Agenzia SIR – SERVIZIO INFORMAZIONE RELIGIOSA www.agensir.it Progetto IdR e NEWS venerdì 9 dicembre 2011 (n. 63) Tema: LE ASPIRAZIONI E GLI OSTACOLI PRIMAVERA ARABA NOTIZIA Gli avvenimenti di questi giorni confermano che le “primavere arabe” fanno molta fatica ad ottenere risultati positivi e che il loro percorso verso la democratizzazione sarà lungo e irto di ostacoli; al tempo stesso chiedono all’Occidente e in particolare all’Europa di ripensare e rifondare un rapporto che non ha mai realmente portato allo sviluppo economico e sociale dei Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. (da Sir Attualità, 23 novembre 2011) APPROFONDIMENTI ------------------------------------------------------------------------------------------------------ Le scatole da aprire "Chi manifesta in questi giorni in piazza Tharir, protesta perché i principi ispiratori del nuovo Egitto siano fondati sulla libertà e sull'uguaglianza". Ne è certo Mohammed Ahmed Gadalla, giovane avvocato, testimone delle proteste di piazza Tharir - il luogo simbolo della rivoluzione del gennaio scorso - che il 22 novembre è intervenuto al convegno promosso dal Centro Peirone di Torino sulle "prospettive di cambiamento politico in Egitto". Le preoccupazioni dei moderati. "I giovani egiziani che protestano al Cairo - ha raccontato Gadalla - sono preoccupati per i principi che saranno posti alla base della nuova Costituzione egiziana. Negli ultimi mesi molti giovani sono stati arrestati da parte del consiglio militare: questo ha fatto esplodere la piazza. Di fatto le istanze dei movimenti laici sono state sopraffatte dalle forze islamiste, che vogliono porre alla base del nuovo Stato egiziano la legge religiosa, la Sharia". Secondo il giovane avvocato, "i moderati non sono pochi: questi pensano che lo Stato debba essere ispirato da principi laici, con una Costituzione fondata sull'uguaglianza e sulla giustizia per tutti, a prescindere dall'appartenenza religiosa". Ma visto come sta evolvendo la situazione, ha detto Gadalla, "sarà difficile ottenere una Costituzione laica. L'idea di una caratterizzazione islamica dello Stato, sostenuta dai Fratelli Musulmani e dai Salafiti, è maggioritaria nel Paese". Le alternative. "I modelli a cui può ispirarsi il nuovo Egitto sono molti", ha fatto notare il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, docente di diritto islamico presso il Pontificio Istituto orientale. "I giovani di piazza Tharir - ha spiegato padre Samir - aspirano a uno 'Stato civico', non laicista, che garantisca a tutte le religioni il diritto di cittadinanza. Ma questa è una soluzione ancora lontana e minoritaria". Un'alternativa "realistica" alla creazione di uno Stato "islamico assoluto", che "significherebbe per i cristiani essere considerati dei 'protetti' senza diritto di cittadinanza", secondo il gesuita egiziano, è quella che proviene dall'Islam moderato: "L'idea di un Paese dove l'Islam è prevalente ma in cui la presenza dei cristiani è tenuta in conto". Per padre Samir, "non è nemmeno pensabile che si formi un partito dei cristiani copti: non serve né un partito musulmano né un partito copto - ha affermato -. I cristiani devono collaborare con tutti coloro che sono disposti a impegnarsi per un Egitto in cui, come recitava il motto della rivoluzione di Nasser, 'la religione appartiene a Dio, la patria a tutti'". Alla base del nuovo Stato dovranno esserci i diritti umani: "L'unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno - ha concluso padre Samir -, la questione più urgente per cui occorre che tutti lavorino insieme". La maggioranza musulmana. Secondo l'islamologo don Augusto Negri, direttore del Centro Peirone, l'organismo della diocesi di Torino per il dialogo con l'Islam, "i mutamenti che stanno avvenendo in Egitto sollevano questioni urgenti e complesse che avranno conseguenze geopolitiche sull'intera area del Mediterraneo e dell'Africa: sul tappeto c'è il cambiamento dei rapporti con il vicino Stato di Israele, il ruolo dei militari e l'atteggiamento dei Fratelli Musulmani". "È probabile - ha spiegato don Negri - che i Fratelli Musulmani ottengano la maggioranza dei voti alle elezioni del 28 novembre. Questo potrebbe configurare un problema, dal punto di vista del rischio islamista, nel momento in cui il nuovo Parlamento assumerà un ruolo costituente: bisognerà valutare di quali istanze si faranno portatori i Fratelli Musulmani. Sicuramente ci sarà una caratterizzazione religiosa, ma è pensabile che le istanze più radicali non trovino spazio". Per don Negri, "negli ultimi anni i Fratelli Musulmani si sono distinti dai gruppi più radicali, come i Salafiti: qualora dovessero avere la maggioranza, è probabile che spingano verso soluzioni intermedie che prevedano un'applicazione della Sharia più morbida, lasciando ampi margini di libertà ai gruppi confessionali non islamici". 1 Interlocutori possibili. "Occorre evitare interpretazioni complottistiche delle mutazioni in corso nel Medio Oriente e riconoscere il carattere genuino delle istanze che muovono le rivolte arabe", ha affermato Massimo Introvigne, direttore del Cesnur. "Gli scenari sono in continua evoluzione - ha chiarito Introvigne -. L'unica cosa che possiamo augurarci è che le componenti sopravvissute del vecchio regime egiziano collaborino alla nascita del nuovo Stato, non lasciandosi tentare dall'idea di un colpo di Stato". La deriva islamista è possibile ma, secondo Introvigne, è necessario "aprire le scatole dell'Islam politico per capire cosa c'è dentro. I gruppi politici islamisti - ha fatto notare - non sono tutti uguali: alcuni sono portatori di valori discutibili, altri invece possono diventare degli interlocutori con cui il mondo occidentale può aprire un dialogo". (Gabriele Guccione – Sir Attualità, 25 novembre 2011) - Davanti al bivio Seggi aperti in Egitto nella prima consultazione elettorale del dopo-Mubarak. Sin dalle prime ore del mattino, le operazioni di voto sono cominciate alle 7 ora italiana, lunghe file di elettori si sono formate davanti a seggi. Circa 40 milioni gli egiziani aventi diritto al voto. L’Egitto è “a un bivio” riporta il quotidiano britannico “Guardian” citando Hussein Tantawi, il generale a capo del Consiglio supremo delle Forze armate, che ha parlato prima dell’apertura delle urne. “Ci sono solo due strade: il successo delle elezioni che condurrà il Paese verso la salvezza oppure una pericolosa corsa ad ostacoli che le forze armate, come parte del popolo, non consentiranno. Non permetteremo agli agitatori di immischiarsi in queste elezioni”. Folla anche a piazza Tahrir, cuore pulsante della rivoluzione del 25 gennaio che ha provocato la caduta di Mubarak. Qui sono in molti a presidiare la spianata, controllata da soldati e poliziotti. Il voto, come è noto, è stato preceduto da lunghe giornate di scontri e manifestazioni che hanno provocato circa 40 morti e centinaia di feriti, violenze che hanno messo in dubbio lo svolgimento della tornata elettorale per la quale gli osservatori danno favoriti i Fratelli Musulmani. Su queste elezioni il SIR ha raccolto le parole del card. Antonios Naguib, patriarca d’Alessandria. Con le ultime proteste, represse nel sangue, la società civile egiziana ha espresso chiaramente l'intenzione di voler riprendere le redini della situazione, ribellandosi alle decisioni di un governo militare apparentemente provvisorio, ma nei fatti saldo al potere. Ritiene che il voto del 28 potrebbe sancire questa volontà popolare o vede il rischio di un’involuzione autoritaria? “Al momento, tutte le autorità affermano che il voto del 28 novembre, avrà seguito in maniera naturale, nonostante tutta la situazione attuale di manifestazioni e di scioperi. Ovviamente la visione globale della situazione non è del tutto chiara. La richiesta principale e il desiderio dei manifestanti ormai è unico: che il Consiglio Militare Superiore, che attualmente è l’alta autorità del Paese, lasci il potere e che si crei un nuovo governo civile transitorio. I partiti politici non sono stati unanimi riguardo le elezioni. C’è chi chiedeva il voto subito nonostante tutto, mentre altri affermavano che questo momento non era assolutamente conveniente per votare. Al di là delle posizioni il risultato elettorale sarà molto decisivo e da esso dipenderà lo stato del Paese per i prossimi anni”. Cosa è lecito attendersi da questo voto, dopo tutto quello che è successo? Secondo molti osservatori il blocco islamista (che si dice abbia fatto un accordo con la Giunta militare) è accreditato del 30-35% dei voti… “Da questo voto è lecito attendersi l’emergere della vera volontà dei cittadini, oltre alle voci che si fanno sentire in Piazza Tahrir. I manifestanti, in fondo, chiedono una vera libertà, uguaglianza, giustizia e democrazia, che secondo loro il governo Militare finora non ha portato. È per questo che dal malcontento sono nati disordini. Dalle elezioni ci attendiamo anche la manifestazione della volontà di tanti intellettuali e uomini di varie religioni e di buona volontà, che vogliono un Paese moderno, basato sulla cittadinanza e non su ideologie poliziesche o religiose”. Tanti partiti, tanti candidati ma tra loro pochi cristiani e poche donne…perché? “Ce ne sono, anche se non tanti, ma ci sono. La loro rappresentanza è ancora timida. La democrazia vera e totale non ha ancora conquistato le menti, anche i pregiudizi sociali e religiosi sono forti e influenti. Siamo ancora all’inizio e molti non si trovano preparati per un passo come questo. Ma direi che questi primi passi ci mettono sulla giusta strada riguardo la rappresentanza dei cristiani e delle donne”. Per questo voto quale appello rivolge ai suoi fedeli? “In questi ultimi giorni abbiamo dedicato degli incontri con i sacerdoti della diocesi, e con gruppi di laici per la formazione socio-politica, alla spiegazione del processo elettorale, dei vari partiti e dei loro orientamenti. Li abbiamo chiamati a compiere il dovere sacro di partecipare alle elezioni, per il bene del nostro amato Paese, in questo momento storico decisivo. Ho chiesto a tutti i sacerdoti di annunciare ai nostri fedeli l’importanza della partecipazione a queste elezioni che cominciano il 28 novembre. Questo è un dovere fondamentale per condurre il Paese verso una nuova alba democratica. Una società giusta è il buon terreno per far crescere il Regno di Dio. L’appello che rivolgo ai nostri fedeli è: con il nostro voto, andiamo a costruire una nuova società”. (Gabriele Guccione – Sir Attualità, 28 novembre 2011) - Un quadro preoccupante Seggi semivuoti e affluenza scarsa ai ballottaggi del 5 e 6 dicembre in Egitto. In palio 52 seggi uninominali su un totale di 56. L'affluenza alle urne del 28 e 29 novembre, che ha toccato il 52% e non il 62% come annunciato in un primo momento, sembra essere un ricordo. A fare notizia, invece, sono gli scontri e le tensioni tra i sostenitori di 2 Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani e lo schieramento salafita di Al-Nour, i due partiti islamisti che al primo turno hanno raccolto i più alti consensi, rispettivamente il 36,62% e il 24,36% di voti, contro il 4,27% toccato ai moderati di Al-Wasat. La vittoria islamista fa temere una radicalizzazione della scena politica e si guarda con apprensione alle scelte che faranno i Fratelli Musulmani, che nonostante le aperture e le rassicurazioni rivolte alla minoranza copta e ai liberali del Blocco egiziano, dovranno comunque rapportarsi con i Salafiti che propongono un Islam rigoroso. Con Riccardo Redaelli, docente di geopolitica e direttore del "Middle East Program" presso il "Landau Network - Centro Volta" (Lncv) di Como, il SIR ha analizzato i primi risultati della lunga e complessa maratona elettorale egiziana che si concluderà solo a marzo 2012. A metà dicembre e inizio gennaio, gli egiziani saranno chiamati alle urne nei governatorati dove non si è ancora votato. Il voto del 28 novembre ha premiato il blocco islamista: come legge questo risultato? "Si tratta di un'affermazione in parte prevista e anche piuttosto temuta. Come spesso avviene e come accaduto recentemente in Tunisia, i giovani e i movimenti più liberali scendono in piazza e scuotono i regimi, mentre a raccogliere i frutti sono quei partiti islamisti dotati di maggiore penetrazione nel territorio e nella società, capaci di