Lingua e dialetto in Goldoni di Pietro Trifone La soluzione duttilmente articolata che Goldoni dà ai problemi del testo teatrale, in quanto testo scritto che presuppone e sottintende il parlato scenico, nasce proprio dalla sua reinterpretazione dell’estemporanea plasticità linguistica – e quindi della carica di verità espressiva – della commedia dell’arte, di cui al tempo stesso lo scrittore rifiuta le schematizzazioni, i convenzionalismi, le sguaiataggini, gli intrecci scontati, le maschere sempre uguali a sé stesse, le «sconce arlecchinate»355. Anziché riattingere al trito formulario degli improvvisatori, la nuova commedia d’autore doveva fare riferimento – secondo la felice immagine della Prefazione all’edizione Bettinelli – al «libro del Mondo», cioè a quel peculiare oggetto di conoscenza costituito dalla realtà della vita umana e dei rapporti sociali, dei caratteri e delle passioni, dei pregi e dei difetti più comuni. Al tempo stesso, l’acquisizione di originalità compositiva e di dignità espressiva non doveva ledere l’efficienza spettacolare, per non ridurre la drammaturgia a uno sterile esercizio di scrittura letteraria; il libro del Mondo andava quindi integrato con il «libro del Teatro», ovvero con l’intelligenza e l’esperienza della scena, depositaria di un imprescindibile sapere pratico356. II libro del Teatro insegna anche quali colori e toni preferire, e come utilizzarli; naturalmente si tratta in primo luogo di una questione di lingua e di stile, quello «stile familiare, naturale e facile», che non si distacca «dal verisimile», a cui accenna la prima donna nel Teatro comico357. Come ha osservato Folena, l’italiano teatrale di Goldoni è «fantasma scenico che ha spesso la vivezza del parlato ma si alimenta piuttosto all’uso scritto non letterario, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi “lombardi” e francesismi, accanto a modi colloquiali toscani e a stilizzazioni auliche di lingua romanzesca e melodrammatica: è un “come se”, un’ipotesi spesso così persuasiva di realtà, fondata su un presupposto di intelligibilità comune»358. A quanti – Carlo Gozzi in testa – lo accusavano di sciatteria stilistica, Goldoni oppone nella Lettera agli associati dell’edizione Paperini la propria identità di «poeta comico», sottolineando lucidamente la peculiarità del linguaggio teatrale, che è «una imitazione delle persone che parlano più di quelle che scrivono», e perciò non può essere giudicato con criteri formalistici: Cito dalla Prefazione goldoniana all’edizione Bettinelli (1750), riportata nell’utile Appendice documentaria di C. GOLDONI, Teatro, a cura di M. PIERI, 3 tomi, Torino, Einaudi, 1991, III, p. 1252. 356 Ivi, pp. 1255-56. 357 C. GOLDONI, Il teatro comico, II, 2, in ID., Commedie, a cura di N. MANGINI, 3 voll., Torino, UTET, 1971, I, p. 105. 358 G. FOLENA, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, p. 91. Cfr. inoltre P. SPEZZANI, Dalla commedia dell’arte a Goldoni. Studi linguistici, Padova, Esedra, 1997, pp. 387-454; I. BONOMI, La lingua dell’opera comica del Settecento: Goldoni e Da Ponte, in Storia della lingua italiana e storia della musica, a cura di E. TONANI, Firenze, Cesati, 2005, pp. 49-74; T. MATARRESE, «Pamela» e la lingua per la commedia «di nobili sentimenti maestra», in Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi, a cura di G. BAZOLI e M. GHELFI, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 91-102; L. D’ONGHIA, Drammaturgia, in Storia della lingua italiana. II. Prosa letteraria, a cura di G. ANTONELLI, M. MOTOLESE, L. TOMASIN, Roma, Carocci, 2014, pp. 160-63. 