Piero Pastoretto
A PROPOSITO DI PLATEA
«Tra i barbari si distinsero la fanteria persiana, la cavalleria dei Saci e, dei singoli, si
dice Mardonio; tra i Greci, sebbene fossero valorosi anche i Tegeati e gli Ateniesi, gli
Spartani per valore li superarono. Non ho altre testimonianze per affermarlo (tutti
costoro infatti vinsero quelli schierati di fronte a loro) se non che gli Spartani attaccarono
il settore più forte e lo vinsero».
Erodoto, Storie, IX, 71, 1-2
Piero Pastoretto
2
Presentazione
Due parole di presentazione a questo saggio sono comunque necessarie
anche se, ovviamente, solo dopo averlo letto ci si potrebbe permettere di
esprimere qualche cauto giudizio.
Il professor Pastoretto dà qui un saggio delle proprie capacità di storico,
capacità notevoli per la cultura generale che possiede e per quella umanistica in
particolare, servendosi della quale è in grado di leggere ed interpretare
correttamente i testi che vengono utilizzati per la ricostruzione della battaglia di
Platea, da millenni ormai portata ad esempio delle virtù di un popolo e del suo
amore per la libertà.
Cercando di evitare quell'eccesso di retorica che circonda l'avvenimento
invitiamo il lettore a fermare la proria attenzione sul metodo seguito da
Pastoretto nella sua ricostruzione piuttosto che sulle singole affermazioni cui di
volta in volta giunge l'autore, perché è nel metodo che si vede il vero storico.
Il primo problema che si presenta è, come abbiamo già accennato, quello di
una corretta interpretazione dei testi antichi, non basta saperli tradurre, bisogna
anche capire perché l'autore usi certi termini ed esageri o riduca l'importanza di
un fatto e questo comporta anche un esame approfondito di tutta la cultura di
un'epoca e della struttura sociale che l'ha generata.
Per l'antica Grecia bisogna risalire ed esaminare anche i miti, essenziali
perché per il cittadino di allora erano storia e non favola ed in questi miti egli si
rifletteva concretamente, derivando ed imparando valori, norme, comportamenti
e sapendo morire, cosa oggi poco valutata dai più.
Insomma, prima di disquisire se la falange fosse schierata su sei, otto o dieci
linee importa sapere chi erano gli uomini che la componevano come,
ovviamente, i loro avversari.
Una battaglia nasce ben prima dei quadratini disegnati su una cartina
geografica.
Per questo il saggio di Piero Pastoretto è attualmente forse il migliore in
assoluto scritto sull'Arte Militare antica, e facciamo questa affermazione in piena
buona fede.
Un'ultima avvertenza, avevamo pensato in un primo momento di dare la
traduzione dei termini greci usati, ma il loro significato è pienamente deducibile
dal testo ed abbiamo rinunciato per non appesantire il lettore.
Buona lettura.
Roma, Pasqua 2015,
Umberto Maria Milizia
Piero Pastoretto
Introduzione
In uno dei miei ultimi interventi su arsmilitaris, Lo stato dell’arte della guerra terrestre
e marittima agli inizi del V secolo a. C. e altro ancora, all’atto di congedarmi dai pochi
lettori, mi ero impegnato a ritornare sull’argomento per verificare quanto, in
quell’articolo, avevo affermato e scritto in linea astratta e, per così dire, soltanto
rapsodica. Mantengo perciò la promessa fatta rivisitando adesso la battaglia di Platea
nella versione tramandata da Erodoto1. E poiché, per inverare se possibile l’ipotesi
avanzata allora, la mia attuale analisi dell’originale testo greco deve essere accurata e
puntuale, come spesso succede il saggio rischia di essere più lungo e forse più noioso
del racconto erodoteo. Spero pertanto che il lettore, clemente, vorrà darmi quartiere e
seguirmi con docile indulgenza.
Nello Stato dell’arte della guerra mi accontentavo di illustrare più o meno
didascalicamente una tesi di fondo, seguendo una sorta di perspectiva historica.
Tuttavia, badando soprattutto al theoréin, non avevo ancora affrontato un vero e proprio
historéin, che ha invece il dovere di inverare e suffragare qualsiasi tesi in rebus, o
meglio, nel mio caso, in proeliis, e non soltanto in abstracto.
La tesi era la seguente: le guerre persiane, pur appartenendo ancora ad una fase
“artistico-ripetitiva” e non “scientifico-osservativa” della guerra terrestre e marittima in
Occidente, segnano già l’aurora di uno sviluppo prima lento, poi sempre più progressivo
verso l’epistéme della polemologia; un progresso che, nell’arco di cinque secoli, avrebbe
raggiunto il suo compimento nell’età antica. Se poi si tratti di una demiourghia cioè una
“creazione” dal nulla frutto del genio ellenico come l’aritmetica o la filosofia; oppure di
una gheneá, ovvero una lunga e progressiva “generazione” o, se si preferisce,
“gestazione”, durata non sette giorni o nove mesi ma due secoli, condotta a termine
modificando pazientemente vaghe e aurorali sapienze precedenti, sarebbe tutto da
discutere. Si tratta, in altri termini, di un’evoluzione e non di una rivoluzione.
Un’evoluzione speculativa determinata da un parallelo progresso del pensiero
occidentale (ma anche, contemporaneamente, orientale) in tutti i campi del sapere. Non
fu invece una repentina rivoluzione, simile a quella del XV secolo, perché la necessità di
una completa revisione dell’arte bellica tradizionale non fu generata da alcuna novità
come l’introduzione massiccia delle armi da fuoco. In sostanza, il progresso fu soltanto
epistemologico, non tecnologico.
Poiché, nell’articolo in questione, avevo trattato prima dello stato della guerra
terrestre e poi di quella navale alle soglie del V secolo, inizierò il mio compito di verifica
con Platea, pur essendo questa, cronologicamente, posteriore di almeno un mese a
Salamina2.
1
Storie, IX (Calliope), 14-70.
4
A Proposito di Platea
La fonte alla quale mi limiterò per la Battaglia di Platea è, ripeto, soltanto Erodoto 3:
sia per brevità espositiva e per non creare eccessivi scrupoli tra i lettori di un articolo
che vuol pur sempre essere di leggera ed agile consultazione; sia perché Erodoto è la
voce narrante più vicina ai fatti e deve averne ascoltato perfino le narrazioni dirette,
mentre gli storici successivi hanno dovuto necessariamente dipendere da lui o da fonti
meno oggettive della sua4.
Antiquam historiam intelligere: avviso al lettore
Se intelligere significa intus legere, cioè “leggere dentro”, e dunque acquisire una
conoscenza più ‘profonda’ di quanto si ritrova semplicemente scritto in un autore (per la
qualcosa è sufficiente soltanto il legere, cioè apprendere in funzione di “conoscere” nella
superficie il contenuto di un testo), ebbene un esempio di questa operazione, ben più
ardua della pura ripetizione priva di critica di un fatto storico, si ritroverà nello scorrere il
presente commentario alla battaglia di Platea.
La ragione di questa mia condotta è facile da spiegare.
Specialmente dagli storici più antichi come Erodoto non ci si può attendere una
cronaca ‘ragionata’ di uno scontro armato, come anche di un fatto politico o economico,
poiché questa indagine critica esulava dal loro compito e il loro historéin ancora in nuce
non ricercava oggettivamente le cause degli accadimenti o delle decisioni degli uomini,
ma soltanto la fissazione e la memoria cronologica degli eventi passati.
Quanto io invece andrò elaborando nel corso della mia indagine sarà una lettura, per
così dire, degli ‘spazi vuoti’ del racconto erodoteo, del ‘non scritto’ nella cronaca di
Platea, del ‘tralasciato’, o se si preferisce, del ‘trascurato’ dall’autore. Il fine del mio
sforzo è di ricavare da un testo in gran parte retorico-narrativo un succo ben più
sostanzioso di notizie desumibili da un’attenta riflessione, da un solerte lavoro
d’induzione e deduzione derivate anche da una ricerca presso altre fonti storiche,
archeologiche o iconografiche. E infine, ma soprattutto, da un esercizio della ragione
che non sia semplicemente osservativa e cronachistica, bensì vigile e continuamente
insoddisfatta della semplice enarratio, alla ricerca cioè del tesoro profondo di ciò che
nella superficie dell’enerratio non si trova, ma che dalla medesima enarratio si può
scavare e ricavare: rifiutando alcune cose, mettendone in dubbio altre, spiegandone
altre ancora, arrendendosi onestamente quando incapace di risolvere una lacuna o un
2
Ça va sans dire che è opportuno che il lettore, se già non l’ha consultato, faccia lo sforzo di
leggere il mio precedente articolo di cui il presente è la naturale continuazione.
3
Io qui adotto la traduzione di Augusto Fraschetti per la Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 2006.
4
Per storici successivi intendo Eforo (IV secolo) e Ctesia (V secolo), conservatici rispettivamente
da Diodoro Siculo nella propria Bibliotheca historica e dal patriarca e bibliografo Fozio (IX secolo
d.C.) nelle epitomi della sua Bibliotheca.
5
Piero Pastoretto
problema, ma anche avendo il coraggio di andare in rotta di collisione contro moderne
opinioni storiche universalmente condivise e aprioristicamente ripetute.
Tutto ciò rischia, ne sono cosciente, di rendere più lungo il cavilloso lavoro di
commento di quanto lo siano i capitoli di Erodoto dedicati alla battaglia di Platea. E
rischia anche di impegnare la mente e l’attenzione del lettore ben più di quanto una
snella rivisitazione popolare, non ragionata, ma scorrevole, comporterebbe.
Tuttavia, se la storia non è una pura ripetizione manualistica e fine a se stessa del
già noto, ma continua indagine di quanto è rimasto ignoto nel già noto e di non scritto
nello scritto, anche questo articolo, che non si rivolge certo agli storici esperti, ma ai
comuni appassionati di storia, avrà un suo senso e una sua funzione.
Τά Μηδικά
Gli ultimi due libri delle Storie di Erodoto sono stati denominati già dagli antichi Tá
Mediká5. Tale scelta, alla luce dei fatti, non è affatto peregrina. Infatti l’attenzione del
lettore, per volontà stessa di Erodoto, viene concentrata più sulla disfatta degli invasori e
della loro ybris, che sulla vittoria degli Elleni.
È certamente un caso fortuito che il libro IX delle Storie, che contiene in 56 capitoli la
battaglia di Platea ed i suoi precedenti, sia stato intitolato dagli Alessandrini alla musa
dell’epica Calliope, una circostanza determinata semplicemente dall’ultimo posto che
essa occupa nell’ordine canonico delle nove sorelle. Un caso fortuito, certo, ma felice.
Infatti tutto il libro6 può essere letto come una sorta di narrazione epica connotata da
precisi riferimenti alla guerra di Ilio.
Tale trasparente velo di Maya che riveste la storia del biennio 480-479 di precisi
appelli al ciclo troiano e all’Iliade in particolare non era sfuggito certo a Simonide il
quale, nell’elegia per la battaglia di Platea, che Erodoto doveva ben conoscere e di cui
possediamo solo i rarissimi frammenti del papiro di Ossirinco 7, citava espressamente
Patroclo ed il figlio della ninfa oceanina Teti. Da quanto sembra possibile desumere,
nell’elegia il poeta assimilava infatti la figura di Leonida caduto alle Termopili a quella di
Patroclo, mentre ravvisava in Pausania l’Achille destinato a vendicarlo.
5
Come tutti i neutri plurali greci e latini, il significato è intuibile ma praticamente intraducibile. Con
una certa approssimazione potremmo dire “Vicende dei Persiani”.
6
È forse utile ricordare che la divisione delle Storie in libri appartiene ad un’epoca molto
posteriore alla loro originaria diffusione ed è alquanto estemporanea ed artificiosa, almeno
quanto la suddivisione dei poemi omerici in ventiquattro libri ciascuno. Come si sa, Erodoto di
Alicarnasso non scriveva affatto dei volumi strutturati di storia come Tucidide o Polibio, ma
ancora dei logoi, ossia monografie indipendenti di vario contenuto (etnografico, geografico,
mitologico, annalistico), che furono poi riunite in una cornice storica.
7
POxy 3965 e 2327, fr 2, 3, 26, 27. Sembra che riguardino lo scontro presso il tempio di
Demetra.
6
A Proposito di Platea
Il fatto che il libro IX delle Storie, rendendoci in un certo senso più compartecipi delle
sciagure dei Medi e del Gran Re che degli allori della Lega Panellenica, lo renda affine
al canto della poesia epica, non è un giudizio personale. L’epica greca, infatti, per sua
natura, tocca le corde dei cuori cantando più le sventure dei vinti che le fronde dei
vincitori. Semmai la gloria sul campo è cantata dall’epopea, che già per gli antichi era
cosa ben diversa dall’epica.
Sui Persiani, invece, come nella bilancia di Zeus dove la sorte di Ettore sprofonda,
incombe già l’oscuro, mortale fato della Κήρ 8. Nel dialogo di un nobile persiano con
Tersandro di Orcomeno durante il simposio offerto dal tebano Attagino, questi infatti gli
confida:
«Vedi questi persiani a banchetto e l’esercito che abbiamo lasciato mentre s’accampava sul
fiume? Di tutti questi nel volgere di poco tempo ne vedrai sopravvissuti solo pochi» .
Ed all’obiezione di Tersandro, che sarebbe necessario avvertire Mardonio affinché
eviti la battaglia, aggiunge:
«Straniero, quello che deve accadere per volontà del dio, l’uomo non può stornarlo […]. Molti
di noi Persiani, conoscendo tutto ciò, lo seguiamo, avvinti dalla necessità. Il peggiore dolore
umano è questo: avere molta saggezza e nessun potere» .
Parole degne di essere pronunciate dall’eroe di un poema epico, più che da un
oscuro persiano citato uno storico9.
Questo notevole ed originale amalgama della storia erodotea con il mito e con la
tragedia è peraltro ben noto a qualsiasi lettore anche distratto 10. Che poi l’Autore nella
sua cronaca degli episodi bellici abbia potuto ritrovare, sulla scorta di Simonide, delle
similitudini fra gli avvenimenti dell’autunno del 479 e le pugne nella fatale pianura della
«Troade inseminata» è perfettamente comprensibile: Platea può infatti ricondurre la
memoria e la fantasia alla seconda battaglia dell’Iliade e alla disfatta finale dei Teucri; la
morte di Mardonio ricorda quella di Ettore; Micale poi, che fu combattuta il medesimo
giorno di fine agosto o settembre 11 di Platea, ed in cui gli epibátai greci dettero fuoco
alle navi persiane, richiama l’assalto al muro greco e l’incendio della nave di Protesilao.
8
Iliade, XXII, 209 ss.
9
Storie, IX (Calliope), 16, 3-5. Erodoto afferma di aver udito queste parole dalla narrazione
diretta di Tersandro.
10
La distinzione rarefatta nei suoi logoi tra fabula o mythos e historia è assai nota. Basti pensare
che nel libro I Erodoto fa risalire la secolare inimicizia tra Asia e Grecia, da cui sarebbero derivate
le guerre persiane, al rapimento di Io da parte dei fenici, seguito da quello di Europa e infine dal
ratto di Elena..
11
Alcuni propongono una data precisa, il 26 agosto 479 a. C. Personalmente non mi fido di tale
precisione.
7
Piero Pastoretto
Ma, come dimostrerò, le allusioni al poema omerico non terminano qui, e sono anzi
decisamente volute e persino forzate quando Erodoto tratta del numero dei Greci a
Platea. Pertanto, insieme a uno sguardo d’insieme agli antefatti della battaglia, dovrò
dedicare a essi e ad altri argomenti che stimo di pari rilevanza un razionale discorso
preliminare alla battaglia vera e propria.
Per tale motivo il seguito del mio discorso sarà diviso in tre sezioni, intitolate Ante
rem, In re e Post rem. Nella prima discuto questioni che considero presupposti
necessari per una chiara comprensione della battaglia di Platea; nella seconda la
illustro, commentando di volta in volta sia gli errori commessi dai due avversari dovuti
alla tradizione del passato, sia le felici novità tattiche annunciatrici della rivoluzione
polemologica che a Platea, come sostengo, stava nascendo; nella terza illustro
brevissimamente, come semplice pro memoria al lettore, gli avvenimenti che riguardano
la battaglia di Micale.
8
A Proposito di Platea
ANTE REM
I precedenti
Torniamo però adesso al concreto contenuto storico del IX libro delle Storie che
comprende la rievocazione della battaglia di Platea.
Nell’accompagnare pianamente il lettore al logos dedicato al crudo scontro dei
guerrieri sul campo, Erodoto usa uno schema molto efficace ma piuttosto meccanico e
ripetitivo in tutte le sue Storie. Tale sorta di preámbolos si può a sua volta dividere in due
parti distinte: la narrazione degli accadimenti più lontani e quella degli antefatti immediati
alla battaglia. I primi consistono generalmente in una rassegna di prodigi e segni divini,
sacrifici, oracoli, ambascerie, discorsi e decisioni dei capi o delle assemblee, con
notevole ricorso all’inventio, a digressioni e aneddoti, cioè a tutti quegli artifici retorici di
‘cosmesi’ necessari alla particolare vis narrativa che ha reso celebre Erodoto. I secondi
comprendono, molto più concretamente, le marce, le manovre, la disposizione degli
eserciti nell’imminenza della battaglia e la rassegna delle forze in campo; quest’ultima è
modellata sul topos del libro II dell’Iliade.
Nella fattispecie del IX delle Ἱστορίαι, i precedenti più lontani di Platea sono trattati
nei capitoli 1-13 (seconda conquista di Atene, missione di Murichide, lapidazione di
Licida, ritirata di Mardonio in Beozia); quelli immediati nei capitoli 14-47 (arrivo dei
Peloponnesiaci, marcia, di conserva con gli Ateniesi fino ad Eritre in Beozia. Primi
scontri con i persiani e morte di Masistio. Disputa fra Tegeati e Ateniesi per occupare
l’estremità dello schieramento, catalogo delle forze alleate, occupazione persiana dei
passi del Citerone e nuova disposizione dell’esercito greco sul campo con conseguente
episodio di Amomfareto); la battaglia vera e propria, infine, nei capitoli 48-70.
L’enigma del numero degli Elleni a Platea
Allorché ci si dispone a studiare con un certo rigore scientifico una battaglia qualsiasi
combattuta nel passato, la prima cosa che uno storico pretende per la propria
successiva analisi è di informarsi diligentemente sulla quantità di forze (uomini,
quadrupedi o mezzi) che in quello scontro furono messi in campo dai due avversari. In
questa preventiva opera d’indagine delle fonti, peraltro, il ricercatore è ben consapevole
che, quando nella storia militare si parla di forze combattenti, è sempre opportuno
esercitare una buona dose di rigore critico, se non addirittura di epoché, nei riguardi
delle cifre fornite dagli storici. E non soltanto dagli storici più antichi come Erodoto, ma
anche dai più quotati come Polibio e Tucidide; senza escludere, perché no, neppure dai
contemporanei.
La falsificazione più o meno consapevole dei numeri può avere molteplici ragioni, ma
di solito deriva da una mediocre acribia sulle fonti, da fattori ideologici (il più diffuso:
molti nemici, molto onore, sia che si vinca o che si perda) e persino retorici. Nel caso
che esamino adesso e tornerò a esaminare in seguito, ovvero il catalogo delle forze
9
Piero Pastoretto
elleniche a Platea (capp. 28 e 29), tento di dimostrare che le cifre offerte dal libro IX
sono fortemente implementate e dunque assai opinabili, in quanto l’obiettivo di Erodoto
è di farle forzatamente coincidere - per quell’ammiccante e simonidea allusione al
poema omerico di cui ho già detto - con il numero degli Achei a Ilio12.
Ề innanzitutto da notare che l’adozione del catalogo, o rassegna delle forze di un
esercito, è un topos caratteristico della poesia epica inaugurato da Omero e seguito in
più occasioni da Erodoto per motivi eminentemente retorici e quindi non troppo
fededegni.
Per giunta si osserva che la somma che porta al computo stimato delle forze degli
Elleni a Platea è alquanto macchinosa, storicamente poco affidabile e persino
imprecisa, avendo Erodoto calcolato tra l’altro, 800 fanti in più.
Procederò adesso commentando prima le cifre riportate dall’autore circa gli effettivi
della Lega panellenica a Platea, e confrontandole successivamente con il numero dei
Danai a Troia desumibile dal Nεῶν κατάλογος (Catalogo delle navi) del libro secondo
dell’Iliade. La somma di entrambi ammonta a 110.000 uomini. Una coincidenza, lo si
deve ben riconoscere, troppo sorprendente per non essere voluta.