creare il consenso grazie alla rete di moschee che lavorano per loro e all'azione sociale che svolgono soprattutto a favore dei ceti più poveri e svantaggiati. Gli islamisti sono molto radicati nella società come non lo sono, invece, i movimenti e i partiti liberali. Il loro messaggio suona molto più familiare tra le persone meno alfabetizzate e nelle zone rurali". Si può parlare di "quadro preoccupante" come sostenuto dall'analista egiziano Amad Gad, vicedirettore del Centro per gli studi strategici di al-Ahram? "Il risultato mi pare particolarmente preoccupante, non tanto per l'affermazione, prevista, dei Fratelli Musulmani, galassia islamista in qualche modo moderata, quanto per quella del blocco salafita di Al-Nour che è andato oltre le previsioni. L'agenda politica salafita è dogmatica, settaria e spaventa molto per il futuro dell'Egitto sia la comunità internazionale sia i copti e i liberali. Un brutto segnale". Nel futuro Parlamento ci sarà spazio di dialogo tra Fratelli Musulmani e Salafiti oppure si tenterà di marginalizzare questi ultimi attraverso delle alleanze diverse? "Nei prossimi mesi ci saranno pressioni internazionali e dei liberali per vedere cosa si potrà fare a riguardo. Pressioni per marginalizzare i Salafiti, credo arriveranno da parte dei militari. Ma molto dipenderà dall'andamento dei prossimi turni elettorali. Al-Nour ha preso un pacchetto di voti che difficilmente potrà essere messo da parte. Ciò che è fonte di timore è la tendenza presente in molti partiti islamisti di avvitamento dottrinale e dogmatico". Cosa intende per avvitamento dottrinale e dogmatico? "Chi ha una lettura e una interpretazione dogmatica dell'Islam, della Sharia, cerca di applicarla a tutto il Paese, in una sorta di gara a chi è più islamista. Immagino un Parlamento dove, se ci saranno da discutere delle proposte dogmatiche in materia sharaitica dei Salafiti, molto facilmente i Fratelli Musulmani, o parte di loro, vi convergeranno per evitare l'accusa di non essere dei buoni musulmani. Questo avvitamento dogmatico potrebbe avere serie ripercussioni sul diritto di famiglia, sul rispetto delle minoranze, delle donne, e via dicendo. Non sono molto ottimista: un blocco salafita così forte potrebbe spostare i Fratelli Musulmani su posizioni più intransigenti". In questa situazione l'esercito potrebbe avere un ruolo di garanzia contro possibili derive islamiste, alla stregua del più volte citato "modello turco"? "Bisogna vedere di quale modello turco si parla: se quello attuale di Erdogan, che vede un partito islamico moderato al potere che lavora lentamente per conseguire i suoi obiettivi, oppure quello precedente ad Erdogan, di Ataturk, con delle forze armate che intervengono, se necessario, anche rimuovendo il primo ministro, per garantire il rispetto della Costituzione. Credo che i militari vogliano perseguire questo secondo modello orientandosi a porsi un poco sopra la Costituzione per evitare la deriva islamista. Un modello auspicato forse anche da alcuni Paesi occidentali". (da Sir Attualità, 7 dicembre 2011) - Voci diverse per la democrazia Si è da poco chiusa la prima tappa della lunga maratona elettorale, la prima dell'era post Mubarak, che vedrà l'Egitto scegliere per il Parlamento, i membri dell'Assemblea del popolo, quelli del Consiglio della Shura, per arrivare alle elezioni presidenziali previste entro giugno 2012. Un percorso verso la democrazia che ha preso il via il 25 gennaio scorso da piazza Tahrir, con manifestazioni di popolo, in larga parte giovani, autoconvocatisi grazie alla Rete e ai social network, vera e propria cassa di risonanza della voglia di giustizia, di libertà e di pane. Come si è svegliata la capitale egiziana dopo il voto del 28 novembre? E cosa succede a piazza Tahrir? A raccontarlo al SIR è Maria Sofia Tozzi, una giovane studentessa italiana al Cairo. Anche per la cosiddetta seconda rivoluzione Midan Tahrir, piazza della liberazione, è il luogo cruciale delle manifestazioni e degli scontri. L'anomalia è l'assenza di disordini nel resto della città. Esclusa piazza Tahrir e le vie limitrofe, Il Cairo continua a vivere normalmente. I giorni di forti tensioni sono stati quelli che hanno preceduto le elezioni parlamentari. Però, pur vivendo al Cairo, non ci si accorgeva di quello che stava succedendo se non guardandolo in tv o avvicinandosi a piazza Tahrir. Io, studentessa italiana di 21 anni da più di un mese al Cairo, avevo sempre immaginato una rivoluzione come un momento di totale partecipazione cittadina, invece la rivoluzione che sto vivendo è limitata a una piazza, con un numero esiguo di persone data la popolazione cairota. C'è da chiedersi allora chi sono le persone riunite a piazza Tahrir ormai da molti giorni, a dormire nelle tende, sui tappeti o su piumoni... Perché sono lì? La prima rivoluzione ha 3 costretto il presidente Mubarak a rassegnare le dimissioni, cosa vogliono ancora gli egiziani? Pane, libertà e giustizia sociale, come recita il ritornello di una famosa canzone molto ascoltata in questi giorni. G. e suo cugino K. entrambi ventenni, musulmani, il primo laureato in italiano, l'altro laureando in ingegneria spiegano che le persone sono scese in piazza una seconda volta perché non vogliono né un governo militare, né un governo religioso, ma un governo civile in attesa delle elezioni presidenziali previste per giugno 2012. Ma proprio su questo punto il popolo si è diviso. Un altro presidio si è formato, per qualche giorno, a piazza Abbasiyya a favore del governo militare in attesa delle elezioni. Molti giovani sono morti sognando un Egitto democratico, e molti altri scendono in piazza per onorare la loro memoria e non vanificare la loro morte. "Faraone egiziano", 19 anni, studente universitario, scrive su un Social Network prima di uscire di casa nei giorni in cui gli scontri erano più intensi "verso Tahrir, o libero o martire!". Vuole riscattare i suoi compagni morti, e essere in prima fila a lottare per il suo futuro e per quello dell'Egitto. Ha un problema a una gamba, quindi non può correre in caso di carica della polizia, ma non ha paura, vuole fare la sua parte. La gente in piazza sarebbe