355 197 Fo sapere agli esteri ed ai posteri che i miei libri non sono testi di lingua, ma una raccolta di mie commedie; che io non sono Accademico della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente […], e che, essendo la commedia una imitazione delle persone che parlano più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune, rispetto all’universale italiano. Circa al nostro vernacolo veneziano, so che me n’intendo bastantemente per credere che sia scritto come si parla 359. Si noti che la definizione perentoria di scritto come si parla, al termine del passo, tocca esclusivamente ai testi in veneziano; e in effetti Venezia sembra fornire già pronto per l’uso lo strumento espressivo a 360 gradi di cui Goldoni ha bisogno, una «lingua parlata socialmente unitaria senza stratificazione rigida», «il solo dei dialetti italiani totalmente immune […] da squalifica culturale»360. Anche il veneziano, naturalmente, non manca di sfumature interne, di particolarità e gergalismi che lo scrittore sa cogliere con grande finezza, ad esempio quando, nella Casa nova (1760), attribuisce al tappezziere Sgualdo un’appropriata terminologia tecnica: far la massarìa ‘fare il trasloco’, sfrisi ‘fregi’, insoazè ‘mettete la cornice a uno stipite’361. Oppure quando fa il verso a Gasparina, la «giovane caricata, che parlando usa la lettera Z in luogo dell’S», come nel celebre brano del Campiello (1756) in cui la ragazza esibisce con compiacimento i vezzi dell’andatura femminile: «Una volta ze andava / cuzzì, cuzzì, cuzzì, / Adesso ze va via / cuzzì, cuzzì, cuzzì»362. La straordinaria sensibilità sociolinguistica di Goldoni emerge con particolare evidenza nella riproduzione dei lineamenti peculiari della parlata di Chioggia. Premesso che «il fondo del linguaggio di quella città è veneziano; ma la gente bassa principalmente ha de’ termini particolari, ed una maniera di pronunziare assai differente» 363, il commediografo individua con notevole precisione i tratti che distinguevano il dialetto chioggiotto dei pescatori dalla varietà urbana del cogidor o “coadiutore” Isidoro (alter ego dello stesso avvocato Goldoni, che qui mette utilmente a frutto anche le personali esperienze forensi). Come sottolinea Stussi, «non si tratta solo di fatti lessicali (pur presenti in gran numero), ma di una caratterizzazione che sfrutta pertinenti divergenze d’ordine fono-morfologico: ricorrono infatti in immediata successione il chioggiotto “Oggio da zurare” di Checca e il veneziano “No, adesso no avé più da zurar” di Isidoro, ben distinti dalla presenza/assenza di -e dopo erre»364. Riporto il passo ancora dall’Appendice documentaria di C. GOLDONI, Teatro, a cura di M. PIERI, cit., III, p. 1285. G. FOLENA, L’italiano in Europa, cit., p. 91. 361 L. D’ONGHIA, Drammaturgia, cit., p. 183. 362 C. GOLDONI, Il campiello, II, 11, in ID., Commedie, a cura di N. MANGINI, cit., II, p. 47. 363 C. GOLDONI, Le baruffe chiozzotte, a cura di P. VESCOVO, Introduzione di G. STREHLER, Venezia, Marsilio, 1993, p. 74. 364 A. STUSSI, Storia linguistica e storia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 81. Sulla lingua delle Baruffe si veda in particolare la Nota linguistica del curatore Piermario Vescovo in C. GOLDONI, Le baruffe chiozzotte, cit., pp. 56-70. Cfr. anche R. FERGUSON, A Linguistic Histoy of Venice, Firenze, Olshki, 2007, pp. 249-50. 359 360 198 Per le commedie in italiano Goldoni fa invece riferimento, sempre nella Lettera citata, non a uno specifico modello di parlato reale ma al «linguaggio più comune», ad una sorta di koinè dell’uso le cui forme sarebbero suonate familiari al pubblico socialmente e geograficamente differenziato che egli intendeva raggiungere. Il sincretismo della lingua goldoniana, nella quale coesistono calchi dal veneziano, forme letterarie, screziature auliche, modi toscani, fraseggi colloquiali e frequenti francesismi, riflette la natura sperimentale di uno strumento che vorrebbe soddisfare insieme esigenze di ancoramento realistico e di generalizzazione comunicativa. Goldoni in parte “scopre” e in parte “inventa” un italiano della conversazione quotidiana, e lo tesse con dialoghi che, se non hanno né possono avere la precisione e l’intensità del vissuto dialettale dei Rusteghi (1760) o delle Baruffe chiozzotte (1762), hanno comunque il piglio naturale del parlato, e riescono a caratterizzare la voce concreta del personaggio in rapporto alla sua psicologia, allo strato sociale, alle circostanze dell’enunciazione. Va anche detto che, nell’opera teatrale di Goldoni, italiano e dialetto non si oppongono radicalmente ma piuttosto tendono a incontrarsi, e dall’incontro possono scaturire forme di convivenza dialettica o di reciproca integrazione, come si addice a un ampio e variegato affresco della società veneziana del