La rassegna dei contingenti greci a Platea viene introdotta subito dopo la contesa fra
Ateniesi e Tegeati per occupare l’ala sinistra dello schieramento 13. L’episodio della
disputa, collocato presso la sorgente Gargafia nell’imminenza dell’instructio aciei,
appare assai poco verosimile, in quanto neppure i ragazzi della via Paal avrebbero
atteso l’ultimo minuto per stabilire la collocazione dei ranghi. È invece realistico che si
discutesse semplicemente dei posti da occupare nello schieramento della futura
battaglia e dunque dove costruire i rispettivi accampamenti. L’importante è però notare
fin d’ora, per inciso, che la disposizione sul campo degli alleati è ancora divisa per
popoli e città come nella protofalange omerica, secondo cioè uno schema che,
nell’articolo sullo stato dell’arte della guerra, avevo definito un modello arcaico della
taxis14. La sostanziale differenza tra il catalogo dell’Iliade diviso per popoli e la rassegna
delle forze alleate nel 479 consiste nel fatto che Omero cita i condottieri dei vari
contingenti in quanto re o eroi, mentre Erodoto, che non ha questa necessità epica,
riporta nel capitolo 28 soltanto il nome di Aristide a capo degli 8.000 Ateniesi e del re
Pausania15.
12
Iliade, II, 494-759. Al catalogo delle navi achee segue quello dei Troiani e dei loro alleati (vv.
816-877). Persino nella Batracomiomachia vi è una rassegna degli eserciti dei topi e delle rane.
13
IX (Calliope), 26 e 27.
14
Cfr. P. Pastoretto, Lo stato dell’arte della guerra terrestre e marittima agli inizi del V secolo a.
C. e altro ancora, Introduzione generale: temporibus illis, in www.arsmilitaris.org. Avverto che
tanto nell’articolo citato, quanto nel presente, uso la voce greca taxis per definire in generale un
reparto più o meno numeroso e strutturato di soldati.
15
Pausania non aveva episodi gloriosi in battaglia da vantare, mentre Aristide, insieme a Milziade
(morto nel 489), era il vincitore di Maratona.
10
A Proposito di Platea
I contingenti alleati della Lega vanno dal più piccolo, quello proveniente da Cefalonia
con 200 opliti soltanto, al più numeroso, quello costituito da 10.000 Lacedemoni, 5.000
dei quali spartiati e 5.000 perieci. Il numero complessivo della fanteria pesante oplitica in
campo è, secondo i calcoli di Erodoto, di 38.700 unità, mentre i popoli che hanno inviato
le loro truppe contro il Persiano sono in tutto 23.
Fin qui nulla da commentare: le cifre non sono esagerate e appaiono congrue. A
questo punto però s’inserisce, innaturalmente e forzosamente aggiungo io, un calcolo
paradossale per un greco e mai usato negli otto libri precedenti da Erodoto. Il che
m’induce a ritenere che l’autore abbia voluto forzatamente aumentare il numero dei
symmachόi per rendere, in un certo senso, omaggio alla musa della poesia epica
Calliope. La quale purtroppo non è Clio, la terza delle sorelle, e musa della storia alla
quale Erodoto dovrebbe essere fedele, bensì quella dell’epos, con la quale egli qui
colpevolmente amoreggia. L’autore infatti aggiunge al numero dei 38.700 opliti, gli iloti
che solevano accompagnare gli spartani in guerra e che, com’è noto, erano sette per
ogni guerriero. Essendo 5.000 gli spartiati, gli iloti ammontavano a 35.00016; ed a questi
Erodoto unisce disinvoltamente i servi (skenophόroi) che seguivano gli altri opliti dei vari
contingenti in ragione di un servitore per oplite: in tutto 34.500 unità 17, che sommate agli
iloti danno 69.500 uomini.
A tutti costoro l’autore, con mia e nostra grande sorpresa devo dire 18, attribuisce il
ruolo di “fanteria leggera”, sia che si tratti degli iloti, sia che si tratti dei doúloi degli altri
combattenti, poiché tutti «armati alla leggera» (ψιλοὶ). Un ruolo a dir poco inconcepible,
in quanto mai prima riscontrato in tutti i libri delle Storie. A Maratona infatti, per citare un
esempio, Erodoto non ci parlava della presenza di 10.000 opliti ateniesi accompagnati
da altrettanti fanti leggeri19; ed a proposito delle Termopili non si accennava affatto che,
insieme ai Trecento di Leonida, cadessero 2.100 iloti “armati alla leggera”20; e neppure
che, accanto agli altri 4.900 Elleni che avevano difeso quel passo, combattessero
altrettanti schiavi, anch’essi armati alla leggera. Inoltre, se dai sette iloti che
accompagnavano gli spartiati ci si poteva attendere, in ragione del loro numero molto
elevato per ogni oplite, una certa capacità non soltanto di servire (trasportare ed
accudire le armi ed i bagagli, procurare il cibo e preparare i pasti ecc.), ma anche di
16
17
I 5.000 perieci che accompagnavano gli spartani godevano di un unico skenophoro a testa.
Con un errore di 800 uomini in più. In realtà avrebbero dovuto essere 33.700.
18
E in forte contrasto con la mia affermazione fatta nell’articolo precedente, se qualcuno avrà la
voglia di riprenderla.
19
Libro VI (Erato), 111-117.
20
Libro VII (Polimnia), 222-224. Ricordo che secondo Erodoto alle Termopili, oltre al lochos dei
300 Spartiati, erano schierati anche 700 Tespiesi e 4.200 altri greci alleati (Mantinei, Tegeati,
Orcomeni, Arcadi, Corinzi, Fliasi, Micenei, Tebani, Focei e Locresi). Dei 300 Spartani caddero in
299; dei Tespiesi tutti, degli alleati 4.000.
11
Piero Pastoretto
autodifesa o di soccorso ai loro padroni21, e quindi una certa combattività pur con armi di
fortuna22, i semplici skenophόroi, i ‘bagaglioni’ degli altri guerrieri erano del tutto inetti
anche soltanto a impugnare un’arma23.
Quanto agli iloti, tuttavia, non si può passare sotto silenzio il sacro terrore laconico
che essi potessero imparare a portare le armi e ribellarsi ai loro padroni. È noto a tutti
che gli opliti spartiati d’inverno smontavano il porpax dei loro scudi per evitare che gli
iloti potessero trafugarli ed appropriarsene.
Aggiungere dunque il numero degli schiavi a quello degli opliti effettivamente
combattenti appare uno stratagemma palesemente retorico dell’autore, a tutto discapito
del vero storico, per far salire la somma dei combattenti a Platea all’iperbolica cifra di
110.000 uomini. E poiché il numero non tornava ancora, ecco che Erodoto, come
vedremo in seguito, aggiunge giusto giusto 1.800 Tespiesi che erano già sul luogo della
battaglia.
Desta francamente meraviglia che, tra i tanti commentatori, non ve ne sia uno che
abbia osservato l’incongruità evidente di Erodoto e tutti invece abbiano più o meno
accettato, supinamente e acriticamente, l’assurda presenza a Platea di una folta fanteria
leggera formata di schiavi, più numerosa ancora di quella pesante degli opliti.
Insomma, dal momento che dopo la citazione che sto esaminando Erodoto si
dimentica del tutto degli psilόi, sembra che nessuno dei commentatori si sia mai chiesto
come e dove si sarebbero schierati questi 70.000 combattenti (con la falange? Davanti
alla falange? Dietro alla falange. Ai lati della falange? Di riserva?), né di quale
armamento erano dotati, né, infine, quale funzione avrebbero assunto nella battaglia24.
La possibile tesi avversa alla mia, che cioè a Platea, dove la Lega Panellenica era
cosciente di giocarsi il tutto per tutto, fossero stati armati sommariamente anche gli
schiavi e gli iloti, e dunque Erodoto avesse ragione a computarli insieme agli opliti, mi
pare inconsistente. Anche a Maratona e alle Termopili i Greci sapevano di essere in
fortissima inferiorità numerica e di rischiare la distruzione dell’intero esercito, e ciò
21
Secondo Erodoto (VII, 229-231) lo spartano Eurito, essendo cieco, alle Termopili si fece
accompagnare eccezionalmente in battaglia da un suo ilota. Ma si trattò appunto di un’eccezione
degna di essere riportata. Ricordo che l’altro oplite cieco che combatté alle Termopili e si salvò,
Aristodemo, cadde a Platea.
22
Diversi iloti caddero effettivamente a Platea, ma non certo perché entrati in battaglia come
fanteria leggera, fatto che non viene mai menzionato da Erodoto. In IX, 85, 2, l’autore scrive che
gli Spartani dopo lo scontro eressero tre tombe collettive dove deposero, rispettivamente, i
sacerdoti, gli opliti e gli iloti.
23
Possediamo tra l’altro alcune figure caricaturali di questi servitori, dipinte su vasi attici del IV
secolo, che sono effigiati come dei bruti, comicamente deformi e miserevolmente chini sotto il
peso delle armi e dei bagagli dei loro padroni. È tuttavia accertato l’uso di qualche oplite,
soprattutto ateniese, di farsi accompagnare come skenophoro da un giovane parente per
svezzarlo alla rude disciplina della guerra.
24
Simile, ad esempio, a quella dei peltasti o a quella dei velites?
12
A Proposito di Platea
nonostante non armarono gli schiavi al loro seguito. Inoltre il greco, per ragioni culturali
connaturate, diffidava profondamente della lealtà dello schiavo e soprattutto della sua
capacità combattiva. Allo stesso modo, d’altronde, disprezzava i barbari come uomini
inferiori e considerava le qualità morali e spirituali del cittadino greco del tutto superiori
alle elevate quantità di guerrieri che si sarebbero potute raggiungere facendo
combattere anche gli schiavi.
Ma a parte ciò, ed a parte l’appena ricordata e proverbiale avversione dell’anima
greca25 a far combattere degli schiavi accanto ai kalới kaì agathới quali gli opliti26, quale
sarebbe stato, tecnicamente parlando, il significato di “armati alla leggera” negli eserciti
greci degli inizi del V secolo a. C.? Per quanto mi consta, soltanto gli Spartani
possedevano un minuscolo corpo di fanteria leggera, gli sciriti (Σκιρῖται) 27, che durante le
marce dell’esercito lacedemone generalmente facevano da avanguardia e soprattutto
nei passi montani aprivano la strada. Erodoto però, nei libri VII e IX non accenna affatto
alla presenza di questi fanti leggeri né alle Termopili né a Platea.
Le prime notizie dell’uso abituale della fanteria leggera, che agiva alle ali delle falangi
o in operazioni d’inseguimento o agguato, risalgono invece soltanto alla guerra del
Peloponneso. Questa fanteria leggera era costituita da peltasti o psilόi armati di
giavellotti e da toxớtes (τοξότης) armati di archi, ma in nessun caso costituita da schiavi
e semmai formata da truppe ausiliarie più o meno barbare come i Traci. Tali notizie
dunque risalgono agli anni a partire da 431, cioè all’ultimo terzo del secolo, e non
valgono per il 479, che è situato nel primo terzo; né dobbiamo in questo caso incorrere
in un errore simile, per usare una metafora, a quello di attribuire alla prima Guerra
Mondiale, quando esisteva solo qualche unità porta idrovolanti, l’uso delle grandi
portaerei di squadra, che risale invece alla seconda.
Luigi Annibaletto, che nel 1956 ha curato e tradotto l’edizione delle Storie per la
Arnoldo Mondatori, ipotizza che a Platea si trattasse di schiavi usati come arcieri e
frombolieri. La congettura però non regge, dal momento che schiavi e servitori non
potevano certo aver ricevuto un addestramento confacente al maneggio di queste armi,
che costituiscono pur sempre una specialità della fanteria, e che sono così tanto difficili
da usare correttamente, che richiedono anni di preparazione.ben accurata, che non
poteva certo essere fornita dalle polis agli schiavi, né privati, né pubblici.
25
E non soltanto greca, ma anche romana e antica in toto. Si ricordi che ancora nel 62 a. C.
senatori e cavalieri rimasero inorriditi alla notizia che a Pistoia, tra i catilinari, combattessero
anche degli schiavi. Cosa che, tra l’altro, in realtà non avvenne poiché Catilina, da buon romano,
li aveva congedati prima della battaglia.
26
Aristotele nel libro I della Politica considerava gli schiavi come “strumenti animati” incapaci di
autodeterminarsi. Eppure scriveva un secolo dopo Erodoto.
27
Gli Sciriti provenivano dalla Sciritide, regione montuosa a meridione dell’Arcadia, che
confinava con la Laconia. Durante le guerre del Peloponneso gli Sciriti costituivano un lochos
Σκιρῖτα di 600 uomini, che occupava l’estrema sinistra dello schieramento spartano.
13
Piero Pastoretto
Nel logos di Platea, come vedremo tra breve, compaiono sì, in effetti, degli arcieri
ateniesi nel primo scontro avvenuto a Eritre; ma, come dimostrerò nel prosieguo
dell’articolo, dovevano costituire un modesto contingente di arcieri scelti barbari partiti
insieme agli Ateniesi, e non sicuramente dei bruti doúloi o degli iloti. L’argomento per me
dunque è irrisolvibile: o meglio, è risolvibile solo ammettendo che Erodoto abbia
consapevolmente ignorato, nel capitolo 28, la verità storica per motivi estranei alla storia
e finalizzati invece all’epica.
Avanzate tutte queste riserve sul numero effettivo degli Elleni a Platea, riguardo ai
quali Erodoto volutamente equivoca tra i presenti ed i combattenti, non mi resta che
rendere conto se la cifra di 110.000 guerrieri corrisponda a quella tradizionale dei Danai
sulle spiagge della “fatal Ilio”.
A dire la verità Omero, o chi per lui, non presenta un catalogo dei guerrieri argivi 28
come Erodoto fa per la Lega Panellenica a Platea, bensì il catalogo delle navi che li
hanno condotti fino alla Troade e dei duci di ogni contingente. Tuttavia dal numero delle
navi e dalla loro capacità di trasporto già gli antichi erano stati in grado di calcolare
approssimativamente gli uomini della spedizione a Troia. Ed è ovvio che Erodoto
conoscesse molto bene queste cifre.
Le navi dell’età micenea erano triacόntori o pentecόntori. Le prime erano mosse da
trenta remi (quindici per fiancata) e potevano portare circa cinquanta uomini; le
seconde, più grandi, possedevano cinquanta rematori (venticinque per fiancata) ed
erano in grado di trasportare circa cento uomini.
Le navi menzionate nel libro II sono in tutto 1.186 29 e poiché una buona aliquota di
queste era costituita da triacόntori30, la cifra stimata dei loro equipaggi risaliva appunto a
110.00031 e non a 118.600, come sarebbe se fossero state tutte dei pentecόntori.
La conclusione del discorso è che a Platea non potevano esserci più di 40.000 opliti
e, naturalmente, come però in tutte le battaglie, i loro servitori e accompagnatori senza
alcun valore bellico, tant’è vero che in nessun altro luogo delle Storie dove si riportano
fatti d’arme vengono menzionati.
28
Nell’Iliade, per definire i popoli micenei convenuti a Troia, si usano indifferentemente tre diversi
nomi: Danai, Achei o Argivi.
29
I condottieri sono 44 ed i popoli 29.
30
Le dodici navi di Odisseo e le cinquanta di Achille, ad esempio, erano chiaramente dei
triacόntori. Ricordo al lettore che nei tempi omerici non vi era alcuna differenza tra rematori e
combattenti, in quanto erano gli stessi guerrieri (ad esempio i compagni di Odisseo) a manovrare
i remi.
31
I Troiani ed alleati, secondo Omero, erano circa 52.000, con 27 condottieri.
14
A Proposito di Platea
Un esercito di privati
La presenza a Platea di ben 70.000 schiavi (si badi bene, privati, e non pubblici), induce a
qualche considerazione sulla carenza, per non dire la totale assenza, dei servizi logistici presso i
Greci del primo terzo del V secolo, e su come le guerre del tempo in Occidente fossero piuttosto
combattute da cittadini privati che da eserciti di soldati nel senso moderno del termine.
È persino pleonastico ricordare che, agli inizi del V secolo, in Grecia non esistevano eserciti
stabili di leva o di volontari professionisti, né un corpo militare di ufficiali o sottufficiali di carriera.
Queste razionalizzazioni sarebbero giunte soltanto con Ottaviano cinque secoli dopo. Ma, se a
Platea anche la maggior parte dell’intendenza, della logistica gestionale dei trasporti e dei
vettovagliamenti (ovviamente non tutta però, come vedremo tra breve a proposito dei convogli di
salmerie che attraversavano il Citerone) era in mano ai servi privati degli opliti, occorre concludere
con una certa ironia che la dimensione della guerra agli occhi dei Greci rientrava molto più nella
sfera del privato che in quella nel pubblico. Infatti il cittadino-oplite non soltanto acquistava con i
propri denari tutto l’equipaggiamento bellico che gli serviva e non percepiva alcuna diaria dello
Stato per le campagne di guerra, ma doveva provvedere in proprio, attraverso il servo che lo
seguiva, al trasporto dei bagagli, a gran parte dell’acquisto delle derrate alimentari, al
confezionamento del cibo, fino alle suppellettili da campo ed al giaciglio. Ciò comporta che, per gli
eserciti greci della prima metà del V secolo, ma in un certo senso anche per le età successive sino
ad Alessandro e ai regni ellenistici dei diadochi, si debba parlare più correttamente di cittadinisoldato, che di soldati-cittadini. Sotto l‘aspetto della logistica, dunque, gli eserciti delle poleis
greche erano molto più arretrati di quello, dinastico e dotato di una complessa macchina logistica,
degli Achemenidi; ed allo stesso modo, se ci soffermiamo ad esaminare l’aspetto storico culturale
della guerra in Occidente e in Oriente, mentre gli opliti greci erano prima cittadini e poi soldati,
quelli mobilitati dai persiani, essendo sudditi o mercenari, erano in primo luogo ed essenzialmente
dei soldati.
Una certa logistica più strutturata e meno “fai da te” sarebbe apparsa soprattutto tra gli Spartani
negli anni successivi alla prima metà del V secolo. Essi, da popolo e organizzazione statale che
più di ogni altro nell’Ellade erano preparati e finalizzati per la guerra, possedevano dei veri e propri
convogli logistici forniti dallo Stato, la cui composizione e numero erano stabiliti dagli efori. Mentre i
carri portavano l’occorrente per l’accampamento o le fortificazioni campali, come pale, picconi,
asce, incudini, pali o attrezzi per la carpenteria, gli animali da soma portavano in genere gli attrezzi
leggeri usati dal genio e dalla fanteria leggera (i già citati sciriti) per disboscare e rendere agibile la
strada all’esercito ed alle salmerie. Di questi convogli facevano naturalmente parte anche schiavi
pubblici e non più gli iloti personali degli opliti, e cioè fabbri, carpentieri, semplice mano d’opera ed
anche, finalmente, medici.
Ma tutto ciò era ancora ben al di là da venire.
15
Piero Pastoretto
Il numero dei Persiani a Platea
Quanto detto all’inizio del capitolo precedente a proposito del numero degli Elleni a
Platea vale anche per i Persiani.
Nel libro VII delle Storie viene presentata la rassegna delle truppe fatta da Serse a
Dorisco32 dopo il passaggio dell’esercito in Europa. Anche in questo caso l’ars rethorica
prevale sulla scientia historica di Erodoto il quale, pur affermando di non poter essere
preciso circa il numero di soldati forniti da ciascun popolo alla spedizione, specifica che,
nel suo insieme, l’esercito risultava di 1.700.000 unità ed era composto da 47 nazioni
diverse, dagli Arabi agli Egizi, dagli Etiopi agli Indiani33.
Molto interessante, sotto l’ottica dell’evoluzione della scienza militare, è la
suddivisione della catena di comando. Lo storico, infatti, si diffonde su alcuni particolari
che appaiono nuovi e comunque inconsueti: i capi dei singoli contingenti, conclusa la
rassegna davanti al Gran Re e numerati i guerrieri con un sistema bizzarramente
ingegnoso34, procedono alla scelta dei comandanti. Essi designano i comandanti dei
1.000 e dei 10.000; e questi a loro volta scelgono gli ufficiali inferiori comandanti dei 100
e dei 10. Erodoto inoltre osserva che gli ufficiali delle taxis regolari non erano quelli dei
contingenti nazionali35, ma persiani.
Se tutto ciò è vero, osserviamo che l’esercito achemenide appare ormai come un
organismo complesso, capillarmente innervato dall’ufficialità, composto da reparti dotati
di un organico fisso ed equivalenti, a partire dal basso, a quelli moderni di una squadra,
plotone, compagnia, reggimento e divisione; e inoltre sottoposto a una catena di
comando unitaria, che per prudenza e affidabilità è affidata all’elemento persiano e non
a quello nazionale, militarmente molto meno attendibile 36. Tutto ciò, aldilà del numero
iperbolico degli effettivi, degno dell’Ostfront della seconda G.M., denota indubbiamente
una certa razionalizzazione, anche se sono ancora embrionali e non consapevoli quelle
ulteriori caratteristiche di modernizzazione che nell’articolo sull’Arte della guerra avevo
definito diversificazione, specializzazione e mobilità.
