VEICOLI PUBBLICITARI Di veicoli pubblicitari, ossia veicoli che riportassero sulle fiancate marchi, loghi e slogans di aziende produttrici di merci varie, ce ne sono sempre stati, anche prima dell’avvento dell’automobile. Mentre di veicoli che abbiano assunto la forma dell’oggetto che intendevano pubblicizzare non si può dire la stessa cosa. Essi rappresentarono un fenomeno particolare, collocabile, in Italia, tra la fine degli anni quaranta e i primi sessanta, nato sull’onda di una moda americana poi diffusasi nel nostro Paese con modalità assolutamente peculiari. Questi veicoli furono l’esplosione pirotecnica di una fantasia, di un estro, di un’inventiva che non si ripeté più, perché in quei dieci, quindici anni cambiò tutto: cambiò l’Italia, gli italiani, il mondo, il nostro modo di essere e di vivere, il nostro rapporto con gli oggetti e il modo di fare pubblicità. Adesso c’è un libro che testimonia l’esistenza di questi curiosissimi ed estrosi veicoli, scritto con ricchezza di informazioni ed immagini da Paolo Fissore, discendente di una delle più note carrozzerie piemontesi (“La pubblicità mette le ruote”, Autostorie, Automobile Club di Cuneo, aprile 2004). Fissore ha fatto un lavoro egregio, andando con pazienza alla ricerca di tutto ciò che lo aiutasse a ricostruire una stagione di cui pochi si ricordano, e che sembra polverizzata da tutto ciò che è seguito: la televisione, le comunicazioni satellitari, internet. Sembra curioso voler proprio mettere la televisione a discrimine di un’epoca, e distinguere nettamente ciò che è successo in Italia prima del suo avvento da quello che è successo dopo. Ma è proprio così (e naturalmente, non soltanto nel campo di questi automezzi!). La necessità di trovare un mezzo pubblicitario che “veicolasse”, è il caso di dirlo, l’immagine del prodotto da vendere in ogni paese e piazza d’Italia aveva spinto molte aziende ad affidare la propria immagine ad un mezzo a quattro ruote, in grado di arrivare nei paesi più sperduti, sulle piazze più impervie. Cos’altro avrebbe potuto arrivare? Non la pubblicità stampata, sui quotidiani; non il cinema; talvolta neanche la radio. Lo scrisse chiaramente un giornalista, all’indomani del primo Concorso dell’Autoveicolo Pubblicitario Italiano, svoltosi a Sanremo nell’agosto del 1950: “E tra le forme di pubblicità questa è pure la più adatta per un paese dove non si legge molto e dove si chiude la Radio quando comincia la sfilata reclamistica, perché per la strada ognuno è obbligato a tenere gli occhi aperti e non può fare a meno di essere colpito da un nome sbalzante da uno sfondo di smaglianti colori o dalla sagoma indovinata di un veicolo che dice anche agli analfabeti di che si tratta”. Occorreva trovare una forma di comunicazione nuova, diversa dall’elitaria comunicazione pubblicitaria dei primi quaranta anni del secolo. Quella era stata elegante, discreta, allusiva: si rivolgeva agli strati più alti della società, a cui si poteva proporre l’acquisto di beni molto costosi, come un’automobile o un grammofono. Questa doveva essere vistosa, chiassosa, d’impatto, perché doveva e voleva rivolgersi a tutti. Doveva e voleva essere da tutti comprensibile, al Nord come al Sud, dai letterati come dagli analfabeti. E questi non erano pochi, allora. Il tasso ufficiale di analfabetismo è di “appena” il 10,5% tra i maschi e il 15,2 tra le femmine; il tasso reale è sicuramente più alto. Molte persone sanno esprimersi soltanto in dialetto; hanno magari frequentato nella loro infanzia la prima e la seconda elementare, per poi non prendere più una penna o un libro in mano. La vita non lo consente, d’altronde. I 47,5 milioni di italiani registrati nel censimento del 1951 vivevano in un paese ancora arretrato dove resisteva una mortalità infantile del 10%, dove vi erano appena 479 km di autostrade (su 170.000 km di strade complessive), dove gli occupati nell’agricoltura risultavano quasi il doppio degli occupati nell’industria (nove milioni contro cinque), dove si consumavano quattro chili scarsi di carne all’anno (e naturalmente sono ancora in molti a non vederla in tavola proprio mai), e il 45 % dei consumi era assorbito dall’alimentazione. In quegli anni, i primissimi cinquanta, meno dell’8% delle abitazioni ha contemporaneamente