposizioni «A è B», «C è D» … «Y è Z», e dunque è essa
stessa una proposizione completamente diversa; perciò, in quanto la considera vera il nostro
avversario distrugge egli stesso l’affermazione che si danno solo n proposizioni vere. Questa
infatti sarebbe la (n+1)-esima.
Osservazione. Questa dimostrazione (così facile da esporre) che si danno più verità, anzi
infinite, per quanto ne so non era mai stata utilizzata finora. A quanto pare si pensava di avere
già fatto abbastanza strappando allo scettico l’ammissione che si dà almeno una verità.
D’altronde anche questo tipo di dimostrazione è suscettibile di diverse varianti; infatti si può
procedere, evitando la forma apagogica, pure così: se la proposizione «A è B» è vera anche
l’affermazione «La proposizione che A è B è vera» è a sua volta una proposizione vera, e date le
sue parti costitutive è già un’altra rispetto ad «A è B», dunque è una seconda verità, distinta dalla
prima. Inoltre da qualsiasi proposizione vera della forma «A è B» si può derivare la proposizione
«Perciò alcuni B sono A» ponendo con ciò una nuova verità, diversa da quella data; e così via.
§ 33.*
Risposta a diverse obiezioni
Immagino che ognuno concederà senza difficoltà che si danno più verità, anzi infinite, non
appena gli saranno stati tolti tutti i dubbi sulla correttezza della dimostrazione che se ne dà
almeno una. Tuttavia, dopo lunga riflessione potrebbero nascere dubbi e perplessità in qualche
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lettore che in un primo momento era rimasto soddisfatto. Perciò qui presenterò tutti quei dubbi
che riesco a farmi venire in mente e cercherò di risolverli ed eliminarli.
1) «Se», potrebbe dire un dubbioso, «mi lasciassi indurre dalla dimostrazione che ho
appena letto a rinunciare da oggi in poi ai dubbi che ho avuto finora sull’esistenza di una
qualsiasi verità, mi sembra che procederei troppo frettolosamente. Infatti (a) per lasciarmi
convincere da questa dimostrazione (o da qualsiasi altra, comunque costruita) dovrei attribuirmi
preliminarmente la facoltà di riconoscere delle verità, e perciò stesso presupporre il risultato che
qui si dovrebbe ottenere, cioè che si danno verità in sé. (b) Per farmi convincere da questa
dimostrazione dovrei presupporre innanzitutto che il tipo specifico di ragionamento che vi viene
utilizzato sia corretto; perciò dovrei dare preliminarmente per vero il dictum de omni, o
comunque vogliamo chiamare l’assioma che questo ragionamento utilizza. (c) Infine, poiché in
questa dimostrazione compare la premessa che la concatenazione di concetti espressa dalle
parole tutte le proposizioni sono false è effettivamente una proposizione, dovrei anche
ammettere preliminarmente la validità di questa premessa – e dunque già diverse verità. Ma
posso farlo senza contraddirmi?».
2) Ora intendo eliminare queste perplessità con le seguenti controosservazioni, con le
quali mostrerò al lettore che può accettare come ben fondata e senza cadere in contraddizione la
dimostrazione che gli ho fornito sopra.
a) Non è assolutamente necessario che per lasciarci convincere di una qualsiasi
conclusione da una dimostrazione (come per esempio quella esposta sopra) dobbiamo
preliminarmente attribuire a noi stessi la facoltà di distinguere la verità dall’errore,
presupponendo con ciò la proposizione che si danno verità in sé – almeno se questo significa che
dovremmo avere già proferito o accettato il giudizio «Si danno verità, e noi possiamo
riconoscerne alcune». Perché la dimostrazione data sopra ci convinca abbiamo solo bisogno di
considerare attentamente le proposizioni che vi occorrono, cosa che possiamo fare anche in una
condizione di dubbio universale. Per il solo fatto di dirigere l’attenzione dell’anima nostra verso
queste proposizioni, ce ne sentiamo pienamente convinti e riconosciamo che si danno verità in
sé; e in quanto eleviamo questa convinzione appena nata in noi a chiara consapevolezza, cioè
accettiamo il giudizio che abbiamo tale convinzione, diventiamo anche consapevoli di essere
creature pensanti e di avere la facoltà di riconoscere la verità. È senz’altro vero, d’altronde, che
per essere convinti dalla dimostrazione data sopra è indispensabile una facoltà conoscitiva; ma
avere una facoltà conoscitiva è una cosa e dover partire dal presupposto di averla è un’altra, in
nessun modo necessaria, per cui non procediamo affatto circolarmente nella nostra
dimostrazione; e meno ancora ci si può obiettare di contraddirci. Ci sarebbe contraddizione solo
se alla fine della dimostrazione affermassimo qualcosa che all’inizio avevamo negato, ma non ce
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n’è nessuna se alla fine affermiamo qualcosa che all’inizio non volevamo ancora asserire e di cui
anzi dubitavamo. Dubitare non significa ancora negare, e chi si trova in uno stato di dubbio
universale dubiterà dell’esistenza di verità oggettive e della nostra capacità di conoscerle, ma
non negherà né una cosa né l’altra. È anche vero, d’altronde, che noi non possiamo nello stesso
istante dubitare che si diano verità, nonché di avere la facoltà di conoscerle, ed essere invece
convinti di entrambe le cose; a questo arriveremo solo dopo, quando, considerando le
proposizioni che questa dimostrazione ci presenta, l’attenzione del nostro spirito sarà distolta
dalle ragioni del dubbio, che quindi la nostra coscienza perderà, e riconosceremo la verità a esso
opposta. Né ci dobbiamo preoccupare che quel dubbio ricompaia ogni volta che torniamo
retrospettivamente sulle ragioni che l’avevano prodotto all’inizio, perché ora queste ragioni le
vedremo da un punto di vista diverso e capiremo che non dimostravano ciò che avrebbero
dovuto dimostrare.