Settecento. L’italiano si apre dichiaratamente al regionalismo: «ho creduto di non dovere farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle lombarde città, dovevano rappresentarsi le mie commedie»365; d’altro canto il dialetto veneziano si apre a sua volta all’italianismo o ai modi dell’uso civile, adeguandosi alle differenze di classe, di età, di sesso dei personaggi366. La sensibilità acutissima per le strategie e le tattiche elocutive, usate alla stregua di infallibili reagenti nell’analisi comportamentale, va ad innervare un fondo relativamente omogeneo e moderno di lingua media, fatto salvo il pressoché inevitabile tributo alla polimorfia grammaticale e alle ampie zone di conservatorismo dell’uso scritto coevo. Nella valutazione di alcuni residui tradizionali occorre naturalmente tenere conto delle tensioni in atto fra la scrittura teatrale e quella letteraria, oltre che fra lo stesso italiano parlato e la sua sagomatura scenica. I forti legami con il passato delle prove d’esordio ci danno peraltro la misura del cammino percorso da Goldoni. Nella Donna di garbo, che risale al 1743 ed è la prima opera goldoniana composta per intero, senza parti da recitare “a soggetto”, la lingua è ancora quella convenzionalmente retorica della commedia dell’arte367; al punto che, «quando viene usata una locuzione più vicina ai moduli dell’oralità come quasi quasi, essa sembra creare un certo contrasto, nel contesto letterario, con il verbo in fine di Mi riferisco di nuovo alla Prefazione della Bettinelli, nell’Appendice di C. GOLDONI, Teatro, a cura di M. PIERI, cit., III, p. 1258. 366 Come Alfredo Stussi sottolinea a più riprese nel suo saggio su Goldoni e l’ambiente veneziano: si veda A. STUSSI, Storia linguistica e storia letteraria, cit., pp. 121-86. 367 T. MATARRESE, Storia della lingua italiana. Il Settecento, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 258. 365 199 frase: piansi, sospirai e quasi quasi alla disperazione mi diedi»368. È noto del resto che Goldoni, sempre attento all’audience e all’indice di gradimento, pose mano alla riforma con accorta gradualità e senza oltranza innovativa. Nel Teatro comico (1750), che è dichiaratamente una commedia-manifesto, l’ipotesi di eliminazione delle maschere avanzata dal secondo amoroso incontra il secco rifiuto del capocomico: «Guai a noi, se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla. In tutte le cose non è da mettersi di fronte contro all’universale»369. Anche sul piano della scrittura, la spinta riformatrice non comporta attentati agli usi abituali e ai gusti correnti, che consigliano anzi al commediografo di mantenere uno spazio significativo anche al tipico gioco delle lingue e dei dialetti370. La maggiore novità del Goldoni italiano non va cercata tanto nelle pur funzionali soluzioni fonetiche e morfologiche, o nell’oculata preferenza per il lessico di tono colloquiale; va cercata piuttosto, come si diceva, nell’attenzione per le strategie e tattiche del discorso. La particolare cura riservata ai procedimenti operativi e cooperativi della conversazione si rivela per esempio nel largo uso di “segnali discorsivi”, che servono sia ad articolare il testo (eh, dunque, ecco, bene, basta) sia a gestire il rapporto con l’interlocutore (vedi, senti, certo, e come!, via!). Una funzione simile hanno anche gli intercalari dialettali figurarse e vegnimo al merito, ripetuti in continuazione da Margarita e Lunardo nei Rusteghi. Indicatori di ascolto e, insieme, regolatori dello scambio sono gli inserti come Che vuoi dire?, il cui impiego rivela l’interesse dell’autore per una soluzione interattiva – e quindi “naturale” – dei problemi posti dallo svolgersi della comunicazione: «non certo indispensabili ai fini dello sviluppo tematico, né per caratterizzare psicologicamente i personaggi, queste richieste di chiarimento risultano esemplari dell’elevato tasso di dialogicità delle commedie goldoniane»371. Sul versante della sintassi, si registra l’altissima frequenza di fenomeni assai comuni nella lingua parlata, ma sottoposti a censura dalla grammatica normativa e perciò relegati ai margini del buon uso, quali le dislocazioni a sinistra, il che indeclinato, il ci “attualizzante” di ci ho372. In un’opera esemplare oltre che fortunatissima come La locandiera, composta alla fine del 1752, si resta colpiti in particolare dal ricorso massiccio alle dislocazioni a sinistra, con successiva ripresa pronominale dell’elemento anticipato (limito gli esempi al primo atto della commedia373): Ed io quel che fo non lo dico (I, 1); G. PATTARA, Struttura della frase e prospettiva testuale nelle commedie goldoniane, in La sintassi dell’italiano letterario, a cura di M. DARDANO e P. TRIFONE, Roma, Bulzoni, 1995, p. 282. 