Infatti, l’unica significativa differenziazione nell’esercito di Serse a Platea era
costituita dalla cavalleria pesante e leggera, oltreché dalla fanteria pesante persiana e
meda, mentre tutto il resto dello smisurato esercito, cioè la maggioranza assoluta, si
riduceva ad una fanteria leggera armata confusamente di arco, spada e lancia e senza
32
Storie, VII (Polimnia), 59-83.
33
Senza contare la fanteria imbarcata sulle 1207 triere, gli uomini delle navi onerarie e delle
ippagoghe.
34
Sia per il sistema di numerazione dei soldati, sia per la sbalorditiva quantità degli armati, cfr.
Storie, VII (Polimnia), 59 e 60.
35
Uso, come nell’articolo precedente, il termine tecnico taxis per indicare un reparto di qualsiasi
consistenza.
36
Sembra inutile rammentare che, nei reparti indigeni delle potenze coloniali europee, gli ufficiali
erano tutti nazionali.
16
A Proposito di Platea
specializzazioni al suo interno. Se questa diversificazione negli armamenti rendeva
l’esercito achemenide in un certo senso più evoluto e senz’altro superiore alla
‘monotematicità’ oplitica di quello della Lega, tuttavia gli mancava del tutto l’elemento
indispensabile della specializzazione dei ruoli. Non ha nessun senso, infatti, possedere
una fanteria leggera o pesante, e in aggiunta una cavalleria leggera o pesante, se non si
ha la minima idea di come usarle e di come sfruttarne le intrinseche capacità.
Circa invece il numero degli invasori che, al comando di Mardonio affrontarono la
Lega a Platea, Erodoto è più misurato. Quando, alla conclusione dello scontro, ci
fornisce le cifre dei combattenti nemici, specifica che:
«I Greci poterono così fare un tale massacro che, di 300.000 soldati che erano (meno i
40.000 con i quali Artabazo s’era dato alla fuga), di tutti gli altri, neppure 3.000 riuscirono a
salvarsi.»37
Nel computo dei 260.000, si badi bene, erano compresi anche i cavalieri, dei quali
però non fornisce le cifre.
Erodoto specifica inoltre che, in aggiunta ai 260.000 dell’esercito persiano,
combattevano anche gli alleati beoti e gli altri opliti ellenici che parteggiavano per il Gran
Re, e ne stima il numero in 50.000. Sicché, le due cifre sommate porterebbero l’esercito
nemico della Lega panellenica al numero veramente incredibile di 310.000 uomini.
D’accordo con gli storici moderni ritengo di dover parecchio ridimensionare il numero
dei barbari. A voler essere generoso, riduco gli Achemenidi a forse 100.000 combattenti,
poco più del doppio del numero reale di quelli della Lega. Con tale seisáchteia, giungo a
stimare che il numero totale dei combattenti a Platea non sia stato superiore ai 140.000,
massimo 150.000 uomini. Una cifra, nonostante il ridimensionamento, senz’altro
considerevole e anzi, spettacolare, se si considera che ci troviamo nel 479 a. C.38
Le capacità operative dei due eserciti
Come avevo osservato nel precedente lavoro di cui le ricerche presenti sono soltanto
i paralipomeni, l’articolazione e l’organizzazione interne dell’esercito achemenide del V
secolo appaiono a prima vista più complesse e ‘moderne’ di quella dell’esercito della
Lega Panellenica.
37
IX (Calliope), 70, 5. All’indomani di Salamina Serse era tornato in patria con tutto l’esercito,
tranne i 300.000 che, in Tessaglia, Mardonio aveva accuratamente scelto di trattenere con sé per
continuare le operazioni in Grecia. Cfr. VIII (Urania), 113. La ritirata del gigantesco esercito
persiano insieme al suo re era dovuta essenzialmente a motivi logistici, non essendo in grado
neppure tutta l’Ellade di mantenere e rifornire un così gran numero di uomini e animali.
38
A Waterloo, ventitré secoli dopo, si affrontarono fra Inglesi, Francesi e Prussiani, 212.000
uomini, mentre a El Alamein i combattenti in campo erano pressappoco 300.000.
17
Piero Pastoretto
‘A prima vista’, dico, poiché questa affermazione non deve farci ritenere che i
Persiani avessero raggiunto un grado maggiore di razionalizzazione rispetto agli Elleni.
La differenziazione all’interno dei propri reparti, infatti, era puramente di armamento ma
non di specialità, derivando esclusivamente da quella interna fra i quarantasette
contingenti barbari che componevano l’esercito; e, comunque, come ho già scritto, si
riduceva a tre uniche componenti: cavalleria, fanteria pesante (persiani e medi) e
fanteria leggera (tutto il resto delle milizie).
Viceversa, una diversificazione autenticamente evoluta, sul tipo per intenderci di
quella raggiunta da Alessandro, avrebbe imposto ad esempio l’ulteriore differenziazione
della cavalleria in leggera e pesante con compiti specifici: e della fanteria leggera in
reparti veloci armati di giavellotti, e reparti esclusivamente di arcieri e di frombolieri
destinati a combattere a contatto soltanto balistico con il nemico.
Nulla invece di tutto questo, anche se dobbiamo rendere merito a Mardonio (per la
verità al tebano Timagenida, suo mentore) di avere avuto l’intuizione di selezionare con
cura le truppe da trattenere in Grecia, premiando la qualità sulla quantità, e lasciando
andare insieme a Serse, tutte le scorie inutili del gigantesco esercito: semplice carne da
macello che gli avrebbe procurato soltanto problemi logistici per il suo svernamento 39
senza garantirgli alcun vantaggio, né tattico né strategico40.
Ancor meno strutturato come un organismo, e quindi in un certo senso più arcaico,
era l’esercito della Lega, concepito da almeno due secoli come un monolite e
giustamente chiamato falange, cioè “rullo” che tutto schiaccia e frantuma. La vetustà
della concezione, però, sperimentata e modificata nel corso di centinaia, se non migliaia
di battaglie intestine piccole e grandi, garantiva l’alta tecnologia dell’armamento e la
solidità rodata dei fanti sul campo. Niente cavalleria, dunque, nessuna fanteria leggera
adatta all’aggiramento (ho già criticato a sufficienza l’accenno agli schiavi usati come
psilόi) né armi adatte a colpire da lontano. Tanto sulla terra quanto sul mare gli Elleni
concepivano soltanto lo scontro diretto, oplite contro oplite, lo sguardo fisso negli occhi
dell’avversario, scudo contro scudo, e rostro contro rostro tra le navi.
Tuttavia, per quello che oggi anche in Italia, chissà perché, si definisce con termini
anglosassoni combat reading dei due eserciti in campo, possiamo senz’altro dare la
palma a quello della Lega.
39
Naturalmente, se non ci fosse stata Platea.
40
La selezione di Mardonio fu molto oculata. A Platea combatterono infatti Persiani, cavalieri e
fanti. selezionati e in più 2.000 cavalieri scelti. Accanto a loro c’era l’élite dell’esercito: Medi, Saci,
Battriani e Indiani al completo. Tra gli altri popoli, furono scelti solo gli individui che «avevano
compiuto qualche buona impresa». Erodoto, come ho scritto, non parla né di Immortali né di
melofori, poiché forse avevano seguito Serse in Persia. Ciò non sorprenderebbe, essendo la sua
guardia personale e costituendo l’unico reparto armato realmente valido per mantenere l’ordine
nell’impero, dal momento che la migliore fanteria e cavalleria erano rimaste in occidente.
18
A Proposito di Platea
Le capacità operative di un esercito, secondo il celebre storico e consulente del
Pentagono Edward Luttwak, si fondano su due elementi: la tecnologia - high technology
- e l’addestramento individuale - basic soldier41.
Sulla “high technology”, aggiunge Martin van Creveld, massimo storico militare della
Hebrew University di Gerusalemme: “«Tenendo conto dei limiti posti dalle sue
dimensioni, la credibilità di un esercito come strumento di forza militare corrisponde alla
qualità e quantità del suo equipaggiamento moltiplicati per il potere di combattimento».
Restano sempre e comunque invariati, presso tutti gli eserciti in tutti i periodi storici, i tre
fattori umani intangibili: capacità di comando, coesione del gruppo e morale individuale.
Per l’addestramento dei due eserciti a Platea, il cui fine è quello di fornire ai soldati la
capacità di combattere, la valutazione è ardua. A questo proposito va ricordato ancora
una volta Luttwak: «Quello che veramente importa non è quello che il soldato sa, ma
piuttosto quello che è condizionato a fare nella realtà del combattimento». Si tratta,
come afferma l’autore, non dell’addestramento puro e semplice del combattente
finalizzato all’uso ottimale del suo equipaggiamento militare, ma del suo
equipaggiamento mentale. In altri termini, si torna ai tre fattori umani che trascendono
qualsiasi altro fattore logistico, tecnologico o tattico della battaglia: la capacità di
comando, la coesione del gruppo e il morale individuale. Ed in questo campo, almeno a
giudizio di Erodoto, gli Elleni erano senz’altro superiori alla gran parte dell’esercito
persiano. Il polìtes greco, specialmente quello spartiate, in qualsiasi città dell’Ellade sin
dalla sua efebia riceveva una formazione globale, che andava dalla poesia alla retorica,
dalla ginnastica nei ginnasi alla musica, alla danza e persino alla filosofia, e di cui
faceva parte integrante anche quella militare. I giovanetti negli edifici pubblici
imparavano l’istruzione militare, l’uso delle armi, la disciplina della lotta e, i più ricchi tra
loro, godevano persino di un maestro d’armi privato, l’oplomaco, che li esercitava
nell’arte del duello. Le continue guerre tra poleis, permettevano poi ai giovani di mettere
in pratica più volte nella loro vita attiva gli insegnamenti ricevuti e ne facevano delle
ottime e sperimentate ‘macchine da combattimento’, senz’altro superiori ai soldati
persiani, disavvezzi alle guerre in un impero unificato ed essenzialmente, tranne poche
ribellioni, pacifico al suo interno.
Insomma, per quanto si rimanga poco informati sulla paideia persiana circa
l’educazione militare dei nobili e dei ricchi, quattrocento anni di guerre continue fra le
poleis greche avevano creato delle generazioni di cittadini fisicamente e
psicologicamente pronti alla guerra, dotati inoltre di una eccellente formazione militare e
culturale che ne rendeva dei fidati, e formidabili combattenti, in grado di affrontare
qualunque rischio e qualsiasi fatica. Circa la motivazione poi, che è parte integrante
della psicologia di qualsiasi combattente, non vi è dubbio che essa giocasse
pesantemente in favore degli opliti greci, ansiosi di difendere la propria terra,
rivaleggiare in valore tra le varie città, vendicare le Termopili e completare la vittoria di
Salamina.
41
Edward N. Luttwak, Strategia. La logica della guerra e della pace, Milano, Rizzoli, 2001.
19
Piero Pastoretto
Il morale dell’esercito di Serse, al contrario - se vogliamo prestar attenzione alla già
citata testimonianza di Tersandro che Erodoto dice di aver udito con le proprie orecchie,
se questo episodio non si riduce invece a un mero ornamento retorico, e soprattutto se il
sentimento di angoscia confidato dall’ignoto persiano si estendeva effettivamente a tutto
o a una buona parte degli uomini - era pessimo, rassegnato e lugubre; mentre
l’atteggiamento dei suoi capi, dopo la catastrofe di Salamina e il ritorno (quasi una fuga)
di Serse in patria, almeno come ci par di capire dal dialogo avvenuto al simposio,
rasentava quello che oggi si chiama disfattismo.
Per questi motivi affermo dunque con certezza che il basic soldier dell’esercito della
Lega panellenica doveva essere superiore a quello dell’esercito di Mardonio.
Riguardo al secondo elemento che confluisce nelle capacità operative di un esercito,
la high technology, le qualità dovevano invece essere suppergiù pari per i due
contendenti: i Persiani, i Saci e i Medi erano armati convenientemente, anche se con
lance e scudi profondamente diversi nella concezione da quelli oplitici. Gli Immortali e di
conseguenza forse anche gli altri corpi di fanteria pesante, inoltre, assumevano
probabilmente in battaglia uno schieramento falangitico simile a quello dei Greci 42:
formazione peraltro tanto logica da essere praticamente l’unica possibile per un
dispiegamento di fanteria pesante in tutti i tempi sino a quelli della polvere da sparo.
In più, mentre i Persiani potevano almeno annoverare una differenziazione di
specialità nel loro esercito - cavalleria, fanteria leggera e pesante, alla quale potremmo
aggiungere anche una quarta specializzazione, quella degli opliti della Ionia e tebani -,
la Lega poteva invece contare soltanto sulla fanteria oplitica; e fu errore sommo di
Mardonio non avere intuito quale vantaggio avevano le sue formazioni sul nemico, se
soltanto le avesse volute usare intelligentemente.
Per quanto riguarda la disposizione sul campo, infine, quella degli Elleni a Platea si
colloca ancora in una fase artistico intuitiva ai livelli di quelle omeriche:
l’esercito della Lega era ancora diviso non per reparti omogenei di numero di
organico, ma per contingenti delle poleis di provenienza;
non esisteva tra gli Elleni una vera unità di comando, anche se questa
formalmente spettava a Pausania, ma le decisioni dovevano ancora essere prese
attraverso il faticoso accordo di tutti i comandanti maggiori. Una forte unità di comando
esisteva invece, poiché si trattava di un esercito dinastico, fra i Persiani, in quanto
l’unico responsabile dell’esercito era Mardonio43;
42
Polibio, nei capitoli del Libro XII dedicati al commento di Callistene sulla battaglia di Isso, parla
esplicitamente di falange persiana. Cfr. P. Pastoretto, Polibio vs. Callistene, in arsmilitaris.org.
43
Anche se, per la maledizione che sembra colpire tutti i generali in capo che si sono avvicendati
nella storia, anche lui doveva sopportare la rivalità del suo secondo, Artabazo.
20
A Proposito di Platea
la disposizione sul campo era soltanto fittiziamente ripartita in un centro e due
ali, dal momento che queste, non disponendo la Lega di una cavalleria o di una fanteria
leggera, non erano manovrabili più di quanto lo fosse il centro e dunque si riducevano a
semplici fianchi, ma non ad ali tattiche. Se inoltre esisteva un capo riconosciuto del
fianco destro, Pausania, e del fianco sinistro, Aristide44, Erodoto non menziona mai il
nome di un comandante del centro. Tornerò su questo argomento di sostanziale
importanza;
non esistevano delle riserve strategiche, ma tutti gli uomini erano concentrati su
un’unica linea falangitica di profondità variabile, generalmente e tradizionalmente dalle
otto alle dodici file.
Perché Platea può essere considerata la prima battaglia moderna
Sebbene in apparenza, non si affacciasse nihil novi sub sole dei campi della Beozia
bagnati dall’Asopo, tuttavia ci sono dei validi motivi per accostare quella battaglia del
479 a.C. a una tipologia molto differente dalle precedenti e per identificarla quindi come
terminus post quem far iniziare la rivoluzione della guerra da ars semper idem faciens a
episteme razionale. Vedrò di elencarli.
Durata: mentre le battaglie anteriori al V secolo, ed anche la maggior parte di quelle
successive al V, si risolvevano in una sola giornata di aspri combattimenti, quella di
Platea si prolungò, con lunghi periodi di sosta, di scaramucce e di manovre, dal primo
scontro con la morte di Masistio sino allo scontro finale e a quella di Mardonio, per
tredici giorni45. Ciò preannuncia singolarmente la durata delle battaglie dell’età moderna
e contemporanea che, in media, dal loro accendersi al loro esaurirsi, richiedono più di
una settimana di combattimenti: la seconda battaglia di El Alamein, per citare un
esempio e salvaguardate le debite differenze, si svolse in un arco di tempo di dieci
giorni (23 ottobre – 3 novembre 1942) ed altrettanti ne durò quella di Kursk (5 luglio – 16
luglio 1943).
Manovra: la battaglia di Platea, proprio per la sua lunghezza nel tempo, fu
manovrata e non si ridusse a uno statico massacro di schiere seguito a una rapida e
semplice disposizione sul campo. Gli elleni, incalzati dai Medi, furono costretti a marce e
contromarce cambiando per tre volte di posizione e rischierandosi su tre fronti diversi.
Le complicate manovre di riposizionamento e l’articolazione in diversi settori sono una
delle caratteristiche più comuni delle battaglie moderne.
Tattica: Mardonio giocò con molta bravura le sue carte prima dello scontro finale e
manovrò alle spalle e davanti alle linee della Lega per tagliare al nemico sia la via dei
44
Bisogna ovviamente tener presente che Aristide, a sua volta, doveva vedersela con gli altri
nove strateghi ateniesi.
45
Il calcolo dei giorni è personale e non coincide con quello di Erodoto.
21
Piero Pastoretto
rifornimenti attraverso il Citerone, sia l’approvvigionamento dell’acqua dall’Asopo. Ciò è
segno di un’evoluta e moderna concezione della battaglia, nella quale la vittoria va
ricercata non semplicemente schiacciando l’avversario con la forza bruta in un’unica
mischia risolutiva della durata di poche ore, ma indebolendolo progressivamente
attraverso rapide puntate e incursioni dietro le sue linee tendenti a mettere in crisi i suoi
rifornimenti e collegamenti.
Strategia: inizialmente entrambe le parti erano timorose di uno scontro: gli Elleni
temevano la cavalleria nemica e i persiani sapevano di essere molto inferiori nella
fanteria. La tattica di Mardonio era dunque tutt’altro che aggressiva ed è piuttosto
definibile come ‘attendista’. Altrettanto si deve dire dell’esercito della Lega che, per nulla
disposto a prendere l’iniziativa e, una volta privato dei suoi approvvigionamenti, preferì
ritirarsi anziché arrischiare una massiccia offensiva.
Se tuttavia la tattica messa in atto da entrambi gli eserciti fu temporeggiatrice e
indecisa, ciò non toglie però che la strategia generale alla quale obbediva la Lega nel
479 sembra essere stata quella risolutiva di una battaglia d’annientamento: la prima,
vera, battaglia d’annientamento della storia greca. Uno scontro voluto coscientemente,
risoluto, teso alla distruzione totale del nemico in un’unica gigantesca battaglia dalla
quale non avrebbe più potuto riprendersi. Il pensiero naturalmente va a Bonaparte: ma
questo concetto, ventidue secoli prima, era totalmente estraneo agli Elleni. Le guerre
dell’Ellade degli ultimi duecento anni erano ancora concepite come delle rapide
incursioni armate estive tese più che altro a devastare i raccolti del nemico per metterlo
in difficoltà di sopravvivenza, dal momento che si sradicavano le vigne e si tagliavano
anche gli ulivi. A questo punto, colui che subiva l’incursione aveva due scelte: arrendersi
o dare battaglia. Questa comunque si concludeva in genere con la dissoluzione, ma non
con la distruzione di una delle due falang,i e comunque non certo con l’annientamento di
un intero esercito.
Un obiettivo risolutivo di un’intera guerra come quello adottato dagli Elleni a Platea,
chiarissimo alla mente dei moderni, era del tutto estraneo alla strategia greca almeno
sino alla fine della guerra del Peloponneso nel 404.
Dimensioni:
Per rivedere una battaglia con quasi 150.000 uomini in campo si sarebbe dovuta
attendere l’età di Alessandro o la giornata di Canne. Le cifre dei combattenti per l’epoca,
e soprattutto per gli eserciti dell’Ellade e dell’Occidente, erano assolutamente enormi,
persino fantastiche, e preannunciano quelle delle gigantesche battaglie del XIX e XX
secolo.
22
A Proposito di Platea
IN RE
Data imprecisata di settembre. 1° giorno: a Eritre 46
Mentre l’ignoto e dolente persiano conversava a Tebe con Tersandro di Orcomeno, le
operazioni militari erano in pieno svolgimento. Il re Pausania, figlio di Cleombroto, era
partito da Sparta con l’esercito diretto in Megaride. Mardonio, avvisato dagli Argivi
dell’arrivo dei Lacedemoni, aveva raso al suolo Atene ed aveva abbandonato l’Attica per
ritirarsi nell’alleata Beozia, dove contava di dar battaglia su un terreno adatto alla
cavalleria. Fece così costruire un accampamento fortificato lungo la riva settentrionale
del fiume Asopo, e, in posizione più arretrata, un muro in legno chiaramente teso a
separare il luogo prescelto per la battaglia, la pianura alluvionale del fiume Asopo che
conteneva la città, piccola ma fortificata, di Platea47, da Tebe, la più potente dei suoi
alleati e dalla quale dipendevano tutte le sue fonti di approvvigionamento.