tranquilla se non ci fosse la polizia, mi dice "Faraone". E le sue parole sono state profetiche, in questi giorni continua il presidio in piazza, ma è un presidio pacifico, si tengono discorsi, si cantano cori, si costruisce insieme un futuro per il Paese. E senza la polizia non ci sono neanche scontri. Le famiglie portano i loro bambini a vedere la piazza della rivoluzione, a far conoscere quei giovani che stanno lottando per garantire anche a loro un futuro migliore. Non tutti scendono in piazza, nonostante siano d'accordo con i manifestanti. K., 22 anni, laureato, impiegato come segretario, ci dice che, pur essendo d'accordo con i manifestanti, non va in piazza, perché se succedesse qualcosa a lui nessuno potrebbe prendersi cura della sua famiglia, dato che è l'unico figlio maschio e che le condizioni economiche della famiglia sono precarie. Anche lui non è d'accordo con l'esercito, né con i partiti religiosi, ma ci spiega che soprattutto questi ultimi hanno molto seguito tra la popolazione perché sono l'unica forza politica organizzata. La speranza sta nei rivoluzionari, che si costituiscano in partito civile in grado di dar voce politicamente alla piazza; ma questo è un processo che richiede tempo, intanto la situazione resta precaria. Al contrario c'è chi trova nei partiti religiosi una speranza di futuro democratico. M., 24 anni, è sceso in piazza in questi giorni, ma per sostenere i partiti religiosi. Sostiene che, se i principi che predicano fossero effettivamente attuati, l'Egitto islamico potrebbe essere un Egitto democratico. Pur dicendosi consapevole del fatto che tali principi democratici non sarebbero rispettati, secondo lui per un buon futuro il popolo egiziano si deve affidare alla religione. Voci diverse s'incontrano nelle strade cairote, ma sono espressione di un unico popolo che attraverso la rivoluzione sta affermando la sua libertà. (Maria Sofia Tozzi – Sir Attualità, 2 dicembre 2011) - Una legittima aspirazione Il 4 dicembre è scaduto l'ultimatum della Lega araba a Damasco chiamata a dare una risposta al suo piano di pace, pena sanzioni quali la sospensione di tutte le transazioni con il governo e la banca centrale siriana, la sospensione dei voli da e per la Siria, il divieto d'ingresso nei Paesi arabi per i funzionari pubblici e il congelamento delle collaborazioni economiche. Risposta positiva che, salvo smentite, è giunta il 5 dicembre, con l'accettazione formale del piano di pace dei Ventidue del Cairo. Bashar al-Assad è ora chiamato a porre fine alla repressione delle proteste e ad accettare anche l'invio di 500 osservatori tra i quali membri di Organizzazioni per i diritti umani, giornalisti e militari. Il Paese sembra diviso, da una parte la popolazione non tollera il regime di Assad e del suo partito Baath, le sue tecniche dilatorie nel propugnare riforme; dall'altra una fetta - forse non del tutto minoritaria - che sostiene il presidente che, seppure a discapito della democrazia, avrebbe portato un minimo di ordine e un livello di vita accettabile anche per le minoranze religiose. Una situazione che preoccupa non poco la Santa Sede: il 2 dicembre, intervenendo alla Sessione speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, l'osservatore permanente vaticano presso l'Ufficio Onu, mons. Silvano Maria Tomasi, ha auspicato che siano accolte le legittime aspirazioni della popolazione e la fine delle violenze. Sugli ultimi sviluppi in Siria il SIR ha parlato con il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo. Eccellenza, le notizie parlano di una risposta positiva del presidente Assad alla Lega Araba... "La situazione resta difficile. Subiamo pressioni di tipo economico che turbano la popolazione e ne minano la fiducia. La Lega araba, per la prima volta, si è mossa, forse perché spinta da forze esterne, per sostenere un atteggiamento confessionale, la maggioranza sunnita contro sciiti e alauiti. Ma non vogliamo diventare come l'Iraq". Cosa intende dire? "Se dall'estero continuano a fare pressioni e a incoraggiare la lotta confessionale andremo verso la guerra civile che provocherà la distruzione della Siria. Il nostro Paese non ha bisogno di guerre ma di riforme, di diritti, di modernizzazione delle strutture, di pluralismo, che il governo vuole cercare di fare. Non si può accendere la miccia di scontri confessionali imponendo pressioni economiche. Così non si fa il bene della Siria e del suo popolo". Nemmeno violandone i diritti umani. Sono di questi giorni le notizie su casi di tortura e maltrattamenti di detenuti anche bambini... "Non credo a torture e ad abusi contro i bambini come denunciato da più Organizzazioni. Non esiste una mentalità simile in Siria. Non è possibile". Qual è, a suo parere, la via da seguire? "La via, come ribadito dalla Santa Sede ancora pochi giorni fa, è il dialogo affinché i diritti legittimi degli individui e delle minoranze, che fanno parte della Siria, possano essere rispettati, e che queste possano partecipare più 4 attivamente alle gestione del Paese. La violenza non paga, per questo dobbiamo insistere sulla riconciliazione e sul rispetto dei diritti umani. In Siria esiste una tradizione di mutuo rispetto verso le minoranze e le diversità, ma abbiamo bisogno di strutture e mezzi politici moderni perché questa oggi possa continuare a vivere e a prosperare. La Chiesa locale incoraggia il contatto, il dialogo perché si giunga a questi risultati. Quello che sta accadendo in Egitto, in Tunisia, in Libia, dove l'estremismo musulmano sta prendendo piede, ci preoccupa. Noi non vogliamo cadere nella rete del fondamentalismo. La Siria ha un'altra situazione, un'altra tradizione". Cosa dovrebbe fare, allora, il presidente Assad? "Il presidente dovrebbe permettere una transizione pacifica del potere laddove il popolo, attraverso un voto democratico e libero, lo decidesse. La volontà popolare è sovrana. La Siria, con Assad o con un altro, deve poter continuare il suo cammino. Il popolo deve scegliere, senza ricorrere alla violenza come è successo in Libia. È una sua legittima aspirazione". E la comunità internazionale? "Credo che la comunità internazionale debba fare il possibile per