b) Come non è assolutamente necessario che noi, per restare convinti di una
dimostrazione, presupponiamo l’esistenza di verità in sé e la nostra capacità di riconoscerne
alcune, così nemmeno è indispensabile che conosciamo preventivamente la correttezza di certe
forme d’inferenza. È sì indispensabile che tali forme d’inferenza siano corrette e che noi non
dubitiamo di questa correttezza, cioè che non riteniamo che potrebbero anche essere sbagliate;
ma non si richiede assolutamente che abbiamo già accolto l’opinione opposta, cioè appunto che
siano corrette. Che le cose stiano effettivamente così deve risultare chiaro anche per il dubbioso
quando considera come egli stesso si regola nel costruire questa obiezione. Anche qui infatti egli
fa delle inferenze, cosa che gli sarebbe impossibile se ogni passo inferenziale dovesse essere
preceduto da un giudizio sulla correttezza del procedimento che sta alla sua base. Ciò sarebbe
possibile in un unico caso, cioè se un dubbioso tenesse presente la dimostrazione data sopra
senza restarne convinto perché dubita della correttezza dei suoi passaggi. Ma tali passaggi sono
talmente semplici, talmente normali per noi umani, che di fatto ciò non può accadere per nessuno
che non sia totalmente ottuso o pazzo. È vero che ognuno può fare l’ipotesi di dubitare; ma in
realtà nessuno che abbia una facoltà di giudizio ben sviluppata può dubitare anche un solo istante
dell’ammissibilità di inferenze di questo tipo, dato che il pensiero che potrebbe indurlo a un
simile dubbio sarebbe a sua volta un giudizio costruito in base a quello stesso genere di
inferenze.
c) Per quanto riguarda infine l’affermazione che il nesso concettuale espresso dalle parole
«Ogni proposizione è falsa» è già una proposizione, è senz’altro vero che noi l’usiamo come
premessa, ma ciò non danneggia in alcun modo la forza di convinzione della nostra
dimostrazione. Infatti anche questa proposizione possiede una verità, e – per chiunque – talmente
chiara da non poterne dubitare. È bensì vero che chi concede anche questa sola verità,
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fondamentalmente non dovrebbe più avere bisogno di farsi ancora dimostrare che si danno delle
verità. Ma il fatto è che non sempre noi umani ci rendiamo conto subito e da soli di quanto
manchiamo di rigore quando affermiamo che non si danno verità. Tutto il merito della
dimostrazione data sopra dovrebbe stare perciò proprio nel renderci evidente tale non rigorosità
– cosa che essa fa mettendoci davanti una di quelle verità delle quali non possiamo in nessun
modo dubitare. Ho già detto che ci sono anche molte altre verità delle quali ci si potrebbe servire
a questo scopo, ma quella che ho utilizzato qui ci si presenta nel modo più naturale. In questa
dimostrazione le inferenze sono così ovvie, e vengono percorse con tale velocità, anche dalla
persona meno esercitata, che non appena gli si dà il «via» uno nemmeno si rende conto di fare
inferenze (per l’esattezza, due) o che per poterle mettere in moto sarebbe necessario introdurre e
dare per vera una terza proposizione, cioè che la stessa affermazione che niente è vero è una
proposizione.
Osservazione. All’obiezione del n. 1 (a), si potrebbe ribattere che contraddice se stessa.