Asopo, accampamento e muro, infatti, guardavano le due strade che dal Citerone, da
dove forzatamente dovevano passare gli Elleni che provenivano dall’Attica, avrebbero
dovuto percorrere per giungere a Tebe. In tal maniera non solo Mardonio proteggeva la
città che almeno per qualche tempo gli avrebbe garantito i rifornimenti, ma avrebbe
bloccato ogni ulteriore avanzata nemica in Beozia e avrebbe costretto quelli della Lega
Panellenica a combattere nel terreno scelto e convenientemente predisposto da lui con
due linee di fortificazioni, e per giunta più adatto alle manovre della sua cavalleria.
L’ideale sarebbe stato essere in possesso anche della città di Platea, ma questa, al
contrario di Tebe e pur essendo in Beozia, non aveva aderito all’alleanza con il Persiano
e Mardonio evidentemente non aveva ritenuto utile occuparla dopo averla incendiata,
dal momento che non costituiva alcuna fonte di pericolo.
Nel frattempo i Peloponnesiaci s’incontravano con gli Ateniesi e i Megaresi a Eleusi,
sulla via che dall’Attica conduce a Tebe passando per il Citerone, e a forze riunite
procedevano verso Eritre, in Beozia, che sorge appunto ai piedi del Citerone.
Superato facilmente il monte percorrendo il passo che i Beoti chiamavano Tricefale 48
e gli Ateniesi Driocefale e giunti a Eritre, gli Elleni vennero a sapere che i Persiani erano
accampati oltre l’Asopo e non scesero in pianura, ma si schierano a battaglia,
prudentemente, e forse anche confusamente, alle falde settentrionali del monte,
46
Come ho già scritto, non mi affido ad alcuna cronologia esatta dei giorni degli avvenimenti. Mi
pare già fin troppo parlare solo di settembre e non anche di ottobre.
47
Ognun vede che Platea, (Πλάταια), benché secondo il mito fosse una figlia del dio fluviale
Asopo, all’orecchio greco suonava molto affine all’aggettivo femminile πλατεῖα (platéia) o πλατέα
(platéa) “ampia”, “larga”, “pianeggiante”. Ancor oggi nelle sale teatrali o cinematografiche
troviamo una ‘platea’ e una ‘galleria’.
48
Il nome Tricefale suggerisce che le vie che attraversavano il monte fossero tre,
presumibilmente alternative, e che, dunque, sarebbe più corretto parlare di passi del Citerone,
che non di un ‘passo’ del Citerone.
23
Piero Pastoretto
temendo un assalto dei cavalieri persiani. Precauzione estremamente opportuna, dal
momento che questo era precisamente il piano del nemico.
Erodoto non ci descrive lo schieramento dei greci nel primo giorno di battaglia a
Eritre, mentre sarà molto più prodigo di notizie in futuro. Sappiamo però che la fronte
dell’esercito doveva essere grossolanamente posta verso nord, dal momento che
l’Asopo scorre in quel luogo da est a ovest, e che l’attacco medo non fu una semplice
scaramuccia, poiché i Persiani ‘scaraventarono’ contro l’esercito della Lega panellenica
tutta la loro cavalleria (πᾶσαν τήν ἳππον) guidata da Masistio49.
Non vi è dubbio tuttavia che con quel pásan Erodoto non intenda affatto tutta la
cavalleria a disposizione di Mardonio, il che sarebbe davvero esagerato, ma soltanto
tutti gli eccellenti corpi costituiti da Medi, Persiani e Saci: ovvero il fior fiore della
cavalleria, ma soltanto di quella pesante e non la massa della cavalleria leggera dei
popoli sottomessi, che pure doveva essere rimasta, almeno in parte, parte a
disposizione degli occupanti.
49
IX, 20. Erodoto aggiunge che gli Elleni chiamavano questo personaggio Macisitio (Μακίστιος),
“Altissimo”, forse per la sua imponente corporatura. Non è ben chiara la ragione per lo storico
esca in questa precisazione, forse perché esistevano delle divergenze su quel nome. È
comunque chiaro che, sebbene Masistio sia nominato solo adesso, i Greci dovevano in qualche
modo conoscerlo bene.
24
A Proposito di Platea
La cavalleria di Serse
Nel Libro VII (Polimnia) Erodoto si diffonde in una lunga descrizione all’esercito di Serse, che
occupa più di 40 capitoli. In 40 e 41 parla di 2.000 cavalieri scelti Persiani e Medi, armati di
corazze e lance, che accompagnano il Re, e che verosimilmente sono proprio quelli che caricano
ad Eritre. Quanto al resto della cavalleria, nei capitoli 84-87 del VII lo storico afferma che tutti i
popoli sottomessi che seguivano il Re la possedevano, ma che soltanto alcuni di questi ne
fornivano dei contingenti in quella campagna. Erodoto ce ne propone anche i nomi: si tratta dei
Sagarti di stirpe persiana, Indiani, e poi ancora Medi, Saci, Battriani, Caspi, Pericani, Arabi, Libici. Il
numero totale dei cavalieri viene fatto ascendere a 80.000.
Ora, poiché sappiamo che Mardonio trattenne con sé in Grecia soltanto i migliori, ovvero Medi,
Saci, Battriani e Indiani, possiamo supporre che ne trattenesse anche tutta la cavalleria. Viceversa,
per quanto riguarda gli altri popoli – Sagarti, Caspi, Pericani, Libici e Arabi – possiamo invece
supporre che ne mantenesse solo degli elementi selezionati e di provato valore. Peraltro, l’Ellade
non era assolutamente in grado di produrre il foraggio necessario a far svernare così tante migliaia
di quadrupedi, ed era tanto povera che già nel 490 si era stati costretti a mantenerli con l’erba
medica trasportata dalla madre patria.
Quanto alla carica della cavalleria a Eritre, fu sicuramente la prima usata massicciamente nella
II guerra Persiana, dal momento che nel 480 alle Termopili, l’unica battaglia terrestre di una certa
significanza, essa non compare. Certamente durante la II Persiana vi furono scorrerie, saccheggi e
incursioni; tuttavia, devo aggiungere, la caica di Eritre fu in assoluto la prima che gli Elleni
avessero sperimentato nella loro storia, e dovette per loro essere terrificante.
25
Piero Pastoretto
Vediamo adesso come si sviluppò la carica di Eritre.
Erodoto riferisce che i Persiani, guidati dal loro comandante Masistio, non caricarono
in massa ma per ‘squadroni’ (κατὰ τέλεα) e dunque per reparti bene ordinati e distinti, e
aggiunge che il settore sottoposto a maggior pressione fu quello occupato dai Megaresi,
che Erodoto definisce il punto più vulnerabile (ἐπιμαχώτατον), e tra i quali si verificarono
gravi perdite50. In mancanza di ulteriori precisazioni possiamo supporre che il punto più
‘vulnerabile’ fosse quello usuale di tutti gli eserciti antichi, ossia il fianco destro. A Platea
questo sarebbe stato coperto dal robustissimo contingente dei Lacedemoni, ma può
essere ammissibile che, appena superati in colonna i valichi del Citerone e dopo essersi
frettolosamente ordinati a battaglia, per avventura fossero i Megaresi, i primi (o gli ultimi)
a sboccare dalle pendici del monte nella vallata dell’Asopo, a occupare il lato destro. Ed
è peraltro altrettanto comprensibile che Masistio dirigesse il proprio attacco di
preferenza verso il punto più delicato della formazione nemica, che per di più vedeva
occupato da un contingente piuttosto debole51.
In breve i Megaresi, sul punto di cedere, inviarono un araldo ai comandanti della
Lega chiedendo rinforzi; e a questo punto si manifesta tutta la fragilità del sistema di
comando dell’esercito ellenico. Erodoto, infatti, narra che Pausania dovette chiedere agli
alleati se qualcuno fosse disposto a soccorrere i Megaresi e a sostituirsi a loro, ma tutti
rifiutarono tranne gli Ateniesi, che inviarono un lochos di 300 uomini scelti sotto il
comando di un tale Olimpiodoro, accompagnati da un numero imprecisato da arcieri 52.
Quanto ai trecento “scelti” (λογάδες), è ipotizzabile che ogni esercito greco del V – IV
secolo, almeno tra quelli più forti e importanti, avesse un corpo d’élite più o meno di
quella consistenza. Ne fanno fede i Tebani a Leuttra e Cheronea e gli Spartani alle
Termopili.
Sull’importante particolare degli arcieri che accompagnano Olimpiodoro, ritengo però
utile soffermarmi un istante.
50
IX, 21, 1.
51
I Megaresi, come si vedrà più avanti, erano 3.000 e a Platea avrebbero tenuto il fianco sinistro
a immediato contatto con gli 8.000 Ateniesi di Aristide.
52
Adotto qui il termine λόχος, che non traggo da Erodoto, per definire in maniera piuttosto vaga
un corpo di 300 opliti, ispirandomi al celebre ierόs lochos tebano, che aveva appunto questa
consistenza. Avrei potuto usare anche, genericamente, taxis. Pare che tutti gli eserciti greci
possedessero dei corpi scelti di trecento opliti. Questo numero, infatti, in Erodoto ricorre troppo
spesso per essere casuale.
26
A Proposito di Platea
Arcieri sciti fra gli Ateniesi
Chi erano gli arcieri ateniesi? Avverto che la mia è un’ipotesi puramente deduttiva, che non mi risulta sia
mai stata presa in considerazione.
Nel capitolo 22 del Libro IX, quello che sto esaminando, si legge dunque che gli Ateniesi sostituirono i
Megaresi e «si schierarono davanti agli altri Greci verso Eritre, prendendo con sé gli arcieri (τοὺς τοξότας
προσκελόμενοι)». Erodoto sembra dare questa notizia con una certa trascuratezza, come se ai suoi tempi
fosse noto a tutti che gli Ateniesi possedessero un corpo di arcieri. Poco più oltre, riporta che il cavallo niseo di
Masistio fu colpito proprio da una freccia, scosse il suo cavaliere e questi cadde a terra venendo poi ucciso da
un fante, forse un oplite53 o un arciere stesso.
Ora, questi arcieri, benché Erodoto soltanto qui ne faccia cenno, dovevano ovviamente appartenere al
contingente di Atene, ma sappiamo anche che gli Ateniesi schieravano, come tutti gli altri contingenti della lega,
soltanto fanteria pesante e, per di più, che l’arma dell’arco non era affatto coltivata in Ellade se non per la
caccia ai piccoli animali. Qualsiasi resoconto o immagine di caccia alle fiere di provenienza greca, infatti, ci
descrive o mostra soltanto uomini armati di giavellotti; persino nel mito, l’arco era l’arma sacra di due sole
divinità, Apollo e Artemide, mentre degli eroi omerici soltanto Odisseo fa strage di nemici (i Proci) con le sue
frecce. Dunque, come spiegare la presenza di arcieri tra gli Ateniesi, mentre Erodoto nel libro IX non ce ne dà
notizia per nessun altro contingente?
I rapporti commerciali di Atene con le colonie elleniche del Chersoneso e del Lago Meotide (Cnido, Olbia,
Tyras, Panticapeo) erano molto intensi già dalla fine del VI secolo. Queste colonie, a loro volta, erano per
necessità in stretti contatti con le tribù scitiche dell’interno, tant’è vero che Erodoto, nel Libro IV (Melpomene), è
in grado di scrivere un intero logos sui costumi degli Sciti, o almeno di quelli più limitrofi ai centri d’irradiazione
della cultura greca e parzialmente ellenizzati. Tra le ‘importazioni’ di provenienza scitica, oltre a quella del
pellame e dei metalli, soprattutto oro, vi era anche quella di arcieri, molto rinomati nell’antichità. Da tre
commedie di Aristofane (Thesmoforiazuse, Lisistrata, Ecclesiazuse) apprendiamo che nell’Atene della metà
del V secolo esisteva un corpo di 300 arcieri sciti54, poi passati addirittura a 1.000, che costituivano una sorta di
corpo di polizia addetto all’ordine pubblico e soprattutto alla disciplina e alla difesa della Boulé (a esempio
costringere a entrare i cittadini che indugiavano nell’agorà prima delle sedute o allontanare i disturbatori) 55.
Inoltre, almeno a partire dalle guerre del Peloponneso, ogni trierarca e kybernétes ateniese era difeso da
quattro arcieri sciti.
Dunque mi pare sia possibile ammettere che i toxotài che accompagnavano il lochos degli Ateniesi in
soccorso di Megaresi fossero costituiti da tutti o da una parte degli Sciti impiegati come forze dell’ordine in città,
indipendentemente che essi conservassero in quella campagna militare lo status di schiavi pubblici privilegiati,
come i banditori e gli impiegati dell’Ecclesìa, che fossero stati emancipati per l’occasione, o che fossero milizie
del tutto mercenarie.
Se la mia tesi è esatta, gli arcieri di Platea sarebbero stati il primo contingente di barbari usato da eserciti
dell’Ellade nel corso della storia. E, se di nuovo non erro, in quell’occasione questi barbari si trovarono a
combattere anche contro i propri compatrioti dalla parte opposta, dal momento che i Saci schierati con i
Persiani null’altro erano se non Sciti anch’essi
53
Scrivo, e scriverò sempre di seguito oplite (ὀπλίτης) con la desinenza ionica, e non oplita, con
la desinenza dorica in alfa.
54
Ancora una volta ritorna il numero trecento.
55
Cfr. a questo proposito, Paolo A. Tuci, Arcieri sciti, esercito e democrazia nell’Atene del V
secolo a.C., in “Aevum”, 78, I (gennaio-aprile 2004), pp. 3-18.
27
Piero Pastoretto
La breve cronaca della battaglia di Eritre fornita da Erodoto ci rende in particolare
avvertiti delle evolute manovre adottate dalla cavalleria persiana. Essa non solo carica
per squadroni, ma questi non si limitano allo scontro brutale: invece attaccano,
indeboliscono la linea difensiva, si ritirano, si ricompattano, si riorganizzano e tornano
ad attaccare in successive ondate, volteggiando e sostituendosi sul campo come
sarebbe avvenuto venti secoli più tardi con il sistema del caracollo. Una tattica certo
molto raffinata, consumata e oserei dire oltremodo moderna. Non certo improvvisata sul
momento dal loro comandante, ma frutto di una lunga evoluzione precedente al V
secolo, della quale tuttavia solo qui abbiamo la prima traccia56.
Si desume quanto dico sopra dal seguente lucido passo che segue alla morte di
Masistio. Il corsivo è ovviamente mio:
«Quanto era avvenuto era sfuggito però agli altri cavalieri: non lo avevano visto cadere da
cavallo e morire e, mentre si voltavano indietro e si ritiravano, non si accorsero di quanto era
accaduto. Ma quando si furono fermati, ne sentirono subito la mancanza, poiché non c’era
nessuno che li mettesse in ordine (οὐδείς ἦν ὁ τάσσων); compreso quanto era avvenuto,
incoraggiandosi l’un l’altro, tutti lanciarono i cavalli per recuperarne almeno il cadavere.» 57
Dal passo si deduce con molta chiarezza che, venuto meno il comandante e regista
dell’attacco, la cavalleria persiana perde l’esemplare coordinamento che aveva
mantenuto fino a quel frangente, gettandosi in maniera confusa e caotica sulle schiere
greche e venendo proprio per questo rigettata indietro.
Da successivi altri particolari ricaviamo, inoltre, due ulteriori preziose notizie: che la
cavalleria comandata da Masistio va intesa come un corpo di cavalleria pesante e
corazzata, in un certo senso una precorritrice dei catafratti. Infatti Erodoto non menziona
alcun lancio di frecce da parte dei Persiani, cosa invece tipica delle cavallerie leggere
barbariche58; e, quando descrive la scena di Masistio disarcionato e ucciso da un fante,
ricorda che fu prima ripetutamente colpito, ma rimase illeso poiché sotto la lunga veste
di porpora indossava un’armatura a scaglie, e solo alla fine venne trafitto in un occhio.
Che poi l’armatura fosse effettivamente d’oro come dice Erodoto (θώρηκα εἶχε
χρύσεον), un metallo non troppo adatto a resistere al ferro delle lance o delle spade,
potrebbe anche essere messo in dubbio. Se comunque Masistio indossava la lorica
preziosa di un capo persiano, verosimilmente anche i suoi uomini facevano altrettanto
con armature meno pregiate ma senz’altro più efficienti.
Caduto Masistio la battaglia di Eritre non ha più storia e si conclude con una scena
parecchio movimentata e ispirata ancora una volta ai canoni epici dell’Iliade, il più
56
Una tattica molto simile troviamo, centocinquanta anni dopo, nelle manovre della cavalleria
persiana a Isso. Cfr. P. Pastoretto, Polibio vs. Callistene, in arsmilitaris.org.
57
IX, 22, 3.
58
Arcieri a cavallo, e dunque cavalleria leggera, spunteranno più tardi durante la battaglia di
Platea.
28
A Proposito di Platea
classico dei quali è la mischia sul cadavere dell’eroe morto in battaglia 59. Secondo la
ricostruzione di Erodoto, quanto più i Persiani si accaniscono nel tentativo di recuperare
il corpo del loro generale60, tanto più accorrono gli altri Elleni a dar man forte agli
Ateniesi, e alla fine della zuffa i Persiani sono costretti a ritirarsi lasciando le spoglie del
loro comandante nelle mani del nemico.
59
Si rammentino, tra le tante, la furibonda mischia intorno al corpo di Sarpedonte del Libro XVI
(che ha ispirato, tra l’altro, lo splendido cratere di Euforione) e quella per i cadaveri di Euforbo e
di Patroclo del XVII.
60
Si può immaginare, scendendo da cavallo e combattendo appiedati.
29
Piero Pastoretto
Le novità di Eritre
Occorre a questo punto che mi soffermi a ‘leggere’ un po’ più approfonditamente la carica di Eritre alla luce
della mia tesi iniziale.
Nella storia militare l’impiego tattico della cavalleria nello scontro diretto contro forze avversarie si è
diversificato in due modi: la carica contro altre cavallerie e la carica contro le fanterie.
Nel primo caso si adottava una tattica d’urto molto semplice, addirittura intuitiva e sanguinosa, lanciando i
cavalli a tutta velocità contro i cavalieri nemici, i quali non avevano altra scelta che fuggire o fare altrettanto.
Nella seconda circostanza si sceglieva un approccio più raffinato e complesso, sostanzialmente identico a
quello che ho appena dedotto dal testo erodoteo della carica di Eritre. Infatti, poiché massicce formazioni di
fanteria ben inquadrate e irte di lance o, più tardi, di armi da fuoco, erano impenetrabili ai cavalli, che rifiutano di
calpestare gli uomini, l’unico sistema evoluto era quello che ho definito del caracollo: cariche successive per
squadroni, tese a intaccare via via più profondamente le file avversarie senza andare a infilzarsi sulle lance o
sulle baionette nemiche. Anziché un urto frontale, si preferiva dunque cavalcare parallelamente alle linee
avversarie, in modo da colpirle da una distanza minima con le sciabole o le lance.
La differenziazione di queste due tattiche tuttavia non fu affatto immediata nei tempi antichi, ma frutto di
secoli di esperienze e di maturazione, poiché l’uso intuitivo che l’uomo fa del suo cavallo in guerra è quello di
scagliarlo ventre a terra contro il nemico appiedato per calpestarlo.
Ebbene la carica di Eritre, lanciata dalla cavalleria pesante di Masistio contro una compatta formazione di
fanteria altrettanto pesante come la falange dei Megaresi, ostenta già questo uso accorto dell’attacco contro le
fanterie ben schierate e quindi si fa apprezzare per un alto grado di finezza tattica.
Un sofisticato grado di finezza che le cariche di Alessandro, di un secolo e mezzo posteriori, ancora non
avrebbero posseduto, in quanto le sue cavallerie pesanti o leggere caricavano con l’identica irruenza del
‘ventre a terra’ tanto le cavallerie quanto le fanterie persiane. Grado di finezza, infine, che non osserviamo
neppure nelle guerre del IV secolo che videro contrapposte Sparta e Tebe.
In conclusione del discorso, a Eritre abbiamo la prima testimonianza storica di un uso avveduto e evoluto
della cavalleria; un uso che si sarebbe universalmente affermato e consolidato soltanto nei raffinati manuali di
tattica a partire dal III secolo e che vide in Annibale il primo stratega a metterle diffusamente in pratica.
Ciò naturalmente non vuol dire che a Eritre era sorta l’alba dell’evoluzione tattica della cavalleria; né che il
sistema d’attacco adottato da Masistio fosse una novità scaturita dal suo genio come Atena dalla testa di Zeus.