elettricità, acqua corrente e bagno interno; d’altra parte il reddito pro capite è appena una volta e mezza quello del 1861. Eppure si trattava di una società tutt’altro che immota: anzi, in rapidissimo mutamento. Cominciava ad infiltrarsi, in strati via via più ampi, un modesto, modestissimo benessere. I venticinque milioni di persone che tra il 1955 e il 1970 si spostarono all’interno del paese, emigrando verso la “cometa industriale”, che aveva il suo centro tra Torino e la Lombardia, 1 sono i veri autori del “miracolo economico” che stupirà il mondo, che farà partire i consumi voluttuari, che permetterà anche nel nostro paese il diffondersi dell’automobile e dei primi elettrodomestici. I veicoli pubblicitari degli anni cinquanta e sessanta ci testimoniano i primi sogni, i primi desideri di quegli italiani dai quali ci dividono, in realtà, pochi decenni, ma che appartengono ad un mondo lontanissimo. Erano sogni modesti: lavarsi i denti con i dentifrici che usavano gli attori americani (chi si ricorda più dell’Odol, marca dentifricia italiana pubblicizzata da un bellissimo veicolo carrozzato da Fissore), comprarsi una macchina per cucire, bersi una coca – cola o più semplicemente un chinotto. A dare corpo a questi desideri veicoli a forma di tubetto di dentifricio (Odol, Binaca, Chlorodont), di libro (Utet), di saponetta (Durban’s), di scatola di lucido da scarpe (Tana), trasformati in tram (Campari Soda), treni (Ferrero), motoscafi (Campari), vascelli (Ricard) e lanciarazzi (Dadi Prest), sormontati da mucche (Carne Simmenthal), matite (Presbitero), bottiglie (Liquore Strega Alberti, Corasoda), lamette da barba (Bolzano), teste di re (Carpano), orsi (Cordial Campari), ring con tanto di pugili in lotta (Carne in scatola Sadital), e addirittura un leone vivo e ruggente (Metro Goldwin Meyer), oltre che muniti di altoparlanti, megafoni, scritte…E’ quasi impossibile raccontare la fantasia di cui diede prova chi progettò questi veicoli. Un designer di oggi, Karim Azzabi, ha detto: “Il design e la pubblicità fanno sulle cose il lavoro opposto. Il design è il progetto che vive prima che gli oggetti si materializzino, la pubblicità è un processo che li smaterializza di nuovo e li trasforma in desiderio”. E’ una splendida definizione, che mette in risalto il rapporto di “opposizione” che lega progetto a pubblicità. Questi veicoli invece sono stati in grado di dare materia, dare corpo all’oggetto pubblicizzato, e nello stesso tempo smaterializzarlo, farlo diventare desiderio: ingrandendolo, umanizzandolo, trasformandolo. Sono stati contemporaneamente design, nel senso più moderno del termine, e pubblicità. Incarnano in pieno il loro ruolo di “veicolo”, ossia di mezzo atto a diffondere o a propagare qualcosa ma, anziché trasportare persone, propagano e diffondono prodotti commerciali. Soprattutto diffondono idee, divertimento, inventiva, fantasia. Percorrono in lungo e in largo la Penisola, spesso al seguito del Giro d’Italia, uno spettacolo dentro lo spettacolo, e permettono alle massaie delle borgate più sperdute di vedere da vicino oggetti soltanto sognati come una macchina per cucire, un frigorifero. Alcuni di questi veicoli sono attrezzati all’interno come “negozi viaggianti”, e sono in grado di mostrare al pubblico riunito a bocca aperta (talvolta si permetteva persino agli scolari di uscire dalla scuola e andare in piazza a vedere!) l’intero campionario dei prodotti. Come non considerarli testimonianze di una genialità degna di essere ricordata e celebrata? Dai resoconti dei concorsi che si svolsero tra il 1950 e il 1956 si può avere una chiara idea dei carrozzieri che si dedicarono a questo tipo di produzione: tantissimi. Dai grandi, come Fissore, Boneschi, Zagato, Viotti, Renzo Orlandi, Coriasco, ad altri meno noti, come Canta, Conta, Pietroboni, Introzzi, Mantelli, Bartoletti, Barbi, Borsani, Monviso, Angelo Orlandi, Esperia. Essi riprendevano una tradizione che era stata citata persino da Luigi Belloni, discendente dell’omonima carrozzeria milanese, nel suo bellissimo “La Carrozza nella storia della Locomozione”, pubblicato a Milano nel 1901. “Nelle città grandi, invase da tutte le forme dell’industria, si veggono tipi di veicoli affatto nuovi, veicoli réclame fatti per attirare