Infatti in quanto pone la domanda se le proposizioni e inferenze presenti nella nostra
dimostrazione non sembrino soltanto vere e corrette senza esserlo realmente, già presuppone che
ci sia un essere pensante e che quelle proposizioni e inferenze compaiano nella sua coscienza,
nonché la possibilità che non concordino con la verità in sé – dunque la possibilità che ci siano
verità in sé, ecc. – Questa osservazione è già stata fata anche da altri. Nella Teoria del sapere di
Stiedenroth, per esempio (Gottinga 1819, pp. 75-76), leggiamo che «lo scetticismo ha il suo
punto d’appoggio nell’opposizione di oggettivo e soggettivo. Perciò per costruire se stesso deve
presupporre il soggetto come cosa certa. Ma dal punto di vista filosofico per lo scettico il
soggettivo dovrebbe essere altrettanto incerto dell’oggettivo; egli dovrebbe trattare l’esistenza
del soggetto come semplice ipotesi. Ma se gli crolla la certezza di se stesso come soggetto, crolla
pure l’opposizione fra oggettivo e soggettivo e con ciò l’intero scetticismo, che senza tale
opposizione non può sostenersi». – Ma per quanto corretto, secondo me tutto questo non basta da
solo a guarire dallo scetticismo. Infatti in quanto mostriamo al dubbioso che nelle sue inferenze
egli si contraddice, gli diamo solo una nuova dimostrazione di quanto sia confuso il sistema dei
suoi pensieri, e ancor più egli dubiterà della correttezza di qualsiasi successione di inferenze, per
quanto stringente. Per risanarlo dobbiamo guidarlo invece verso inferenze che dipendano solo da
se stesse e risolvere le contraddizioni che gli si presentano; è proprio questo che ho cercato di
fare finora (con quale fortuna, lo decidano i lettori). – Negli scritti degli scettici, e in particolare
in Sesto Empirico, s’incontrano tentativi di tutti i generi di confutare la proposizione che esistono
verità o di far vedere che la loro esistenza è indimostrabile. Qui presenterò due dei più notevoli
di questi tentativi, che tuttavia non mi sembrano tali da poter nuovamente distruggere le
convinzioni acquisite di uno che non li sapesse controbattere. (a) Negli Schizzi pirroniani (II, 9),
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Sesto afferma che è impossibile dimostrare che una cosa è vera perché la dimostrazione
dovrebbe presupporre appunto di essere essa stessa vera. – Rispondo che noi non ammettiamo
arbitrariamente che una dimostrazione sia vera o falsa (o meglio corretta o scorretta) e la forza
di convinzione di una dimostrazione corretta non le viene da questa arbitraria ammissione
iniziale. Perciò è falso che nel dare questa dimostrazione noi presupponiamo già, secondo
l’accusa di Sesto, che essa sia vera (o corretta). Questo lo si vede solo alla fine, dopo che
l’abbiamo ascoltata, quando ce ne sentiamo convinti. Perciò chi volesse asserire che la nostra
dimostrazione è scorretta dovrebbe mostrare che non ha prodotto questo senso di convincimento.
(b) In Contro i logici (II, 15 s.), Sesto cerca di mostrare ancora più dettagliatamente come sia
impossibile convincersi che qualcosa sia vero: «Quando qualcuno afferma che si danno delle
verità, presenta questa affermazione o senza dimostrazione o con una dimostrazione. Se senza
dimostrazione, deve essere consentito porre senza dimostrazione anche la tesi opposta, cioè che
non si danno verità. Se con una dimostrazione, chiedo: con una falsa o una vera? Se con una
falsa, l’intera affermazione non vale niente. Se con una vera, domando: con che cosa ha potuto
dimostrare che la sua dimostrazione è vera? Con un’altra dimostrazione? Ma così ce ne
vorrebbe sempre una nuova, per cui il nostro lavoro non potrebbe mai finire». – Qui concedo
tutto fino a quella che viene tacitamente considerata l’unica risposta possibile alla domanda
«Con che cosa ha potuto dimostrare che la sua dimostrazione è vera?», cioè «Con una nuova
dimostrazione». Invece di dare questa risposta, infatti, si deve controbattere «Che una
dimostrazione sia vera (o corretta) non va a sua volta dimostrato, ma nella misura in cui essa è
tale alla fine il lettore se ne sentirà convinto, e tanto più intimamente quanto più ci ripenserà. È
per questo effetto, e non per una nuova dimostrazione, che conclude che la dimostrazione è
corretta».