aiutare la Siria prendendone a cuore i bisogni e le esigenze del popolo e dei suoi governanti e non solo comminando sanzioni. Questo atteggiamento può aiutare a stabilizzare la Siria". I cristiani siriani vengono accusati di stare dalla parte del regime di Assad, è così? "La comunità cristiana è impegnata per la pace e la riconciliazione nonostante sia preoccupata per una eventuale svolta fondamentalista. Siamo a favore di riforme vere, serie, che abbiano a cuore il bene della Siria e di tutto il suo popolo. Il sostegno che la maggioranza dei cristiani offre ad Assad nasce anche dalla preoccupazione di ciò che potrebbe accadere dopo la caduta del presidente che non ha mai creato problemi alla minoranza. Questo, tuttavia, non ci esime dal chiedere con forza meno corruzione, riforme serie, rispetto dei diritti e delle minoranze. Cosa che non potremmo fare se si dovesse verificare anche da noi ciò che sta accadendo in Iraq". (da Sir Attualità, 7 dicembre 2011) - Ripensare il dialogo "Gli avvenimenti di questi giorni confermano che le 'primavere arabe' fanno molta fatica ad ottenere risultati positivi e fanno intravvedere che il loro percorso verso la democratizzazione sarà lungo e irto di ostacoli"; al tempo stesso chiedono all'Occidente e, in particolare, all'Europa di "ripensare e rifondare un rapporto che non ha mai realmente portato allo sviluppo economico e sociale" dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (Mena, Middle East and North Africa), ma "ha piuttosto oscillato tra tentazioni neocolonialiste e ancestrali paure verso il mondo islamico". Guarda in particolare a Egitto e Siria Rony Hamaui, ebreo arabo, docente di economia all'Università cattolica e autore del volume "Il Mediterraneo degli altri. Le rivolte arabe fra sviluppo e democrazia" (Egea editore, ottobre 2011), intervenuto il 22 novembre a Roma all'incontro "Il Mediterraneo, nuova sfida per l'Europa", ospitato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Dignità e identità. Rispetto ai numerosi Paesi che nell'Europa dell'Est, in America latina e, perfino, in Africa "negli ultimi 30 anni hanno conosciuto un'evoluzione in senso democratico", come spiegare la "deprecabile eccezione" dei Paesi Mena, la cosiddetta "anomalia araba?", si chiede Hamaui, secondo il quale "non esiste una risposta univoca. Per i Paesi del Golfo è stata elaborata la 'teoria della maledizione del petrolio': Stati molto ricchi con basso livello di tassazione ed elargizione di sovvenzioni e sussidi per guadagnare consenso, e forti investimenti nel settore della difesa". Per gli altri si tratta di un mix di fattori: "Scarsa apertura al resto del mondo, società frammentate a livello religioso, etnico, culturale, di tradizioni: elementi di debolezza che frenano il processo democratico". Secondo Franco Rizzi, docente di storia dell'Europa e del Mediterraneo (Università Roma Tre) e autore del libro "Mediterraneo in rivolta" (Castelvecchi, Roma 2011), "per comprendere queste rivoluzioni occorre rivalutare concezioni e valori completamente annientati per decenni da una o più dittature, a capo delle quali sono stati uomini spesso aiutati dall'Occidente a conquistare il potere". "Un giovane che si dà fuoco sulla piazza lo fa per rivendicare dignità - precisa , e anche oggi il popolo egiziano sta facendo una lunga marcia verso il traguardo della propria identità; dignità e identità, prima ancora che democrazia". Dove sta andando il Mediterraneo? "L'Occidente - ammette l'economista Luigi Ruggerone, coautore con Hamaui del primo volume - ha indubbiamente tentennato e non ha compreso fin dall'inizio. Mubarak aveva comunque garantito per 40 anni la stabilità della regione. Contro Gheddafi non era possibile far intervenire la Nato senza il beneplacito Usa. In questi decenni la politica dell'Europa è stata molto miope, volta quasi esclusivamente a procurarsi sbocchi commerciali. Qualche spiraglio sembra venire dal G20 di Marsiglia dello scorso settembre che ha stanziato 111 miliardi di dollari in due anni per lo sviluppo di questi Paesi che hanno skills e risorse umane, ma non economiche". "Non basta mettere i soldi sul tavolo - replica Rizzi -. L'Europa dovrebbe interrogarsi su dove sta andando il Mediterraneo e sulle politiche globali che dal Trattato di Roma ha sviluppato nei suoi confronti; occorre una fase di riflessione e ripensamento per togliere di mezzo le politiche fatte di mistificazioni e i luoghi comuni sui quali per anni abbiamo vissuto". "L'Europa non deve offrire solo aiuti economici e tecnologie - precisa Hamaui -; deve soprattutto mettere a disposizione il proprio know-how istituzionale, ma per fare ciò servono leader politici illuminati e unità di intenti tra i partner Ue". Il peso sulle coscienze. Hamaui si dice "molto positivo sulla Tunisia che sembra ben avviata", e invece "molto preoccupato per l'Egitto - che oltretutto gioca da sempre un ruolo di leadership politica e culturale nella regione - per lo Yemen e la Siria". "Il successo o l'insuccesso delle rivolte - sostiene - spetterà soprattutto agli stessi arabi, ma senza 5 una classe media forte e senza sviluppo economico e culturale è molto difficile che l'anelito alla democrazia basti a portare il processo a buon fine". "Occorre anche che l'Occidente accetti l'idea di una democrazia di stampo islamico aggiunge Ruggerone -; non l'abbiamo mai vista, mettiamola alla prova". Rimane aperta la questione Siria, dove durano da oltre un anno le manifestazioni di piazza con un bilancio di quasi quattromila morti - nella sola giornata del 22 novembre sono stati uccisi cinque bambini - mentre molti parlano ormai di guerra civile e di emergenza umanitaria, Russia e Cina appoggiano Bashar el Assad, e il presidente turco Abdullah Gul definisce "inevitabile" un cambiamento ai vertici di Damasco, ma "senza interventi esterni". "Quattromila morti - sostiene Hamaui - pesano sulle nostre coscienze, ma occorre essere molto prudenti prima di intervenire perché la Siria è un Paese complesso e frammentato dal punto di vista politico, etico e culturale. Anche l'opposizione è molto divisa al proprio interno". "Se 'scoppiasse' la Siria", conclude Rizzi pensando