Sarebbe ridicolo solo il pensarlo. Intendo affermare semplicemente che questa battaglia combattuta sulle
propaggini del Citerone è stata la prima in assoluto a esserci stata tramandata, che ci fornisce l’esempio di un
uso accorto e molto moderno della cavalleria e che questo esempio, anche se non immediatamente, avrebbe
accompagnato e favorito l’evoluzione generale della guerra da una fase di immobilismo artistico-ripetitivo
ancorata alla tradizione, a una fase scientifico-polemologica ispirata all’innovazione.
Il che è esattamente quanto sostenevo nel mio saggio sull’Arte della guerra.
30
A Proposito di Platea
Lo scontro del primo giorno della battaglia di Platea fu molto acceso e mise in seria
crisi una parte dello schieramento ellenico. Ho già ricordato, però, che coinvolse un
settore limitato dell’esercito della lega, e probabilmente coinvolse soltanto l’élite, anche
se tutta, della cavalleria persiana; forse proprio quei 2.000 cavalieri scelti menzionati da
Erodoto nel libro VII. Si trattò di una sorta di battaglia d’incontro, un approccio,
un’avvisaglia di ciò che sarebbe successo quando i Persiani avrebbero messo in campo
veramente tutte le loro forze. Si concluse comunque con una vittoria parziale, e di
significato soprattutto morale, della Lega Panellenica.
Terminata la battaglia, quasi a sottolineare che la conduzione dell’esercito ellenico
era sempre collettiva e mai unitaria, Erodoto usa il verbo «decisero» di scendere dalle
propaggini del Citerone per sboccare nella pianura di Platea, molto più adatta per
accamparsi e soprattutto molto più ricca d’acqua. La mossa successiva dell’esercito
panellenico fu dunque di portarsi alla fonte Gargafia e porre gli accampamenti tra questa
e il tempietto dedicato all’antico eroe plateese Androcrate.
Per i mitografi, Gargafia era la fonte in cui Artemide e le sue ninfe furono spiate
bagnarsi ignude dal cacciatore Atteone.
31
Piero Pastoretto
Il monte Citerone
A lt o p oco p iù d i 1. 40 0 me t ri, il “b o sco so ” Cit e ron e ricco d ’a cqu e è leg a to
in d isso lu b ilme n te a l cu lt o dio n isia co e a l ciclo te ba no . Su l Cit e ron e e ra sta t o
a bb an do n at o E d ip o , men t re su l Ficio , u n ’a p pe nd ice d e l Cit e ron e , la S f in g e
p rop o ne va il p ro p rio d ile mma a ch i vi t ra n sit a va . S u l Cit e ron e Nio be ave va
p e rso i suo i do d ici f ig li, P en t éo e ra sta t o d ilan ia to da lle b acca nt i e A tt eo n e da i
suo i st e ssi ca n i in cita t ig li con t ro da A rte m ide . Su l Cit e ron e , in f ine , il d ivino
O rf eo amma n siva con il can t o le f ie re ed An f io n e ne f a ce va mu o ve re le p ie t re
con la lira pe r co st ru i re le mu ra di Te b e .
S e co nd o u no d e i ta nt i mit i, ad d irit tu ra , Cit e ron e sa reb b e sta to un a nt ico re d i
P la te a, f ra t e llo d i E licon a . Con f in e na tu ra le t ra l’A t t ica e la Be o zia e la rg o
a pp en a se i ch ilo met r i, n on e ra d i pe r sé u n g ra ve o sta co lo a l pa ssag g io d i
e se rc it i in a rmi, in qu an t o la via che co ng iu ng e va A te ne a Te be p a ssa nd o p e r
P la te a co rre va piu t to sto a ge vo lmen t e a tt ra ve rso i su o i va lich i.
32
A Proposito di Platea
Data imprecisata di settembre. 2° giorno: a Gargafia, contesa fra gli Elleni
«Allora, mentre si schieravano, ci fu un lungo alterco fra Tegeati e Ateniesi. Pretendevano
entrambi di occupare l’altra ala, adducendo imprese sia recenti che antiche».
Con queste parole si apre il capitolo 26 del libro IX. Parole che necessitano però di
una certa interpretazione. Erodoto parla effettivamente di schieramento ed è anzi molto
preciso nell’uso del termine: scrive in effetti ἐν τῇ διατάξι, “durante lo schieramento”.
Tuttavia la prima impressione che ne ricaviamo, ovvero quella dell’esercito che va
ordinando le proprie schiere di fronte al nemico, è profondamente sbagliata. Qui si deve
intendere invece come la semplice scelta di ordine e disposizione sul terreno dei
contingenti collegati e delle loro relative tende in vista della futura battaglia, allorquando
il settore precedentemente occupato da ogni esercito cittadino sarebbe effettivamente
diventato un settore dello schieramento totale della Lega sul campo. In sostanza, la
scena che Erodoto qui rappresenta è quella di una contesa che sorge per una mera
questione di prestigio e di onore fra poleis al momento alleate, ma che non riescono a
dimenticare la tradizionale rivalità e la secolare gelosia che le divideva nel frammentario
microcosmo del mondo politico ellenico.
A questo punto sorge spontaneo considerare che nell’esercito della Lega mancava
qualsiasi forma di pianificazione per la futura battaglia, dal momento che si discuteva
sullo schieramento soltanto quando si aveva praticamente l’esercito nemico di fronte, a
poche centinaia di metri di distanza, oltre l’Asopo. Il che non depone a favore dello ‘stato
maggiore’ ellenico e qualifica la sua campagna in Beozia ancora al livello di uno stadio
intuitivo e ripetitivo del passato e non certo in quello di una strategia evoluta
accompagnata da una tattica altrettanto sviluppata.
Comunque, la prima impressione che offre la lettura del passo è che qui ci troviamo
di fronte ad una questione di puntiglio, dal momento che il vanto maggiore al quale una
qualsiasi taxis poteva aspirare nell’antichità era l’onore di tenere l’estremo fianco destro,
il più delicato e il più bisognoso di spiriti forti e valorosi, in quanto non protetto al lato
destro dagli scudi61. Riflettendo meno affrettatamente, però, si osserva che Erodoto ci
sta parlando di una disputa tra Tegeati e Ateniesi per tenere l’altra ala (τὸ ἕτερον κέρας),
ossia il meno ‘nobile’ ma pur sempre prestigioso fianco sinistro; la qualcosa fa
sospettare che presumibilmente la posizione ‘nobile’ sul campo fosse già stata
aggiudicata ai Lacedemoni fin dall’inizio della campagna, anche in virtù della forza del
loro contingente, che era il più numeroso di tutti.
Quanto detto impone adesso alcune osservazioni.
La Lega Panellenica era indubbiamente una coalizione di pari, ma non di uguali, in
quanto il comando generale, per quanto si rivelasse in verità assai labile, spettava
ovviamente a chi forniva i contingenti maggiori e a chi si sobbarcava agli oneri più gravi.
Nulla da obiettare su questo punto, poiché così accade anche ai giorni nostri. La cos,
61
I re di Sparta, ad esempio, in battaglia si collocavano regolarmente all’ala destra.
33
Piero Pastoretto
però, si aggravava dal momento che gli Stati più forti dell’Ellade erano due e non certo
teneramente amici l’uno dell’altro: Sparta e Atene. La latente rivalità tra le due polis, e di
conseguenza tra i loro polemarchi sul campo, doveva dunque essere oggetto di sottili e
molto delicati compromessi e negoziati, tanto più che, se la prima era più potente sulla
terra, la gran parte della potenza marittima della Lega apparteneva alla seconda.
Ciò nonostante, all’Artemisio il navarca Euribiade e i Lacedemoni avevano preteso il
comando della flotta e gli Ateniesi l’avevano concesso, nonostante la loro città
schierasse 127 navi contro soltanto 10 di Sparta. A Salamina viceversa fu Euribiade a
diventare il secondo e l’ateniese Temistocle ad assumere il comando. A Platea pare che
il comandante in capo, ma sarebbe più preciso definirlo il primus inter pares, fosse di
nuovo un lacedemone, Pausania, mentre l’ateniese Aristide fungeva da ‘brillante
secondo’. Così si spiega il fatto che nessuno contestasse agli Spartani e ai loro perieci
di tenere l’ala destra e, ovviamente, a Pausania di comandarla.
La disputa fra Tegeati ed ateniesi ha questo di interessante: che Tegea, insieme a
Mantinea e Orcomeno62, era la città più importante dell’Arcadia, in un certo senso ne era
la capitale, che aveva combattuto fino al VI secolo contro Sparta e poi, sconfitta, era
entrata nella Lega Peloponnesiaca e vi era rimasta per almeno due secoli fedele alleata
dei suoi antichi nemici. A prima vista appare senza dubbio strano che i Tegeati,
peloponnesiaci, reclamassero di occupare e comandare il fianco diametralmente
opposto a quello dei Laconi63. La pretesa era effettivamente speciosa, ma Erodoto ce ne
offre una spiegazione sensata: la richiesta derivava dal fatto che in tutte le spedizioni
precedenti della Lega Peloponnesiaca i Tegeati avevano effettivamente occupato, e
dunque comandato, il fianco sinistro dell’esercito. Ciò non toglie che l’argomentazione
rimanesse ingannevole (‘sofistica’, oserei dire), poiché quella a cui partecipavano anche
i Tegeati nel 479 era una guerra panellenica contro un comune nemico e non certo una
campagna peloponnesiaca; se dunque il posto d’onore alla destra e il comando
spettavano concordemente ai Lacedemoni che schieravano un numero di uomini
superiore a tutti gli altri, il fianco sinistro opposto a rigore di logica spettava alla seconda
potenza militare in campo, cioè Atene. Furono gli stessi Spartani a decidere, molto,
diplomaticamente, la contesa che minacciava di dividere l’esercito nel momento meno
opportuno, e ad acclamare che il comando dell’ala sinistra doveva essere affidato agli
Ateniesi. E con altrettanta perspicace avvedutezza vollero che i Tegeati si schierassero
all’ala destra accanto a loro stessi, condividendone così l’onore64.
62
Da non confondersi con l’altra Orcomeno in Beozia.
63
Erodoto, in I (Clio), 48, narra come prima della vittoria sugli Arcadi, gli Spartani portassero i
capelli corti ed i Tegeati, invece, lunghi; e che viceversa, una volta sottomessi gli Arcadi, i due
popoli avessero scambiato il modo di acconciarsi la capigliatura: i Tegeati per il lutto della
sconfitta, ed i Lacedemoni in ricordo della vittoria.
64
Mi sembra opportuno aggiungere che, di fatto, il contingente che forniva più uomini ad un’ala
ne esercitava pure il comando, poiché gli altri contingenti minori erano scelti fra i suoi tradizionali
alleati. A Platea, come vedrò tra poco, accanto agli Ateniesi stavano i Megaresi e gli Egineti, tutti
34
A Proposito di Platea
Concludo argomentando su una possibile domanda: Erodoto si dilunga per due
capitoli, il 26 ed il 27, ad illustrarci come gli Elleni discutessero animatamente per
stabilire a chi spettasse la guida delle due ali; e cosa ci dice del centro? Assolutamente
nulla, dal momento che un centro greco non esisteva e l’ancora “artistico” o “primitivo”
esercito panellenico si disponeva su un’unica linea continua senza alcuna suddivisione
e distinzione interna.
Ora, qualsiasi segmento di retta, come quello rappresentato graficamente
dall’esercito della Lega, ha di necessità due estremità fisiche, quelle che fino a ora ho
impropriamente chiamato ali, e più correttamente fianchi. Non ha però un centro che sia
qualcosa di più o di diverso da un punto geometrico equidistante dagli estremi. E
dunque non aveva neppure senso, per l’esercito della Lega, parlare di un comando del
centro. La realtà sul campo era piuttosto la seguente: che tutta la parte destra dello
schieramento era costituita dai Peloponnesiaci, mentre tutta la parte sinistra, a partire
da un immaginario centro, era occupata dai Greci del continente.
popoli subordinati ed un tempo sconfitti da Atene; e dal lato opposto, accanto ai Lacedemoni, gli
antichi nemici ed ora alleati opliti di Tegea.
35
Piero Pastoretto
Corna e ali
Breve considerazione semantica. Erodoto usa, per definire il fianco
destro o sinistro dello schieramento, la voce κέρας, che nell’uso comune in
greco significa “corno”. Ora la scelta di questo termine in ambito militare
spiega il fatto che nell’esercito ellenico degli inizi del V secolo non
esistesse un centro identificabile, dal momento che le corna (o meglio ‘i
corni’, non trattandosi di animali) sono solo due, costituiscono un tutt’uno
rigido e non v’è certo un terzo corno nel centro della fronte. Più tardi, in
epoca macedone, l’ala sarebbe stata chiamata non più kéras, ma télos.
Altra cosa invece è la parola latina ala, anch’essa mutuata da un
organismo animale. L’ala di per sé non soltanto è mobile mentre il corno
no; ma implica anche che vi sia un centro, ovvero il corpo del volatile a cui
le ali sono attaccate e di cui costituiscono le appendici.
Il termine ala dunque è appropriato per definire gli schieramenti più
progrediti successivi alla seconda guerra Persiana, quando l’ordinamento
sul campo era divisibile in tre parti e non in due, e quando le ali dovevano
essere essenzialmente manovriere, mentre la funzione richiesta al centro
doveva essere eminentemente quella di tenere e resistere.
36
A Proposito di Platea
Schema dello spostamento degli Elleni da Eritre al fiume Asopo.
Le indicazioni della cartina sono però errate. Gli Spartani occupano in
realtà il fianco destro e anche la fonte Gargafia deve stare sulla destra
Rassegna delle forze della Lega
Il lungo discorso che ho dedicato alla contesa fra Tegeati e Ateniesi nel secondo
giorno delle complesse manovre che precedettero Platea, potrebbe sembrare sin troppo
fine a se stesso, se non fosse che, proprio da questa controversia scaturisce in Erodoto
la distribuzione definitiva dei contingenti greci sul campo ed i numeri degli opliti di
ciascun contingente. Distribuzione che venne rispettata anche nelle successive marce,
nei successivi cambiamenti di fronte e nel grande scontro finale della battaglia vera e
propria. E per di più: distribuzione in base alla quale anche Mardonio divise i suoi soldati
nel modo in cui avrebbero affrontato gli Elleni nel giorno fatale alle armi degli
Achemenidi.
Comincio per ordine.
Possediamo tre diverse redazioni dell’elenco delle città-stato che parteciparono alla
coalizione panellenica: quella della Colonna Serpentina65, quella di Erodoto VII-IX e
quella del geografo e viaggiatore Pausania66. Tutte e tre differiscono nei particolari circa
65
La Colonna Serpentina fu offerta al santuario di Delfi nella primavera del 478 dai vincitori di
Platea e reca l’iscrizione dei popoli che avevano aderito alla Lega Panellenica. Essa faceva parte
di un tripode d’oro collocato sopra una colonna di bronzo in forma di spire di un serpente con tre
teste. Il tripode è scomparso, la colonna invece esiste ancora oggi a Costantinopoli, dove fu
trasportata da Costantino nel IV secolo, mentre nel museo della città si conserva anche una delle
tre teste. Di quest’offerta a Apollo delfico parla Erodoto in IX, 81, 1.
66
Pausania, Periegesi della Grecia (Ἑλλάδος περιήγησις), V, 23, 1-2. L’opera, come si sa, è del II
secolo d.C..
37
Piero Pastoretto
la presenza o no dei popoli minori. Mi limiterò qui, naturalmente, al solo elenco di
Erodoto, che sembra essere il più completo, comprendendo anche città assenti nelle
altre due liste.
Gli Stati membri della coalizione panellenica secondo le Storie erano in tutto 39. Non
tutti però parteciparono alle cinque battaglie che si verificarono nella II Persiana, e cioè
Termopili, Artemisio, Salamina, Platea e Micale. Gli Ateniesi, ad esempio, non
combatterono certo alle Termopili, mentre i Crotoniati mandarono un contingente
soltanto a Salamina. A Platea ne erano presenti ventiquattro. Di tutti i popoli della Lega i
Lacedemoni furono gli unici a prendere parte a tutte e cinque le battaglie.
Al capitolo 28, dedicato insieme al 26 e 27 al secondo giorno della campagna,
Erodoto fornisce la disposizione dei diversi contingenti presenti a Eritre secondo la loro
diposizione partendo da destra; disposizione che si manterrà immutata anche al
momento della battaglia di Platea. Qui io per necessità grafiche sono costretto a proporli
in un ordine verticale ed evito di menzionare le fantomatiche fanterie leggere degli iloti e
degli skenophori, limitandomi ai soli opliti67.
67
Come si avrà occasione di notare, gli Argivi non compaiono né tra i popoli della Lega, né tra gli
alleati dei Persiani. Argo era un’antichissima rivale di Sparta, e infatti non solo Mardonio aveva
tentato di attirarla dalla sua parte, ma Erodoto al capitolo 12 narra che gli Argivi avevano avvisato
Mardonio della partenza di Pausania e dei Peloponnesiaci verso l’Attica. Tuttavia la città si era
mantenuta neutrale.
38
A Proposito di Platea
Elenco dei contingenti greci
Lacedemoni
10.000 (5.000 spartiati e 5.000 perieci)
Tegeati
1.500
Corinzi
5.000
Potideati
300
Arcadi di Orcomenio
600
Sicioni
3.000
Epidauri
800
Trezeni
1.000
Leprei
200
Micene e Tirinto
400
Fliasi
1.000
Ermionei
300
Eretria e Stirea
600
Calcidesi
400
Ambracia
500
Leucade e Anattorio
800
Palei di Cefalonia
200
Egineti
500
Megaresi
3.000
Plateesi
600
Ateniesi68
8.000
___________________________
Totale
38.70069
68
Non è chiaro se negli 8.000 fossero compresi gli arcieri.
69
Mancano i contingenti di Mantinea e di Elea, che giunsero a battaglia conclusa e si dolsero
amaramente del loro ritardo. Quelli di Mantinea mandarono addirittura in esilio i loro strateghi. IX,
77, 3.Mancano anche i Tespiesi, il cui modesto contingente, 700 opliti, si era sacrificato al
completo alle Termopili.
39
Piero Pastoretto
Le cose però qui si complicano, poiché a queste forze esclusivamente oplitiche
Erodoto, come ho già riferito mettendolo in forte dubbio, al capitolo 29 aggiunge tanti
fanti leggeri “adatti a combattere” (σύν… ψιλοῖσι τοῖσι μαχίμοισι), costituiti dagli iloti e dai
servitori, da raggiungere il numero di 110.000 (ἕνδεκα μυριάδες) meno 1.80070.
Sorvolando sull’inconsueto modo di esprimere un numero: «centodiecimila meno
milleottocento» invece che “centottomiladuecento”, Erodoto aggiunge che al campo vi
erano però esattamente 1.800 Tespiesi «sopravvissuti» (περιεόντες).
Ora, per «sopravvissuti» si può intendere tanto i superstiti delle Termopili, dove i
Tespiesi avevano perduto 700 uomini (VII, 202 e 222), quanto i cittadini scampati alla
distruzione di Tespie, incendiata dai Persiani insieme a Platea (VIII, 50, 2). Escludo a
priori che fossero degli scampati alla strage delle Termopili, poiché Erodoto è chiaro
nell’affermare che tutti i Tespiesi vi perirono uccisi dalle armi persiane. Deve perciò
trattarsi di cittadini maschi sopravvissuti all’incendio della loro città, privi persino di quel
sommario armamento che li avrebbe fatti assimilare ai 69.500 psilόi “adatti a
combattere” degli iloti e degli schiavi privati, in quanto non avevano neppure uno scudo
(ὄπλα δέ οὐδ’οὗτοι εἶχον). Verosimilmente, dunque, i 1.800 Tespiesi, la cui presenza
faceva tornare esatto fino al decimale il numero di110.000 Greci a Platea, erano cittadini
inadatti alle armi (altrimenti sarebbero morti a Platea o, schierati come i Plateesi,
insieme agli altri opliti della Lega), perché troppo giovani o troppo vecchi. L’artificiosità
della narrazione erodotea, che vuol a forza far tornare il conto dei 110.000, mi appare fin
troppo evidente.
Fermi restando questi dubbi, Erodoto al capitolo 31 aggiunge che tra gli Elleni vi
erano anche alcuni Focei71 che si erano rifiutati di militare sotto gli Achemenidi e che
anzi facevano scorrerie contro l’esercito di Mardonio ed i contingenti greci a lui alleati.
Non ne specifica il numero, ma proprio per questo dobbiamo supporre che fossero
poche decine.