83
John Rawls (1921-2002)
Una teoria della giustizia (1971)
Lingua originale: inglese
Edizione di riferimento: Oxford 1971
Traduzione U. Santini, Feltrinelli, Milano 2008
24. Il velo di ignoranza
L’idea della posizione originaria è quella di stabilire una procedura equa di modo che, qualunque
siano i princìpi su cui ci si accorda, essi saranno giusti. L’obiettivo è usare la nozione di giustizia
procedurale pura come base della teoria. Dobbiamo in qualche modo azzerare gli effetti delle
contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio
vantaggio le circostanze naturali e sociali. A questo scopo, assumo che le parti sono situate
dietro un velo di ignoranza. Le parti non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro
caso particolare, e sono quindi obbligate a valutare i princìpi soltanto in base a considerazioni
generali1
Si assume quindi che le parti non conoscono alcuni tipi di fatti particolari. Innanzitutto,
nessuno conosce il proprio posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale;
lo stesso vale per la sua fortuna nella distribuzione delle doti e delle capacità naturali, la sua
forza, intelligenza e simili. Inoltre, nessuno conosce la propria concezione del bene, né i
particolari dei propri piani razionali di vita e neppure le proprie caratteristiche psicologiche
particolari, come l’avversione al rischio o la tendenza al pessimismo o all’ottimismo. Oltre a ciò,
assumo che le parti non conoscono le circostanze specifiche della loro società. Le parti sono
all’oscuro della situazione politica ed economica, o del livello di civilizzazione e cultura che la
società è stata in grado di raggiungere. Le persone nella posizione originaria non hanno
informazione riguardo alla generazione cui appartengono. Queste restrizioni più ampie sulla
conoscenza sono importanti soprattutto perché sorgono problemi di giustizia sociale sia tra
generazioni diverse sia all’interno di una stessa, come ad esempio la questione dell’opportuno
tasso di risparmio, o quella della conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali. Esiste
anche, perlomeno da un punto di vista teorico, la questione di un’accettabile politica eugenetica.
Per adeguarsi all’idea della posizione originaria, anche in questi casi, le parti non devono
1
Il velo di ignoranza è una condizione così naturale, che molti devono avere pensato e qualcosa dei genere.
L’enunciazione piú simile di cui sono a conoscenza è quella di J. C. HARSANYI, ‘Cardinal Utility in Welfare
Economics and in Theory of Risk-Taking’, in Journal of Political Economy, vol. 61, 1953. Harsanyi la usa per
sviluppare una teoria utilitarista.
84
conoscere i fatti contingenti che le oppongono l’un l’altra. Devono essere pronte a vivere le
conseguenze dei princìpi che hanno scelto, qualunque sia la generazione cui appartengono.
Perciò, nei limiti del possibile, gli unici fatti particolari a conoscenza delle parti sono la
determinazione della loro società da parte delle circostanze di giustizia, e tutto ciò che questo
implica. D’altra parte, si dà per scontato che conoscono i fatti generali che riguardano la società
umana. Comprendono i problemi politici e i princìpi della teoria economica; conoscono le basi
dell’organizzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà, si presume che le parti
siano a conoscenza di tutti i fatti generali che influenzano la scelta dei princìpi di giustizia. Non
ci sono limitazioni all’informazione generale, cioè a quella che riguarda leggi e teorie generali,
poiché le concezioni della giustizia devono essere adattate alle caratteristiche dei sistemi di
cooperazione sociale che devono regolare, e non c’è alcun motivo per escludere questi fatti. Per
esempio, è una considerazione sfavorevole per una concezione della giustizia il fatto che gli
uomini, in base alla leggi della psicologia morale, non desiderano agire in conformità a essa,
anche quando le istituzioni della loro società la soddisfano. In un caso simile, infatti, sarebbe
difficile assicurare la stabilità della cooperazione sociale. Una caratteristica fondamentale di una
concezione della giustizia è la capacità di generare da sé il proprio sostegno. Ciò significa che i
suoi princìpi devono essere tali che, quando sono inclusi nella struttura fondamentale della
società, gli uomini tendono a acquistare il senso di giustizia corrispondente. Dati i princìpi
dell’apprendimento morale, gli uomini sviluppano un desiderio di agire secondo i suoi princìpi;
in questo caso, una concezione della giustizia è stabile. Questo tipo di informazione generale è
ammesso nella posizione originaria.
La nozione di velo di ignoranza dà luogo a varie difficoltà. Si può obiettare che l’esclusione
di quasi tutta l’informazione particolare rende difficile comprendere il significato della posizione
originaria. A questo proposito, può essere utile ricordare che, in ogni istante, una o più persone
possono entrare in questa posizione, o meglio, simulare le deliberazioni fatte in questa situazione
ipotetica, semplicemente per mezzo di argomenti in accordo con le restrizioni opportune. Nel
sostenere una concezione della giustizia, dobbiamo essere sicuri che è tra le alternative
consentite e che soddisfa i vincoli formali convenuti. Non è possibile parlare in suo favore se
non con argomenti che sarebbe razionale avanzare se ci mancasse il genere di conoscenza che è
stata esclusa. La valutazione dei princìpi dipende dalle conseguenze generali di una loro
accettazione collettiva e di una loro applicazione universale, nell’ipotesi che essi vengano
rispettati da ciascuno. Affermare che una certa concezione della giustizia verrebbe scelta nella
posizione originaria equivale a dire che la deliberazione razionale che soddisfa certe restrizioni e
condizioni raggiungerebbe una data conclusione. Se necessario, l’argomento che porta a questo
risultato può essere presentato in modo più formale. Tuttavia, continuerò a esprimermi nei
85
termini del concetto di posizione originaria; è un modo più semplice e più suggestivo, e mette in
luce certe caratteristiche essenziali che altrimenti potrebbero essere facilmente trascurate.
