La casa delle maschere Donato Sartori La via teatrale novecentesca. Se dovessimo ripercorrere la cronistoria della maschera teatrale dalla fine del secondo millennio, dovremmo per prima cosa ritornare ad uno dei più rappresentativi personaggi di teatro d’inizio secolo: il regista e scenografo inglese Edward Gordon Craig (18721966), che nel 1908 pubblicò a Firenze la rivista “Masks”, ove scrisse: «Ci fu un tempo in cui la maschera serviva per la guerra, quando la guerra era considerata arte. Ci fu un tempo in cui la maschera veniva usata per le cerimonie, perché si pensava che il solo volto non fosse abbastanza forte. Venne il momento in cui la maschera fu scelta dai grandi del teatro classico: Eschilo, Sofocle, Euripide. Venne il tempo in cui l’attore superbo non volle coprire il suo volto e gettò la maschera. Un tempo per il gioco dei bimbi e le feste mascherate. Oggi dobbiamo creare una maschera nuova, rifiutando di ricorrere all’archeologia del passato, che riesca a dare un volto all’anima dell’attore per fare più grande il teatro». Vedremo l’ultimo Craig nelle vesti di docente presso l’Accademia di Belle Arti del capoluogo toscano, dove insegnò ai giovani un teatro di puro movimento e dove, non è escluso, esercitò una certa influenza sul giovane Amleto Sartori, allievo di scultura in quegli anni tra le mura dello stesso istituto. Il sasso era stato ormai lanciato: la curiosità per la maschera, straordinario strumento-oggetto che contaminò l’ambiente teatrale di tutto il secolo. Qualche anno dopo, nel 1912, Oskar Schlemmer concretizzò in Germania una sua riflessione sulle maschere mettendo in atto un balletto che fu rappresentato più tardi nella sede del Bauhaus di Weimar; in Francia, quasi contemporaneamente, il giovane drammaturgo Jacques Copeau inaugurò la piccola sala sulla rive gauche, il Teatro del Vieux Colombier. L’evento ebbe risonanza europea dal 1913 al 1924, non solo perché presentava una vera e propria fucina di artisti di teatro, ma anche per la realizzazione di un nuovo tipo di dispositivo scenico, e soprattutto per l’adozione della maschera, quale mezzo teatrale di primaria importanza per la ricerca e la formazione dell’attore che volesse vivere il mondo del teatro come fondamentale dimensione della propria vita. Per condurre gli attori alla famigliarità con il proprio corpo Copeau li fece lavorare con la maschera. È un interesse di lunga data quello di Copeau per le maschere dell’Improvvisa che sin dall’inizio dell’avventura teatrale studiò e condivise con Leon Chancerel, studioso di teatro che gli propose un vasto repertorio documentale sulle figure e sui personaggi dell’arte, tra cui l’opera di Maurice Sand Masques et Buffons, pubblicata a Parigi nel 1860. Da questo momento il mascheramento divenne per Copeau e per la generazione dei maestri del teatro uno strumento di straordinaria importanza. 1 Il fermento culturale di quegli anni fu inoltre stimolato da una forte spinta da parte di alcuni ricercatori e storici di teatro che vollero ripercorrere la via a ritroso, alla ricerca delle proprie radici perdute, prendendo le mosse proprio da quel teatro di origini popolari che dal primo Rinascimento e per oltre due secoli, fu protagonista indiscusso sulle scene di tutto l’Occidente: la Commedia dell’Arte. Kostantin Miklaševskij (1886-1944), detto Mic, uomo di teatro russo, pubblicò nel 1914 a Pietroburgo un testo esemplare, intitolato La Commedia dell’arte o il Teatro dei commedianti italiani dei secoli XVI, XVII, XVIII. Il testo, di indubbio valore storico e documentario, apparso nella rivista russa L’amore delle tre melarance,1 diretta da Mejerchol’d, fornisce una testimonianza tangibile di un’effettiva attenzione del teatro russo d’avanguardia verso tecniche, tematiche e maschere della Commedia dell’Arte. Fu proprio in questo contesto che Mic in uno dei suoi viaggi a Parigi, volle conoscere Copeau; dal loro incontro nacque una solida amicizia ed una lunga collaborazione; per Copeau stesso infatti: «l’attore in maschera ha maggior forza di quello la cui faccia è visibile al pubblico». L’attore e regista Charles Dullin (1885-1949), dopo una lunga serie di disparati ingaggi nel mondo teatrale, decise di accompagnare Copeau nell’avventura del Vieux Colombier fino al 1921, per poi fondare una propria scuola che sarà frequentata tra gli altri anche da Antonin Artaud, Jean Louis Barrault e Etienne Decroux. Agli esordi della prima guerra mondiale, su di un treno che li avrebbe condotti a Parigi, viaggiavano due giovani che avevano deciso di arruolarsi nel XXII reggimento dei dragoni: Pierre Louis Duchartre e Charles Dullin. Fu questo incontro determinante che convinse Duchartre a immergersi in quello strano mondo del teatro che non gli apparteneva per elezione ma che lo affascinava tanto che, finita la guerra, si dedicò ad una ricerca sulle origini del teatro e sulle maschere della Commedia dell’Arte, che gli permise di dare alle stampe nel 1925 la prima stesura di La Comedie 1 La rivista, il cui sottotitolo era La rivista del Dottor Dappertutto, diretta sotto questo pseudonimo da Mejerchol’d stesso e della quale uscirono in tutto nove numeri, combatteva in nome della Commedia dell’arte e dell’opera di Carlo Gozzi, il teatro cosiddetto psicologico e naturalista. Come specchio dell’attività di via Borodinskaja, pubblicò numerosi articoli sui comici italiani insieme a diversi scenari e opere di Gozzi stesso. Cfr. C. Solvetti, L’amore delle tre melarance, la rivista del Dottor Dappertutto in Carte segrete, 1976, n. 32, pp. 15-30. 2 Italienne, testo che costituisce uno dei riferimenti culturali più ricercati da parte di attori, registi, studiosi e uomini di teatro. Tra gli innumerevoli allievi della scuola, sorta accanto al teatro Vieux Colombier, uno in particolare, Etienne Decroux, emerse nell’uso del corpo in qualità di strumento teatrale, tanto che divenne poi uno dei principali fautori di una corrente mimica cui attinsero molti degli attori emergenti dell’epoca tra cui J. Louis Barrault e Marcel Marceau. “Enlever le visage pour retrouver le corp” fu l’intento che contraddistinse la metodologia pedagogica di questa scuola diretta da Copeau e che divenne per così dire il motto di Decroux, al quale era sufficiente celare alla vista degli spettatori le espressioni del volto dell’attore. A questo scopo, mediante l’uso di un tessuto leggerissimo (velo) mise a punto una maschera in grado di avviluppare l’intera testa dell’attore, consentendone la massima visione e la perfetta respirazione. Alla scuola, vennero usate invece maschere di cartone confezionate secondo una tecnica sperimentata dallo stesso Copeau, che consisteva in strati sovrapposti di carta di giornale, uniti tra loro con colla d’amido, ottenuta dalla cottura della farina di grano, alla quale veniva aggiunta una zolletta di zucchero. Quest’ultima curiosità divenne per lungo tempo uno dei misteri che avvolgeva la maschera di fascino, dato che lo stesso maestro tenne segreta la ricetta. Le maschere, di vaga sembianza antropomorfa, non dovevano possedere alcuna espressione, per dare così modo all’allievo-attore di esprimere le proprie emozioni solamente con l’uso mimico del corpo. Questo particolare strumento didattico fu chiamato le masque noble, o anche della calma, considerando l’inespressività che la caratterizzava e che, alla fine della seconda guerra mondiale, prese il nome di maschera neutra. 3 Jean Dastè, allievo nonché genero di Copeau, avendone sposato la figlia Marie Helene, fu colui che trasmise l’utilizzo di tale maschera, dopo l’esperienza del Vieux Colombier, seguendo il maestro in Borgogna nel 1925, ove organizzò un gruppo di attori che prese il nome di Copiaus. Dastè e Marie Helene fondarono nel 1945 la propria compagnia che prese il nome di Les Comédiens de Grenoble, per mettere in pratica le teorie, gli insegnamenti e l’uso della maschera secondo Copeau. Qui fece la sua prima comparsa come attore-mimo professionista, il giovane Jacques Lecoq che da poco aveva portato a termine un corso di studi d’arte drammatica tenuto dai maestri Charles Dullin e Jean Louis Barrault. Lavorare nel gruppo di Grenoble significava per il giovane mimo incontrare il mito di Copeau, la tradizione pedagogica del Vieux Colombier e, soprattutto, confrontarsi con l’esperienza dei Copiaus. Tramite Dastè, Lecoq scoprì infatti le Jeu du Masque e venne a conoscenza degli accorgimenti tecnici sull’uso e sulla realizzazione delle maschere in cartapesta. Tornato a Parigi, nel 1945, fu assunto dalla scuola di recente fondazione E.P.J.D. (Education par le jeu dramatique); scoprì così la sua vocazione per l’insegnamento, tralasciando la professione di attore. Più tardi, ebbe modo di conoscere il regista Gianfranco De Bosio e la sua collaboratrice Lieta Papafava dei Carraresi, giunti a Parigi (grazie ad una borsa di studio dell’Università di Padova) per un corso di aggiornamento teatrale al E.P.J.D. De Bosio, assistente del poeta Diego Valeri, allora preside della Facoltà di Lettere della città, si prodigò per mutare le sorti del teatro universitario, allora estremamente conservatore e pervaso da correnti tradizionaliste poco consone al clima di euforia culturale che attraversava l’Europa dell’immediato dopoguerra. Il Teatro universitario di De Bosio a Padova. L’Università, infatti, produsse sotto la guida d’insigni personalità accademiche e con l’apporto dei giovani che avevano fatto la Resistenza, sotto la guida di Egidio Meneghetti, una serie di iniziative culturali, tra le quali la fondazione di un teatro dell’università, guidato da De Bosio, che fondò anche una scuola, nella quale Lecoq fu invitato a insegnare il movimento del corpo, Lieta Papafava recitazione e studio dei testi, Ludovico Zorzi storia del teatro e Amleto Sartori storia dell’arte e modellazione delle maschere. Ricorda Lecoq: «Arrivai a Padova nel dicembre del 1948, ad attendermi alla stazione erano presenti oltre a De Bosio tutti gli attori del teatro dell’università: Agostino Contarello, Gennaro Gennari, Giuliana Pinori, Mario Bardella, Lieta Papafava». A questi se ne aggiunsero altri come Giulio Bosetti, Carlo Mazzone, Vanda Cardamone, o lo scenografo Misha Scandella. 4 Pochi giorni dopo, Lecoq tenne la sua prima dimostrazione agli attori della compagnia mostrando quel che sapeva fare, in particolare riprodusse la famosa marche sur place, caratteristica camminata mimica sul posto inventata negli anni ’30 da Decroux. Un ironico apprezzamento da parte di un allievo, che sbottò: «bello… ma dove va?», portò Lecoq a comprendere che il mimo puro, inteso come genere autonomo, proprio di attori che ne fecero una professione spettacolare come Decroux e Marceau era ben lontano da quel mime dramatique, aperto al teatro e con finalità pedagogiche del quale da tempo ne intuiva l’esistenza. Lecoq non aveva con sé maschere di sorta quando arrivò a Padova, l’unica regalatagli dall’amico Dastè, l’aveva bêtement prestata ad un ballerino per una dimostrazione in Germania: «Je suis arrivé a Padue avec la thecnique pour la costruction du masque neutre dans la tête, et l’idée de travailler ce masque dans l’école». De Bosio gli suggerì di rivolgersi allo scultore Amleto Sartori, che già aveva creato alcune maschere per uno spettacolo di poesia negra realizzato dall’Università di Padova nei saloni di Palazzo Papafava in via Marsala. Tra gli altri recitavano: Carlo Mazzone, Agostino Contarello che ne curò anche la regia, il panorama artistico fu commentato dallo stesso De Bosio. Le maschere, scolpite da Sartori in legno cavo e dipinto, montate su bastoni poggianti a terra, avevano la funzione di coprire il viso degli attori senza essere indossate e furono le prime maschere teatrali realizzate da Amleto, un tentativo creativo che non rimase isolato. La serata fu illustrata dalle immagini pittoriche di artisti veneti, oltre a quelle dello stesso Sartori diedero sfoggio alle loro opere: Guidi, Fasan, Pendini, Perissinotto (Peri), Saetti, Rosa, Schiavinato, Tosello, Travaglia, Vedova e Tono Zancanaro. Amleto Sartori non era solo un pittore, era soprattutto scultore e tra le sue peculiarità annoverava una profonda conoscenza dell’anatomia umana derivatagli dalla frequentazione delle lezioni universitarie di anatomia, allo scopo di documentare graficamente alcuni volumi di medicina pubblicati da amici medici nonché docenti universitari. Egli aveva inoltre frequentato, per lunghi anni, le Accademie di Belle Arti di Venezia e di Firenze istituzioni specialistiche dove si studiavano discipline scultoree quali l’anatomia, l’osteologia e la miologia per artisti. 2 Naturalmente dotato per la ritrattistica, Amleto, incuriosito dalle richieste di Lecoq per la realizzazione di maschere neutre da usare successivamente nella scuola di teatro, non solo fornì lo spazio nel suo laboratorio presso la scuola d’arte Pietro Selvatico ove insegnava, ma dopo aver osservato l’incapacità degli allievi nel modellare i volti delle maschere propose anche con 2 Amleto Sartori ebbe da sempre un rapporto con la maschera che si potrebbe definire congenito. Fin da giovanissimo, infatti, espresse con l’intaglio una profonda predisposizione per il grottesco. Nel 1928, tredicenne, iniziò un lavoro di scultura commissionatogli dall’antiquario Alfredo Bordin, che concluse dieci anni più tardi. Durante questo periodo, furono scolpite nel legno di cirmolo, in bassorilievo e a tuttotondo, diverse figure grottesche, maschere e mostri a corredo di un intero appartamento esposto ora presso il Museo Civico del Santo di Padova. 5 determinazione un suo efficace intervento. Lecoq rammenta la scelta di Amleto di fare da sé le maschere. 3 A quelle seguirono altre maschere per spettacoli che il Teatro dell’Università mise in scena dal 1948 al 1951 lungo le diverse produzioni: come Le cento notti, spettacolo ispirato alle figure del teatro Nô giapponese che Lecoq portò a Padova come eco dell’esperienza di Grenoble; Porto di mare, pantomima con maschere neutre e coreografia dello stesso Lecoq; I pettegolezzi delle donne di Carlo Goldoni con la regia di De Bosio e le scenografie di Misha Scandella. Tra le tante ne emerse una straordinaria: I sei personaggi in cerca d’autore, con la regia di De Bosio e l’interpretazione di Giulio Bosetti nel ruolo del figlio. La pregnante tipologia pirandelliana, presente nell’opera, diede modo a Sartori di indagare nel profondo della psiche umana, per produrre una serie di maschere-personaggio in cartapesta policroma, che donò all’intero spettacolo un deciso tratto artistico. Altre opere furono ispirate e messe in scena dai testi di Ruzante, in seguito a studi e pubblicazioni apparsi nella prima parte del secolo ad opera del francese Alfred Mortier e del veneto Emilio Lovarini, con cui mio padre ebbe un lungo rapporto epistolare, tuttavia anche grazie all’apporto offerto dagli studiosi padovani Ludovico Zorzi e Paolo Sambin. È curioso indagare il motivo che spinse De Bosio, convinto assertore delle maschere dell'Arte, a rifiutarsi di utilizzarle per gli spettacoli di Ruzante, nonostante la colta e accorata convinzione di Giovanni Calendoli, che vedeva Ruzante come anticipatore nel suo tempo, delle maschere della commedia improvvisa. Ma il dado era oramai tratto; la fama delle maschere di Amleto si diffuse così velocemente da raggiungere consensi non solo in Italia, ma soprattutto nel pieno risveglio culturale dell’Europa postbellica. A Parigi, infatti, Jean Louis Barrault raggiunto dalla fama delle maschere in cuoio create dall’artista italiano, volle dapprima sperimentare quelle della Commedia dell’Arte per una rappresentazione al Teatro Marigny; e, più tardi, ricorse a quelle dei personaggi per la Vaccaria di Ruzante. Ciò produsse a Parigi un grande evento, e le nuove maschere avvinsero talmente regista e pubblico che vennero premiate con una nuova produzione che Barrault mise in scena al Festival Internazionale di Bordeau (1955) e successivamente con la complessa trilogia di Eschilo, l’Orestea all’Odeon di Parigi, rappresentata con ben 75 maschere in cuoio scolpite da Amleto Sartori. Questi furono gli anni dei miei primi ricordi d’infanzia, legati al teatro e alle maschere che agli occhi di un bambino trascorsero come un gioco. Ricordo le lunge notti insonni, dovute alla presenza di attori e gente di teatro che frequentavano la mia casa di Riviera Paleocapa, dalle cui finestre ammiravo la maestosa imponenza della Specola. Ricordo le declamazioni frenetiche di Agostino Contarello, singolare attore-autore padovano che veniva a “provare” qui i suoi personaggi teatrali, prima ancora di interpretarli al Teatro dell’Università. Durante le infinite notti di veglia forzata 3 Cfr., in questo volume, La geometria al servizio dell’emozione di Jacques Lecoq. 