alle questioni aperte con l'Iran e la Turchia, "lo scenario potrebbe diventare apocalittico. Almeno per ora sembra prevalere la logica del male minore". (da Sir Europa, 24 novembre 2011) - Promesse di speranza Sfide e promesse della "primavera araba" al centro dell'incontro che la Conferenza dei vescovi della Regione del Nord Africa (Cerna) ha svolto a Tunisi dal 13 al 16 novembre. Vi hanno partecipato i vescovi, i vicari e gli amministratori apostolici della regione. Dalla Libia, all'Algeria, alla Tunisia. Era presente anche mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo (Italia), che come rappresentante di una "terra europea vicina al Maghreb" ospiterà il prossimo anno la riunione (17-22 novembre 2012). I vescovi, si legge in un comunicato, hanno potuto scambiare lungamente le esperienze vissute in questo periodo di profondi cambiamenti nei loro differenti Paesi. I vicari apostolici di Libia hanno parlato della rivoluzione libica e di come è stata vissuta dalla comunità cristiana ed hanno testimoniato "la gioia della popolazione di sentirsi libera e l'urgenza ora di riconciliazione nazionale". Della Tunisia si è parlato dello svolgimento delle ultime elezioni che "ha manifestato la sete di una cittadinanza responsabile da parte degli abitanti della regione". In linea generale i vescovi hanno sottolineato "dappertutto nel Maghreb la libertà di parola e la volontà di strutturare la vita sociale e politica in un rispetto crescente per le opinioni diverse". Passaggi cruciali. "Sono tre le sfide essenziali che emergono in questi Paesi: sfida religiosa, politica e socioeconomica". A parere dei vescovi maghrebini queste sfide richiedono "passaggi" essenziali che se intrapresi possono rappresentare delle "promesse di speranza" per tutta la Regione. Il primo è "il passaggio dalla paura di manifestare la propria religione all'affermazione tranquilla delle proprie convinzioni di fede nel rispetto delle opinioni altrui e all'interno di un dibattito senza più tabù sull'importanza della promozione di tutte le libertà, compresa la libertà di coscienza". Altra sfida cruciale per tutto il Nord Africa è "il passaggio da una vita sociale abitata dalla paura e dal rischio della libertà all'impegno affinché tutta la nazione possa vivere nella democrazia e nel rispetto della dignità della persona". Altro punto sottolineato è "la presa di parola e responsabilità delle donne che chiedono di essere più rispettate nella loro dignità e nei loro diritti". Infine, i vescovi danno voce al "grido dei giovani che esigono per sé formazione di buon livello e finalizzata ad un reale avvenire professionale". Responsabilità, speranze, difficoltà. I membri delle Chiese che vivono nei Paesi del Nord Africa generalmente non sono attori diretti di questi passaggi ma vogliono essere testimoni di speranza. Le comunità cristiane vogliono, cioè, dare il loro contributo per "la promozione dei valori nei quali essi si riconoscono pienamente". "Sentono la responsabilità d'incoraggiare quella volontà di libertà, cittadinanza e apertura che si è espressa chiaramente nella primavera araba: cercano di farlo accompagnando nel discernimento e dando testimonianza della loro speranza anche in mezzo alle reali difficoltà che incontrano". A questo proposito i vescovi hanno espresso la loro solidarietà alla Chiesa d'Algeria, "condividendo la sofferenza dei vescovi di fronte al non rilascio e talvolta al rifiuto dei visti ai preti e ai religiosi, qualsiasi sia la loro nazionalità. Essi - si legge nel comunicato - lo ritengono come un grave attentato alla vita delle Chiese e ci provoca maggiore sofferenza quando questi provvedimenti riguardano persone che senza alcuno spirito di proselitismo, rendono un reale servizio a quei Paesi e intrattengono relazioni molto cordiali con tutti". Da qui la gratitudine dei vescovi per tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose che vivono nei loro Paesi: "Essi ammirano il loro lavoro e rendono grazia per la qualità del loro impegno". Da un Sinodo all'altro: Medio Oriente ed evangelizzazione. I vescovi del Nord Africa hanno partecipato alla sessione speciale del Sinodo per il Medio Oriente: i vescovi affermano di seguire con attenzione "le difficoltà e sofferenze" vissute dai cristiani del Medio Oriente in questo periodo di radicali cambiamenti politici e assicurano le loro preghiere affinché "i diritti dei cristiani siano salvaguardati, che i seguaci di Cristo possano essere riconosciuti come cittadini a pieno titolo e attori di speranza per il futuro per i loro popoli". La Conferenza dei vescovi della Regione del Nord Africa ha quindi designato un suo rappresentante per il Sinodo sulla nuova evangelizzazione del 2012 sottolineando come nel Maghreb "la testimonianza dei cristiani è viva quando è soprattutto testimonianza resa con azioni di carità evangelica". Anche in questo caso i vescovi esprimono la loro gratitudine per quanti s'impegnano con competenza e cuore nei molteplici servizi caritativi, manifestando così l'amore di Cristo per tutti gli uomini". La Conferenza ha infine proceduto al rinnovamento dell'ufficio: a partire dal marzo 2012, saranno presidente mons. Maroun Lahham, arcivescovo di Tunisi, e vicepresidente mons. Paul Desfarges, vescovo di Constantine-Hippone (Algeria). Padre Daniel Nourissat è stato confermato segretario generale. (da Sir Attualità - 17 novembre 2011) - La primavera araba e le donne 6 Le rivoluzioni del 2011 in Medio Oriente e in Nordafrica hanno portato e porteranno ancora grandi cambiamenti politici e sociali. Circolano ancora, e giustamente, molti dubbi sugli equilibri di Stati che dovranno ricostruire le loro istituzioni e darsi governi democratici ed efficienti, ma appare a tutti evidente che anche soltanto la possibilità di avere un futuro migliore non potesse che passare per la deposizione dei regimi del passato. Se è ragionevole supporre che, col tempo, le cose possano lentamente diventare il più possibile “normali”, c’è una questione, una delle più rilevanti nei paesi a maggioranza islamica, riguardo la quale la cosiddetta “primavera araba” non garantisce di per sé alcun avanzamento, sostiene