Queste osservazioni mostrano che la posizione originaria non deve essere considerata come
un’assemblea generale che include, istantaneamente, tutti coloro che vivranno in qualunque
periodo; o, ancor meno, come un’assemblea di tutti quelli che potrebbero vivere in un dato
tempo. Essa non è la raccolta di tutti gli individui attuali e possibili. Immaginare la posizione
originaria in uno di questi modi è un atto di fantasia arbitrario; la concezione cesserebbe di
rappresentare una guida naturale per l’intuizione. In ogni caso, è importante che la posizione
originaria sia interpretata in modo che ognuno possa, in ogni momento, adottarne la prospettiva.
Non è rilevante la persona che accetta questo punto di vista, o il momento in cui Io fa; le
restrizioni devono essere tali che vengano sempre scelti gli stessi princìpi. Il velo di ignoranza è
un elemento essenziale per soddisfare questa condizione. Non solo garantisce che l’informazione
disponibile è importante, ma anche che rimane identica nel tempo.
Si può obiettare che la condizione dei velo di ignoranza è irrazionale. Qualcuno potrebbe
anche osservare che i princìpi dovrebbero essere scelti alla luce di tutte le conoscenze
disponibili. Vi sono diverse risposte da dare a queste affermazioni. Mi limiterò a accennare a
quelle che sottolineano le semplificazioni che è necessario operare se si vuole ottenere una
qualsiasi teoria. (Verranno presentate più avanti, nel §40, quelle basate sull’interpretazione
kantiana della posizione originaria.) In primo luogo è chiaro che, poiché le differenze tra le parti
sono a esse sconosciute, e ognuno è. ugualmente razionale e nella stessa situazione, ciascuno si
lascia convincere dagli stessi argomenti. Possiamo perciò vedere la scelta all’interno della
posizione originaria dal punto di vista di una persona scelta a caso. Se, dopo la dovuta
riflessione, essa preferisce una concezione della giustizia a un’altra, tutti faranno allo stesso
modo, e. verrà Così raggiunto un accordo all’unanimità. Per dirlo in modo più vivace, possiamo
immaginare che le parti debbano comunicare reciprocamente attraverso un arbitro che funga da
intermediario, e che quest’ultimo debba annunciare quali alternative siano state suggerite e quali
le ragioni presentate per appoggiarle. Egli impedisce ogni tentativo di formare coalizioni, e
informa le parti quando un’intesa è stata raggiunta. Un arbitro del genere è evidentemente
superfluo appena si assume che le deliberazioni delle parti devono essere simili.
Da ciò segue quindi l’importante conseguenza che le parti sono prive di base per la
contrattazione, nel senso corrente dei termine. Nessuno conosce la sua posizione nella società né
le sue doti naturali, e quindi nessuno si trova nella condizione di adattare i princìpi a proprio
vantaggio. Possiamo immaginare che uno dei contraenti minacci di non cedere a meno che gli
altri non acconsentano a princìpi a lui favorevoli. Ma in che modo egli può sapere quali princìpi
sono particolarmente vantaggiosi per i suoi interessi? Lo stesso vale per la formazione di
86
coalizioni: se un gruppo dovesse decidere di unirsi a scapito degli altri, esso non saprebbe come
avvantaggiarsi nella scelta dei princìpi. Anche se riuscisse a costringere tutti a accettare la sua
proposta, non avrebbe alcuna garanzia che essa vada a suo beneficio, poiché non è in grado di
autoidentificarsi, né con un nome né con una descrizione. Il solo caso in cui questa conclusione
non è valida è quello del risparmio. Poiché le persone nella posizione originaria sanno di essere
contemporanee (accettando l’interpretazione di contemporaneità), esse possono favorire la loro
generazione rifiutando di fare qualunque sacrificio per i propri discendenti; esse non fanno altro
che accettare il principio per cui nessuno ha il dovere di risparmiare per i propri discendenti. Le
generazioni precedenti possono avere risparmiato o meno; le parti ora non possono fare nulla che
influenzi quel fatto. In questo caso, il velo di ignoranza non riesce a garantire il risultato
desiderato. Risolveremo quindi il problema della giustizia tra generazioni in modo diverso, e
cioè cambiando l’assunzione motivazionale. Ma con questo aggiustamento, nessuno è in grado di
formulare princìpi speciali per favorire la propria causa. Qualunque sia la sua posizione
temporale, ciascuno è costretto a scegliere per tutti.2
Le restrizioni all’informazione particolare sono quindi di fondamentale importanza nella
posizione originaria. Senza di esse non saremmo in grado di proporre alcuna teoria definita della
giustizia. Dovremmo accontentarci di una vaga formulazione secondo cui la giustizia sarebbe
qualcosa su cui si sarebbe d’accordo senza poter dire quasi nulla sul contenuto di questo stesso
accordo. Le restrizioni formali al concetto di giusto, perlomeno quelle che si applicano
direttamente ai princìpi, non sono sufficienti per i nostri scopi. Il velo di ignoranza rende
possibile una scelta unanime di una particolare concezione della giustizia. Senza queste
limitazioni alla conoscenza, il problema della contrattazione nella posizione originaria sarebbe
disperatamente complicato. Anche se teoricamente esistesse una soluzione, non saremmo,
almeno sino a ora, in grado di determinarla.