la pubblica curiosità, sia sul veicolo sia sull’articolo industriale che per essi viene portato attorno. Ecco il carrozzino réclame di un calzolaio che, dentro ad una scarpa addirittura colossale, montata su quattro ruote leggere, manda attorno, a recapitare ai numerosi clienti, le scarpe fabbricate per tutti i gusti nel suo grandioso stabilimento. Ecco … l’elegante e leggiero carrozzino, sul quale dentro ad un cappello a cilindro dalle grandiose forme un industriale manda a portare a domicilio i novissimi cappelli di tutte le sagome confezionati per la propria clientela; ecco il Grand’Hotel di una grande città che, conciliando le necessità di trasporto con le utilità che vengono dalla réclame manda in giro un forgone da merci, avente esteriormente l’aspetto di una sezione di cantina, nella quale sono schierati e sovrapposti e preziosi fusti contenenti i più preziosi, sopraffini liquori che mai si possano pretendere dalla cave à liqueurs di così celebre hotel!” Negli anni successivi l’automobile pubblicitaria si affermò, più che in Italia, nei paesi dove un maggiore benessere aveva permesso una 2 più veloce diffusione della motorizzazione; da noi l’oggetto automobile, fino agli anni quaranta, era ancora talmente oggetto di desiderio esso stesso da prestarsi male, e raramente, a farsi veicolo di pubblicità. Era di per sé un oggetto sacro, che si sarebbe quasi “sporcato” se sottoposto a trasformazioni e camuffamenti, anche se queste non mancarono. Per esempio la fabbrica di lucidi da scarpe Tana fu tra le prime ad allestire, già negli anni trenta, veicoli speciali colorati in giallo e nero, e muniti di una piccola torretta costellata di diffusori radio. “Partivano da Milano carichi di merce e di oggettini pubblicitari ed iniziavano il loro viaggio di propaganda e consegna per tutta Italia. Battevano ogni piazza, richiamavano sulle qualità del loro prodotto l’attenzione del colto e dell’inclita, rifornivano il rivenditore locale, e via verso la meta prossima”. La vera esplosione però, come abbiamo visto, avvenne nel secondo dopoguerra: uno dei primi automezzi pubblicitari, per esempio, fu quello varato dalla Pirelli nel 1949 e destinato a propagandarne i prodotti per l’agricoltura. La crescita e la diffusione di questi veicoli fu così impetuosa da rendere possibile l’organizzazione addirittura di un concorso pubblicitario, quello, già accennato, di Sanremo dell’estate 1950. Il Premio assoluto di eccellenza fu attribuito alla riproduzione di un tranvai milanese, quello della linea 21 che da Piazza Fontana conduceva a Corso 22 marzo, commissionato dalla ditta Campari a Zanaboni. Mentre fu considerato il veicolo “di più alta efficienza pubblicitaria” la finta locomotiva chiamata “il treno dei bimbi”, fatta costruire dalla Ditta Ferrero di Alba e realizzato dalla Coriasco su motrice Fiat 640. Si trattava della perfetta riproduzione di un treno del Far West, con tanto di scaccia–bestiame, e dal quale piovevano caramelle e cioccolatini appena vi erano bambini o semplicemente curiosi che si avvicinavano. L’Invernizzi era stata anche premiata per aver partecipato con il maggior numero di mezzi, tutti sormontati dalla riproduzione gigante della mucca Carolina; non erano mancate case di profumeria, come la Gavarry di Albissola, che per propagandare i suoi prodotti aveva fatto sistemare prosperose silhouettes di donnine sul padiglione delle sue vetture. Visto il grande successo, e la nutrita partecipazione (oltre cinquanta automezzi) l’Automobile Club di Sanremo non trascurò di organizzare la seconda edizione, programmata per il maggio dell’anno successivo. Stavolta, invece, il successo non vi fu. Parteciparono in pochi (“una deflazione numerica, per altro compensata dalla presenza di alcuni pezzi veramente degni del massimo interesse”, scrisse la stampa), e furono per la maggior parte veicoli “campionario”, ossia allestiti per presentare la merce, e permettere dimostrazioni dal vero, ma che risultarono meno suggestivi dal punto di vista dell’invenzione progettuale. Nello stesso anno si svolse anche un Concorso Internazionale di Veicoli Pubblicitari a Bari, vinto dal “Carro di Fuoco” della Società Liquigas, realizzato su telaio Lancia Esatau dalla Carrozzeria Fratelli Macchi, su disegno degli