6 (dormivo infatti nella saletta adiacente alla cucina, l’unica zona riscaldata della casa ove avvenivano gli incontri), decine e decine di persone si davano appuntamento per discutere di teatro o, semplicemente, per bere un bicchiere di vino con gli amici, e spesso si faceva mattina. L’amicizia tra mio padre e Jacques (al quale, più tardi, doveva aggiungersi Marcello Moretti, straordinario interprete dell’Arlecchino strehleriano), era tale che spesso i due scomparivano per intere giornate alla ricerca di volti caratteristici, vere e proprie maschere umane che si potevano incontrare solo in alcuni punti nodali della città o nel suo immediato circondario. Il mercato “dei frutti e delle erbe” delle piazze, sotto il salone della vecchia Padova con i suoi banchi colorati e profumati, brulicante di una pittoresca fauna popolana, era fonte inesauribile di suggerimenti per le maschere pavane della tipologia ruzantiana. Amleto amava questi posti e veniva spesso ad ispirarsi con Jacques che, curioso ed estasiato, scopriva l’Italia nella sua essenza vera e popolare. L’Italia della Commedia all’Improvviso si ritrovava lì, viva, con gli autentici personaggi, gli schiamazzi e le grida tipiche di ogni mercato rionale. Divenne presto consuetudine, da parte dei due amici, fare lunghe scarrozzate in vespa lungo i bastioni medioevali, per raggiungere luoghi caratteristici e spesso malfamati, abitati da una moltitudine di “tipi” degni dei più suggestivi racconti del popolo pavano; il Foro Boario in Prato della Valle, con il suo straordinario folclore contadino, era meta di mercanti di bestiame, avvolti dai neri tabarri che, giungendo alle prime luci dell’alba a bordo dei loro “birroccini” trainati da cavalli rintuzzati dalle eleganti fruste a schiocco, concludevano gli affari sputandosi sulle palme e suggellando l’accordo con una vigorosa stretta di mano. Anche Porta Portello, emblematica zona malfamata della città, era una delle mete preferite, serbatoio inesauribile di idee e suggerimenti per modellare maschere e personaggi per lo scultore padovano, di posture ed atteggiamenti per il mimo francese. Altro luogo prediletto, era il quartiere periferico di Santa Croce, area santa, popolata da pellegrini di tutto il mondo, in cerca di una grazia o di un miracolo, richiesto a Padre Leopoldo, un minuscolo frate cappuccino. Ricordo ancora un pomeriggio di festa, in cui venne a casa nostra Jacques, accompagnato da Lieta Papafava; più tardi ci raggiunse Agostino Contarello. Fu quasi un incontro-spettacolo, con mio padre che raccontava aneddoti sui personaggi della vecchia Padova, paragonando lo spirito caustico della Gaetana a quello della Betia di ruzantiana memoria, riportando le barzellette su alcune macchiette realmente esistite, o ancora esistenti, come Chichi Badan, famoso possessore del più grande attributo maschile del Veneto, ipotizzando parallelismi tra Pace del Portello e storici personaggi, quali Sier Tomao dell’Anconitana o il Ruzante stesso, quale interprete delle proprie commedie. Jacques, ricordo, allora lungo e allampanato, interpretava scherzando e mimando le figure che via via erano citate: il grasso e porcino Tuogno, da un’antica farsa anonima, messo a confronto con il Fattore della Vaccaria. 7 Così arrivammo a sera; ci muovemmo all’imbrunire, invitati da qualcuno a mangiare carne di cavallo a Legnaro, piccolo borgo situato lungo la strada per Chioggia. Stipati in una vecchia giardinetta, ci inoltrammo per sentieri sterrati, sino a raggiungere con il buio un gruppo di casoni in legno dal tetto di paglia, vagamente illuminati da lampade a carburo e riscaldati da allegri e scoppiettanti fuochi, contenuti in enormi e fumosi camini. Tra un assordante cicaleccio dialettale, ci apparve una moltitudine di strani personaggi che sembravano usciti da un film di Dreyer, questi stavano seduti attorno a sgangherati tavoli in legno colmi di litri di vino e piatti fumanti di “carne in tocio”, servita con polenta abbrustolita sulle braci. Il luogo, situato poco lontano da Padova, era noto attraverso i racconti popolari che lo indicavano come covo di ladri di cavalli. Pare che le povere bestie fossero macellate di nascosto lungo i fossi, e le carni, oggetto di lucroso contrabbando, erano messe ad affumicare all’interno delle cappe dei camini, in ossequio ad una probabile consuetudine locale, sviluppatasi durante la carestia provocata dalla guerra. In questo ambiente da sabba, tra il fumo e i riflessi rossastri delle braci, prendevano forma nei drammatici controluce, sanguigne figure; personaggi e maschere che sarebbero state disegnate e pubblicate a corredo dei testi sul Beolco, che Ludovico Zorzi preparò per le edizioni Randi nel 1953. Riaffiorano ancora i ricordi di un giorno in cui vidi mio padre raggiante ed entusiasta, dopo un ritiro ad Arquà Petrarca, minuscolo paesino medioevale arroccato sui Colli Euganei, noto sia per aver dato ospitalità all’omonimo poeta, sia perché era possibile rintracciarvi uno dei dialetti tra i più puri, meno italianizzato insomma, e più prossimo al pavano antico dei testi ruzantiani. Si trattava di un seminario sulla lingua pavana, organizzato da De Bosio, in vista di una serie di recite a tema con gli attori del Teatro dell’Università. 8 Come ogni bella fiaba, anche questa ebbe un termine. Le prime avvisaglie di una crisi che stava attanagliando il Teatro universitario, fecero avvicinare Giorgio Strehler, che già da qualche anno guidava con successo il Piccolo Teatro di Milano, assieme a Paolo Grassi. Il Teatro dell’Università chiuse i battenti per sopraggiunte difficoltà economiche, nonostante la fama raggiunta e l’interessamento di intellettuali e uomini di cultura: «Siamo riusciti a resistere per soli quattro anni fino a che non ci hanno tagliato le gambe con il rifiuto dell’Università e del Comune di Padova di continuare a sovvenzionare un teatro scomodo».4 L’esperienza terminò nell’aprile del 1950 con l’ultima rappresentazione di Se questo è un uomo di Brecht, al Piccolo Teatro di Milano. Fu proprio al Piccolo in cui tutti gli attori del teatro padovano confluirono, chiamati da Strehler e Grassi, ad ingrossare le fila di un teatro che cresceva rapidamente e a dismisura. Lo stesso Lecoq fu invitato a Milano per fondare la scuola del Piccolo Teatro. Anche Strehler fu contagiato dalla presenza della maschera nel teatro fra le due guerre, tant’è vero che fu coinvolto in questa avventura proprio da Etienne Decroux, invitato in quegli anni a Milano per un ciclo di lezioni al Piccolo: «Tutto il teatro di poi è stato segnato dall’esperienza-predicazione di Decroux».5 Il Piccolo Teatro di Strehler. Il primo incontro tra Amleto Sartori e Giorgio Strehler avvenne alla fine del 1951 «in un giorno di sole all’ombra delle pietre» in un caffè prospiciente il Teatro Olimpico di Vicenza, dove il Piccolo metteva in scena l’Elettra di Sofocle con la regia di Strehler e le coreografie di Lecoq. Erano presenti, oltre a Strehler, anche Marcello Moretti e Lecoq. Il Piccolo Teatro aveva già presentato nel 1947 il noto Servitore di due padroni di Goldoni. In quell’edizione Pantalone, Brighella e Dottore portavano delle maschere orribili, a detta dello stesso Strehler, mentre Arlecchino, interpretato dal geniale Moretti, utilizzava un trucco nero che, riproducendo i tratti di una maschera, ne creava l’illusione. La scintilla era scoccata; da lì a breve ecco Giorgio Strehler a Padova, in visita agli attori del teatro dell’Università, soprattutto per conoscere da vicino l’artefice delle maschere di cui tanto si parlava nel mondo del teatro del dopoguerra: «so soltanto che un certo giorno ci ritrovammo nel suo studio a Padova a parlare di teatro e della maschera a teatro». Tra le tante, ammonticchiate sui banconi da lavoro, fu attratto e affascinato dagli studi grafici e plastici che Amleto, aveva prodotto durante le approfondite ricerche sulla maschera neutra. «Forse, disse Amleto, è la cosa più difficile che ho fatto; [...] questa maschera noi l’adoperammo per anni, e proprio con questa una sera Etienne Decroux ci mostrò per la prima ed ultima volta, la “levitazione” di un corpo umano. Veramente, per un attimo, Decroux, con la maschera neutra di 4 Da un’intervista rilasciata da Gianfranco De Bosio, Verona 30 dicembre 1997. G. Strehler, Il mestiere della poesia, in Arte della Maschera nella Commedia dell’Arte di D. Sartori e B. Lanata, Casa Usher, 1984, p. 171. 5 9 Sartori ed anche grazie ad una perfetta coordinazione di ogni ganglio nervoso ed ogni fascio muscolare del suo corpo e con una concentrazione così assoluta da mettere quasi paura, restò davanti a noi spettatori attoniti, “sospeso nello spazio” immobile. Attimo che ci sembrò eterno».6 Galeotta fu la visita di Strehler a Padova. Sartori gli propose con intraprendenza di studiare e realizzare le maschere come erano state concepite nella tradizione della Commedia dell’Arte. Sino ad allora Amleto non aveva mai sperimentato il cuoio ma, da artista eclettico e curioso qual era, sotto la spinta della necessità, iniziò con il valido aiuto della moglie Miranda a consultare testi e volumi antichi, conservati nelle principali biblioteche europe: la Marciana di Venezia, la collezione Burcardo di Roma, gli sterminati archivi della Nationale e dell’Arsenal di Parigi. Scoprì che nel Musée dell’Opera esistevano alcune matrici in legno per maschere in cuoio e a Venezia degli stampi in piombo par mascare, di cui nessuno conosceva l’uso e le tecniche. Si recò, quindi, nella Basilica di Santa Giustina a Padova, dove conobbe un priore esperto di tecniche del restauro degli antichi volumi rilegati in cuoio e pergamena, venendo a conoscenza dei segreti della lavorazione della pelle animale conciata. Scolpì la sua prima matrice in legno di cirmolo,7 sulla scorta dei modelli osservati a Parigi; la ricoprì con un cuoio di capra umido e sottile. Man mano che la superficie si asciugava Amleto, comprimeva il cuoio sul legno attraverso la battitura di un martello di corno e lo levigava con stecchette di bosso lucido che aveva costruito da sé. Così venne alla luce la prima maschera in cuoio. Al Piccolo si provava in quel tempo L’Amante militare di Goldoni, il cui Arlecchino era interpretato da Marcello Moretti; Strehler convocò Sartori per studiare le maschere per gli attori. Ero al seguito di mio padre che si recava a Milano, sempre più frequentemente, a portare le maschere che inventava, produceva e sperimentava in un clima di furore creativo quale non avevo visto mai prima, durante la mia adolescenza. Per me era un fatto di ordinaria amministrazione stare in mezzo alle maschere. Il ricordo più pregnante riguardò la scena, tanto movimentata quanto divertente, tra mio padre e Marcello Moretti, che provava in palcoscenico un ennesimo, pericoloso salto acrobatico. Mio padre stava in platea: seguiva la recitazione, prendeva appunti e schizzava bozze. Marcello sentiva la concentrazione soffocata della strettezza che la maschera lasciava agli occhi; dava continuamente in scatti per vedere dove sarebbe finito, come poteva muoversi. Non era per nulla a suo agio. Si spazientì, senza dir nulla levò la maschera, allargò i buchi degli occhi, usando un paio di grosse forbici ch’erano in scena. Rimise la maschera e stava tranquillamente riprendendo le prove per il salto, se non fosse stato per mio padre che, rimasto incredulo a seguire tutta la scena senza saper parlare, gettò un urlo 6 7 G. Strehler, In margine al diario, “Quaderni del Piccolo Teatro di Milano”, n. 4, 1962, pp. 59-61. Cirmolo è termine dialettale veneto che identifica il Pinus Cembra, conifera usata per l’intaglio in tutte le zone alpine. 10 smisurato, dandogli del pazzo. Presero ad insultarsi con furore, a stento tenuti lontani; molto più tardi, calmati dallo stesso Strehler, trovarono uno sbocco pacifico al loro contrasto. Dopo questo episodio si saldò una grande amicizia tra lo scultore e l’attore, che terminò solo con la morte di entrambi. L’artista padovano predispose alcune maschere che si adattavano potenzialmente allo spirito dell’Arlecchino-Moretti: una tipo toro, una tipo gatto e l’ultima tipo volpe. Sartori, infatti, accentuava certi caratteri animaleschi, rintracciabili nella maschera dello Zanni e offriva con le sue variazioni una scelta all’attore, che in quel momento rifiutava ancora la maschera, perché gli faceva paura. L’arte di un padre-maestro. Era quello il tempo in cui mio padre di notte, pervaso dallo slancio creativo, intagliava nel legno di cirmolo, resinoso e profumato, visi e caratteri ora duri e decisi, ora torbidi e flaccidi, ispirati alle maschere giapponesi in legno cavo, viste in uno spettacolo di teatro Nô di una famosa compagnia di Tokyo, giunta in tournée in Italia. Era rimasto talmente impressionato dalla bellezza e dalla perfezione delle loro meravigliose maschere che si spinse anche nello studio e nella sperimentazione delle ricette segrete della lacca giapponese, tanto da realizzarne alcune con risultati straordinari. Frequentavo, giovanissimo, il laboratorio sotto la guida di un padre-maestro che, a volte burbero e a volte bonario, mi rivelava, centellinandoli, i trucchi del mestiere, ricreando ciò che in un lontano passato doveva essere il sistema di apprendimento nelle botteghe d’arte. Apprendevo giocando, le tecniche dei lucignoli di creta nel modellare i volti e le figure plastiche in terracotta o ceramica. Spesso accompagnavo mio padre a Venezia, presso la vetusta fonderia del signor Bianchi nei pressi dell’Accademia, un arzillo vecchietto che viveva da sempre tra gli artisti, prestando la sua abile e preziosa opera di fonditore di bronzo. Ho ancora nelle narici l’odore acre della cera perduta, bruciata, negli occhi il riverbero accecante del bronzo fuso, colato negli stampi conficcati tra la sabbia. Sento ancora la tensione dell’attesa di quando si spaccava il negativo per scoprire, quasi fosse un reperto archeologico, la forma sepolta che svelava gradualmente l’espressione di un volto. Maschere realizzate con altri materiali, ora ricavate dall’intaglio del legno, ora plasmate nel cuoio, ora scavate nella pietra, si accumulavano in tanti anni di lavoro e di esperienza. La fama delle nuove maschere in cuoio di Amleto, meticolosamente riesumate da un passato plurisecolare, era tale che gli attori, i registi e gli uomini di teatro europeo, prima o poi, si rivolgevano a lui per saggiare uno strumento rinato dalle antiche tradizioni. E furono anni di febbrile ricerca e fervida creatività per cercare nuovi volti da dare ai personaggi per le più disparate produzioni teatrali. Rammento Orazio Costa, considerato il continuatore italiano della scuola di Copeau, che si cimentò con le maschere di Amleto per La 11 famiglia dell’antiquario di Goldoni nel 1955 e, successivamente, con le maschere policrome di vago aspetto cubista per La favola del figlio cambiato di Pirandello. Ebbi modo, di incontrare negli anni Costa, poco prima della sua morte; durante