l’Economist. I diritti delle donne. L’Economist analizza come la caduta dei regimi in Egitto e Tunisia, benché provocata da rivoluzioni che hanno visto una partecipazione rilevante delle donne, potrebbe non avere significati progressisti sul piano della discriminazione sessuale. Anzi: in alcuni casi si teme che la condizione femminile possa addirittura peggiorare. I timori derivano dal generale atteggiamento delle forze attualmente al potere, dai principali gruppi politici in corsa per le prossime elezioni, che sia in Egitto che in Tunisia sono di impronta islamica conservatrice, e da un’analisi delle trasformazioni della società irachena dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. [Le attiviste per i diritti delle donne] guardano con apprensione a ciò che è successo in Iraq, dove la caduta del tiranno non sembra essere stata di nessun aiuto per le donne. Le donne soffrivano sotto l’orrore generalizzato del regime di Saddam Hussein, ma erano libere di lavorare, di uscire di casa senza il velo e di andare a scuola. In molte zone dell’Iraq le cose sono cambiate col crescere dell’influenza di singoli gruppi religiosi. Nei primi anni di governo del regime Baath, le donne furono dichiarate pari agli uomini davanti alla legge e fu loro richiesto di seguire corsi di alfabetizzazione (anche se a molte fu impedito dalle famiglie più conservatrici). La posizione delle donne cominciò a diventare più precaria dopo la guerra del Golfo del 1991, quando Saddam decise di appoggiarsi a gruppi islamisti e tribali per rafforzare il suo potere, e sembra essere ulteriormente peggiorata in seguito all’occupazione americana. Più della metà delle donne intervistate per un rapporto Oxfam del 2009 erano state costrette ad abbandonare le proprie case dal 2003, per le violenze o per cercare lavoro. Circa quattro quinti di loro avevano smesso di frequentare scuole o università. Il 40 per cento delle madri non mandava i loro figli a scuola; la mancanza di sicurezza era la ragione principale per tenere i maschi a casa, ma le figlie non frequentavano le lezioni perché troppo costose o per divieti familiari. La condizione dei diritti delle donne nei paesi a maggioranza islamica è da molto tempo fonte di preoccupazione per le organizzazioni a difesa dei diritti umani. Un rapporto del 2002 citava la condizione femminile tra i tre problemi principali, insieme alla limitata libertà politica e al basso livello di istruzione, che ostacolano lo sviluppo del mondo arabo. In Egitto le donne hanno preso parte alla primavera araba al fianco degli uomini, emancipandosi dallo stereotipo che le vorrebbe oppresse dal patriarcato, e la loro presenza ha contribuito a definire la natura delle proteste. Con la caduta del regime, però, la loro posizione nelle rivolte è stata meno chiara. Molte di loro sono state invitate a tornare a casa dai loro figli e lasciare le piazze agli uomini. Il 9 marzo di quest’anno i manifestanti sono tornati in piazza Tahrir per rimarcare le loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza: l’esercito ha interrotto la manifestazione arrestando, tra gli altri, 18 donne, che in carcere sono state accusate di prostituzione, sottoposte a pestaggi e a un “controllo della verginità”. Il solo fatto di aver manifestato insieme a degli uomini – dormendo nelle tende insieme a loro: quella è la tacita accusa – veniva visto come un marchio d’infamia. Non è la prima volta che le donne, in Egitto, partecipano a proteste politiche. Nel 1919 un gruppo di donne velate marciò al Cairo contro l’occupazione inglese. Nel 1956 fu concesso il voto alle donne, e nel 1957 l’Egitto fu il primo paese del mondo arabo a eleggere una donna al parlamento. Piccoli progressi sono andati avanti fino agli anni Settanta, ma da allora il potere crescente di gruppi religiosi conservatori ha bloccato ogni innovazione sul piano politico e sociale. Per Mubarak le politiche di sostegno alla condizione femminile erano fondamentali per mantenere buoni rapporti con l’Occidente: sua moglie diede la spinta finale all’approvazione di una legge che vietasse la mutilazione genitale femminile, e grazie al suo intervento oggi in Egitto anche le donne possono diventare giudici. Ma queste leggi sono viste da molti dei ribelli come frutto dell’influenza occidentale, e condannate e respinte per via del loro essere figlie dei regimi. Nel 2009 il parlamento egiziano aveva approvato una legge che riservava 64 posti sui 518 nell’Assemblea del Popolo alle donne. Dopo la caduta di Mubarak la quota è stata abolita, contestata come un’eredità del regime: nonostante si tratti di un passo indietro rispetto alla condizione precedente, però, la legge era molto criticata anche dalle attiviste. Le donne che andavano a occupare quelle 64 posizioni erano ricche, disinformate e prive di preparazione o esperienza, e secondo molte rovinavano l’immagine dell’impegno femminile in politica. Ora la legge è stata sostituita: a novembre le liste dei partiti che parteciperanno alle elezioni dovranno includere almeno una donna tra i membri candidati al parlamento. Questo rende minori le possibilità che venga eletta una delegazione femminile rilevante, ma al tempo stesso garantisce una maggiore serietà di coloro che ce la faranno. In Tunisia la parità tra i sessi ha raggiunto livelli alti come in nessun altro paese arabo. Habib Bourguiba, che nel 1957 fondò la Repubblica tunisina e ne fu il primo presidente, bandì la poligamia, legalizzò l’aborto e garantì uguaglianza alle donne in caso di divorzio. Ben Ali, che gli succedette, proseguì le politiche paritarie, promuovendo l’istruzione e il lavoro femminili: nel 2004 la percentuale di donne sposate, vedove o divorziate prima dei vent’anni era quasi nulla, contro l’oltre 50 per cento degli anni Sessanta. In Tunisia due terzi degli studenti universitari sono donne: in Egitto le donne sono i due quinti. Per le donne tunisine il periodo post-rivoluzionario dovrà concentrarsi sul mantenimento di diritti acquisiti più che sulla conquista di nuovi. Ciò che preoccupa le attiviste di entrambi i paesi, ora, è il possibile successo politico di partiti conservatori che sembrano avere grande