architetti Franco Campo e Carlo Graffi di Torino. Faceva “rimanere a bocca aperta”, come si scrisse. Grazie ai grandi pannelli ribaltabili, sembrava “un gigantesco insetto, qui piovuto dal pianeta Marte”. “Rappresenta qualcosa di veramente nuovo nel campo dei veicoli pubblicitari – scrive l’autorevole “Motor Italia” nell’autunno 1951 – con la sua forma aerodinamica, la struttura esterna tutta in leghe di alluminio, in cristalli Securit e in Plexiglas, con le luci colorate che di notte l’annunciano di lontano. Dal punto di vista pubblicitario, il suo effetto sulle masse, curiose di “mai visto” e di modernità, è indubbiamente molto superiore a quello dei veicoli vecchio stile”. In quegli anni i due giganti del settore erano sicuramente Fissore e Boneschi. Fissore aveva ideato il furgone “Smacchiolina e Lustrino”, con le due figurine sul tetto insieme ai flaconi dei liquidi magici. Per il Liquore Strega aveva sistemato sul cielo del camioncino una graziosa strega, o befana a seconda dei punti di vista, a cavalcioni della nota bottiglia. E per il dentifricio Durban aveva realizzato un furgone “raccapricciante, col tubo della pasta che manda fuori un serpente igienico il quale mollemente si adagia si di uno spazzolone da denti pronto a riceverlo graziosamente!” (Auto Italiana, 30 dicembre 1951). Il campo dei dentifrici era molto sfruttato da questo tipo di pubblicità: la Boneschi faceva direttamente concorrenza alla Fissore proprio realizzando i veicoli propagandistici per Clorodont e Binaca, oltre che per la Campari e molti altri prodotti. “E’ un ramo dell’industria carrozziera – concludeva Gino Cabutti, su Auto Italiana – che ha il più grande avvenire e si presta a creazioni originali, capaci di attirare l’attenzione in modo irresistibile. Ma occorre si faccia un po’ di propaganda presso le Case che potrebbero domani essere 3 clienti dei carrozzieri che si specializzano in simile produzione. Bisogna curare molto il lato psicologico ed artistico di tutta quanta la faccenda. Ma questi veicoli si giustificano talmente, sono tanto utili che devono diffondersi infinitamente più di quanto lo siano ora!” L’augurio di Cabutti sembrò realizzarsi, negli anni a seguire, anche se la moda dei concorsi non attecchì. Dal 1952 al 1955 non ve ne furono; nel 1956 si svolse invece a Riccione il “1° Concorso Pubblicitario del Carro Pubblicitario” (in Italia si ricomincia sempre da zero), di cui però si criticò il regolamento, un po’ artificioso: i veicoli erano stati infatti divisi in dieci categorie, basandosi su criteri discutibili, la presenza o meno di scritte luminose, di impianti sonori e così via. Mancò, a detta degli osservatori, una ripartizione che tenesse invece conto della diversità di impostazione dei vari veicoli: quelli meramente propagandistici-pubblicitari, spesso con forme di carrozzeria molti originali; quelli con funzione di “negozi viaggianti”, allestiti in modo da poter permettere la prova e la vendita dei prodotti; quelli destinati ad una esposizione statica; quelli unicamente dimostrativi. Ad onta di tutto, però, il fenomeno, lentamente, si spense, senza quasi lasciare tracce. Nel 1954 gli abbonati alla televisione erano, in Italia, 90.000; nel 1962, tre milioni; nel 1972, undici milioni. Con la diffusione perciò di un mezzo di comunicazione pubblicitaria già presente in ogni casa, fosse pure nelle isole più sperdute o nelle borgate alpine più remote, che bisogno c’era di un mezzo dotato di movimento, che andava fisicamente alla ricerca di potenziali clienti? I potenziali clienti, ormai consumatori a tutti gli effetti, erano già lì, seduti in salotto, una platea immensa a disposizione, come la storia degli anni successivi ci ha dimostrato. La stessa automobile si avviò a divenire un oggetto comune del nostro vivere quotidiano, e perse quell’aurea di eccezionalità, di sogno che ancora rivestiva negli anni cinquanta. Scomparvero così dalle nostre strade quei favolosi automezzi, e perdemmo tutti, un po’ per volta, la capacità di meravigliarci e di stupirci. BIBLIOGRAFIA “La pubblicità mette le ruote. I fantastici automezzi pubblicitari degli anni ’50 e ‘60”, di Paolo Fissore. Autostorie dell’Automobile Club di Cuneo, Savigliano, marzo 2004. Donatella Biffignandi Museo dell’Automobile 2004 4