369 C. GOLDONI, Il teatro comico, II, 10, in ID., Commedie, cura di N. MANGINI, cit., I, pp. 118-19. 370 F. ROSSI, Imitazione e deformazione di lingue e dialetti in Goldoni, in Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di V. DELLA VALLE e P. TRIFONE, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 147-62. 371 G. PATTARA, Struttura della frase e prospettiva testuale, cit., p. 303. 372 P. D’ACHILLE, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci, 1990, pp. 190-91, 253-54, 268-73. 373 C. GOLDONI, La locandiera, I, in ID., Commedie, a cura di N. MANGINI, cit., II, pp. 253 sgg. 368 200 Eh, il viver del mondo lo so ancor io (I, 8); La ricchezza la stimo e non la stimo (I, 9); A maritarmi non ci penso nemmeno! (I, 9); Certe cose non le posso soffrire (I, 10); Questa io non l’ho mai potuta vedere (I, 15); Di queste salviette ne ho parecchie (I, 15); Mancie non ne mancheranno (I, 19); Fazzoletti di quella sorta non se ne trovano (I, 22) In molti casi la costruzione della frase e l’evidenziazione di un suo costituente costituiscono un riflesso del tipico botta e risposta del dialogo, nel quale la scintilla comica nasce appunto dall’attrito fra una battuta e l’altra, come nel felicissimo duetto del marchese squattrinato con la scaltra locandiera: MARCHESE Costoro hanno quattro soldi, e gli spendono per vanità, per albagia. Io li conosco, so il viver del mondo. MIRANDOLINA Eh, il viver del mondo lo so ancor io. MARCHESE Pensano che le donne della vostra sorta si vincano con i regali. MIRANDOLINA I regali non fanno male allo stomaco. MARCHESE Io crederei di farvi un’ingiuria, cercando di obbligarvi con i donativi. MIRANDOLINA Oh, certamente il signor marchese non mi ha ingiuriato mai. MARCHESE E tali ingiurie non ve le farò. MIRANDOLINA Lo credo sicurissimamente (I, 8). Solo a partire da Goldoni la commedia passa sistematicamente dal “parlato in maschera” a una realistica simulazione del parlato. Non è certo un caso che ciò avvenga nel Settecento, quando gli scambi tra la lingua letteraria e quella non letteraria, tra lo scritto e il parlato, cominciano a farsi più fitti e più consistenti374: finalmente s’apre, nella storia della nostra lingua, uno spiraglio di italiano parlato, che illumina il cammino al geniale commediografo veneziano. Il quale realizza in effetti un nuovo modello di linguaggio teatrale, capace di coniugare intensità e naturalezza: da un lato, lo scrittore sopprime o riduce molto le appariscenti e insieme stereotipate tecniche caricaturali della commedia dell’arte; dall’altro, recupera efficienza drammatica attraverso un innovativo sistema di organizzazione testuale, in grado di evidenziare opportunamente – ma senza “strafare” – il retroterra psicologico ed emotivo dei dialogo. Si pensi all’impiego dei suffissi alterativi, che nelle commedie del passato puntavano spesso a realizzare effetti di cromatismo spettacolare, mentre nel teatro goldoniano acquistano una maggiore sobrietà e soprattutto tendono a rispondere a criteri di tipo interazionale. I diminutivi di Mirandolina nella Locandiera, ad esempio, mirano a prendere per la Cfr. da ultimo C. E. ROGGIA, Lingua scritta e lingua parlata: una questione settecentesca (Cesarotti, «Saggio sulla filosofia delle lingue», I.IV), in Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche, materiali e usi nella storia della lingua, a cura di E. SUOMELA-HÄRMÄ e E. GARAVELLI, Firenze, Cesati, 2014, pp. 50310. 374 201 gola il Cavaliere: «Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me»; oppure a mitigare un’ammissione spiacevole: «Ho qualche annetto»375. C. GOLDONI, La locandiera, cit., I, 15. 375 202