Cercando di razionalizzare al massimo il complicato discorso di Erodoto sul numero
degli Elleni, possiamo raggiungere queste cifre certe:
a. nel campo della pianura di Platea erano presenti 38.700 opliti provenienti da
ventiquattro popoli e città;
70
Erodoto, ripeto, li calcola a 69.500.
71
Uso il termine Focei anziché il più comune Focesi poiché più consono all’originale greco.
Rimango nel dubbio se qui si tratti di abitanti della Focide, compatrioti quindi dei Focei delle
Termopili che però paradossalmente militavano insieme ai Beoti per il Gran Re, oppure di opliti
provenienti dalla città di Focea nella Ionia.
40
A Proposito di Platea
b. ipotizzando che non vi fosse alcuna soluzione di continuità fra i contingenti e che
la distanza tra oplite ed oplite fosse quella consueta di circa 60-65 cm, se la falange era
profonda otto file la lunghezza dello schieramento superava come minimo gli 800 metri;
se di dodici, doveva essere di circa 540;
c. di questi 38.700 opliti, 11.500 (Spartani e Tegeati) occupavano il fianco destro ed
altri 11.600 (Ateniesi Megaresi e Plateesi) quello sinistro. Se ne deduce che il settore
centrale della lunga linea dello schieramento della Lega, composto dal pulviscolo di tutti
gli altri diciannove popoli, contava 15.600 uomini;
d. le dimensioni delle tre parti ideali dello schieramento (11.600, 15.600, 11.500)
erano dunque abbastanza omogenee: tuttavia il ‘centro’, essendo composto da una
somma di contingenti minori, doveva essere necessariamente meno coeso e dunque
più fragile dei fianchi.
e. tutti costoro, con l’aggiunta degli iloti (in ragione di sette per ogni lacedemone), dei
portatori (in ragione di uno per ogni oplite), dei Tespiesi reduci non si sa bene da dove e
dei Focei ribelli alla sudditanza con il Persiano, il campo degli Elleni ospitava qualcosa
di più di 110.000 uomini;
f. Erodoto afferma che skenophori e iloti costituivano una fanteria leggera (psilόi);
g. io al contrario avanzo la tesi che l’unica fanteria leggera veramente adatta a
combattere a Platea fosse quella degli arcieri che militavano con gli Ateniesi e che erano
intervenuti nello scontro di Eritre. Tutto il resto dei cosiddetti ψιλοὶ erano in grado, al
massimo, di difendere se stessi.
Data imprecisata di settembre. 3° giorno: sull’Asopo, rassegna e
schieramento dei Persiani
Il capitolo 31 si apre con la notizia che gli Elleni, dopo aver stabilito il loro
schieramento di battaglia, e aver lasciato Eritre alle spalle, avanzano oltre la fonte
Gargafia e pongono il loro accampamento di fronte alla riva meridionale dell’Asopo72.
A questo punto Erodoto torna a occuparsi dei barbari i quali, quando ebbero finito di
piangere Masistio, uscirono dai loro accampamenti e si presentarono anch’essi
sull’Asopo. Poiché Erodoto non segnala che l’abbiano attraversato, e peraltro sarebbe
stato illogico con il nemico già pronto a riceverli, non rimane da supporre che si siano
72
Quando si parla di accampamento greco non si deve assolutamente pensare a un insieme di
tende. L’oplite dormiva all’aperto sul suo stroma, un materassino che l’attendente portava
arrotolato dentro lo scudo, o al massimo, se il clima era inclemente, sotto una capannuccia di
frasche costruita dal suo servo.
41
Piero Pastoretto
arrestati sulla riva settentrionale del fiume, di fronte all’accampamento greco, e lì
abbiano preso posizione.
In assenza di precise indicazioni dello storico, decido di collocare questa manovra di
Mardonio nel terzo giorno dall’inizio della campagna, cioè all’indomani della contesa fra
Tegeati ed Ateniesi, della dislocazione degli Elleni presso la fonte Gargafia e della loro
successiva marcia fino all’Asopo. Ciò per due motivi: in primo luogo le cerimonie di lutto
per la morte di Masistio, che dovettero durare almeno un giorno e una notte 73;
secondariamente perché Mardonio, come scrive Erodoto, dislocò e distribuì con
oculatezza le proprie truppe in funzione dello schieramento nemico per popoli, che
dunque all’Asopo doveva già essere consolidato, ordinato ed evidente. Ora, poiché gli
Elleni si erano anche spostati dalla fonte Gargafia aIla riva meridionale dell’Asopo, un
tale ordine non poteva essere possibile il giorno immediatamente successivo alla
battaglia di Eritre.
Ho scritto più sopra ‘con oculatezza’ poiché la ratio di Mardonio in quell’occasione fu
quella di soppesare il diverso valore bellico sul campo dei vari popoli greci e di
contrapporre a ciascuno delle truppe di pari livello e attitudine al combattimento.
Colto con sagacia che i due punti più forti della disposizione greca erano il ‘corno’
destro e sinistro, tenuto il primo dai Lacedemoni insieme ai Tegeati (11.500 uomini), ed il
secondo dagli Ateniesi insieme ai Megaresi e ai Plateesi (11.600 uomini), contrappose a
questi delle forze di pari peso ed esperienza militare, ma più numerose. Ai Lacedemoni
contrappose i migliori reparti dei Persiani, mentre quelli dei Medi, sui quali faceva
minore affidamento, furono posti di fronte ai Tegeati. E poiché il numero dei Persiani era
molto superiore a quello degli Spartani e dei Tegeati messi insieme, schierò i suoi «su
più file».
Quest’ultimo inciso di Erodoto, «su più file», merita un minimo di riflessione. Che i
Persiani si disponessero su più file appare persino ozioso menzionarlo. Dunque è
necessario usare un minimo di ermeneutica per capire il significato del messaggio.
Anche Spartani e Tegeati si schieravano su più file, otto o dodici. Dunque l’espressione
di Erodoto va intesa come un numero di file superiore a quello della comune falange
oplitica. Non è dato sapere quante, ma di certo più profondo delle dodici greche o delle
tradizionali dieci file della fanteria persiana, e dunque è necessario dedurre dalle parole
di Erodoto che lo schieramento persiano al fianco sinistro era molto più massiccio di
quello ellenico.
Quanto al proprio fianco destro, opposto ad Ateniesi, Megaresi e Plateesi, Mardonio
adottò una strategia altrettanto convincente. Pose in quel punto le milizie greche alleate
agli Achemenidi, che adottavano lo stesso tipo di falange e adottavano una panoplia
oplitica identica a quelli della Lega che avevano di fronte. I contingenti usati a questo
scopo, oltre ai Saci che effettivamente non combattevano alla maniera greca e che
73
Erodoto in IX, 24 narra che, secondo il costume barbaro, tutto l’esercito compreso Mardonio si
rase il capo e furono rasati anche i cavalli e gli animali da soma, mentre tutti gli uomini si
abbandonavano a lamenti infiniti.
42
A Proposito di Platea
furono messi lì probabilmente solo per aumentare il peso numerico del fianco destro,
furono i Beoti, i Locresi, i Mali, i Focei (1.000) 74, i Macedoni e i Tessali con alcuni
contingenti di loro alleati. Mardonio indubbiamente contava soprattutto sull’atavica
inimicizia di alcuni di quei popoli con Atene. La Beozia ne era un’antica e tradizionale
rivale, la Locride ne sopportava a malapena l’egemonia; con la Tessaglia e la sua
sottomessa Malide i rapporti non erano mai stati buoni neanche ai tempi dell’Amfizionia
Delfica75.
Lo schieramento dei Persiani descritto in questo capitolo rimase immutato anche
nella battaglia di Platea, nonostante le ripetute manovre e contromanovre che la
precedettero.
Il loro esercito, secondo la descrizione che ce ne dà Erodoto, era diviso in sei
sottosettori, che ovviamente corrispondevano ad altrettante sezioni dell’esercito ellenico.
Qui appresso ne riporto lo schema76.
Saci, Beoti, Locresi
Mali, Macedoni
Saci
Indi
Battriani
Medi i
Persiani
Corinto
Potidea
Orcomeno
Sicione
Spartani
Tegeati
FIUME ASOPO
Ateniesi
Megaresi
Plateesi
Ambracia
Anattorio
Leucade
Palei
Egineti
Ermione
Eretria
Stirea
Calcide
Epidauro
Trezene
Lepreo
Tirinto e Micene
Fliunte
Nel successivo capitolo 32 Erodoto avvisa di aver elencato soltanto i popoli più
importanti schierati da Mardonio, ma che insieme a questi vi erano anche Frigi, Misi,
Traci, Peoni ed Egizi chiamati Ermotibi e Calasiri. Lo storico aveva già parlato di
74
Il numero dei Focei è l’unico a essere riportato da Erodoto a proposito di tutti i popoli greci che
combattevano dalla parte dei Persiani: o perché una parte di quel popolo militava a favore della
Lega Panellenica; oppure perché l’autore, durante le sue indagini era riuscito ad avere
informazioni certe solo riguardo alla consistenza numerica di questo contingente.
75
Nell’Amfizionia Delfica, cui partecipavano anche gli Ioni oltre che i Dori, la Tessaglia e i popoli a
essa alleati detenevano la maggioranza assoluta dei voti, quattordici su ventiquattro. Si noti che,
anche se Erodoto non ne riporta il nome probabilmente per la loro scarsità numerica, al fianco
destro dei Persiani combatterono altri popoli sottomessi ai Tessali.
76
Avverto che alternativamente e per variare, tanto qui quanto nel catalogo delle forze della Lega
Panellenica, riporto talvolta i nomi delle città, talaltra quelli dei popoli. Erodoto menziona
solamente i popoli e il nome degli abitanti (ad es. i Fliasi per gli abitanti di Fliunte).
43
Piero Pastoretto
Ermotibi e Calasiri a proposito della spedizione di Cambise in Egitto come di una delle
sette classi in cui erano divisi gli Egiziani, specificando che quelli erano i nomi della
corporazione dei guerrieri, che venivano reclutati in due serie di appositi distretti (nomoi)
del Paese, una per gli Ermotibi e una per i Calasiri77.
Qui Erodoto aggiunge però un particolare interessante. Dopo averli definiti «portatori
di machaira» (μαχαιροφόροι) e gli «unici guerrieri» (μοῦνοι μάχιμοι) tra gli Egizi,
aggiunge testualmente:
«[Mardonio] li fece sbarcare dalle navi quando era ancora al Falero, essendo soldati di
marina (ἐόντας ἐπιβάτας); infatti nell’esercito che giunse ad Atene con Serse non erano schierati
Egizi».
Mi sembra utile soffermarmi sulla traduzione che, ricordo, è di Augusto Fraschetti, del
termine epibátas. La voce greca epibati indica dei comuni opliti imbarcati sulle triere per
difesa e abbordaggio. Nulla dunque a che vedere con una vera fanteria di marina come
ad esempio quella romana dei classiarii. In questo caso però, visto che Ermotibi e
Calasiri erano sbarcati al Falero e non erano arrivati in Grecia con le truppe di terra che
avevano seguito Serse, possono darsi due interpretazioni:
. o gli Egizi furono semplicemente trasportati dall’Egitto via mare come una qualsiasi
fanteria, sul tipo di quella sbarcata a Maratona o di quella naufragata all’Athos; ed in
questo caso eόntas epibátas va correttamente tradotto con “soldati imbarcati”78;
. oppure essi costituivano effettivamente un corpo di fanteria di marina destinato a
operazioni anfibie; e allora la versione “soldati di marina” di Fraschetti è opportuna.
Personalmente propendo per la seconda ipotesi, dal momento che nel primo
ventennio del V secolo la trasformazione di quella che io chiamo arte militare in scienza
militare o polemologia era appena agli inizi e la rivoluzione della differenziazione e della
specificazione dei ruoli era ancora lontana da venire. Durante le guerre del Peloponneso
si osservano soltanto due diversificazioni: di tipo terrestre tra fanteria leggera e pesante
e cavalleria leggera e pesante con compiti tattici diversi; e di tipo marittimo fra soldati
imbarcati ed equipaggio di marinai e rematori. Il concetto di una vera differenziazione tra
fanteria terrestre e fanteria anfibia di marina sembra invece posteriore di circa due
secoli, dal momento che la prima notizia di legioni classiariae composte da specifici
milites navales ci proviene da Livio e risale alla seconda Punica.
Erodoto conclude il capitolo 32 con le stime, che ho già riportate per confutarle, delle
forze agli ordini di Mardonio: i barbari erano 300.000; degli Elleni alleati lo storico non sa
77
Storie, II (Euterpe), 165.
78
I Persiani imbarcavano sulle loro navi da guerra 30 fanti, che venivano tratti da Egizi o da
Etiopi e mai da contingenti nazionali.
44
A Proposito di Platea
dare il numero poiché non furono contati, ma congettura che raggiungessero i 50.000.
Cifra da ritenere assolutamente fantasiosa, dal momento che a Platea gli Elleni alleati
degli Achemenidi fronteggiavano il solo fianco destro degli Ateniesi, Megaresi e Plateesi;
sicché, se fosse vero il numero ipotizzato da Erodoto, gli 11.600 della Lega avrebbero
affrontato e vinto 50.000 opliti (più i Saci) armati alla loro stessa maniera, adottanti
l’identico modo di combattere ed in più sostenuti, come vedremo più avanti, dalla
cavalleria beotica e barbara..
La cavalleria persiana, infine, non era schierata insieme alla fanteria, ma stava a
parte, ben distinta da essa, con ogni probabilità in un altro accampamento.
Constateremo successivamente che essa attaccherà da sola per un’intera giornata
senza l’aiuto dei fanti ed anche in seguito agirà senza eccezione in autonomia dalla
fanteria.
45
Piero Pastoretto
Il fiume Asopo
E sist e va no in G re cia du e f iu mi Aso po (Ἀ σ ωπό ς ) 7 9 : un o in Be o zia e un o n e l
P e lo p on ne so , ch e sco rre va p re sso S icio ne e p e rciò e ra de tt o S icion io . I l più
ce leb re , o lt re che ricco d ’a cqu e , e ra pe rò il p rimo (o gg i Va r ién ē s), su lle cu i d ue
spo n de e ra n o d ispo st i i P e rsian i e g li E lle n i ne l 47 9.
L’A sop o Be ot ico na sce d a l Cite ro ne vicin o a Le ut t ra , lu o go de lla ba t ta g lia de l
3 71 , e a llo ra seg n a va il con f ine f ra il te rr ito r io d i Te b e e qu e llo di P lat e a.
E nt ra t o p o i in A t t ica , sfo cia ne ll’E u rip o .
I l viag g ia to re Pa u sa n ia ci h a la scia to il rico rd o de i mit i che circo n da van o
q ue sto f iu me. Asop o e ra il f ra te llo d i Cite ro n e e gli su cced e tt e su l t ron o d i
P la te a. Se mp re se co nd o il mit o a vreb be avu to d ue f ig lie , P lat ea ed O e ro e , che
a vreb b e d at o il no me ad un a lt ro f iu me che in co n t re re mo n e l co rso de ll’a rt ico lo .
I n a lt ri p un t i Pa u sa n ia p a rla d i p iù f ig lie di Asop o : Te b e, S a la min a , Te sp ie e
A nt io pe . La po et e ssa Co rin na scrive in ve ce d i n ove f ig lie d e l mo rt a le A so po : t re
ra p ite da Zeu s, t re d a Po se id on e , d ue d a Ap o llo e un a da E rme s. Tu t t i e n ove i
n o mi so n o e po n imi d i cit tà be ot ich e o pe lop o nn e sia ch e . S e co nd o un alt ro mit o,
in f ine , A so p o lo t tò con Zeu s che g li ave va ra p ito la f ig lia E g in a e fu ucciso d a
u n f u lmin e d e l d io .
79
In realtà ve ne erano altri tre del medesimo nome, un Asopo Tracico, uno Laodiceo ed uno
Malico, ma si trattava di niente più che torrenti.
46
A Proposito di Platea
Data imprecisata di settembre. 11° giorno: manovra persiana sulle
retrovie
I capitoli dal 33 al 39 del libro IX costituiscono una specie di digressione, un logos a
parte, che si occupa dei sacrifici preliminari alla battaglia, degli indovini e dei vaticini per
entrambi gli eserciti. L’argomento è senza dubbio interessante e persino colorito, con le
vicende personali dei due sacerdoti, Tisamene per gli Elleni ed Egesistrato per i
Persiani. Nondimeno, poiché esula dall’esame puramente militare di Platea, rimando la
lettura diretta di questi episodi all’affascinante prosa erodotea.
Quel che importa invece all’economia della mia rivisitazione è che per otto giorni i
due eserciti, continuando a rimanere sfavorevoli i sacrifici, evitarono di attaccare
battaglia e rimasero a fronteggiarsi immobili.
Ciò non giovava a Mardonio, in quanto tutto il suo esercito era accampato all’Asopo e
il dilungarsi dell’attesa non avrebbe contribuito a rinforzare i suoi contingenti. Giovava
invece alla Lega, poiché gli Elleni continuavano ad affluire dal Citerone e «diventavano
sempre più numerosi (γινομένων πλεύνων».
Sul fatto che i Greci ricevessero continui rinforzi di uomini rimango parecchio incerto,
poiché Erodoto ne ha ormai fissato il numero definitivo in 38.700 ed è inverosimile che si
aggiungessero di continuo nuovi contingenti oltre a quelli che le singole poleis avevano
già inviato ‘raschiando’ ciascuna fino in fondo il barile di casa propria 80. Che affluissero
ulteriori opliti è possibile, ed Erodoto lo ribadisce nel capitolo 41, nondimeno mi sembra
più opportuno interpretare l’inciso nel seguente modo: che gli Elleni ricevevano tutti i
loro rifornimenti attraverso il Citerone e per questo diventavano sempre più forti dal
punto di vista logistico più che di quello numerico.
Infatti, mentre l’approvvigionamento del pur gigantesco esercito di Mardonio almeno
fino a quel momento non aveva creato soverchie difficoltà, potendo egli rifornirsi da tutta
la Beozia e dalla Tessaglia attraverso spedite vie di comunicazione, gli Elleni si
trovavano in una stretta fascia di terreno tra l’Asopo di fronte a nord ed il Citeronne alle
spalle a sud, e tutti i loro vettovagliamenti che provenivano dal Peloponneso, dall’Attica
e dalla Megaride dovevano passare attraverso il passo Driocefale di questo monte.
Fu sulla scorta di tali considerazioni sulla debolezza delle posizioni della Lega, che i
Persiani agirono per primi.
L’idea, per il tempo ingegnosa, di una manovra sulle retrovie nemiche per occupare il
passo, tagliare i rifornimenti e costringere così l’esercito avversario ad agire od a ritirarsi
- tattica ‘napoleonica’ molto moderna81 e indice di una sicura evoluzione nel modo di
80
Come ho scritto sopra, la Lega attendeva l’arrivo soltanto dei due piccoli contingenti di Elea e
Mantinea, che giunsero a battaglia conclusa.
81
Il succo dei vantaggi di questa tattica si può così riassumere: se uno attacca un esercito
nemico si scontra con la sua parte più forte; se uno ne attacca le retrovie, incontra minore
resistenza e lo mette in maggiore difficoltà. Inoltre, ne recide anche le vie di comunicazione.
47
Piero Pastoretto
concepire una battaglia non solo come il cozzo di schiera contro schiera - , secondo
Erodoto venne dal tebano Timagenida, e fu accolta da Mardonio.
L’incursione avvenne di notte82 e fu affidata alla sola cavalleria, ottenendo un pieno
successo: Erodoto riferisce che cinquecento animali da soma e i loro conducenti furono
massacrati, mentre il bottino fu portato all’accampamento persiano senza che l’esercito
della Lega ne avesse il minimo sospetto. D’altra parte era pressoché obbligatorio che
l’attacco dovesse avvenire di notte, sia per tenere occultate le manovre di
avvicinamento della cavalleria, sia per impedire che le sentinelle lasciate sul Citerone
dessero l’allarme agli uomini svernanti sulla pianura dell’Asopo e questi accorressero a
difesa dei loro rifornimenti.
Interessante dal punto di vista logistico è soffermarsi sulle cifre del convoglio che, verosimilmente,
era solito attraversare il passo di notte e tornare indietro di giorno. Sappiamo che i cinquecento
animali da soma (non si parla di carri) dovevano trasportare provviste varie e viveri per 110.000
uomini: tanti, tra opliti e servi, erano accampati di fronte all’Asopo. Calcolando che ogni uomo
consumasse, con la dieta parca degli Elleni, poco più di 600 grammi ai due pasti giornalieri
(qualcosa di più l’oplite, qualcosa di meno l’ilota e lo skenophoro) e che di questi cibi una certa parte
se ne procurasse in loco, ogni quadrupede doveva essere carico di circa un quintale di vettovaglie
deperibili per un solo giorno di vitto83 e dunque occorreva almeno un convoglio giornaliero per il
mantenimento dell’esercito e costituire una congrua scorta di viveri secchi a lunga conservazione.