Credo che la nozione di velo di ignoranza sia implicita nell’etica di Kant (§40). Tuttavia, il
problema di definire le conoscenze delle parti e di caratterizzare le alternative a loro disposizione
è stato spesso ignorato, anche dalle teorie contrattualiste. In alcuni casi la situazione definitiva
della deliberazione morale è stata esposta in modo tanto indeterminato, che è impossibile capire
cosa ne risulterà. La dottrina di Perry, ad esempio, è essenzialmente contrattualista: egli sostiene
che l’integrazione sociale e quella personale devono procedere in base a princìpi totalmente
differenti: la seconda per mezzo della prudenza razionale, e la prima grazie al concorso di
persone di buona volontà.3 Perry sembra rifiutare l’utilitarismo più o meno per gli stessi motivi
che abbiamo proposto prima; e cioè che esso estende scorrettamente il principio di scelta per un
2
3
J.J. Rousseau, Del contratto sociale, II, iv, 5.
Vedi R.B. Perry, the General Theory of Value, Longmans, Green and Co., New York, 1926, pp. 674-82.
87
individuo singolo a scelte che riguardano la società. Il giusto corso d’azione è caratterizzato
come quello che meglio favorisce gli scopi sociali, nei modi in cui questi verrebbero formulati
per mezzo di un accordo riflessivo, a condizione che le parti abbiano una conoscenza completa
delle circostanze e siano spinte da una benevola attenzione riguardo ai loro reciproci interessi.
Non si fa però alcuno sforzo per specificare con precisione i possibili risultati di questo genere di
accordo. In realtà, non è possibile trarre alcuna conclusione senza una trattazione piu
approfondita. Non intendo qui criticare altri, ma spiegare la necessità di quelli che ogni tanto
possono sembrare particolari senza importanza.
Le ragioni a favore del velo di ignoranza vanno al di là di una esigenza di pura semplicità.
Vogliamo definire la posizione originaria in modo da ottenere la soluzione desiderata. Se è
permessa una conoscenza dei particolari, allora il risultato è influenzato da contingenze
arbitrarie. Come abbiamo già rilevato, ‘a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia’ non è un
principio di giustizia. Se la posizione originaria deve produrre accordi giusti, le parti devono
essere situate equamente e trattate egualmente come persone morali. L’arbitrarietà del mondo
deve essere corretta modificando le circostanze della situazione contrattuale iniziale. Se inoltre
richiediamo l’unanimità nella scelta dei princìpi anche quando c’è informazione completa,
potranno essere risolti soltanto pochi casi piuttosto ovvi. In queste circostanze, una concezione
della giustizia basata sull’unanimità sarebbe veramente debole e banale. Ma con questa
esclusione della conoscenza, il requisito dell’unanimità non è fuori luogo, e il fatto che possa
venire soddisfatto assume una grande rilevanza. Esso ci mette in condizione di affermare che la
concezione della giustizia prescelta rappresenta un’effettiva composizione di interessi.
Un’ultima osservazione: in genere suppongo che le parti possiedano un’informazione
generale completa. Non ci sono fatti generali di cui esse siano all’oscuro; ciò soprattutto per
evitare complicazioni. Tuttavia, una concezione della giustizia deve essere la base pubblica della
cooperazione sociale. Poiché la comprensione comune richiede una limitazione alla complessità
dei princìpi, possono sussistere limiti analoghi all’uso della conoscenza teorica nella posizione
originaria. Ovviamente sarebbe molto difficile classificare per grado di complessità i vari tipi di
fatti generali; io non tenterò di farlo. Quando la incontriamo, siamo però in grado di riconoscere
una costruzione teorica complessa. Sembra perciò ragionevole affermare che, a parità, una
concezione della giustizia è preferibile a un’altra quando è fondata su fatti generali nettamente
più semplici, e quando la sua capacità di non di scelta non dipende da calcoli elaborati alla luce
di un ampio spettro di possibilità definite teoricamente. Se le circostanze lo permettono, è
preferibile che i fondamenti di una concezione pubblica della giustizia siano evidenti per
chiunque. Credo che questa considerazione favorisca i due princìpi di giustizia nei confronti del
criterio di utilità.