un colloquio venni a conoscenza di alcuni retroscena, a proposito delle volontà e delle indicazioni di Pirandello a proposito delle maschere per le sue opere. Ricordo le orripilanti maschere di megere, streghe e spiriti diabolici dell’Angelo di fuoco di Prokofiev, diretto da Strehler, in occasione della Biennale di Venezia del 1956 (che furono per me una delle fonti di ispirazione per la recente ricerca sulle maschere medioevali nordiche del World Theatre Project in Svezia). Maschere create non solo per testi teatrali, ma anche per opere cantate, come l’Orfeo di Monteverdi alla Scala di Milano, con la regia di Bacchelli, o per quello di Gluck con la regia di Walmann al Teatro Massimo di Palermo, nello stesso anno. Mio padre insegnava, fin da giovane, scultura presso la Scuola d’Arte “Pietro Selvatico” di Padova. Lasciò il posto vacante a causa della malattia che l’avrebbe condotto a morte. Dopo qualche anno venni nominato docente nello stesso Istituto occupando il posto che fu il suo; aggirandomi con nostalgia negli stessi luoghi, nella stessa aula, fra gli allievi che sembravano gli stessi di allora, mi sovvenne l’incontro di mio padre con il grande vecchio, o almeno tale mi parve visto con gli occhi di allora, Cesco Baseggio. L’attore, con un’entrata a dir poco plateale, attorniato dai suoi efebici discepoli, si assise su una antica poltrona da barbiere che troneggiava al centro dello studio. Era venuto per discutere su di un personaggio da commedia che doveva interpretare a Venezia da lì a poco (1959) e che doveva essere, se ben ricordo, il Pantalone per il Bugiardo di Goldoni, con la regia di Carlo Ludovici. Baseggio soffriva da tempo di una noiosa asma che gli rendeva difficile il respiro sotto la maschera; e fu in tale occasione che ebbi l’opportunità di apprezzare la genialità di mio padre nell’affrontare con versatilità, oltre che il problema tipologicomorfologico del personaggio, anche i problemi tecnici ad esso legati. Modellò lì per lì un volto di vecchio, arcigno e avaro, con il naso tipicamente ebraico, quale doveva essere caratteristico dei mercanti ebrei della Serenissima, visti con gli occhi della satira sociale dei componenti delle compagnie dell’Improvvisa. La peculiarità che la maschera andava assumendo era quella di un volto caratterizzato da un grande naso adunco, che copriva la parte alta della faccia dell’attore, lasciando completamente scoperte le cavità delle narici e permettendo così all’interprete una respirazione e una dizione perfetta. Baseggio volle vedere e toccare anche le maschere di Ruzante, che erano in lavorazione sui banchi, rammaricandosi di non averle potute usare nella sua grande interpretazione veneziana del Parlamento del 1954. Con la tipica espressione tra il beffardo e il faceto, vedevo che mio padre non era d’accordo; da buon conoscitore sia delle opere che della biografia del Beolco, reputava che l’interpretazione di Ruzante ad opera di Baseggio, fosse troppo senile, lontana dalla tipologia del personaggio-attore cinquecentesco. 12 Lo studio e l’individuazione dei tipi e caratteri popolari della campagna veneta coinvolse e trascinò Amleto per lunghi anni plasmando, scolpendo, ma soprattutto disegnando figure a gouache e sanguigne, chine e pastelli, oppure nella realizzazione di grandi tavole che dipingeva con diverse tecniche pittoriche. Fu a proposito delle maschere per la commedia L’anima buona di Sezuan messa in scena al Piccolo Teatro di Milano nel 1958, che mio padre incontrò Bertolt Brecht, ospite di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler. Da quel momento gli si aprì il mondo nordico del teatro tedesco e, qualche anno più tardi, lo studio Werner Dau Produktion di Potsdam gli commissionò una serie di maschere in cuoio per un film ispirato a personaggi ruzantiani, Italienischen Capriccio, con la regia di Glauco Pellegrini. La figura di Beolco era ormai talmente insita nella fantasia dello scultore, che la sua ricerca sul ritratto e sulla figura del commediografo pavano fu premiata con la committenza di una statua in pietra di Nanto (o pietra di Vicenza, con cui furono scolpite le statue degli insigni padovani poste attorno alla canaletta del Prato della Valle). La statua, offerta dal Lions Club di Padova, doveva essere posta su uno dei due basamenti a guardia del Ponte Nord del Prà, ma per alterne vicende, prettamente “padovane”, storie di vecchi rancori e di invidie corporative, gli artisti della città premettero presso le pubbliche istituzioni affinché il fatto non avvenisse; la statua fu eretta alla soglia degli anni ’60 all’interno dei giardini Morgagni, nei pressi dell’Ospedale vecchio di Padova.8 Nel 1961 il male stava oramai minando, nonostante la fibra eccezionale, i polmoni di Amleto che con enorme sforzo riuscì a progettare e a completare per il teatro del Brecht-Ensemble a Essen disegni, maschere e costumi per il Parlamento del Beolco con la regia di Palitzsch, e per la messa in scena teatrale di Von Bergamo bis Morgen früh di Walmann, alla Landesbühne di Hannover, con la regia di Reinhold Rüdiger. Il passaggio del testimone. Furono fatali mesi di sofferenza. Amleto scolpì le ultime maschere per l’Augellin belverde di Carlo Gozzi, per la messinscena di Giovanni Poli. Venne il momento in cui mi resi conto che dovevo togliergli dalla mano ancora vigorosa (morì a soli 46 anni) il testimone. Per me fu un periodo drammatico per il passaggio dal ruolo di figlio-allievo a quello di responsabile-guida, con il compito di consegnare alla storia una ricerca ed un’arte frutto della travagliata vita di un uomo che, tra le due guerre, era riuscito a realizzare un sogno, quello di restituire al mondo contemporaneo la maschera, simbolo di un teatro che si riteneva scomparso. 8 Molto tempo dopo, nel 1992, la scultura, lesionata dal tempo e dalla mano di balordi, fu restaurata con cura filiale da me e dai miei collaboratori del Centro Maschere e Strutture Gestuali presso la vecchia sede, sita in un’antica villa veneta del XVIII secolo nei pressi di Padova. La statua del Ruzante è posta ora in Piazzetta Garzeria, all’ombra dell’orologio Dondi, a ridosso della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova. 13 La mansione mi travolse; in un turbinio di attività, lavoro e impegni non mi permisero alcun tempo da dedicare a riflessioni di sorta: le pressioni da parte di Eduardo De Filippo per lo studio e la realizzazione di una nuova maschera per Il figlio di Pulcinella, le maschere per un’opera di Gozzi diretta da Giovanni Poli, in scena a Venezia e portata poi a New York, la necessità di concludere una quantità di sculture non finite, dipinti murali e graffiti iniziati, e altre maschere, tra le quali quelle per il Galileo di Brecht che, nel 1963, mi permisero all’interno del Piccolo Teatro di collaudare con tecniche personali nuove espressioni artistiche. L’anno seguente fu la volta del Gioco dei potenti dello stesso autore, grande avventura teatrale di Strehler. Viaggi, ancora viaggi, soprattutto a Parigi per incontri, riflessioni e progetti con Lecoq, Jean Vilar, Barrault. Attraverso le lezioni di Decroux, che conobbi per la prima volta, presso la sua scuola parigina, ebbi la sensazione che si ponesse in una antitesi al discorso di Lecoq; mi sembrò d’avvertire un’aura di puro estetismo, teso ad elevare il ruolo del corpo e del gesto verso una dimensione mistica. Un incontro storico, che rimarrà per sempre impresso nella mia memoria, è quello con il vecchio drammaturgo francese Leon Chancerel, che sul letto di morte non mi lesinò i racconti, gli aneddoti e le avventure di teatro d’inizio secolo con i più grandi uomini di cultura della nostra epoca, Copeau, Jouvet, Miklaševskij e altri ancora. Le richieste dall’estero di mostre sulle nostre maschere si susseguirono sempre più frequenti; dedicai, pertanto, un notevole impegno per realizzare le più importanti, come quella itinerante negli USA, prodotta dalla New York Library, o come la successiva dell’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, che si protrasse per anni nelle più importanti città australiane, e molte altre sia in Italia che in Europa. Contemporaneamente mi riproposi di conseguire la laurea in Architettura a Venezia, facoltà da tempo intrapresa, ma interrotta a causa della malattia di mio padre. Furono anni di fermento studentesco e di maturazione politica sotto la guida di maestri come Bruno Zevi, architetto e illuminato storico, che seppe trasmettere a noi discepoli la corretta coscienza politica e sociale del tempo. Avvisaglie, fermenti, inquietudini della classe studentesca preludevano al Sessantotto che di lì a poco avrebbe prodotto un terremoto negli ambiti della cultura e dell’arte e, successivamente, nella società civile. Creare le forme. Trascorrevo lunghi periodi a Parigi, dove sentivo i fermenti più intensi di quelli familiari, che ritenevo grevi e arretrati. Furono i tempi delle maschere per i teatri francesi; conservo una memoria vivida dell’esaltante collaborazione con la Comédie Française nel 1967, per l’Etourdi di Molière. Frequentai anche gli studi di artisti dell’avanguardia parigina, le mostre del Palais Royal, le lezioni di Lecoq all’Ecole Supérieure des Beaux-Arts, nell’aula adiacente a quella in cui insegnava lo scultore Cesare Baldaccini, meglio conosciuto sotto lo pseudonimo di César. 14 Il classico colpo di fulmine, che dette nuova svolta alla mia ricerca plastica fu proprio l’incontro con una nuova corrente, ideata e coordinata dal critico Pierre Restany, il Nouveau Realisme, che radunò artisti che ben presto divennero personalità di spicco nel periodo del ’68: oltre allo stesso César, ne facevano parte Christo, Arman, Tinguely, Yves Klein ed altri. Nel mese di maggio, un clima di tensione rivoluzionaria veniva crescendo tra giovani, studenti e operai, sulla scorta dell’analoga spinta proveniente oltreoceano, più esattamente dall’Università di Berkeley in California. Malumori studenteschi nei confronti della guerra del Vietnam, dettero origine a un’onda reattiva di radicale cambiamento che, coinvolgendo scibili culturali e ambiti sociali e politici, si accinse a sbarcare in Europa, dove trovò linfa e alimento da motivazioni ed ideologie forse differenti, ma identiche nelle istanze. In questo periodo mi dedicai ai grandi viaggi che mi consentirono di aprire vasti orizzonti culturali; uno tra questi, mi vide nel ruolo di disegnatore (qualora le foto non fossero permesse), componente di una spedizione che si recava in Asia per realizzare un servizio etno-fotografico presso le popolazioni nomadi iraniane. Furono sei mesi di spostamenti in fuoristrada dall’Italia, attraverso la Turchia, tra piste sconnesse e desertiche, fino ai passi di montagna abitati solo da lupi e aquile, alla ricerca delle tribù nomadi, dalle sterminate pianure del Golfo Persico agli altopiani dei massicci centrali. Qui scoprii nuovi forme di mascherature tribali che, esulando dal mondo della festa e del teatro, riguardavano sistemi sociali e religiosi molto al di fuori e al di là degli usuali limiti occidentali. Nello stesso tempo, le immagini del terribile e, insieme, esaltante maggio francese s’insinuarono e si radicarono tanto in me da produrre una forte mutazione, una forzata maturazione d’identità, non solo politica, ma soprattutto artistica. A Parigi partecipai a sfilate tumultuose con gli amici dell’Ecole de Beaux Arts e mi trovai coinvolto in brutali repressioni della polizia nel quartiere latino. Conobbi le atrocità spaventose prodotte sui corpi di giovani che erano sospinti verso gli angoli degli edifici e sottoposti ai colpi delle famigerate lance smussate dei flics parigini, che senza provocare lacerazioni esterne ledevano, a volte in maniera seria, gli organi interni. Vidi molti dei ragazzi feriti, rantolanti, caricati brutalmente sui cellulari e portati chissà dove. Seppi più tardi che alcuni di loro furono trovati a centinaia di chilometri di distanza, esanimi, nel fosso a fianco di strade di grande viabilità, quali corpi travolti da improbabili pirati della strada. Il turbamento fu tale che decisi di tralasciare l’orientamento artistico sin qui seguito e mi proposi di rivedere e modificare il concetto di creare delle forme estetiche ed oggettuali fini a se stesse. Presi a sperimentare con nuova energia forme e tecniche diverse, abbandonai la modellazione figurativa della creta, atta alla riproduzione di calchi in gesso, fusioni in bronzo, terrecotte o altro per proiettarmi verso la creazione diretta e definitiva delle sculture in metallo. Passai un lungo periodo 15 presso diverse officine metalmeccaniche e cercai l’aiuto di amici e tecnici che mi insegnassero tutti i segreti della saldatura autogena e ossiacetilenica, dall’ossitaglio all’uso della forgia e del maglio meccanico. Colmo d’entusiasmo per la scoperta di tecniche nuove, presi a realizzare piccole e grandi forme sulla scorta dei suggerimenti parigini; uscirono dalla fiamma ossidrica quei corpi straziati, ancora impressi nella mente, lacerati dalla violenza repressiva che sostituiva il dialogo e il rapporto umano. Forme biomorfe di carapaci vuoti, di animali legati dai nodi di una civiltà violenta e oppressiva. Smaglianti torsi militari che ostentavano lustre corazze metalliche lasciando trasparire all’interno un magma marcio e purulento. Attesi alla realizzazione di grandi volumi che ricordavano forme organiche tendenti, quasi per congiunzione osmotica, ad equiparare l’animale al vegetale e al minerale, dall’esteriorità appariscente e splendida, ma dalle viscere orride e putride. Questo linguaggio di reazione e di rabbia assumeva sempre più un’identità ed un significato plastico inquietante, proprio di quell’emblematico momento storico vissuto. Per anni proseguii la ricerca sui metalli e sulle metodologie da applicare per riuscire a domarli e plasmarli a mio piacimento, mi dedicai alla chimica con la straordinaria collaborazione di un amico inventore di rara fantasia, Gigi Villani, per dotare le nuove statue di suggerimenti cromatici nuovi, completando così il significato che volevo attribuire loro. I primi anni ’70 furono dedicati a tutto questo, al modo di comunicare un messaggio al pubblico, soprattutto ai giovani miei coetanei, che vivevano un momento sociale e politico estremamente complesso e difficile. Dapprima le mostre della nuova scultura si susseguirono con personali presso importanti gallerie di tendenza, come i Volsci di Roma, la Diarcon di Milano, la Triade di Torino, il Traghetto di Venezia e molte altre; contemporaneamente, giunsero inviti di partecipazione a prestigiose manifestazioni internazionali quali la Triennale di Milano, il Salon de la Jeune Sculpture a Parigi, l’Arte Fiera di Bologna, la Biennale dei metalli di Gubbio e molte altre ancora. In queste occasioni venni a contatto con prestigiosi critici che mi aiutarono a orientare e definire meglio il mio cammino e la mia ricerca. Le mie sculture creavano disagio, tensione, riflessione; spesso durante le esposizioni si creavano dei momenti di intense discussioni, che sovente finivano per scivolare nel sociale o nello scontro politico. Cercavo di colmare il vuoto che si era venuto a creare durante le mostre d’arte in genere, presso gallerie, musei e spazi pubblici, ove il pubblico presente ed ansioso di conoscere, dialogava spesso con l’opera, raramente con il suo creatore. La triangolazione fruitore + opera + artista mancava, quasi sempre, del segmento che avrebbe dovuto collegare l’artista con il pubblico. Verso la metà degli anni ’70, le tensioni in Italia si fecero più pressanti, i malumori sociali e l’aggressività tra le diverse fazioni politiche crebbero a dismisura, fino a raggiungere talvolta stati di guerriglia urbana. Insegnavo arte e la scuola pubblica ribolliva di fermenti e disordini, ricordo ancora l’eccitazione nel suggerire agli allievi di