popolarità. In Tunisia si vota domenica 23 ottobre e la scena è dominata da al-Nahda (Movimento della Rinascita), il principale gruppo islamico, l’unico grande abbastanza per inserire candidati donne in tutte le sezioni: persino il Partito Democratico Progressista, l’unico con una leader donna, ha potuto mettere delle donne a capo di solo tre delle sue 33 liste. In Egitto, dove si voterà il 28 novembre, sondaggi recenti hanno dimostrato che più del 60 per cento della popolazione ritiene che la Sharia dovrebbe essere l’unica legge nel paese, e la scena politica è dominata dai Fratelli Musulmani. L’organizzazione, che sostiene il Partito per la Libertà e la Giustizia, contiene al suo interno la sezione delle Sorelle Musulmane, che apparentemente garantiscono una presenza politica femminile che potrebbe limitare la deriva dei 7 soprusi. Ma poche attiviste ritengono che le Sorelle Musulmane possano essere determinanti per la causa femminile: sono succubi dei Fratelli e sostengono una visione tradizionalista del ruolo della donna, con un’enfasi costante sulla famiglia. Come spiega Fatma Khafagy, membro fondatrice del Partito Socialista, «la discriminazione contro le donne comincia tra le mura domestiche». Le attiviste come lei, comunque, rappresentano una parte minima delle donne arabe. La maggior parte dei progressi sui diritti delle donne nel mondo arabo è arrivata come dichiarazione dall’alto, piuttosto che come conseguenza delle pressioni dal basso. Si tratta soprattutto di un problema delle elite, una sorta di hobby per le mogli dei presidenti; e ciò che viene dato con una mano può essere sottratto con l’altra. [...] I diritti delle donne devono ancora diventare un problema capace di smuovere l’opinione pubblica. [...] Quelli che insistono per il cambiamento, in Egitto e Tunisia, sono soprattutto dipendenti di associazioni non governative, attivisti, avvocati, accademici e politici. (da Il Post, 21 ottobre 2011) DOCUMENTI --------------------------------------------------------------------------------------------- La primavera araba Le proteste, che hanno colpito paesi riconducibili in vario modo all'universo arabo ma anche esterni a tale circoscrizione come nel caso della Repubblica Islamica dell'Iran, hanno in comune l'uso di tecniche di resistenza civile, comprendente scioperi, manifestazioni, marce e cortei, talvolta anche atti estremi come suicidi (divenuti noti tra i media come "auto-immolazioni") e l'autolesionismo, così come l'uso di social network come Facebook e Twitter per organizzare, comunicare e divulgare gli eventi a dispetto dei tentativi di repressione statale. I social network tuttavia non sarebbero il vero motore della rivolta, secondo alcuni osservatori, per i quali "il network della moschea, o del bazar, conta assai più dì Facebook, Google o delle email". Alcuni di questi moti, in particolare in Tunisia ed Egitto, hanno portato ad un cambiamento di governo, e sono stati denominati rivoluzioni. I fattori che hanno portato alle proteste sono numerosi e comprendono, tra le maggiori cause, la corruzione, l'assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e le condizioni di vita molto dure, che in molti casi riguardano o rasentano la povertà estrema. Il crescere del prezzo dei generi alimentari e della fame sono anche considerati una delle ragioni principali del malcontento, che hanno comportato minacce all'equilibrio mondiale in ordine all'alimentazione di larghe fasce della popolazione nei paesi più poveri nei quali si sono svolte le proteste, ai limiti di una crisi paragonabile a quella osservata nella crisi alimentare mondiale nel 2007-2008. Tra le cause dell'aumento dei costi, secondo Abdolreza Abbassian, capo economista alla FAO, la "siccità in Russia e Kazakistan accompagnata dalle inondazioni in Europa, Canada e Australia, associate a incertezza sulla produzione in Argentina", a causa di cui i governi dei paesi del Maghreb, costretti ad importare i generi commestibili, hanno scelto l'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di largo consumo. Altri analisti hanno messo in risalto il ruolo della speculazione finanziaria nel determinare la crescita del prezzo dei generi alimentari in tutto il mondo. Prezzi più alti si sono registrati anche in Asia: in India dove ci sono stati rialzi nell'ordine del 18%, mentre in Cina dell'11,7% in un anno. Le proteste sono cominciate il 18 dicembre 2010 in seguito alla protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco in seguito a maltrattamenti da parte della polizia, il cui gesto è servito da scintilla per l'intero moto di rivolta che si è poi tramutato nella cosiddetta "rivoluzione dei gelsomini". Per le stesse ragioni, un effetto domino si è propagato ad altri paesi del mondo arabo e della regione del Nordafrica, in seguito alla protesta tunisina. In molti casi i giorni più accesi, o quelli dai quali ha preso avvio la rivolta, sono stati chiamati "giorno della rabbia" o con nomi simili. Ad oggi, tre capi di stato sono stati costretti alle dimissioni o alla fuga: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali il 14 gennaio, in Egitto Hosni Mubarak l'11 febbraio e il 20 ottobre in Libia Muammar Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, è stato catturato e ucciso dai ribelli. I sommovimenti in Tunisia hanno portato il presidente Ben Ali, alla fine di 12 anni di dittatura, alla fuga in Arabia Saudita. In Egitto, le imponenti proteste iniziate il 25 gennaio, dopo 18 giorni di continue dimostrazioni accompagnate da vari episodi di violenza, hanno costretto alle dimissioni, complici anche le pressioni esercitate da Washington, il presidente Mubarak dopo trent'anni di potere. Nello stesso periodo, il re di Giordania Abdullah attua un rimpasto ministeriale e nomina un nuovo primo ministro, con l’incarico di preparare un piano di "vere riforme politiche". Sia l'instabilità portata dalle proteste nella regione mediorientale e nordafricana che le loro profonde implicazioni geopolitiche hanno attirato grande attenzione e preoccupazione in tutto il mondo (da it.wikipedia.org) - Sitografia http://www.agensir.it http://www.ilpost.it http://it.wikipedia.org 8