88
Letture autonome
Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nella
biblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in Piazza
Vecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente.
Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti
Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 4), ai nonfrequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In questa
sezione, indichiamo alcune letture pertinenti ad alcuni degli argomenti appropriati a tale scopo.
Per quanto riguarda i temi più storici sono indicate delle letture dette ‘primarie’, che richiedono
attento e dettagliato scrutinio, e su cui quelle ‘secondarie’ offrono commento e inquadramento.
Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il materiale
di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di procedere
all’elaborazione della loro alternativa.
1. Il problema della conoscenza e la natura dello scetticismo
(a) Lo scetticismo antico (che cos’è un ‘tropo’ e come produce sospensione del giudizio?)
Testo primario: Sesto Empirico Schizzi pirroniani, libro I, capitoli i–xiii (= §§1-35) (parte nella
dispensa)
Testi secondari:
M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;
E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di)
Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38.
(b) Lo scetticismo nel mondo moderno (possiamo dubitare l’esistenza del mondo fisico?)
Testo primario: Renato Cartesio (René Descartes) Meditazioni metafisiche, I (testo nella
dispensa)
Testi secondari:
R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;
E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-Roma,
1997, pp. 3-58.
Anche pertinenti:
R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II;
89
H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1.
2. La nozione di verità (assoluta o relativa)
(a) Si può fondare la nozione stessa di verità?
Testo primario: il testo tratto dal libro IV della Metafisica di Aristotele (testo nella dispensa)
Testi secondari:
J. Lukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, (1910), Quodlibet, Macerata, 2003;
T.H. Irwin, I princìpi primi di Aristotele, (1988), Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 225-47;
F: Berto, Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma, 2006, pp. 21-46.
(b) L’attrattiva del relativismo (può tutto essere relativo?)
Testi primari: il brano dal Teeteto di Platone nella dispensa; F. Nietzsche ‘Verità e bugia in
senso extramorale’ (qualsiasi edizione o traduzione)
Testi secondari:
A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, (1830/1), Adelphi, Milano, 1991, pp. 13-71;
G: Romeyer Dherbey, I sofisti, (1995), Xenia, Milano, 2000, pp. 5-23;
J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo (1995), Sole24Ore, Milano, 2008, pp. 21-77.
3. Tempo e fatalismo: Se il futuro è fisso dall’eternità, che scelta ho?
I testi primari presenti nella dispensa sono: il capitolo dal Sull’interpretazione di Aristotele e i
capitoli delle Confessioni di Sant’Agostino.
Testi secondari:
G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II;
M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86
(Film utili per l’esemplificazione del fatalismo.
The Butterfly Effect, regia di P. Howitt, (1997)
Final Destination, regia di J. Wong (2000)
Sliding Doors, regia di E. Bress e J.M. Gruber (2004);
Donnie Darko, regia di R. Kelly (2004))
4. Stati di natura
I testi primari presenti nella dispensa sono il brano della Repubblica di Platone, e i capitoli di
Hobbes, Locke e Rawls.
Testi secondari (almeno 3 a scelta)
90
Platone, Protagora, 316A-326E (qualsiasi edizione o traduzione: un mito della formazione della
società umana).
D. Hume, ‘Del contratto originario’ (1748) (qualsiasi edizione o traduzione: una critica alla
nozione di contratto come fondativo).
N. Bobbio, ‘La teoria politica di Hobbes’ (1980) nel suo Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 1989,
(ristampato 2004 nella ‘Piccola Biblioteca Einaudi: Filosofia’), pp. 27-71.
T. Magri, ‘Patto e Sovrano’ nel suo (a cura di) Il pensiero politico di Hobbes, Laterza, BariRoma, 1994, pp. 41-63.
A.E. Galeotti ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostino e N. Vassallo (a cura di) Storia della filosofia
analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 321-54.
5. La pena di morte
Testi primari: il capitolo di Beccaria nella dispensa; San Tommaso, Somma Teologica, IIa IIæ,
qu. 64
Tesi secondari
F. Facchinei ‘Note e osservazioni’ (1765) estratti nell’edizione di Dei delitti e delle pene di
Beccaria a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 164-77.