esprimere le loro emozioni attraverso la creatività, 16 usando un linguaggio comunicativo non solamente verbale, ma anche attraverso l’arte, le forme, i volumi, i colori, rifiutando la violenza. Quasi per necessità formammo un gruppo, sorto dalla stessa scuola d’arte, che fece dello slogan “riappropriamoci della nostra forza creativa” il manifesto di Azionecritica, 9 sodalizio pluridisciplinare che si proponeva di fare politica attraverso le parole chiave: arte e creatività. Ricordo momenti intensi di azioni collettive che, pur utilizzando linguaggi universali e materiali tradizionali, segno, forma, colore, spesso sconfinavano dall’environment all’happening, dall’azione urbana, all’installazione, al coinvolgimento del pubblico. Un giorno del 1975 partecipammo ad un evento di quelli che all’epoca venivano definiti alternativi, l’esposizione collettiva di opere artistiche non già all’interno di luoghi deputati all’arte e alla cultura quali musei, gallerie bensì in una cava abbandonata dei Colli Euganei. Cavart, come titolava l’operazione, si fregiava di grandi nomi dell’Architettura impossibile, tra i quali emergeva Alessandro Mendini con un suo riconoscibile ziggurat di balle di paglia. Azionecritica partecipò presentando opere di ciascun componente, nell’intento di individuare un gesto critico verso un evento che esprimeva velleità nuove e d’avanguardia, mentre altro non era se non una collettiva obsoleta che, al posto di una galleria civica, aveva preferito uno spazio-altro, racchiuso tra le falde di un monte, tutto scavato all’interno. Mi arrovellavo nel pensare ad un intervento che avrebbe dovuto amalgamare, unificare in un ambito di ovvietà stereotipata le opere disseminate e sparse nello spazio a cielo aperto. L’idea venne alcuni giorni dopo recandomi in treno a Parigi, per allestire una personale negli spazi dell’American Center for Artists. Mentre osservavo assorto dal finestrino del treno, mi sovvenne un’idea luminosa nel notare filari di vigne, lungo i lati della ferrovia, avviluppati in una sorta di serica rete trasparente, che si stendevano per chilometri e chilometri. Al ritorno dalla Francia avevo aggiunto al mio bagaglio alcuni sacchi di materiale acrilico, prodotto dalla Rhon-Poulenc per proteggere le vigne dalla grandine. Fu un’apoteosi: in un batter d’occhio tutta la cava fu ricoperta da un’avviluppante ragnatela che fluttuava al vento e avvolgeva non solo cose, persone, ambiente ma anche umori, vista la feroce reazione degli artisti. Essi si ritenevano lesi, in quanto si comprometteva la visuale delle loro opere attraverso l’intrigante reticolo plastico. All’epoca fui oggetto di velenose frecciate da parte dei media locali, ma niente mi distolse dall’entusiasmo per aver scoperto un altro straordinario materiale con cui produrre opere e azioni future. Se la gestazione del gruppo fu breve, lo fu ancor di più la durata, dopo due anni si esaurì l’accordo, 9 Azionecritica nasce nell’inverno del 1975 ad opera di un gruppo di artisti ed intellettuali che operavano con il Liceo Artistico di Padova. Il nucleo organizzativo di base era formato oltre che da Donato Sartori, il cui atelier costituiva il riferimento logistico del gruppo, dall’architetto Francesco Pierobon, dal professor Emilio Vesce, dal pittore Renato Pengo e, più tardi, da Ermanno Chasen, operatore del settore televisivo. 17 frantumato da dissidi interni e dall’allarmante situazione politica di tensione e di stragismo che ci impedì di proseguire verso intenti comuni. Il canto del cigno fu la grande performance che organizzammo in simbiosi con l’Odin Teatret, allora in Italia per una collaborazione con la Biennale di Venezia. Il gruppo danese, diretto dal regista italiano Eugenio Barba e accompagnato da critici, studiosi e intellettuali,10 fu ospite presso la mia casa-laboratorio, situata in una ex casa colonica, nei pressi di Padova, a ridosso dei Colli Euganei, nel comune di Abano Terme. Le parate itineranti di teatro, danza e musica invasero le vie del centro storico padovano e, per la prima volta nella mia città, presentai quello che da quel momento prese il nome di mascheramento urbano attraverso la ragnatela francese e le performance teatrali dell’Odin. Avevo trovato il modo di realizzare, finalmente, una grande scultura-maschera vivente di durata effimera, ma di grande impatto ambientale. Il totale capovolgimento dei ruoli dell’arte e del teatro, nel decennio 19701980, aveva coinvolto anche la mia generazione; ci trovammo in molti a seguire il miraggio di fondere le discipline artistiche che sino a quel momento avevano regolato il corso della società industriale e post-industriale in Occidente. Lo sconvolgimento che avveniva in quegli anni nel campo del teatro e delle arti visive, avrebbe certamente aperto la strada all’utopia della pluridisciplinarietà o della multimedialità. Si stava compiendo un evento epocale, le tecnologie virtuali stavano divenendo realtà anche nel mondo dell’arte: elettronica, computer, rete satellitare per le comunicazioni, e finalmente il laser, che proprio allora passava dal ruolo diafano della mera teoria alla concreta realtà di un utilizzo pratico. Il ciclo di studi, la frequentazione dei circuiti artistici internazionali, l’attività professionale ed il ruolo di docente mi avevano introdotto nell’ambito delle arti visive e, come molti, conferivo a Marcel Duchamp il ruolo fondamentale di padre dell’arte moderna, colui che, per dirla con le parole di Pierre Restany: «attraversando lo specchio del reale ci ha rivelato il redy-made, l’avvenimento capitale dell’arte del XX secolo». Mai come in quel momento avvertivo l’importanza di quelle, apparentemente semplici, operazioni che portavano ad esporre agli occhi stupefatti del pubblico parigino del 1913 le Pissoir, oppure la Roue de Byciclette. Con la scoperta del materiale francese avevo rintracciato uno straordinario strumento artistico per entrare in comunicazione con il pubblico, riuscendo a infrangerne le naturali difese. Avevo notato che durante gli allestimenti o il montaggio di installazioni nei diversi siti urbani, il pubblico “riscopriva” l’ambiente in maniera insolita e rimaneva attonito nell’osservarne la nuova apparenza attraverso un’ottica non consueta rispetto a quella usuale e quotidiana. Era il compimento del 10 Oltre agli attori storici dell’Odin Teatret, Iben Nagel Rasmussen, Torgheir Wethal, Nelse Marie Laukvik, Tage Larsen e altri ancora, facevano parte del gruppo anche i docenti universitari e i critici teatrali Luciano Mariti, Ferdinando Taviani e Nicola Savarese. 18 miracolo che Duchamp aveva creato nel lontano 1913, aprendo una strada a miriadi di artisti e creatori, in cerca di un diverso modo di comunicare l’arte. Qualche anno dopo Pierre Restany, apostrofò questo stile operativo come “arte sociale”, ove con il concetto di sociale intese ripercorrere concetti antichissimi come il rito, la festa e la pulsione collettiva, che emana una celebrazione rituale. Forme e colori, trance e partecipazione costituiscono quella miscela che permette all’uomo di estrinsecare la propria energia creativa in una sorta di festosa ebbrezza collettiva, le feste sono occasioni più o meno spontanee che permettono di esternare una volontà di comunicazione attraverso la liberazione dei sensi e nella trasgressione del quotidiano. Nel mondo occidentale se ne è perduta ormai la motivazione, sia d’ordine religioso che propiziatorio, i miti sono stati sostituiti da elementi più consoni alla civiltà contemporanea, più legati al consumo, al rito collettivo determinato dalla musica, dallo sport, dai movimenti di massa. Lo stimolo a partecipare, benché modificato, continua comunque ad esistere, è nella natura umana, insito e profondamente radicato nella collettività. Uso della luce e delle proiezioni, forme e colori nello spazio, oltre che gestualità, hanno caratterizzato la ricerca dell’ultimo ventennio nell’ambito delle arti visive e del teatro d’avanguardia. Non si poteva rimanere esenti da contaminazioni così urgenti e vivide che pervadevano le nuove generazioni di artisti in un occidente in piena ebollizione politico culturale. Mi orientai pertanto verso una ricerca pluridisciplinare, spaziando dall’uso delle forme (sculture di grandi dimensioni) all’utilizzazione di mezzi e strumenti, messi a disposizione dalla moderna tecnologia (fonti di visualizzazione laser, computer e sonorizzazione elettronica). 11 Dopo un’attenta analisi dell’ambiente, ricorrendo ad un principio di modificazione dello spazio urbano, conosciuto già da tempi remoti in molte civiltà, s’interveniva con un progetto di installazione urbana. Modificazione, questa, che creava un momento non solo di effimera magia architettonica, ma predisponeva il pubblico alla partecipazione. “Mascherare”, dunque, una situazione urbana, una strada, un castello, una piazza, fino a stravolgere completamente la dimensione e l’apparenza primitiva creando una sorta di collegamentoriempimento dello spazio aereo per svelarne un suggestivo fascino metafisico. L’arredo urbano così predisposto diveniva contenitore ideale di gesti e provocazioni creative che sollecitavano un pubblico non passivo, invitandolo all’azione ludica; una sorta di grande gioco dai ritmi suggeriti. Suono e giochi di luce, comportamento e danza, venivano elargiti in modi e metodi, talvolta suggeriti dall’improvvisazione, creando un’interazione tra artista e pubblico-massa così a condurlo, 11 Già negli anni 1975 con i componenti del gruppo Azionecritica avevamo iniziato sperimentazioni sonore con Teresa Rampazzi, nota compositrice di musica concreta ed elettronica e collaboratrice di Luigi Nono. Successivamente proseguimmo le sperimentazioni al Centro di Fonologia Computazionale dell’Università di Padova. 19 quale parte attiva, a “consumare” l’opera d’arte di storica memoria. Gesto, immagine e suono sono gli elementi che ripropongono un uso nuovo dello spazio urbano ad un pubblico che diventa attore in un’azione collettiva che per un momento potrà restituire il rito tribale, la danza e il gioco di cui si è perso, per troppo tempo, il significato. Le strutture gestuali e il mascheramento urbano. Mentre si acuiva la frattura tra i componenti del gruppo Azionecritica, la collaborazione con l’Odin Teatret proseguì ancora, fino a quando fui convocato dall’emergente Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera (1976), che ebbe l’idea di avocare a sé gli impulsi stranieri che sconvolgevano il mondo culturale di quegli anni. Fu in quella fatidica atmosfera da “carbonari dell’avanguardia teatrale” che ebbi modo di conoscere e frequentare personaggi che reputavo, fino allora, mitici e intoccabili, scrutabili solo attraverso le pubblicazioni o i notiziari dei media internazionali. Oltre all’Odin Teatret di Olstebro conobbi Peter Schuman, creatore del mitico teatro americano del Bread and Puppet, con cui da sempre ebbi divergenze di opinioni a proposito di maschere, di tecniche e orientamenti artistici, ma che pure mi riconosceva grande professionalità. E ancora, la collaborazione con il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, che allora aveva posto radici in Italia, poiché non gradito negli USA a causa delle proprie idee politiche; poi, Jerzy Grotowski, grande guru teatrale polacco di nascita, ma di antiche estrazioni indiane, per quanto riguarda la ricerca sul teatro d’avanguardia; e altri che di lì a poco avrebbero segnato con la loro presenza il “palcoscenico” del nuovo teatro occidentale.12 Ebbi modo di conoscere e divenire amico anche di importanti personalità del teatro orientale: Hideo Kanze, ultimo rampollo della più antica famiglia d’arte giapponese del teatro Nô; Krishna Nanboudiri, riconosciuto Bramino del Malabar, danzatore del Katakali, teatro-danza indiano; i Made Banden, attore danzatore del Topeng, teatro in maschera balinese. Durante anni di fervida collaborazione, trovai modo di addentrarmi maggiormente nei segreti delle maschere orientali: questo mi permise, negli anni ottanta, di iniziare una serie di scambi culturali, con cognizione di causa, proprio con quei luoghi (Giappone, Indonesia, India) in cui le maschere rivestivano ancora un ruolo primario, non solo nella vita culturale, ma anche in quella rituale, religiosa e sociale. La lunga collaborazione con il centro di Pontedera avviò altre attività che mi permisero di compiere estenuanti tournée attorno al mondo portando con me, allo scopo di divulgarle, sia le esperienze sulle maschere tradizionali, dalla Commedia dell’Arte al teatro del Novecento, sia quelle innovative e pluridisciplinari della maschera totale o struttura gestuale, sia quelle del mascheramento urbano. 12 Anni addietro durante una celebre Biennale di Venezia, seguii un seminario di Grotowski realizzato in una delle isole abbandonate della laguna e fui “testimone” delle cerimonie realizzate nel corso dei progetti pilota dell’evento. Collaborai successivamente con Riszard Cieslak uno dei maggiori attori del Teatr Laboratorium diretto da Grotowski a Wroclaw in Polonia ove tenevo un seminario sulle maschere teatrali. 20 Quest’ultime svolsero ben presto un ruolo di primaria importanza nell’attività artistico-culturale del decennio successivo. Consideravo Lecoq come un fratello maggiore e avevo con lui frequenti scambi di opinioni, non sempre tranquilli, a proposito di politica, arte e orientamento teatrale. Qualunque fosse il risultato, tali confronti suscitavano in me ripensamenti, profonde riflessioni che avevano il potere di modificare decisamente e di correggere la mia linea di ricerca. Nel 1977 assistevo ad una serie di lezioni all’Ecole de Beaux Arts di Parigi, che Jacques teneva sul tema “architettura del movimento”, in cui si usavano asticelle di legno, cartoni piegati, spaghi e corde per tracciare i confini nello spazio. Man mano che le strutture prendevano forma, diventavano il prolungamento e completamento necessario dell’azione gestuale dell’attore per acuire una tensione espressiva, per rendere drammatica una superficie. Ad un tratto Jacques mi chiese, provocatoriamente, se avessi mai pensato di utilizzare le mie sculture in metallo in quella guisa, cercando cioè di renderle vive, adoperandole in un contesto teatrale, in funzione gestuale. Fu come se avessi ricevuta una scarica elettrica. Certo, non avrei mai potuto manipolare nell’aria quintali di acciaio, ma avrei potuto dirottare l’attenzione verso una scultura costituita da materiali differenti, potenzialmente usufruibile anche nello sviluppo del gesto e del comportamento; non più scultura fissa, dunque, da mostrare in luoghi più o meno deputati all’arte, ma scultura fruibile, tangibile anche da parte del pubblico. Il concetto di scultura-maschera che vive all’interno di un rito, di un evento, avrebbe potuto così inserirsi anche in una scultura oggetto. L’occasione venne grazie ad un invito della Biennale di Venezia a partecipare ad uno dei progetti pilota di sperimentazione teatrale, tanto in voga in quegli anni. Decentramento nel territorio fu chiamata l’operazione e a me fu assegnata Mirano,13 una delle cittadine dell’entroterra veneziano. L’esperimento culturale avvenne all’interno di un’antica villa veneta, in una nobile casa dogale; attraverso stimolazioni di vario tipo si trattava d’instillare nei partecipanti la creatività, l’arte e il teatro, con l’ausilio di un seminario che avrebbe dovuto essere semplicemente di supporto alla maschera e che diversamente produsse ben altro e ben più che una semplice produzione di maschere. Gli interlocutori furono scelti tra gli allievi delle scuole disseminate nel circondario, oppure tra gli operai delle fabbriche del famigerato polo industriale di Marghera, in cui venivano convogliati a migliaia a manipolare materiali tossici e a inalare esalazioni venefiche. La tensione politica del momento creava malumori e malcontenti nelle classi più popolari, che si ritenevano usate e oppresse dalle multinazionali del petrolio. Il clima di reazione era palpabile: barricate nelle 13 Nel quadro dello stesso progetto promosso dalla Biennale di Venezia del 1977, alcune cittadine dell’entroterra furono assegnate ad noti operatori culturali, quali Giuliano Scabia che operava a Mira con la sua poetica giostra e Dario Fo, che pur lavorando nei teatri di Venezia e Mestre, frequentemente ci raggiungeva a Mirano per collaborare con il nostro gruppo. 