Tuttavia, quel che qui importa maggiormente aldilà dei precedenti calcoli ‘da fureria’ è che i
Persiani, con la loro fortunata e innovatrice operazione notturna e la successiva occupazione del
Driocefale, avevano tagliato fuori l’esercito della Lega dalle sue vie di rifornimento e di
comunicazione.
In verità Erodoto, nel capitolo 39 in cui narra questa azione sulle retrovie greche, non fa alcun
cenno ad un’occupazione persiana dei passi del Citerone, ma sarebbe veramente assurdo che i
Persiani non se ne fossero impadroniti e non l’avessero anche presidiato. Ne parlerà invece, e con
molta chiarezza, nel successivo capitolo 50, dove scrive testualmente che gli Elleni «non avevano
più cibo e gli uomini al loro seguito, mandati nel Peloponneso a procurarsene, erano stati tagliati fuori
dalla cavalleria e non potevano giungere all’accampamento».
82
Colgo qui un’ulteriore novità: quella dell’incursione notturna. Nella guerra allo stadio che
definisco artistico la notte era dedicata soltanto al riposo. In Iliade, X, 326-347, vi è sì l’incursione
di Odisseo e Diomede che s’incontrano fortuitamente con Dolone; tuttavia si trattava di una
semplice missione di spie e non di un’incursione armata di valore bellico. L’uso delle ore notturne
per condurre una complessa operazione bellica è una conquista che appare per la prima volta a
Platea.
83
Un oplite ateniese, consumava una razione di cipolle e pesce salato avvolto in foglie di fico e
aromatizzato con sale e timo. Lo spartiate si accontentava del famoso brodo nero (μέλας ζωμός)
spartano, contenente dello spezzatino di maiale reso scuro da vino e sanguinaccio, che
all’occorrenza poteva essere sorbito anche dal kothon, il boccale per i liquidi. Sotto l’aspetto
calorico il malfamato brodo nero laconico era però un apportatore di calorie migliore della dieta
ateniese.
48
A Proposito di Platea
Pausania (515/10 - 471/69)
Famiglia degli Agiadi, pretesa discendente da Eracle
I
Anassandrida II (Re 560-520 circa)
I
Cleomene
Dorieo
Leonida
Cleombroto
Re 520-491
+ circa 520
Re + 491-480
Re + 480
I
I
I
Eurianatte
Plistarco
Pausania
co-reggente
Re 470-458
reggente
Pausania era figlio di Cleombroto, fratello minore di Leonida. Alla morte di questi alle Termopili
nel 480, ed essendo ancora fanciullo l'erede Plistarco, secondo la legge spartana divenne
reggente per la famiglia Agiade l'unico fratello di Leonida ancora in vita, Cleombroto 84, il quale a
sua volta morì nello stesso anno del fratello mentre riportava in città le truppe che presidiavano
l'Istmo durante la costruzione del muro. Pausania divenne così il tutore-reggente di Plistarco e
cooptò come co-reggente il cugino Eurianatte, insieme al quale comandò i Lacedemoni a Platea.
Per il prestigio ottenuto durante la battaglia e nel successivo assedio di Tebe, valore
riconosciutogli dallo stesso Erodoto, nel 478 Pausania ottenne dalla Lega il comando della flotta,
che fu tolto al vincitore di Micale Leotichida, l’altro re di Sparta della famiglia degli Euripontidi. Con
questo incarico liberò Cipro e Bisanzio, ma gli Ioni di quelle città, vicini per stirpe e mentalità agli
Ateniesi, lo accusarono di tirannide e fu sollevato dal comando, che fu affidato all'ateniese
Cimone. In quella circostanza Sparta uscì dalla Lega e dal conflitto contro la Persia. Pausania
allora lasciò la reggenza al fratello Nicomede e proseguì la guerra come privato, riconquistando
Bisanzio, dalla quale però fu cacciato da Cimone.
Dietro le accuse degli ex alleati, gli efori lo richiamarono in patria nel 471 e lo sottoposero a
processo per aver tentato di sovvertire lo Stato e prendere il potere. Assolto una prima volta, un
delatore di nome Argilio consegnò agli efori un presunto carteggio fra Pausania e Serse.
Condannato, si rifugiò come supplice nelle mura del tempio di Atena Calcieca e lì, non potendo
essere toccato perché sacro alla dea, Pausania fu murato vivo finché non morì di stenti. Ciò
nonostante il figlio di Pausania Plistoanatte ed il nipote anche lui di nome Pausania, diventeranno
entrambi re per la famiglia degli Agiadi.
Già nell'antichità lo storico Tucidide ha fortemente messo in dubbio l'autenticità delle lettere
rese pubbliche dopo la sua morte.
84
Come credo tutti sappiano, i due re di Sparta appartenevano l'uno alla famiglia degli Agidi
originaria di Pitane e l'altro agli Euripontidi di Limne o Cinosura.
49
Piero Pastoretto
Schema della manovra persiana sulle retrovie
Data imprecisata di settembre. 11° e 12° giorno. Tentato scambio di
settore fra le ali greche e contromanovre persiane
Al capitolo 39 che descrive l’incursione notturna sul Citerone seguono sei capitoli, dal
40 al 45, in cui Erodoto sospende la cronaca degli avvenimenti puramente militari sulla
pianura dell’Asopo per introdurre un intermezzo in cui dà ampio spazio alla sua vis
narrativa e alla sua formidabile abilità novellistica. Poiché questa digressione ha
parzialmente a che fare con il contenuto del mio studio, la riassumerò brevemente,
aggiungendo però un paio di considerazioni logiche e commenti.
I Persiani continuano a molestare l’esercito della Lega con rapide incursioni di
cavalleria al di là dell’Asopo, cercando di provocarlo a battaglia; gli Elleni però, i cui
presagi sono al momento sfavorevoli, non si muovono. Artabazo, il secondo in grado
dopo Mardonio, poiché anche gli oracoli consultati dai Persiani seguitano ad essere
contrari a uno scontro85, consiglia, d’accordo con i Tebani, di rinchiudere tutto l’esercito
dentro le mura di Tebe e tentare di corrompere le città greche usando il bottino in oro
ricavato dalle scorrerie86.
85
Il vaticinio negativo di Bacide, che Mardonio tenta di far passare per favorevole, è riportato in
maniera parziale da Erodoto al cap. 43, 1.
86
In sostanza il prudente Artabazo consiglia di tornare all’antica arma della diplomazia e della
corruzione delle venali poleis greche, che aveva dato ottimi risultati in passato. Quanto
all’appoggio dei Tebani, è comprensibile il loro tentativo di raggiungere una soluzione politica
piuttosto che militare dal momento che, se Mardonio fosse stato sconfitto, ne andava della
potenza della loro città. Già in IX, 2, 1 i Tebani avevano cercato di convincere Mardonio a
sottomettere l’Ellade con la corruzione anziché con le armi.
50
A Proposito di Platea
Devo aggiungere al proposito che il suggerimento di Artabazo appare in realtà niente
di più di un artifizio retorico di Erodoto, dal momento che la città di Tebe non avrebbe
certo potuto contenere né i 300.000 persiani che lo storico attribuisce all’esercito di
Mardonio più i 50.000 alleati greci, ma nemmeno i 100.000 uomini che io al contrario
ipotizzo fossero realmente presenti a Platea; e neppure i Tebani, che si suppone
conoscessero a sufficienza la loro città, sarebbero stati così ingenui da proporre una
tale misura. Più sensato invece è supporre che Artabazo suggerisse di spostare
l’esercito, dall’attuale posizione sulla riva settentrionale dell’Asopo, a ridosso di Tebe, in
maniera da potersi appoggiare alle sue robuste mura.
Comunque sia, nel racconto erodoteo Mardonio si mostra immediatamente contrario
al parere del «lungimirante» (προειδότος) Artabazo. L’autore si contenta di spiegare la
posizione del generale con un semplice connotato psicologico, atto a rendere
artisticamente drammatica la sua figura, ma che certo non convince. Scrive infatti:
«[…] il parere di Mardonio era più violento, più dissennato e in nulla accomodante».
Viceversa la decisione di Mardonio di rifiutare il consiglio di Artabazo può essere
interpretata con motivazioni ben più solide di natura tattica. Egli era conscio della
precaria posizione degli Elleni dopo che erano state recise le loro linee di collegamento.
Allo stesso tempo doveva essere altrettanto consapevole della difficoltà logistica, anche
per le sue linee di rifornimento, di approvvigionare a lungo un esercito così numeroso e
con così tanti quadrupedi concentrati in un luogo tanto ristretto e alle porte della
stagione inclemente87. Quanto al tentativo di corrompere, intimidire o alimentare le
discordie fra le città greche, un tale sistema poteva anche essere stato efficace nel
tempo trascorso; ma dopo la missione di Murichide 88, la ferita inferta all’Attica con la
distruzione di Atene, la cocente sconfitta di Salamina e il desiderio di rivalsa dei
Lacedemoni per la strage delle Termopili e la morte di un loro re, aveva contro le due
maggiori potenze dell’Ellade e tutto il corteo dei loro alleati. Per dirla in breve: gli
schieramenti pro e contro i Persiani erano ormai consolidati e le soluzioni diplomatiche o
ricattatorie impraticabili. L’unica soluzione rimasta era quella militare e, tanto prima
sarebbe venuta, tanto meglio sarebbe stato. Infatti, più il tempo passava, più la Lega (e
87
Mardonio, con una mentalità veramente moderna, prestava sempre molta attenzione alla
logistica e alla strategia generale. In IX, 13 egli abbandona spontaneamente l’Attica dopo aver
incendiato Atene poiché quella non è terra da nutrire i cavalli e perché un’eventuale ritirata
sarebbe dovuta avvenire di necessità attraverso le strettoie dei passi montani del Citerone.
Peraltro la drammatica situazione delle sue scorte alimentari e dei suoi rifornimenti è rivelata al
capitolo 45 che esaminerò tra breve, dove il macedone Alessandro dice di Mardonio: «Gli
restano viveri per pochi giorni». Evidentemente a Mardonio e al suo esercito lasciato nell’Ellade
non giungeva più alcun rifornimento dalla madrepatria.
88
Murichide era stato mandato da Mardonio a Salamina per trattare offerte di pace con gli
Ateniesi lì rifugiati. In quell’occasione il buléuta Licida aveva proposto di accettarle ed era stato
immediatamente lapidato lui e tutta la sua famiglia (IX, 4-5). In seguito a quell’episodio Mardonio
aveva dato alle fiamme tutti i templi di Atene per poi ritirarsi in Beozia.
51
Piero Pastoretto
non l’esercito sull’Asopo, come insinua Erodoto) rischiava di diventare potente e di
raccogliere nuovi alleati.
Riprendo adesso la narrazione erodotea.
Mardonio, nettamente contrario a procrastinare la battaglia - e ne ho appena
mostrato le ragioni plausibili, prima fra tutte la crisi dei rifornimenti - dà una propria
interpretazione dell’oracolo di Bacide ribaltandone il significato sfavorevole e si dimostra
sempre più deciso ad attaccare. Tra parentesi, un tale volontario stravolgimento di un
oracolo sacro, agli occhi del lettore greco, lo rende colpevole di ‘oltracotanza’ (ὕβρις), e
degno quindi di punizione divina.
A questo punto rientra però in scena un personaggio già altre volte apparso tanto nel
libro IX quanto nel V e nell’VIII: il re di Macedonia Alessandro, figlio di Aminta89.
In verità l’episodio di Alessandro, che occupa tutti i capitoli 44 e 45, sembra frutto di
un’accurata regia narrativa di Erodoto, che introduce un passaggio notturno nella sua
narrazione90. Nottetempo il re si reca al campo degli Ateniesi 91 e rivela ai loro strateghi
l’intenzione di Mardonio di attaccare battaglia all’alba ignorando i presagi avversi. Se
invece il generale nemico ritornerà sulle proprie decisioni e non attaccherà, Alessandro
esorta gli Elleni a resistere sul posto ancora per pochi giorni, dal momento che i Persiani
sono a corto di viveri. Con la preghiera di riferire il messaggio soltanto a Pausania e,
una volta battuto il nemico, di tenere conto dell’aiuto prestato alla causa greca con
proprio grave rischio personale, Alessandro si congeda e gli strateghi ateniesi si recano
subito all’ala destra per conferire con Pausania. Dal colloquio tra i capi scaturisce la
decisione di procedere a un profondo rimescolamento del fronte ellenico, che viene
illustrato ai capitoli 46 e 47.
Dichiaro francamente che i motivi accampati da Erodoto per spiegare la risoluzione
presa di comune accordo da Ateniesi a Lacedemoni appaiono del tutto irrazionali,
mentre le vere ragioni a mio parere rimangono sconosciute. In sostanza l’autore narra
che, da Pausania, parte la proposta di scambiare di posto l’ala sinistra con quella
destra. La motivazione, che appare del tutto illogica e frutto dell’inventio dell’artista,
sarebbe che gli Ateniesi conoscono molto meglio i Persiani e il loro modo di combattere,
poiché li hanno già sconfitti a Maratona; viceversa gli Spartani non godono di questa
esperienza, ma conoscono invece molto bene i popoli greci alleati di Mardonio, avendoli
89
Si tratta di Alessandro I detto Filelleno, 494-454 a.C. Ufficialmente fedele all’alleanza con il
Gran Re contratta dal padre Aminta I, appoggiava invece segretamente i Greci. A Platea era il
comandante del contingente macedone.
90
Scene notturne sono presenti in tutti i poemi epici: da quella di Odisseo e Diomede che
incontrano Dolone, a Priamo che si reca al campo dei Danai per riscattare il cadavere di Ettore, a
Eurialo e Niso nell’Eneide.
91
Era il campo per lui più vicino: sappiamo infatti che tutti i greci alleati di Mardonio erano
schierati contro il fianco sinistro dell’esercito della lega tenuto dagli Ateniesi.
52
A Proposito di Platea
affrontati e vinti diverse volte. La conclusione di Pausania è che sia opportuno per le
sorti dell’esercito schierare gli Ateniesi contro il fior fiore delle truppe mede e persiane, e
i Lacedemoni contro gli opliti che militano per il Gran Re.
Sull’inconsistenza del ragionamento attribuito a Pausania, che mostra tra l’altro un
non troppo celato atteggiamento filo attico dell’autore92, avanzo tre considerazioni:
la prima è la semplice constatazione che i comandanti della Lega erano
perfettamente informati dello schieramento assunto da Mardonio al suo fianco sinistro, e
dunque potevano contare su un efficiente servizio di spionaggio che si avvaleva
verosimilmente delle notizie fornite dai disertori o dai traditori corrotti;
la seconda intende invece demolire il racconto erodoteo della proposta di Pausania.
È infatti inverosimile che un polemarco spartiate proponga spontaneamente, e
sostanzialmente per pavidità, di spostare i suoi uomini dal punto più critico dello
schieramento, ma anche il più onorevole e prestigioso per la mentalità militare
dell’epoca, a quello per lui meno rischioso;
infine, che i Lacedemoni non avessero mai incontrato i Persiani e perciò non
conoscessero il loro modo di combattere è un’affermazione falsa, dal momento che
trecento di loro erano caduti alle Termopili. Semmai ci si aspetterebbe che Pausania
dichiarasse che gli Spartani, al contrario degli Ateniesi non potevano trarre frutto da
questa esperienza poiché nessuno era tornato da quella battaglia.
La conclusione di tutto ciò è che il dialogo fra i comandanti e soprattutto le ragioni
accampate da Pausania sono una ricostruzione, o meglio, una costruzione retorica di
Erodoto, le cui fonti non gli fornivano la vera natura dello scambio delle ali fra loro.
Scambio che pure ci fu, ma fu dovuto a esigenze tattiche ben diverse da quelle
accampate dall’autore che, non avendo avuto esperienze militari di qualche importanza,
non riusciva a ipotizzare93.
In verità, su quali fossero le reali esigenze che costrinsero gli Elleni a una così
complessa operazione di rischiaramento del fronte non di certo io - e, penso, nemmeno
altri - sono in grado di avanzare qualche ipotesi alternativa.
Il capitolo 47 ci rende informati delle complesse operazioni che investono entrambi gli
eserciti: operazioni che mi spingono a dire che quella di Platea fu la prima battaglia
veramente studiata e manovrata di cui abbiamo conoscenza.
92
Si sa che Erodoto fu per molti anni ospite ad Atene, amico della sua classe dirigente e poi
cittadino della colonia panellenica di Turi voluta da Pericle. Il suo atteggiamento filo attico è
risaputo.
93
Peraltro la storiografia classica, anche dopo Erodoto, che è colui che vi si avventura e vi
muove i primi passi, continuò ad essere per secoli un opus maxime rhetoricum, in cui i dialoghi e
i discorsi fittizi introdotti dallo storico erano consentiti e anzi apprezzati soprattutto per il loro
valore pedagogico. Polibio e Livio ne fanno grande uso e Plutarco ne segna l’apoteosi. La
definizione latina è di Cicerone.
53
Piero Pastoretto
Allo spuntare dell’aurora Pausania dà inizio al trasferimento della sua ala destra in
direzione del fianco sinistro, mentre gli Ateniesi fanno altrettanto nel verso opposto. A
questo punto i Beoti, che forse possedevano delle spie o più verosimilmente avevano
delle sentinelle molto vigili, si accorgono del movimento e avvertono Mardonio. Questi a
sua volta fa spostare verso la propria destra le sue truppe persiane e mede in maniera
che si trovino nuovamente di fronte agli Spartani. Possiamo soltanto immaginare, dal
momento che Erodoto non la descrive, l’improvvisa, impressionante e coreografica
sfilata parallela, lungo le rispettive linee immobili del centro, di decine di miglia di uomini
tra persiani e Lacedemoni, separati soltanto dall’Asopo. Pausania però, osservando che
anche l’ala sinistra di Mardonio si spostava parallelamete alla propria ala destra,
comprende che oramai la sua marcia risulta inutile poiché avrebbe avuto di fronte
sempre le medesime forze e ritorna sulle proprie posizioni. Mardonio, ovviamente, fa
altrettanto con i suoi94 e l’intera manovra, in realtà piuttosto pasticciata, si conclude con
un ritorno alle posizioni iniziali.
Schema dell’attacco delle cavallerie persiane
e del riposizionamento dell’esercito della Lega in seguito
alla marcia notturna. A mio parere, sia il movimento
degli Spartani, sia quello degli Ateniesi
riportati nella carta, sono eccessivi
Data imprecisata di settembre. 13° giorno. Primo giorno di battaglia
I capitoli 48-52 descrivono in modo vivace il primo giorno della battaglia che, a rigore,
non può ancora chiamarsi “di Platea”, dal momento che si svolse piuttosto dalle parti di
94
Dal racconto di Erodoto non si evince se anche i Beoti si siano mossi per sostituirsi ai Persiani
al fianco sinistro.
54
A Proposito di Platea
Eritre, presso le rive dell’Asopo e la fonte Gargafia, a dieci stadi (circa 1.800 metri) dalla
località di Platea.
A mattino suppongo inoltrato, poiché le prime ore del giorno dovevano essere state
impiegate nelle piuttosto convulse marce e contromarce delle ali greche e persiane,
Mardonio inviò ai Lacedemoni un araldo con un provocante messaggio di sfida che
suona pressappoco così: poiché la loro fama tra gli Elleni era quella di valorosi
combattenti, e tuttavia erano stati visti lasciare il loro posto per timore dei Persiani che
avevano di fronte, Mardonio era rimasto molto meravigliato e deluso di quel
comportamento, essendosi aspettato al contrario di ricevere lui un araldo spartano che
sfidasse esplicitamente i suoi soldati a battaglia. Poiché ciò non era accaduto, a questo
punto erano i suoi soldati stessi a lanciare agli spartani una proposta: che si
combattesse in numero pari fra Lacedemoni e Persiani senza coinvolgere il resto dei
due eserciti, e che il vincitore dello scontro fosse anche il vincitore della battaglia.
L’episodio si conclude con il ritorno dell’araldo all’accampamento achemenide senza
aver ottenuto alcuna risposta, seguito dal compiacimento di Mardonio, che rimane
convinto della codardia degli elleni che ha di fronte e pertanto scatena l’attacco della
sua cavalleria.
Va da sé che tutta la vicenda dell’araldo è molto poco verosimile e palesemente
ricalcata sui topoi dell’Iliade e del ciclo tebano, dove torna ricorrente il motivo del duello
risolutivo di un’intera guerra, che questo sia tra Paride e Menelao, o tra Eteocle e
Polinice.