F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969, cap. ix, esp. pp. 702-20 e 740-7.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, (1975) Einaudi, Torino, 1976, Parte II, cap. ii (purtroppo cita
da un’edizione corrotta di Beccaria).
A. Marchesi, La pena di morte, Laterza, Bari-Roma, 2004, cap. I, pp. 3-52.
Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)
Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere
utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.
Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei
migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra questi
possiamo segnalare:
N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori, Paravia,
Torino, 2002 (e poi rielaborato quasi annualmente per motivi grettamente economici).
Anche dello stesso Abbagnano sono:
Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione
economica nel 1995;
e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:
Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.
91
Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi della
Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto
Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal 2004.
Altri dizionari, quali
Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e
Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,
forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini
tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di
versioni italiane, vedi
Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.
Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente
riscontrabile, e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 94).
Introduzioni generali alla filosofia
A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della
disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i
problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:
B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico
del genere);
R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, (1993) Net, Milano, 2003;
S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si
pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)
S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001;
N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996
Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,
T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986.
92
Prontuario per la stesura di una tesina
Valore
Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).
Presentazione
La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e
consegnata con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole
sostenere l’esame relativo al corso.
La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla
rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.
La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti
informazioni:
cognome e nome dello studente;
numero di matricola;
titolo del lavoro;
il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice);
numero arrotondato delle parole; e
data prevista della sessione di esame.
Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al
materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.
Conteggio delle parole
L’indicazione (p. 4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.
Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font leggibile
di almeno 12 pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi i lati (di più
a sinistra se richiesto dalla rilegatura).
Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il
numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute (2,000
parole) alle 20,000 battute (4,000 parole).
Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di
letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono
incluse.
93
Originalità
Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da
qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico e morale, ma
anche legale) di plagio.
La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto vicina
a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo studente è
sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di sostenerla. Se lo
studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere l’esame con un
altro membro della commissione d’esame.
Citazioni
La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà
un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le parole
esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.
Esempio di parafasi4:
Nel capitolo XXVIII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace come
deterrente. Questo ragionamento dipende ...
Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo
in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le parole
esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola ‘deterrente’ non
ci appare, ma è utile come riassunto.
Esempio di citazione:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di
servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro
i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...
Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.
4
Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno.
Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.
94
Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’), doppie
(“...”) o a lisca di pesce («...»).
Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’ nella
citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma, nella
citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con parentesi,
preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e ]) o
increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il freno’,
è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate) per
indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa
corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si
aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge ‘corsivo
originale’.
Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno messi
con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette. Quindi, se
si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più forte
contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...
Mentre, con testo intero, si ha:
Beccaria osserva come,
[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato
esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue
fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.
Questo ragionamento dipende...
Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in
grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature può
raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.
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Note
Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente) in
un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per commenti
ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del ragionamento
all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.
I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del
corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi primari
(ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di più autori).
Siti internet vengono citati riportando l’URL.
(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.
Ad esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale
all’edizione dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di
Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono
riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla
numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono
suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati in
libri e hanno righe numerate, possono essere citati con i numeri forniti nel testo. È comunque da
segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata.
(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo in corsivo;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;
casa editrice;
città di pubblicazione;
anno di pubblicazione; e
pagina/e.
Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp.
63-4.
Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o
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16 Beccaria, op. cit., p. 64.
togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o
16 Op. cit., p. 64.
Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:
8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p. 62.
9 Loc. cit..
oppure
9 Ibid..
(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ [o l’italiano ‘ivi’] significa ‘lo stesso posto nel
testo’). Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una
sequenza di questo genere:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp.
63-4.
16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.
17 Beccaria, op. cit., p. 65.
O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a chi
legge.
(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo del articolo tra virgolette;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa forma è
normale solo in Italia);
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nel caso di una miscellanea, nome del curatore;
nel caso di una miscellanea, casa editrice;
nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;
nel caso di una rivista, l’anno e il numero;
anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e
pagina/e.
Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia, XLI,
(1986), p. 14.
che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza nel
pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.
Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo
stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente
forma:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura di
A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2010, p. 97.
Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un
convegno, si ha:
3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-1.
Bibliografia
In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e
effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i nonfrequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche
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bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico è
escluso dal conteggio delle parole.
L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato
corrisponde a quello delle note con poche varianti:
(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele, l’edizione o
traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano più di un testo,
tutti vanno elencati;
(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;
(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il secondo
testo si mette un trattino sulla nuova riga;
(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della casa
editrice;
(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;
(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe
successive se il rimando si estende su più di una riga.
Così, abbiamo, ad esempio,
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano,
1992.
–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4 volumi),
Laterza, Bari-Roma, 1973.
–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,
Milano, 1993.
Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.
Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo Aristotele,
(1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617.
Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché
la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 187-214.
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