21 strade, copertoni bruciati, sfilate di cortei vocianti erano all’ordine del giorno, tanto che facevamo sempre più fatica a raggiungere nei tempi e negli orari programmati, i laboratori designati. La reazione e la rabbia diventarono i temi creativi da svolgere. Le maschere che emersero dai laboratori erano drammatiche, non forme teatrali di un passato romantico, ma di vita vissuta. Erano maschere antigas, maschere di morte, erano coperture e schermi di protezione corporale, erano toraci intubati, trapassati da canne che inalavano ossigeno vitale, erano torsi contorti dalla sofferenza e dal dolore: furono questi gli oggetti creati con il nostro aiuto e i nostri suggerimenti, una drammatica denuncia dello sfruttamento sociale, una presa di coscienza dell’essere esposto al cancro, all’edema polmonare e a tanti altre malattie professionali. Le emozionanti sculture furono il segno tangibile dell’emblematica e inquietante attenzione del folto pubblico, accorso sulla piazza del paese per assistere ad una sorta di saggio-performance conclusivo del seminario-laboratorio. La ragnatela acrilica, preventivamente stesa, copriva ogni dove, compreso lo spazio aereo sovrastante la piazza; alla fine della performance la reazione del pubblico fu scatenata, tanto da assumere l’aspetto di danza catartica collettiva in un’apoteosi di gesti liberatori e scaramantici nel tentativo di appropriarsi di quel tenue reticolo aereo, fluttuante al vento; ed iniziò un gioco collettivo tra grida gioiose e risate aperte fino a che, molto più tardi sull’impiantito non rimase che qualche scampolo della materia. Il resto era stato consumato in una sorta di fruizione completa dell’opera d’arte da parte di un pubblico vorace che aveva deciso di divenire (finalmente) attore. Le figure anatomiche in questione erano state, in questo caso, il media-catalizzatore della partecipazione del pubblico. Le matrici furono realizzate attraverso calchi di varie parti anatomiche di persone prescelte tra i molti volontari e poste in un atteggiamento plastico, cristallizzato in un gesto o una postura preordinata. Sul negativo in gesso venivano stesi strati di cartapesta, oppure celastic (particolare tessuto plastico simile alla cartapesta) e solo successivamente venne messa a punto una tecnica particolare che permettesse la realizzazione di un positivo in cuoio. Era nata la prima forma scultorea utilizzabile, una sorta di figura antropomorfa emblematica, una “novella supermarionetta” ad uso gestuale o esposta, una sintomatica presenza di azioni e performance urbane. Venne battezzata struttura gestuale in ricordo di Jacques Lecoq, che per primo mi trasmise le pulsioni per la sua realizzazione. Nell’immenso panorama che la cultura umana ci offre a proposito di maschere e mascheramento, vi sono alcuni esempi di reperti utilizzati in maniera atipica: oggetti che non servono a coprire il l’intero corpo o una sua parte, ma che a rappresentare una determinata identità, presentati in danze e riti collettivi, quasi simboli di un determinato status. Presenze dotate di vita a sé, manovrate e gestite dallo sciamano, fabbro o brujo, quasi questi fosse il servo di scena del Bunranku o del teatro 22 orientale, a disposizione dell’arnese sacro e rituale, per prestargli il movimento e per farlo vivere attraverso le movenze del donatore. Nella civiltà occidentale solo alcuni mostri sacri dell’arte contemporanea (Picasso, Mirò, Klee) già dagli inizi del secolo seppero cogliere il messaggio di questi oggetti d’uso, opere nate per servire, non per assolvere una mera funzione estetica. Le problematiche sollevate negli anni Sessanta, la messa in discussione dei valori dell’arte, il tentativo di ridimensionare la funzione della cultura, fecero sì che il teatro e l’arte visiva, la musica e la danza si mescolassero, grazie anche ad innovatori che crearono un’arte pluridisciplinare e multimediale. Tale sperimentazione tendeva a rovesciare il ruolo della scultura-oggetto, esposta nelle gallerie e nei musei, fino a modificarne la funzione, animando sculture viventi in grado di dare stimoli e messaggi tramite azioni teatrali, gesti della danza, e addirittura della Body Art. Le strutture gestuali sono un incontro tra la maschera e la scultura contemporanea; la forma plastica perde ogni senso meramente estetico per assumere un’identità altra, creativa, comunicativa. Sino a quel momento agivo da solo, coadiuvato talvolta da collaboratori che frequentavano lo studio-laboratorio, talvolta da allievi che partecipavano ai corsi, lezioni, seminari; mi potevo permettere un’agilità di movimento che mi conduceva, tra viaggi ed attività, in ogni angolo del mondo. Quasi tutti gli spostamenti internazionali erano legati alla mia attività professionale. Spesso accompagnavo e curavo personalmente gli allestimenti di complesse esposizioni sulle maschere di teatro, create da mio padre e da me. Successivamente le mostre si arricchirono di molti elementi inerenti la ricerca sull’ambiente, il mascheramento urbano e le nuove sculture-maschere totali o strutture gestuali. Spesso le grandi esposizioni coincideva con i festival teatrali internazionali, e sovente venivano completate da workshop affollati da professionisti che gravitavano attorno al teatro di ricerca: registi, attori, scenografi, artisti delle arti visive, scultori, pittori. Si stava realizzando concretamente un mio antico progetto, la fusione di due essenze distinte della mia identità artistica, l’una appartenente all’ambito teatrale, l’altra alla dimensione plastica. Ricordo che a Bergamo, all’interno dell’Atelier Internazionale del Teatro di Gruppo del 1977 diretto da Eugenio Barba, preferii cercare spazi esterni per esporre le nuove maschere totali e creare degli ambienti collegati con l’architettura antica della città alta, realizzati con la ragnatela acrilica. Fu una cornice strabiliante per le decine e decine di performance realizzate da gruppi provenienti da tutto il mondo, che si esprimevano attraverso il gesto, la danza e il teatro per le vie della città. L’anno successivo il Ministero del Turismo e Spettacolo, la Regione Toscana e il Centro di Pontedera organizzarono una vasta tournée in America Latina che avrebbe portato per molti mesi una grandiosa mostra all’interno di festival teatrali, università, musei e strutture culturali di Venezuela, Cuba, Messico e Guatemala. In ogni paese furono promossi seminari-laboratorio che si sarebbero conclusi ciascuno con un evento teatrale o un mascheramento urbano. Ebbi modo, ancor 23 più, d’incontrare straordinarie personalità del teatro internazionale, contatti che si trasformarono successivamente in amicizie e collaborazioni. Venni a contatto con la Mama di New York Ellen Steward, ebbi modo di scambiare opinioni sull’arte contemporanea con Tadeus Kantor, presente all’immenso Festival del Teatro delle Nazioni di Caracas per la prima mondiale di La classe morta. Con lui mi confrontai a proposito del reciproco lavoro sull’arte pluridisciplinare che, esulando dall’ambito specifico del teatro, si diramava verso altre discipline creative. Peter Brook venne a visitarmi presso l’Accademia di Belle Arti dove insegnavo, perché da sempre la maschera lo affascinava. Laggiù incontrai anche Lecoq; assieme assistemmo al nuovo spettacolo dello straordinario gruppo di allievi della sua scuola, i Mummenschanz, che erano giunti all’apice di una straordinaria carriera. A Cuba, tra un’attività e l’altra, ebbi anche occasione di vedere Arafat, invitato da Castro all’undicesimo Festival della Gioventù, e scambiai con lui alcune opinioni sui drammatici eventi politici che funestavano la vita civile italiana. Più tardi, grazie ad un seminario-laboratorio, realizzato all’Università di Città del Messico, si realizzò un evento spettacolare in una delle più antiche piazze della città, che sconvolse positivamente l'opinione pubblica per lungo tempo. Il successo fu tale che venni invitato dall’Università a visitare e a conoscere molti dei luoghi, all’interno del paese, sconosciuti ai più e consacrati alle maschere. La conclusione del viaggio mi vide tra le foreste di uno straordinario paese com’è il Guatemala, uno tra i più vitali paesi per quanto riguarda le antiche tradizioni popolari, che prevedono l’uso di maschere secolari. La lunga tournée in America, oltre ad aver prodotto in me una serie di emozioni profonde e di esperienze uniche, mi convinse della necessità di raccogliere sistematicamente materiali etno-antropologici concernenti la cultura della maschera tribale, rituale e religiosa; da ogni viaggio ritornavo ricco di straordinari reperti che sempre più si rivelavano eccezionali per il ruolo privilegiato che andavo assumendo lungo l’attività internazionale. In quei frangenti, mi era possibile ottenere permessi straordinari, per raggiungere luoghi e siti spesso vietati alla massa: reperti, maschere, costumi e strumenti che accompagnavano i riti mi venivano donati, oppure ne venivo in possesso attraverso forme di baratto, più raramente erano acquistati. La nascita del centro maschere e strutture gestuali. Raccoglievo via via una straordinaria collezione che ben presto avrebbe formato un ulteriore tassello da aggiungere al patrimonio della maschera. In quegli anni, le attività erano tali e tante che sovente dovevo eludere gli impegni per mancanza di tempo; avvertivo, inoltre, sempre più pressante la necessità di condividere la gravosa responsabilità legata all’insegnamento, all’organizzazione, alla ricerca sistematica. L’occasione si presentò quando conobbi dei collaboratori che accettarono con entusiasmo di condividere con me le incombenze 24 della nuova struttura emergente; si formò così il primo nucleo che dal 1979 prese il nome di Centro Maschere e Strutture Gestuali, organismo multiplo che gravita ancora oggi attorno alla dimensione della maschera, suddiviso in tre filoni fondamentali: • la maschera etno-antropologica; • la maschera di teatro, dall’antichità sino ai nostri giorni; • oltre la maschera. Quest’ultimo settore insisteva sulle più recenti ricerche pluridisciplinari riguardo il mascheramento urbano e le strutture gestuali. Il primo ad accettare il ruolo organizzativo e burocratico fu Roberto Terribile, già reduce da una burrascosa esperienza con il Living Theatre, in qualità di organizzatore delle tournée italiane del gruppo americano; Terribile presto si defilò, lasciandosi sostituire da Paolo Trombetta, un giovane scenografo con precedenti esperienze di teatro. Paola Piizzi, un neoarchitetto fresco di laurea della IUAV di Venezia, s’inserì successivamente nel gruppo, occupando un importante ruolo progettuale ed organizzativo, che tuttora perdura. Iniziò faticosamente e tra molte incertezze il lungo percorso che, attraverso peripezie e straordinarie avventure culturali, ci vede ancora uniti dopo un sodalizio che dura da più di un quarto di secolo. Per l’intero corso di quell’anno fu un continuo girovagare in Europa tra attività didatticolaboratoriali e allestimenti di mostre sempre più impegnative, tra la produzione di maschere per nuovi spettacoli teatrali e la progettazione di maschere urbane e spettacoli en plain air. Spesso i seminari venivano accompagnati dalle collaborazioni più disparate con attori, performers e artisti visuali; tra essi si rivelò essere un vero talento nell’interpretazione di personaggi della Commedia dell’Arte l’attore Mario Gonzales, reduce dall’esperienza presso il Théâtre du Soleil nello spettacolo L’âge d’or, diretto da Arianne Mnouchkine; la collaborazione si protrasse lungo una serie di attività seminariali a Bruxelles, in Belgio, a Como, un ciclo organizzato dal Piccolo Teatro di Milano e, più avanti, in Grecia, precisamente nell’isola di Zakintos, dove avemmo la ventura di contare, sulla partecipazione straordinaria dell’allora Ministro della Cultura, l’attrice Melina Mercury, che si esibì in interpretazioni di maschere femminili. Dopo una massacrante tournée nei paesi dell’Est, durante la quale toccammo Bucarest, Varsavia, Praga, Budapest e Belgrado, l’eco di tali attività giunse in Italia, insinuandosi nei meandri burocratici dell’edizione 1980 della Biennale-Teatro di Venezia. L’allora direttore Maurizio Scaparro, le cui aspirazioni innovative trasformarono la città in un immenso palcoscenico, mi mandò a chiamare perché presentassi un progetto coerente con la novità dell’evento. Desiderava far rivivere l’antico carnevale veneziano, sopito da secoli, per rivestirlo di un carattere oltre che ludico, anche teatrale e culturale. Quale occasione migliore per sfoderare la nuova maschera per un carnevale che avrebbe aperto una fase inedita per la città di Venezia? 25 Proposi un progetto che, tenendo conto delle istanze di Scaparro, esulasse dallo specifico teatrale in cui mi si voleva circoscrivere. Io ed i miei assistenti procedemmo liberamente con il prendere possesso del teatrino annesso a Palazzo Grassi, sede espositiva delle grandiose mostre veneziane; lo liberammo delle vecchie poltroncine, aprendo un inconsueto spazio-laboratorio. Assieme allo staff del Centro di Abano Terme, tenemmo un ciclo d’incontri presso l’Accademia di Belle Arti, con l’intenzione di selezionare collaboratori tra docenti e allievi. Convocammo dalla Polonia uno dei gruppi dell’avanguardia musicale l’Osmego Dnia Orkiestra, notato durante le recenti tournée nell’est dell’Europa, coinvolgemmo un gruppo di teatro di base dell’entroterra veneziano (Teatro Modo) ed uno di danza moderna (Charà) e cominciammo a lavorare potendo contare sulla presenza di almeno una sessantina di addetti. L’operazione prese il nome di Ambienteazione, termine che non lasciava dubbi sulla matrice del progetto; lavorammo giorno e notte per realizzare rilievi architettonici di zone della città, eseguimmo indagini storiche, procedemmo alla stesura di mappali per individuare i percorsi più congeniali alle rappresentazioni itineranti. Il palcoscenico e lo spazio interno furono utilizzati quotidianamente per prove di teatro e danza, oppure per studiare i metodi più validi per installare la fibra acrilica nei punti più emblematici di Venezia. Mentre s’avvicinava la data prefissata, cresceva proporzionalmente l’inquietudine causata dal poco tempo a disposizione per terminare ogni preparativo; negli ultimi quaranta giorni, per evitare di perdere tempo, il teatro divenne un enorme bivacco. I giorni precedenti al martedì grasso furono utilizzati dal gruppo per avviluppare calli, piazze, campanili, ponti ed edifici di una fibra bianca, che assumeva l’aspetto di una ragnatela gigantesca. Lungo il percorso l’invasiva materia acrilica creava degli spazi adatti ad azioni teatrali e performances, che avevano la funzione d’inserire l’elemento umano nel quadro dell’opera estetica, facendola vivere attraverso il gesto o la danza. La mattina del fatidico martedì, la giornata si presentava uggiosa e umida e Piazza San Marco appariva ai primi frettolosi passanti completamente mutata, mascherata sotto un’enorme tessitura di fili bianchi, che si stendevano dalla loggia del campanile sino a raggiungere le Procuratie vecchie e nuove, coprendo il cielo con una cupola aerea, una fluttuante massa ovattata che si gonfiava sotto la spinta della brezza marina, che ricadeva quando questa cessava, in una sorta di etereo balletto. La piazza prese a riempirsi di una rapida folla di curiosi, turisti, partecipanti all’evento artistico che assistettero per tutto il giorno a intrattenimenti teatrali, artistici e danze predisposte per l’occasione. Il miracolo avvenne tuttavia a sera, quando una straripante folla gremì la piazza in attesa dell’evento scatenante che neppure io ed i miei collaboratori avevamo previsto. Sotto i riflettori installati dalla RAI, al suono struggente degli strumenti musicali usati dal gruppo polacco, avvenne quello che mai mi sarei aspettato. L’imprevedibile fascino del momento e l’effetto sonoro che si propagava sulla 26 Piazza, seguendo il ritmo che il vento imponeva all’immensa coltre aerea, provocarono tra la folla l’esplosione di un’energia partecipativa che sino a quel momento era stata latente. Fu così che lo sterminato pubblico di ottantacinquemila persone prese a giocare con noi, appropriandosi dei fili che fluttuavano al vento, adoperandoli per un gioco collettivo di decine e decine di migliaia di mani che si agitavano nell’aria nell’intento di prendere, tirare, dipanare la ragnatela. Si celebrava così il primo carnevale senza maschere, ma coperto da un immenso unico mascheramento che dette inizio alla successione infinita dei novelli e redivivi carnevali veneziani. Se per Venezia, il mascheramento fu l’inizio del moderno carnevale, per il Centro Maschere, in collaborazione con Ambienteazione, fu l’inizio di una fortunata serie di seminari, performances e mascheramenti urbani che in alcuni anni di attività toccò altre città: Genova, Trieste, Napoli, Padova, Milano e, più tardi, Bologna e Firenze. Gli eventi, lungi dall’essere equivalenti a spettacoli teatrali, sempre uguali a se stessi in ogni tappa delle tournée, richiedevano particolari e specifici progetti per ciascun sito, verifiche delle istanze sociali, culturali, architettoniche. Fu per questo che la “spettacolazione” e il mascheramento del Maschio Angioino a Napoli fu completamente diversificata da quella realizzata a Padova o a Milano, dentro e fuori dal Castello Sforzesco, o da quella macchinosa realizzata in Piazza della Signoria a Firenze, dove fu necessario utilizzare dei voluminosi palloni aerostatici, gonfiati a elio, che permisero di costruire una cupola di materiale effimero, antitetica a quella del Brunelleschi. Gli anni Ottanta e Novanta registrarono un numero crescente di interventi in Europa, tra esposizioni costantemente itineranti, attività pedagogiche, installazioni e mascheramenti urbani, richiesti anche nel resto del mondo, in America latina, negli U.S.A e nel medio ed estremo Oriente. Furono anni intensi anche per la progettazione e l’allestimento di mostre a tema che attraverso la promozione del Ministero degli Affari Esteri italiano, nel quadro di scambi culturali tra Italia e i paesi del mondo, ci portarono in tournée africane (Nigeria, Tanzania, Ghana e Costa d’Avorio) e in altre capitali come Mosca, Tokyo e Pechino (ove assistemmo alla feroce repressione dei moti studenteschi in piazza Tien-An-Men), e poi a Houston, negli USA, e reiteratamente a Rio de Janeiro, in Brasile. Il museo vivente. Introducendoci nel tessuto culturale dei diversi paesi visitati, approfittavamo per raccogliere materiali, documenti e reperti che sarebbero serviti per un’idea che veniva a prendere forma con crescente urgenza, la creazione della casa delle maschere, un luogo in cui riporre un patrimonio di materiali creati e raccolti attorno al mondo, nel corso di tre quarti di secolo, la maschera, cercata dentro e fuori dal teatro e nei più remoti angoli del pianeta, tra etnie e religioni differenti. Quello che interessava maggiormente era realizzare un punto di riferimento in Italia, in Europa, nel mondo che si riferisse in modo esclusivo alla maschera, strumento utile alla 27 comprensione della storia culturale dell’umanità. Quasi tutti i musei di etnologia o etnografia, quelli di storia e cultura dei popoli, quelli di arti e tradizioni popolari o quelli dedicati all’antropologia umana contengono un settore più o meno importante riferito alle maschere nei più diversi e specifici significati, ma nessuno di questi viene dedicato solo ed esclusivamente a questo straordinario strumento comunicativo. Il sogno di quegli anni era quello di costituire un luogo ove poter mostrare, e far comprendere il ruolo, la funzione ed i significati che la maschera ha avuto in ogni dove, in ogni epoca, dai primordi della civiltà, un luogo di indagine sulla sua comparsa, dal teatro alle arti visive, dalle danze e riti tribali alle feste popolari, per sconfinare provocatoriamente nel mondo della moda o dei mascheramenti civili e di protezione, del lavoro o dello sport. Cercammo e cercammo, io ed i miei collaboratori del Centro Maschere e Strutture Gestuali, visitammo siti, zone e ambienti, case coloniche, castelli abbandonati e una miriade di ville venete presenti a profusione nella nostra regione con l’intento di poter trasferire uomini e cose, di creare una sorta di luogo polivalente che avesse la funzione di scuola e museo dai grandi spazi ove mostrare, recitare, costruire, abitare e studiare, un luogo ove creare insomma. L’occasione venne dalla “soffiata” di un amico che ci indicò uno spazio ideale: una grandiosa, villa veneta del ’700 sita nella pianura tra Padova e Vicenza e lambita da un canale che, un tempo navigabile, conduceva nobili e prelati a bordo dei burchielli sino alla Serenissima. Disseminati nel vasto parco attorno alla villa padronale, barchesse e magazzini, per stivare i prodotti della campagna, vaste stalle e fienili, persino uno squero, antico riparo per le imbarcazioni, infine, un oratorio. Purtroppo le condizioni degli immobili erano precarie se non addirittura pericolanti, il parco era divenuto un fitto bosco e gli impianti ed i servizi erano fuori uso. La proprietà degli immobili spettava a un ente morale e religioso che aveva utilizzato tali spazi negli anni passati per gestirvi un orfanotrofio; di questo utilizzo rimanevano tracce con i crocefissi ancora appesi alle pareti, confessionali sfasciati ed inginocchiatoi zoppi. Dopo un lento e lungo processo di ripristino avviammo i laboratori, trasferimmo gran parte dei reperti nel corpo centrale della villa ove allestimmo un’essenziale ma rappresentativa esposizione che riguardava i tre filoni fondamentali della nostra ricerca sistemati in altrettante aree della struttura architettonica. Inventammo degli spazi teatrali straordinari sia all’interno dei grandi saloni che all’esterno, inseriti nel verde rigoglioso del ritrovato parco. Furono anche anni in cui si mise a punto una reticolare attività pedagogica denominata maschera gesto e narrazione in cui furono inserite poliedriche attività multimediali quali performances teatrali, artistiche e comportamentali (body-art e simili), sonore e altre inerenti il gesto (danza Buto, acrobatica, ecc.). Tale attività fu rivolta alle scuole di ogni ordine e grado, sino alle Università non 28 solo italiane. Furono migliaia gli studenti e i docenti provenienti da ogni città ospitati in villa, negli ambienti del museo e negli annessi spazi teatrali e virtuali per trascorrere un viaggio attraverso la maschera, un volo virtuale tra le infinite civiltà delle maschere tribali, rituali ed etniche e della maschera teatrale presente sui palcoscenici di tutto il mondo e non solo occidentale. Tutto ciò, comportava naturalmente una considerevole presenza di persone, specialisti, docenti e tecnici, per non contare l’assidua collaborazione ed il prezioso aiuto da parte di tutto lo staff del Teatro del Sole di Milano diretto da Serena Sartori, figlia minore di Amleto. L’immane sforzo fisico ed economico avrebbe dovuto essere premiato più avanti con l’immissione della scuola laboratorio, museo e teatro in un circuito istituzionale con finanziamenti pubblici provenienti dalle casse, oltre che ministeriali anche da quelle locali: della Regione e Provincia del Veneto e del Comune di Padova; tutto ciò avrebbe permesso di proseguire il nostro percorso pedagogico, culturale e artistico, a detta dei sorridenti e disponibili politici democristiani dell’epoca. Furono anni di stringente attività internazionale che videro, negli spazi maestosi della villa veneta, la presenza delle più belle figure del teatro. Nel quadro del baratto culturale era giunto il momento, dopo aver presenziato per anni ad importanti eventi, di invitare presso la nostra sede gli ospiti di allora, cosa che fece del paesino di Arlesega, una piccola capitale del teatro nel Veneto. In una sorta di carosello teatrale si avvicendarono grandi personalità, come Dario Fo e Franca Rame, Ferruccio Soleri, Jacques Lecoq, e Yves Lebreton e molti eccellenti rappresentanti del teatro Nô e del Kyogen giapponesi, il Topeng balinese, il Kuttyattam indiano e altri provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dagli USA. Per quasi un decennio tenemmo duro con le sole forze provenienti dalla nostra frenetica attività internazionale sempre dalle promesse di interventi istituzionali. Poi la catastrofe. Uno ad uno i nostri referenti istituzionali furono travolti da squallidi scandali politici, storie di corruzione e di miserie che crearono il vuoto tra le istituzioni pubbliche italiane. Il desolante panorama istituzionale travolse senza speranze tutto il mondo politico ed economico, ma chi ci rimise furono soprattutto i quanti operavano nei settori della cultura. Dopo qualche tempo i cancelli della villa sino allora sempre aperti al giovane pubblico, rimasero chiusi per sempre. Gli anni successivi videro il nostro tempo occupato tra la casa laboratorio di Abano Terme, ridente cittadina termale alle porte di Padova e le lunghe permanenze all’estero, quasi un esilio forzato ove si era, sempre e comunque, largamente riconosciuti in virtù della nostra longeva attività professionale. Tra le varie attività emerge il caso di una richiesta da parte di un prestigioso teatro, il Folkteatern di Gävle in Svezia, diretto da Peter Oskarson, di riesumare dalle profondità di un lontano passato, le maschere medioevali nordiche, retaggio di una gloriosa epopea vichinga. 29 L’ambizioso progetto World Theatre Project, parte di un ben più vasto programma europeo, si avvalse di un’entità teatrale svedese che prevede tra le altre strutture logistiche, un attrezzatissimo studio-laboratorio Maskverkstaden che dirigo da quasi dieci anni e utilizzo con i collaboratori dello staff nordico come punto di monitoraggio per la ricerca storica, sperimentazione e realizzazione di sculture, maschere, strumenti ed oggetti impiegati all’interno della complessa struttura teatrale internazionale. 14 Nello stesso ambito, la recente produzione della complessa trilogia di Eschilo, l’Orestea diretta da Peter Oskarson, ci ha permesso di effettuare vari viaggi di studio nei siti previsti per la ricerca storica e la messa in scena dell’opera greca: in India, in Mozambico e in Grecia per conoscere ambienti, teatri e luoghi religiosi in essa citati. Per mettere a punto le centoquaranta maschere realizzate con nuove tipologie e tecniche costruttive, sperimentammo approfonditamente l’acustica prevista per i cori greci, potendo così metterle a confronto con altre, realizzate oltre cinquant’anni fa da mio padre, con la regia di J.L. Barrault per la medesima tragedia. Ricerca e riscoperta delle antiche maschere del grande nord Europa. La convocazione, per quanto deferente, emanava tra le righe quel tono di elegante perentorietà che mi incuriosì non poco. Suonava pressappoco così: “se il lavoro di ricerca attorno alla maschera teatrale della vostra famiglia ha permesso la riesumazione o la rinnovazione della maschera della Commedia dell’Arte vi saremmo grati se voleste affrontare il complesso tema della ben più antica maschera norrena, scomparsa da almeno un millennio dalle lande culturali del profondo nord europeo”. Il guanto della sfida era gettato. Dopo breve tempo mi ritrovai in una sperduta isoletta dell’arcipelago danese a far parte di un eterogeneo gruppo di ricerca attorno alle radici della mitologia nordica, maschere comprese. Facevano parte di quel nucleo, registi, attori e danzatori, docenti, studiosi e storici della cultura scandinava. Quel che più stuzzicava la mia curiosità era la presenza di un folto gruppo di attori, musici e danzatori provenienti dalle più disparate parti del mondo. Il tema fu Il viaggio; presero dunque consistenza antiche saghe e credenze nordiche popolate da miti, dei ed eroi in eterno conflitto tra loro. Ci trascinarono con la fantasia nella la mitologia nordica elargita a profusione attraverso conferenze, lezioni, proiezioni di fantastiche immagini dell’iconografia runica da parte dei numerosi storici presenti. Iniziarono subito dopo i laboratori sul tema: quelli di teatro che cercavano di dar corpo e gesto alle fantasmagoriche figure che oramai aleggiavano, concrete, tra di 14 Il World Theatre Project si avvale della collaborazione di gruppi internazionali: Opera di Pechino di Shangai diretta da Ma-Ke, Cina, Natana Kairali centro per la danza Kuttyattam e Katakali diretto da Gopal Venu, Kerala, India. Teatro Avenida, danze di guerra africane, Mozambico Folkteatern di Gävle, Svezia, diretto da Peter Oskarson e il Centro Maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme. 30 noi e quelli delle maschere che faticosamente presero forma nei tratti della creta sotto gli occhi degli stessi attori che con la loro presenza cercavano di integrarsi sempre più, quasi ad osmosi, nel ruolo del personaggio da interpretare. Il mio, di ruolo, era quello di condurre il disomogeneo gruppo di attori, danzatori, musici e quanto altro attraverso tecniche e forme plastiche alla ricerca fisiognomica delle figure che popolavano il maestoso cupo selvaggio mondo nordico dalle radici senza fine, in cicli implacabili di distruzione e rinnovamento che esaltavano e travolgevano divinità maligne e benigne, eroi, elfi, folletti, valchirie, nani, streghe, giganti e coboldi. Ed ecco apparire l’autoritaria e terrifica immagine di Odino, capo dell’omonima Odinsjagtem, del suo sfortunato figlio Baldr tradito e ucciso dal lupo Loki, di Thor il dio dal terribile martello. Fu la volta degli esseri terricoli, fantastici abitatori delle lande scandinave, delle immense foreste, dei laghi e dei fiumi, acque per la maggior parte del tempo dell’anno gelate e imbiancate da una eterna coltre nevosa: presero forma dispettosi trolls e gnomi che custodiscono i segreti del bosco, le Vittra, sorta di maligni spiriti femminili capaci di mutare aspetto e trasformarsi in qualsivoglia essere vivente, la fantastica Skugs-Rå a metà tra fata e strega con le tette lunghe e i capelli corvini che cammina a mezz’aria tra i muschi del sottobosco e che seduce gli abitatori (maschi) della foresta, siano essi coloro che ne traggono beneficio: cacciatori, boscaioli, carbonari o siano quelli che ne traggono rifugio: briganti, fuggitivi, eremiti e quanti altri nel poliedrico mondo arboricolo possano esistere. Ma il contatto amoroso della Skugs-Rå produce pazzia e dalla demenza alla morte. Può avvenire anche il contrario, la nascita di una famiglia felice ed un’esistenza boschiva, incantata, positiva. Tra le figure più emblematiche che trasparivano dalle saghe medioevali narrate dagli storici emerse una presenza diabolica straordinaria, un demone gigantesco, il terrifico condottiero della Wilde Jagd che cavalcava alla testa dell’orda composta da inferiche anime di morti narrata in una oramai famosa Mirabilia trascritta dall’amanuense diacono anglo-normanno Orderik Vitale e ambientata nel 1 gennaio dell’anno del Signore 1091. Familia Herlechini est mormorò l’atterrito astante, il prete Gauchelin che, secondo la narrazione di Vitale, si trovò proprio nel bel mezzo della caccia selvaggia, l’esercito dei morti che sfilava dinanzi al suo sguardo attonito. Erano schiere di fanti gementi, oppressi sotto il peso di pesantissimi fardelli, sterratori che trasportavano decine di barelle cariche di nani con la testa smisuratamente grande a forma di vaso, etiopi (demoni) neri, che torturavano assassini morti di recente; e ancora un gran numero di donne discinte che cavalcavano sedute su delle selle irte di chiodi roventi, monaci e preti guidati da vescovi e abati che componevano l’esercito degli oscuri cavalieri che cavalcavano enormi destrieri vomitanti fuoco dalle nari. 31 Era per me la scoperta di un mondo fantastico raccolto e trascritto dai racconti orali della tradizione popolare dagli amanuensi sparsi, con l’estendersi dei territori cristianizzati, in tutto l’immenso nord dell’Europa. Nacque infatti la prima Hure, ghigna diabolica di Hellequin, colui che sembra essere stato il più insigne avo di quell’Arlecchino che calcò le scene rinascimentali del teatro dell’arte italo-francese e che raggiunse notorietà internazionale in tutto il mondo conosciuto dell’epoca. Arlecchino psicopompo in grado di trasferirsi senza danno da una parte all’altra della linea di confine che separa la vita dalla morte, capace di compiere viaggi sciamanici dall’aldiquà all’aldilà, prese vita attraverso decine di sculture–maschere modellate da me e mosse ed interpretate da quelli stessi attori che ne seguivano l’invenzione e la costruzione. Fu l’inizio di un’avventura che durò per quasi un decennio; l’esperienza danese produsse infatti un positivo riscontro presso le alte sfere del Ministero della Cultura svedese e Peter Oskarson riuscì a mettere in piedi quell’entità culturale che si chiamò: The World Theatre Project, i cui componenti e partecipanti giungevano dall’Africa (Teatrodanza del Mozambico), dalla Cina con un intero staff dell’Opera di Pechino, dall’India con la presenza di danzatori, musici ed attori del Teatro Kuttyattam del Kerala e naturalmente un folto stuolo di attori, registi e scenografi e quanto altro provenienti dal Folkteatern di Gävle, cittadina situata a nord della Svezia. Per lunghi periodi ci trasferivamo in un minuscolo villaggio dell’ Helsingland, regione confinante con la gelida Lapponia, ove si trovava una estesa struttura isolata, immersa tra i boschi di betulle e conifere. Una vasta area urbanizzata nella quale erano inglobati: teatri, sale attrezzate per la danza, straordinarie ed accoglienti casette in legno costruite nel tipico stile nordico che ci fornivano l’ospitalità, ampi spazi di lavoro, l’accogliente mensa e, con mia grande soddisfazione, venne approntato un grande atelier allestito su mio progetto costituito da un laboratorio di scultura, una falegnameria, sale da disegno, vani e attrezzature per colorare, verniciare, dipingere e disegnare, insomma, creare. Non potevo desiderare di più. Si lavorava su progetto; temi teatrali che scaturivano dalla storia e dalla cultura nordica medioevale, epoca a cui si facevano risalire le succitate figure mitologiche che prendevano forma attraverso la fissità della maschera. I mesi scorrevano in un intenso lavoro di equipe, gli attori spesso venivano in laboratorio a verificare lo stato di avanzamento delle maschere. Potevo contare su un nutrito staff di laboratorio composto da artisti provenienti dalle arti visive, scenografi, perfino da attori che volevano imparare l’arte della maschera. Perfezionammo tecniche scultoree differenti da quelle che avevo portato dall’Italia, imparai perfino l’arte conciaria, derivata da antiche tecniche vichinghe di lavorazione del cuoio. Potevo permettermi di consultare degli specialisti e invitarli, ospiti presso di noi per trasferirci il loro sapere. La Svezia, paese dalle grande risorse boschive e forestali mi affascinava per il rispetto che dimostravano i suoi abitanti nei confronti della natura; la mia considerazione 32 raggiunse l’apice osservando l’architettura abitativa disseminata in un territorio grande più dell’Italia ed abitata solamente da meno di una decina di milioni di persone, case, cascine, nuclei abitativi, villaggi e paesi infatti sono costruiti totalmente in legno secondo antiche regole per permettere al calore di rimanere entro l’ambiente senza dispersione di sorta. Tronchi ancora intagliati a mano per raggiungere la perfezione d’incastro, fibre vegetali utilizzate per il coibente termo-acustico, architetture organiche che si inseriscono perfettamente nella natura facendone quindi parte integrante erano, ai miei occhi di occidentale frenetico, miracolo di cui credevo non fosse possibile l’esistenza. Mi affascinavano soprattutto le tecniche costruttive arcaiche, eppure così moderne, che ancora permeavano cultura ed ambiente. La tecnica di intaglio che appresi da mio padre si limitava alla sgorbia, strumento secolare che, soprattutto nell’area alpina, era in uso presso gli scultori e intagliatori del legno. Questo straordinario strumento, oggi da noi oramai di difficile reperimento, nei Paesi nordici raggiunge livelli di perfezione mai visti, forme e fogge di straordinaria fantasia ed efficienza a cui si aggiunge un oggetto ancor più straordinario, l’ascia da intaglio che per forme e tipologie diverse diviene uno degli strumenti cui scultori, intagliatori, artigiani e molti altri ricorrono per realizzare le loro opere creative. Asce forgiate nel più resistente degli acciai svedesi, con tempre regolate e rinvenute per ciascuno degli svariati legni scultorei presenti nelle foreste nordiche. Un famoso scultore in legno, Per Nilsson Öst, oramai novantenne un giorno ci fece visita all’atelier. Io e i miei allievi gli facemmo corona, consci di essere in procinto di assistere ad un evento straordinario. Dopo un breve preambolo infatti egli cominciò a scolpire un blocco di legno ben stagionato con una piccola ascia, dalla foggia strana che, a suo dire, era stata forgiata a sua misura da un famoso fabbro del nord. Fu un evento indimenticabile vedere quel vecchio scultore, oramai sordo e stanco nel portamento, prendere energia dal contatto con il legno, assumere una postura oserei dire eroica mentre con colpi precisi percuoteva con la lama il tronco che prendeva forma man mano che le scaglie di legno saltavano, volando allegre per tutta la stanza. Era una testa che lentamente appariva, maschile a detta dei baffi che adornavano il labbro superiore, capii dal sorriso sornione del maestro che stava realizzando il mio ritratto che di li a poco mi regalò. Fu una lezione di alta tecnica scultorea che segnò profondamente il mio animo e dal quel momento decisi di ridiventare ancora una volta allievo per apprendere tutti i segreti di quella che per me era arte sublime. Notai inoltre che molti dei miei allievi portavano il coltello pendente dalla cintola; curiosità che decisi di appagare informandomi. Scoprii che le meraviglie del profondo nord non erano ancora finite. La straordinaria produzione di coltelli stava per essermi svelata dai racconti, dalle testimonianze e dalle visite compiute nei villaggi di mezza Svezia. Il coltello, questo 33 sconosciuto, mi apparve in tutta la sua grandiosità attraverso l’opera di veri e propri artisti della lama; acciai trattati e forgiati nelle più svariate forme erano lavorati nelle più disparate officine, perlopiù casalinghe dell’entroterra svedese. Stava trasparendo un mercato del tutto nuovo ai miei occhi, non ufficiale, solo per raffinati addetti ai lavori ed esperti, ma lungi dal credere che codesti esperti fossero una rara realtà mi resi conto che i conoscitori ed intenditori di lame erano molti, moltissimi, addirittura quasi tutti. Quello che mi provocò maggior stupore fu che i coltelli, tra i più belli che avessi mai visto nei miei numerosi viaggi attorno al mondo, non si potevano reperire nei negozi, nelle botteghe o presso i normali mercati bensì presso i canali assolutamente privati, talvolta sotterranei di cui solo gli adepti ne erano a conoscenza. Venni accompagnato e introdotto anche in questo straordinario ambito e cominciai la mia ricerca. Acquistai delle meravigliose lame da intaglio, da rifinitura, da scultura come non avrei mai potuto sognare. Imparai il loro uso ed i segreti inerenti a ciascuna delle forme in relazione ai vari tipi di essenze lignee, presi l’abitudine, anch’io come loro, di portare al fianco una lama, quasi a prolungamento e potenziamento degli arti superiori. Tengo a precisare che perdetti questa consuetudine non appena rientrai in Italia dato l’assai diverso concetto nei confronti di questo strumento che aleggia presso di noi popoli latini. Le maschere erano sperimentate dapprima nel teatro, e in base ai risultati, modificate secondo le istanze e le variabili sceniche. Ne nascevano personaggi che pian piano prendevano una forma concreta; maschera e attore divenivano corpo unico. Assistei a disperati momenti di crisi da parte soprattutto, delle attrici che non riuscivano, nonostante reiterate prove, ad integrarsi nel ruolo ( Non va dimenticato però che nei paesi nordici non esiste una cultura di teatro in maschera). Vi erano anche momenti commoventi: Amore folle nei confronti di questo viso di legno o di cuoio tanto che alcuni dormivano con le proprie maschere quasi a voler confondersi corporalmente con esse. D'altra parte potevano verificarsi rapporti di odio profondo che sovente provocavano violente crisi di rigetto; non era raro che attori pentiti venissero in laboratorio per chiedere umilmente di riparare i danni arrecati alla maschera durante raptus di follia. Le prove si succedevano alle prove e lo straordinario e differente staff lentamente si amalgamava. Gli esercizi di voce e di respirazione avvenivano di consueto all’alba, spesso all’aperto nella diaccia radura del bosco. Altre volte erano training di mimo, danza, non di rado di arti marziali che si svolgevano nel vasto salone delle danze; le maschere apparivano solo in teatro ed era ogni volta un evento quasi mistico. Ogni qual volta che un attore svolgeva la maschera dal tessuto in cui veniva, religiosamente, avvolta questa emanava una sorta di potere magnetico e spesso si assisteva alla visione di due esseri contrapposti, l’attore e la maschera, che si fissavano per lunghissimi minuti, fermi, quasi posseduti da uno stato di ipnosi reciproca. Poi il miracolo, la fusione di due energie che creava un essere 34 diverso: drammatico o ilare, dio o eroe, che emanava la sua identità nello spazio scenico. Sovente mi recavo ad assistere alle prove per verificare se il mio personaggio maschera viveva veramente o se vi era la necessità di ulteriori modifiche e cambiamenti. Era sempre una scoperta assistere all’interpretazione di Mr. Venu, capo carismatico della delegazione indiana, attore e danzatore alle prese con un personaggio della mitologia finnica o con un eroe norreno. Spesso l’interlocutore (teatrale si intende) era una figura fantastica, troll, gnomo, o folletto che sia interpretata dall’attore cinese Bai-Tao estrapolato a forza dalla sua natura di interprete dell’opera di Pechino. Anche i suoni avevano un’identità a dir poco multietnica se si considera che gli strani strumenti ad arco o a vibrazione erano suonati da interpreti orientali mentre il ritmo era sostenuto da percussionisti africani proveniente dal Mozambico oppure dal Kerala indiano. Creatività, modalità, sistemi e tecniche diverse anzi addirittura opposte tanto da divenire a volte stridenti tra loro cominciavano ad amalgamarsi in un'unica forma teatrale. L’integrazione fra di noi, diversi, appartenenti alle più diverse culture, avvenne progressivamente negli anni, grazie anche ai numerosi viaggi di studio nelle rispettive aree di pertinenza. Viaggio in India. Fu la volta della visita in India, presso una comunità religiosa del Teatro-Danza Kutyattam del Kerala, regione tra le più ortodosse di tutta l’India. Conoscevo bene il paese per essermi recato reiteratamente per motivi di studio (e perché no anche di svago) ma i riti e le feste mascherate cui assistei durante quel periodo furono tra i più straordinari dell’esperienza indiana. Eravamo ospiti a Natana Kairali, scuola di danza della dinastia Chakiyar, il guru dell’estesa comunità quasi centenario ci elargì una delle più commoventi performance di danza Kutiattam che mai ebbi la fortuna di assistere. Alla luce della fiamma di lampade rituali alimentate con olio di palma egli iniziò una sorta di movenza mimata al suono dei tamburi. L’antichissima danza di attinenza religiosa propria dei sacerdoti dei templi induisti si riferisce agli episodi narrati nei testi sacri del Ramayana e del Mahabarata. Dopo il battesimo iniziatico c’immergemmo, ciascuno nel settore di propria competenza, nello studio dell’arte e della cultura indiana: maschera, danza, mimica e postura, musica e canto. Venni accettato, in qualità di allievo ben si intende, presso l’atelier di un importante maestro conosciuto in Kerala come il più rappresentativo maestro di maschere Kutyattam e Krishnanattam ebbi così la rara opportunità di seguire da vicino la prassi di preparazione degli attori prima di affrontare il rito vero e proprio dinnanzi al pubblico. Generalmente la vestizione avviene all’imbrunire dopo una serie di preghiere e di cerimonie di devozione di fronte al fuoco della sacra lampada. Ciascuno degli attori inizia di fronte ad un piccolo specchio il proprio trucco con lo spalmare con le dita o con stecchette di bambù lungo le linee prefissate del volto strati di colori ottenuti polverizzando terre 35 policrome, ossidi e minerali impastandoli con olio di cocco; per il nero si utilizza il nerofumo rimasto sul fondo delle lampade votive, per il bianco polvere di conchiglia. Terminato il maquillage ci si affida alle cure del maestro di maschere che tenendo fra le gambe incrociate la testa dell’attore supino appone un impasto di riso, calce e polvere di conchiglia lungo linee e tratti prestabiliti e, attraverso una serie di cordoli, darà alla maschera un aspetto plastico a spessore. Questo metodo di mascheramento del volto, messo a punto in secoli di teatro religioso, ha la funzione di coprire il volto dell’attore con un materiale che si fletta e assecondi il movimento dei muscoli mimici dando la possibilità alla maschera di accompagnare, evidenziandola, l’espressività del danzatore. L’effetto definitivo avviene con l’inserimento di forme ritagliate dalle foglie di palma sui suddetti cordoli in modo da creare le caratteristiche alette o Kuttiyes ai bordi delle guance degli attori. La vestizione si concluderà con l’apporto di straordinari cappelli, spalline e pettorine bracciali, cavigliere, sonagli e quanto altro scolpiti in legno dolce, o plasmati nella cartapesta o nel metallo e finemente decorati. Le vesti larghissime e ornate splendidamente dai più svariati cromatismi concludono questa operazione che richiede un tempo variante dalle tre alle sei ore prima dell’entrata in scena tra musiche, salmodie e rullo di tamburi alla luce esclusiva di lampade a olio. Si compie così la preparazione dell’attore che poco prima di andare in scena inserisce un minuscolo seme (chundapu) di una pianta simile alla nostra melanzana sotto le palpebre, questo provocherà una violenta reazione della cornea che verrà iniettata di sangue in breve tempo donando allo sguardo bagliori sanguigni che con il riverbero del fuoco assumerà l’aspetto terrifico del Dio, dell’eroe, o dell’essere inferico. Quando gli attori del teatro del mondo erano immersi nei training quotidiani, in estenuanti prove di teatro , esercizi corporali e vocali , io ne approfittavo per visitare nella regione i laboratori dei costruttori della maschere per i riti, le danze e le feste del paese. Non di rado incontrai dei veri e propri artisti, scultori raffinati e , spesso , interpreti essi stessi delle maschere che il più delle volte rappresentavano personaggi della mitologia orientale, descritta nei libri sacri. Feci degli straordinari incontri; conobbi ad esempio l’ultimo discendente di una dinastia di maestri del Tolpava-Coothu teatro d’ombre indiano. Tool significa cuoio, pava pupazzo o marionetta e coothu rappresentazione. È un genere teatrale che utilizza marionette con i corpi piatti quasi trasparenti in cuoio grezzo e policromo, snodati nei punti chiave dell’anatomia, (braccia, gambe, testa, ecc.) e azionati a mano attraverso bacchette di bambù da uno o più manovratori che contemporaneamente ne forniscono la voce e generano rumori con i piedi. Anche questo teatro religioso si ispira alle storie narrate nei testi sacri ed è antichissimo, alcuni studiosi lo fanno risalire al IX secolo e altri al XIII secolo Il vecchio maestro venuto a conoscenza dell’imminente costituzione in Italia del museo della maschera intitolato all’opera dei Sartori, volle donarmi alcune delle preziose figure in cuoio frutto di secoli di tradizione (gli lessi negli occhi quasi 36 un senso di liberazione) con il motivo che non avendo eredi in grado di raccogliere il testimone della sua casata preferiva porre il suo patrimonio in siti ove sarebbe stato possibile trasmetterne almeno un messaggio visivo. Provai una stretta al cuore immaginando che l’ultimo rappresentante di un’illustre stirpe, prossimo alla fine fosse presago dell’imminente scomparsa anche di questa tradizione secolare, parte integrante dell’immensa cultura della terra indiana. Visioni africane. Al ritorno nella dimensione silvestre di Helsinghengarden, villaggio culturale che paternamente tutti ci accoglieva dopo le esperienze straniere, mettemmo in essere gli insegnamenti tratti dall’ultima immersione culturale in India. Passò il tempo tra meditazione e lavoro e presto fu la volta di un viaggio in Africa in quel Mozambico allora afflitto da una drammatica inondazione che pose il paese in un pietoso stato di prostrazione. La verifica delle notizie diffuse dai media internazionali avvenne sorvolando il territorio con un piccolo aereo delle linee locali che ci trasferiva dall’opulenta regione sudafricana a Maputo, capitale della devastata area sudafricana. Vedemmo dall’alto interi territori sotto una coltre d’acqua limacciosa e di fango da cui emergevano tetti di povere abitazioni in pietra, dacché le numerose capanne ed i villaggi costruiti con rami, arbusti e fogliame erano, ovviamente, stati spazzati via dalla furia delle acque. Emergevano le chiome degli alberi ad alto fusto ultimo rifugio, come ci informarono successivamente, della popolazione raggiunta dalla piene e lasciata a morire di inedia, stenti e fame dalle autorità locali per carenza di idonei mezzi di soccorso e dall’indifferenza del mondo occidentale che volgeva gli occhi solo al suono della notizia mediatica. Nonostante questo drammatico clima la vita continuava; fummo accolti in un isolotto al largo della costa di fronte al Madagascar ove si notavano meno i danni della tragedia e dove la vita sembrava proseguire con il ritmo di sempre. Anche qui ci immergemmo in una sorta di aura ove non esisteva la dimensione del tempo: danze, riti, la presenza di prevalenti sonorità africane (percussioni, musiche autoctone,) ci avvinsero in ritmi di lavoro che non conoscevano soste. Tralasciando le straordinarie esperienze delle escursioni presso le tribù dell’interno dell’isola, sorvolando sulle affascinanti integrazioni con la vita tribale del luogo che mi coinvolsero personalmente in un incontro emblematico con i riti della magia nera, ebbi un lungo contatto , anche qui, con i maestri della maschere Mapiko, sorta di caschi dalle fattezze antropomorfe che, calcati sui crani dei danzatori davano l’aspetto all’attore di un grottesco fantoccio con lo sguardo rivolto al cielo; capii poi che l’interlocutore dell’entità-maschera non era un qualsivoglia pubblico terreno bensì un energia divina posta nell’infinito celeste. Cercai di capire come, naturalmente senza riuscirvi, lo stregone, l’uomo della medicina, il brujo, concepisse le entità magiche astraendosi dal quotidiano terreno, per addentrarsi in una dimensione 37 rituale sovrumana, magica, carica del mistero che le società segrete africane emanano ancora oggi nonostante le mutazioni epocali e l’avanzata deleteria, progressiva, inevitabile della globalizzazione. Anche per tutto questo venne la fine. L’allestimento dell’Orestea. Al ritorno iniziò una fase di studio che a Helsinghengarden produsse eventi teatrali densi di nuova linfa e nuovi significati. Poi, ultima, la definitiva produzione che per due anni coinvolse totalmente le nostre, soprattutto le mie, energie: una versione tutta nuova dell’Orestea di Eschilo messa in divenire richiamando all’ordine del giorno ogni esperienza di comunicazione teatrale saggiate fino a quel momento. Grandi furono i preparativi, come le premesse; il maskverkstad, il laboratorio delle maschere svedese, fu notevolmente potenziato , potei richiedere e richiamare i migliori collaboratori che negli anni si erano succeduti durante le diverse, eterogenee esperienze. Era un brulichio di attori e comparse, sceneggiatori e storici, tecnici del suono e della luce, e noi, tra gli altri, del laboratorio delle maschere. Peter Oskarson individuò tra gli attori più o meno consacrati del panorama nordico teatrale , cinematografico e televisivo i ruoli più idonei. Il primo impegno fu quello di rilevare le impronte dei volti dei singoli interpreti e fu la volta di Agamennone e Clitemestra, poi, le inferiche Erinni, che nel corso degli eventi si sarebbero trasformate in Eumenidi pentite, e di seguito gli attori che facevano parte dei cori degli Argivi e le attrici delle Coefore; infine, fu la volta di Oreste e dell’amico più che fraterno Pilade, che concluse il ciclo dei calchi del viso. Il periodo successivo fu dedicato ai disegni preparatori; per questo chiesi la collaborazione dello scenografo e delle costumiste; non solo: volli conoscere il tecnico delle luci che stava progettando un immane apparato scenico e luminotecnico, attrezzato con oltre cinquemila punti luce disseminati sull’intera volta del teatro. I mesi scorrevano tra prove di teatro, realizzazione di disegni, infinite riunioni tra registi, attori e, perché no, responsabili economici che, preoccupati dell’enorme lievitare delle cifre sborsate davano dritte e suggerivano consigli su come evitare sprechi e spese impreviste. Peter Oskarson desiderava dare un’impronta diversa alla tragedia di Eschilo: traendo ispirazione dalle recenti esperienze orientali (Cina, India) e a quelle delle danze di guerra africane, senza dimenticare le radici storiche della tragedia greca, volle donare a tutto lo spettacolo un collegamento simbolico tra le divinità del Pantheon greco-latino e quelle dell’antica mitologia germanica e nordica. Volle, inoltre, inferire ai vari personaggi che popolavano la trama dell’Orestea un carattere indefinito, attinente ad un tempo universale in grado di collegare in un unicum la guerra di Troia con i recenti conflitti del Vietnam e con quello iracheno, ancora in corso. Non so quando a Oskarson balenò l’idea di un viaggio in Grecia alla ricerca dei siti storici citati nell’Orestea, certo che l’e-mail che mi raggiunse in Italia mi rese attonito ma non mi sognai neppure di protestare per il 38 breve lasso di tempo concessomi per organizzare la partenza e , in breve, salii sul volo che di lì a poco mi avrebbe portato ad Atene. Tutto lo Staff del Folk Teatern era ad attendermi allo scalo aereo; oltre a Peter una folla di attori, aiutoregisti, scenografi e tecnici ma anche le maestranze più lontane dal mondo creativo come portieri, facchini, addetti alle pulizie e molti altri. Forse, con questo gesto il regista intendeva premiare quella grande umanità di collaboratori che lo aveva, per molti anni, accompagnato nel lungo percorso di ricerca e creazione teatrale. Questo periodo mi rimarrà nella memoria per le numerose e straordinarie esperienze realizzate nei più reconditi siti della Grecia antica. Tutta la troupe di attori aveva al seguito quel necessario tecnico per sperimentare brani dell’Orestea negli stessi luoghi ove fu concepita quasi 2500 anni fa. Nelle casse, oltre al resto, erano stipate quelle maschere realizzate nei materiali più diversi durante i mesi precedenti sia in Italia che nel laboratorio svedese. Stavo mettendo a punto una nuova tecnica, sperimentando altri materiali dato che, secondo le ultime decisioni di Peter, nel corso delle prove era emerso che tutta la trilogia aveva una componente unica: l’acqua. Agamennone infatti secondo Eschilo, venne ucciso nella vasca da bagno, così morì assassinata anche Clitemestra, le Erinni, esseri demoniaci del Pantheon greco emergevano dal mondo sotterraneo (Oskarson lo trasformò in un limaccioso fiume, lo Stige); insomma molte parti delle scene si svolgevano attraverso immersioni in acqua o emersioni dall’acqua. Ovviamente le maschere dovevano essere costruite in materiali resistenti al liquido ed estremamente leggere. Usai infatti molte delle risorse tecnologiche apprese e sperimentate in Oriente (Cina e Giappone per intenderci) approdai ad una sorta di resina naturale che anticamente aveva la funzione di rendere coesi strati sovrapposti di fibre organiche , foglie, cortecce conferendo alle maschere un aspetto rigido e duro simile al legno. Sperimentai una serie di lacche che recai con me da un recente viaggio in Giappone e ne proposi il risultato finale a Peter Oskarson, ottenni un plauso clamoroso per quanto riguarda i risultati estetici. Gli esperimenti realizzati secondo tale tecnica erano, in verità, singolari ma dai costi esorbitanti; dovetti perciò rinunciare alla coerenza filologica seguita in lunghi anni di attenti studi e indagini sulle maschere greche. Intrapresi alcune prove sulle materie plastiche messe a disposizione dalla tecnologia produttiva contemporanea. Nei laboratori di Helsigengarden venne messa a punto una nuova tipologia di resine che, pur assomigliando moltissimo alle qualità tecnologiche del passato, non eccedeva più di tanto rispetto ai costi preventivati. Vennero approntate quindi le nuove maschere-casco per l’Orestea in questa materia che ci permise inoltre di appurare l’emblematica risorsa della vocalità dello strumentomaschera. Infatti la maschera realizzata in modo da contenere tutta la testa dell’attore sino all’occipite, come descritto in ogni documento storico di epoca greco latina diveniva camera 39 armonica all’emissione della voce. La dizione o il canto infatti trasformavano la maschera in uno strumento sonoro poiché le pareti rigide ( si suppone che anche nell’antichità fossero tali) entravano in vibrazione facendo emettere delle sonorità vibrofoniche al personaggio. Ad Atene, presso la Facoltà di Musicologia dell’Università con cui venimmo a contatto, da decenni si svolgono studi ed esperimenti in tal senso. Questa teoria che mi tormenta ed affascina sin dalle prime esperienze, realizzate presso i teatri della Magna Grecia, in Sicilia durante le tournée teatrali organizzate dal centro per la ricerca teatrale di Pontedera (1976). All’epoca furono realizzati in questi siti esperienze di recitazione con le maschere create da mio padre Amleto per l’Orestea francese di Barrault. Con le maschere provenienti dai laboratori svedesi, alla presenza di esperti, studiosi e storici, è stato posto un punto fermo nell’eterna querelle attorno alla bocca megafonica che, nata presso il teatro greco, si trascinò per tutto il periodo latino. Nei teatri archeologici più importanti della Grecia, tra cui Argos, Epidauro e il teatro di Dioniso ad Atene, vennero realizzati esperimenti acustici di ogni sorta. Tutto lo staff del Folkteatern era attivato. Gli attori recitavano emettendo suoni gutturali, urla, muggiti e ruggiti, regolarmente testati da sofisticati strumenti acustici. Lo straordinario risultato fu che nei luoghi sottoposti a tali esperimenti non vi era la minima necessità di amplificare la voce, data la perfetta acustica registrata nelle cavee teatrali. Si fece largo un’altra ipotesi, che quella strana forma delle labbra fatta a guisa di megafono, presente solo in alcune delle maschere teatrali antiche, avesse la valenza di evidenziare e rendere riconoscibili, tra gli altri, alcuni caratteri quali quelli dei sileni, dei satiri o dei servi. Maschere tipologiche dunque piuttosto che megafoniche, in ogni caso vibrofoniche, dati gli straordinari risultati ottenuti. Il debutto dell’Orestea avvenne il 22 febbraio 2002, sotto una tormenta di neve ed il termometro che segnava 20 gradi sotto lo zero, in un teatro ricavato da un manufatto di archeologia industriale (antico deposito di gas a forma circolare), le ore recitate erano otto e la folla era immensa. Durante il volo di ritorno ebbi la sensazione che un altro pezzo della mai vita si fosse concluso. 40 Il significato ultimo della maschera. Il nuovo millennio sembra aver portato in Italia un rinnovato interesse nei confronti delle autoctone energie culturali, spostando la naturale inclinazione esterofila da tempo orientata verso una globalizzazione filoamericana. In quest’ambito Abano Terme, in una storica assemblea consigliare, decise all’unanimità di assegnare un’antica villa veneta, convenientemente restaurata e attrezzata quale sede museale dedicata alla ricerca e all’attività dei Sartori. Una nuova casa delle maschere, dunque, un museo vivente, non cristallizzato, ove possano convergere gli interessi non solo di studiosi di settore, bensì degli uomini inclini al teatro, alla musica, alle arti espressive insomma, a tutto quel mondo che voglia conoscere le proprie fonti culturali che conferirono alla cultura italiana un ruolo storico che la pone tra i primi posti come sito artistico tra i più straordinari dell’intero pianeta. Questi ultimi anni furono dedicati soprattutto a questo ambizioso progetto museale, coronamento di una pluriennale opera collettiva da parte dei componenti del Centro, siano essi collaboratori storici che ci accompagnano da tempo con uno straordinario spirito di abnegazione, che da quelli temporanei che di volta in volta ci affiancano nella realizzazione dei numerosi progetti che si vanno succedendo lungo la naturale evoluzione delle attività. Per questo, grazie soprattutto alla preziosa opera di Paola, mia moglie, che da oltre vent’anni mi affianca in questa straordinaria avventura, stiamo mettendo a punto un preciso piano che coinvolga, con l’attività culturale e di scambi internazionali che oramai contraddistinguono l’identità del Centro Maschere e Strutture Gestuali tutto il territorio, inteso come sito ospitante, l’entroterra veneto, in particolare l’area termale situata ai piedi dei Colli Euganei, cresciuta a dismisura dal dopoguerra ad oggi, e come tutti i giganti cresciuti troppo in fretta, priva delle infrastrutture socioculturali a carattere internazionale che dovrebbero essere il fulcro dell’attenzione delle pubbliche istituzioni, considerando la recente realtà dell’unificazione europea. Da anni perseguiamo questo progetto che finalmente sembra volgere faticosamente a conclusione, permettendoci così di accentrare in Veneto, storica sede naturale della maschera sia teatrale che ludica, tutte le risorse ed i privilegi accumulati in quasi tre quarti di secolo. Casa delle maschere, dunque, non solamente un ricovero museale di opere vive come le maschere, che sarebbero condannate a morte per inedia, ma luogo vivo, aperto alle più eclettiche attività pluridisciplinari, che riguardano il teatro e l’erigenda “Scuola della Commedia dell’Arte”, la musica, la danza, il gesto e l’opera artistica, intesa nella più ampia accezione del termine. Qui, dopo molti decenni di estenuanti attività attorno al mondo, dopo aver diffuso capillarmente il senso della maschera del teatro italiano, si creerà un punto nodale su cui far confluire l’attenzione di tutti verso uno strumento comunicativo tra i più diffusi nel mondo, in ogni epoca, da quando l’uomo esiste. 41