Può anche darsi, non lo nego, che Erodoto abbia udito tale episodio da qualche
presunto testimone; non è infatti impossibile, poiché l’attitudine mitopoietica dei Greci è
sempre stata straordinaria95, e inoltre tutti sanno che i reduci di qualsiasi età tendono a
‘ricamare’ i loro ricordi di eventi immaginari purché siano belli e mirabolanti. Presumo
dunque che tutta la scena orchestrata da Erodoto nasconda una realtà piuttosto
consuetudinaria e molto meno epica, ovvero un semplice abboccamento tra
parlamentari dei due eserciti prima della battaglia: in sostanza un ultimo tentativo
persiano per evitarla attraverso una sorta di gentlemen’s agreement. La cosa certa di
tutta la vicenda è però che l’attacco persiano, dopo qualche tergiversazione, fu condotto
dalla sola cavalleria, mentre la fanteria rimase immobile sulla sponda settentrionale
dell’Asopo.
Sarà necessario individuare il perché della singolare scelta di Mardonio e
avventurarci96 a spiegarla, anziché accontentarci semplicemente di constatarla come
fanno, con leggerezza, tutti i commentatori di Erodoto.
95
Basta pensare anche solo un momento a quante leggende sono sorte intorno ad Alessandro
Magno tra i suoi soldati mentre era ancora in vita.
96
Non uso a caso il verbo ‘avventurarsi’, poiché lo sforzo di interpretare la mossa di Mardonio
non mi risulta sia stato mai fatto da nessuno.
55
Piero Pastoretto
Il capitolo 49 offre alcuni brevi ma significativi dettagli del drammatico scontro che
mise in seria crisi tutto l’esercito della Lega e specialmente, come vedremo tra breve, il
suo fianco destro.
L’esteso schieramento greco attende immobile la carica della cavalleria persiana
senza avanzare, come invece era sua consuetudine nelle guerre tra falangi cittadine. Si
tratta della prima volta che la falange, concepita fin dal VII secolo per avanzare in un
reciproco incontro-scontro con una falange avversaria, rimane sulla difensiva
esattamente come la futura falange macedone. A Maratona, infatti, gli Ateniesi avevano
ancora attaccato contro forze numericamente superiori, e addirittura di corsa. A
Maratona, però, come tutti sanno, i Persiani erano privi di cavalleria.
L’atteggiamento difensivo assunto a Platea è invece perfettamente logico per due
ottimi motivi: gli opliti vedevano di fronte a sé la cavalleria persiana disposta per
l’attacco, e far avanzare seppur lento pede la fanteria contro la cavalleria in procinto di
caricare non avrebbe avuto alcun senso; in secondo luogo non si deve trascurare che la
falange greca aveva di fronte a sé l’Asopo e che quel fiume, benché povero d’acque
perché si era in settembre, con le sue sponde scoscese e il greto tormentato, avrebbe
fatto disunire le file ordinate degli opliti. La falange era sì una formazione meravigliosa,
ma molto limitata nei movimenti e necessitante di un terreno piano, spoglio e regolare.
Ancora a 150 anni di distanza Alessandro, che pure adottava una falange e una
tattica totalmente diverse da quelle oplitiche, nelle battaglie del Granico e di Isso, che si
svolsero sulle rive di due fiumi dell’Anatolia e della Cilicia, trattenne immobile sulla
propria sponda la falange97 e li attraversò con la cavalleria: esattamente la medesima
tattica adottata da Mardonio sull’Asopo, salvo che, in quella giornata il comandante
persiano non fece passare il fiume alla fanteria. Particolare che, se considerato con
attenzione e un minimo di sagacia interpretativa, ci rivela come l’obiettivo di Mardonio
non fosse la distruzione dell’esercito della Lega Panellenica, ma semplicemente la sua
separazioni dalle fonti di rifornimento idrico, in modo da costringerlo, finalmente, ad
attaccare o a rinunciare alla campagna per l’impossibilità di approvvigionarsi né dal
Citerone, né dal fiume, né dalla fonte Gargafia.
Che questa sia l’unica interpretazione possibile della mossa di Mardonio è dimostrato
da due considerazioni che ritengo facilissime:
a nessun generale, anche il più barbaro immaginabile, affiderebbe un attacco
risolutivo alla sola cavalleria, senza il supporto della fanteria che ha a sua disposizione.
E noi abbiamo già constatato, all’opposto, che Mardonio non era uno stupido, ma era
dotato di una mente pensante e pianificante, almeno all’altezza dei suoi tempi, se non
addirittura precorritrice;
97
Mi pare persino superfluo ricordare che Alessandro, a differenza dell’esercito della Lega
Panellenica a Platea, era dotato di un’eccellente cavalleria e la falange dei suoi pezeteri dalle
lunghe sarisse era soltanto l’incudine contro la quale il martello della cavalleria doveva
schiacciare il nemico.
56
A Proposito di Platea
b il giorno successivo quando, come apprenderemo tra breve, considerate le
circostanze venutasi a creare nell’esercito nemico, scatenò quello che davvero nelle sue
intenzioni doveva essere l’attacco destinato a distruggere l’armata avversaria, Mardonio
avrebbe fatto attraversare il fiume anche alla fanteria.
Nulla dunque da obiettare sulle scelte degli Elleni e dei Persiani, salvo che, secondo
la narrazione di Erodoto, la cavalleria achemenide attaccò diluita su tutta la fronte
nemica.
Scrive infatti l’autore:
«Quando i cavalieri partirono all’attacco, inflissero perdite a tutto l’esercito greco lanciando
giavellotti e frecce: erano arcieri a cavallo ed era difficile avvicinarli». 98
A commento del passo riportato posso aggiungere che, se lo scopo di Mardonio non
fosse stato quello immediato e modesto di cui ho discusso sopra, e cioè di respingere
tutto il nemico lontano dalle risorse idriche per evitare così una sanguinosa e incerta
battaglia, non avrebbe certamente attaccato su tutto il fronte, disperdendo e
annacquando così la capacità dirompente della sua cavalleria.
Se al contrario avesse avuto il reale obiettivo di battere sul campo il nemico e
demolirlo sotto il peso della propria superiorità numerica, un’offensiva più avveduta e
‘scientifica’ avrebbe imposto invece la concentrazione della massa della cavalleria o sul
centro nemico, più fragile poiché formato da piccoli contingenti non amalgamati fra loro;
oppure su entrambi o uno solo dei fianchi, senz’altro più robusti ma che, una volta rotto
il fronte, avrebbero favorito un più facile aggiramento 99. Manovra che avrebbe richiesto
però anche l’apporto e dunque l’avanzata della fanteria oltre il fiume per inchiodare
l’esercito della Lega e costituire il famoso ‘incudine’ del Macedone, contro il quale
spingere il nemico con il maglio della cavalleria.
Proseguendo nell’analisi dell’inciso di Erodoto sopra riportato, in cui si legge che i
cavalieri colpivano da lontano («era difficile avvicinarli») con frecce e giavellotti, si ricava
l’ulteriore certezza che la massa della cavalleria impiegata sulle rive dell’Asopo era di
tipo leggero e non pesante, poiché essa adotta precisamente la tattica di qualsiasi
cavalleria leggera, da quella partica a quella numidica, che evita lo scontro diretto
preferendo volteggiare elusiva con scarse o nulle perdite e sfiancare il nemico con dardi
e proiettili di ogni genere. Possiamo dunque arguire che l’attacco non fu condotto da
Medi, Persiani e Saci, che formavano la cavalleria pesante per eccellenza e che erano
stati comandati da Masistio, ma dai popoli alleati.
Quel che importa però è che le cariche dei Persiani si prolungarono per diverse ore
assumendo la fisionomia non di una semplice azione, ma di un vero e proprio attacco
98
99
IX, 49, 2.
Intendo, in parole brevi, l’individuazione di uno schwerpunkt.
57
Piero Pastoretto
generale che, grazie anche alla sottigliezza dello schieramento ellenico, mise in seria
crisi tutto il fronte greco.
Ribadisco però la scelta del termine “attacco” al posto di “offensiva generale”, poiché
ho dimostrato che sarebbe improprio giudicare che il piano tattico di Mardonio fosse
l’annientamento definitivo dell’esercito della Lega.
L’attacco generale protratto e ostinato della cavalleria, anche se non a scopo
risolutivo della battaglia, incise fortemente sul troppo lungo e sottile schieramento
dell’esercito ellenico e lo costrinse a ripiegare. Con ordine, certo, dato che non ci fu
alcun reale tentativo di sfondamento, ma pur sempre a ripiegare perdendo ogni contatto,
e questo era il lato tragico della situazione voluto da Mardonio, con le due uniche risorse
per l’approvvigionamento idrico dell’intero esercito, e cioè il fiume e la fonte Gargafia.
Tra gli Elleni e l’Asopo, infatti, si era ormai stabilita la cavalleria nemica, e anche il corno
destro lacedemone, originariamente schierato davanti alla fonte, nel suo lento
ripiegamento l’aveva abbandonata in mano al nemico, che aveva immediatamente
provveduto a intorbidirla e ostruirla. Così, in quella dannata giornata di tribolazioni sotto
la pressione costante e feroce della cavalleria leggera avversaria, nessun ilota o
skenophoro poté attingere né alla fonte, né tantomeno all’ormai irraggiungibile Asopo e
l’intero esercito consumò le ultime razioni di acqua senza alcuna prospettiva di
potersene ancora rifornire.
La posizione degli Elleni, parecchio drammatica, e che mi sembra potersi collocare
pressappoco nella tarda giornata, è perfettamente rappresentata da Erodoto al capitolo
50:
«In questa situazione i comandanti dei Greci, dal momento che l’esercito era privo d’acqua e
messo in difficoltà dalla cavalleria, si radunarono per questi e altri motivi, andando da Pausania
all’ala destra100. Infatti, pur stando così le cose, c’era altro a renderli ancora più inquieti; non
avevano più cibo e gli uomini al loro seguito, mandati nel Peloponneso a procurarsene, erano
stati tagliati fuori (ἀπεκεκληίατο) dalla cavalleria e non potevano giungere all’accampamento 101.»
Il concilio degli strateghi prese alcune importanti decisioni:
100
Semplicemente per la ragione che quello spartano era il settore maggiormente in crisi e aveva
appena perduto il possesso della fonte Gargafia, o perché tutta la Lega riconosceva tacitamente
che il comando spettava di fatto a Pausania? Anche in precedenza, dopo l’incontro con
Alessandro, furono gli strateghi ateniesi a recarsi da Pausania, anziché convocarlo al loro
campo. Erodoto non specifica affatto che a Platea il re spartano avesse il comando dell’esercito
(come ad esempio parla invece del comando della flotta affidato a Temistocle a Salamina), anche
perché si evince chiaramente che non è lui a prendere le decisioni, che sono sempre collettive;
tuttavia mi sembra che questo continuo recarsi all’ala destra sia da interpretarsi almeno come un
segno di rispetto e subordinazione.
101
Ovviamente, i rifornimenti erano già stati interrotti dalla cavalleria achemenide nei giorni
precedenti con la puntata notturna sul passo Driocefale del Citerone.
58
A Proposito di Platea
togliere il campo dalle posizioni in quel momento occupate e riposizionare l'esercito
in un luogo distante dieci stadi dall'Asopo, chiamato l'Isola, posto di fronte alla città di
Platea. Il nome di questo luogo era derivato dal fatto che il fiume Oeroe, che scende dal
Citerone, separa a monte le proprie correnti e le ricongiunge a valle dopo circa tre stadi
formando di fatto una sorta di piccola isola102;
il nuovo posto avrebbe garantito l'approvvigionamento d'acqua e parzialmente
protetto l'esercito dalle cariche della cavalleria achemenide103;
lo spostamento doveva avvenire occultamente di notte, onde evitare di essere
assaliti durante la marcia dalla cavalleria nemica104;
contestualmente si decise di inviare metà esercito sul Citerone per liberare i passi
indispensabili al rifornimento viveri105.
In realtà, considerando la breve distanza, (dieci stadi, neppure due chilometri), tra il
nuovo luogo e quello attualmente occupato, nonché la notevole lunghezza dello
schieramento greco, il fianco sinistro ateniese avrebbe dovuto spostarsi di appena
qualche centinaio di metri, mentre quello destro spartano avrebbe dovuto percorrere un
tragitto più lungo e ruotare insieme al centro in modo da assumere un nuovo
orientamento nord-ovest sud-est, quello cioè del corso dell'Oeroe, leggermente spostato
rispetto alla fronte nord che i Lacedemoni adottavano alla fonte Gargafia.
L'uso del condizionale in questo caso è d'obbligo poiché il piano originario appena
descritto in realtà, e come riporterò tra breve, non venne attuato. Tuttavia merita di
essere almeno commentato.
Le decisioni prese dai comandanti della Lega meritano un giudizio positivo,
considerato lo stato dell'arte della guerra agli inizi del V secolo. Vi è dell'intelligenza
tattica; trapela del coraggio di osare qualcosa di nuovo per la mentalità del tempo; si
osserva una corretta analisi di diversi fattori, tanto logistici quanto strategici; e tutto ciò a
mio avviso diventa tanto più apprezzabile quanto più si consideri che le decisioni tra gli
Elleni erano soggette sempre a lunghi contrasti e dovevano essere condivise da tutti.
Aggiungo poi l’ulteriore considerazione che ci troviamo di fronte alla risposta greca
all'azione persiana di due giorni prima, ossia alla seconda manovra notturna della
battaglia dopo l'attacco al passo Driocefale; e in più assistiamo anche a una
contemporanea conversione di fronte dell'intero schieramento, non certo troppo
102
L'Oeroe era dunque un breve corso d'acqua che scorreva in direzione est-ovest contraria
all'Asopo. La gente del luogo, come ho già scritto, favoleggiava che Oeroe fosse una figlia di
Asopo.
103
Ribadisco 'parzialmente', dal momento che la cavalleria di Mardonio non aveva avuto alcuna
difficoltà ad attraversare l'Asopo e ad attaccare su tutta la linea.
104
La marcia, presumo, doveva avvenire senza fiaccole e nel buio, per non rivelare la partenza e
il percorso.
105
In verità Erodoto dice che la spedizione doveva essere finalizzata a liberare i servi, ma di
certo cade in equivoco, poiché al capitolo 39 aveva scritto che costoro erano stati tutti sterminati.
Comunque, di questa spedizione non esiste traccia nelle pagine successive.
59
Piero Pastoretto
complessa, ma che tuttavia era resa difficoltosa dalle tenebre. Tale manovra,
ulteriormente complicata dall'enorme numero degli skenophopri e degli loti, manifesta
senza dubbio non soltanto un buon coordinamento generale, ma anche una novità nella
tattica usuale dei secoli precedenti, quando le battaglie erano pur sempre uno statico
cozzo di schiere in cui la formazione più numerosa, o più pesante, o più determinata,
era destinata ad avere la meglio.
In tutto il discorso precedente appare però una lacuna che risalta già
dall'osservazione di Erodoto e dalla semplice osservazione di una piantina della
pianura: la cosiddetta Isola, lunga appena tre stadi106, era troppo angusta per costituire
un bastione per l'intero esercito greco, e in realtà poteva servire soltanto a risolvere il
problema dell'approvvigionamento dell'acqua. Attestarsi aldilà del modesto corso
dell'Oeroe era dunque superfluo e non avrebbe certo salvato l'esercito dalla cavalleria
persiana, che aveva già attraversato senza difficoltà il ben più ampio Asopo.
Infatti, a riprova che la primitiva decisione non apportava dei significativi vantaggi,
quanto Erodoto prospettava al capitolo 50 riguardo alla ritirata dei Greci dall'Asopo
viene smentito al 52.
L'esercito della Lega con l'enorme massa dei servitori si mosse sì la notte fra il 13° e
il 14° giorno, presumibilmente per primi gli Ateniesi, poi il centro e infine la destra, ma
non per portarsi alla cosiddetta Isola, bensì per marciare ancora un chilometro e mezzo
più oltre, e portarsi di fronte all'abitato di Platea presso l'antico tempio di Era. Qui
l'esercito era destinato a disporsi con Platea alle spalle e la fronte a est. Erodoto
specifica anche la distanza del nuovo campo dalla fonte Gargafia, che, come sappiamo,
costituiva l'estremità orientale dello schieramento tenuta dall'ala destra: venti stadi, circa
tre chilometri e mezzo, il doppio di quella dell'Isola, che era di dieci stadi.
Il motivo preciso di questo cambiamento di obiettivo (tra l'altro non si parlerà più di
liberare il Driocefale), e quando e come venne presa la decisione di proseguire sino al
tempio di Era rimarrà per sempre sconosciuto, poiché Erodoto non lo rivela. Posso
avanzare l'ipotesi che la ragione più probabile sia stata la mediocre conoscenza dei
luoghi. Quando durante la marcia notturna i primi contingenti attraversarono l'Oeroe
dovettero accorgersi che questo non offriva alcun vantaggio tattico e perciò, fatta fare
agli skenophori una congrua provvista d'acqua, i comandanti fecero dirigere la falange
in modo da disporla con le retrovie almeno coperte dalle mura della cittadina di Platea.
La nuova posizione assunta non era dunque più orientata a sud-est, come quella
preventivata se ci si fosse fermati all'Isola, ma orientativamente essere rivolta ad est. La
rotazione dell'asse dell'esercito, dal momento che sull'Asopo era orientato verso nord,
dovette essere di circa 45°
Quel che però adesso importa all'esame tattico della situazione e del suo
svolgimento nell'immediato futuro è che il tratto più lungo di strada da percorrere di
106
Erodoto adotta la misura dello stadio attico, che è di 177 metri. Quello alessandrino era invece
di 185.
60
A Proposito di Platea
notte, appunto venti stadi, spettava agli Spartani di Pausania e ai Tegeati che stavano al
loro fianco. E proprio tra gli Spartani di Pausania si manifestò un atto che, in qualsiasi
esercito di epoca posteriore sottoposto ad una corretta disciplina militare, come ad
esempio un esercito di Alessandro o anche soltanto una coorte romana, sarebbe stato
giudicato e punito come un reato di sedizione. Si tratta infatti, come Erodoto ci
descriverà tra poco, di un gravissimo atto di insubordinazione che fece fallire la manovra
della ritirata notturna, mise in pericolo l'intero esercito e ne causò lo smembramento in
tre tronconi.
Il particolare che un tale rifiuto di obbedienza, perché di autentico rifiuto d'obbedienza
si trattò, non sia stato punito, ma abbia dato luogo a semplici alterchi, è indice che l'arte
militare del tempo, per quanto mostrasse già delle significative modifiche contrarie alla
semplice ripetizione della tradizione, doveva percorrere ancora una lunga strada per
diventare una scienza della guerra.
61
Piero Pastoretto
Suddivisioni dell'esercito spartano
Nella battaglia di Platea, sebbene i diversi contingenti ellenici si schierassero ancora in maniera
piuttosto arcaica e 'omerica' secondo le città di provenienza, all'interno di ogni esercito, minuscolo
o grande che fosse, vigeva già una ben organizzata suddivisione organica di reparti caratterizzati
da un numero determinato di uomini; e di conseguenza esisteva pure una stabile, anche se non
salda, catena di comando. L'organigramma più conosciuto è quello della falange spartana, ma è
da supporre che anche le falangi delle altre polis, mutando magari il nome e qualche dettaglio,
adottassero una suddivisione simile.
L'unità base della falange spartana nel V secolo era l'enomotìa, costituita da 23 opliti su 3 file di
otto uomini o due file di dodici e comandata da due ufficiali: un enomotarca in prima fila e un
ouragos nell'ultima107.
Due enomotie (50 uomini) formavano una pentecostia, guidata da un pentecontarco.
Due pentecostie (100 uomini, quattro enomotie) costituivano un lochos al comando si un
lochago.
Quattro lochoi, 400 uomini, formavano una mora e sei more un esercito di 2.400 uomini.
Nel corso dell’articolo, discorrendo genericamente dell’esercito della Lega Panellenica, uso
indifferentemente i termini lochos e taxis per riferirmi a reparti costituiti da un numero definito di
opliti.
Senofonte, che scrive dopo le guerre del Peloponneso, cita delle cifre leggermente differenti
per l'esercito lacedemone: l'enomotia di 36 elementi e il lochos di 144. La mora, invece, non
compare mai in Erodoto ed è perciò da suppore che il lochos dei suoi tempi potesse essere anche
più numeroso, come ad esempio quello tebano che, nel IV secolo era di 300 uomini.
L'esercito achemenide, di contro, era capillarmente suddiviso secondo il sistema decimale, a
partire dalla 'divisione' di 10.000 uomini (baivarabam, comandata da un baivarapatis ), ai
'reggimenti 'di 1.000 (hazarabam sotto il comando di un hazarapatis), alle 'compagnie' di 100
(satabam con alla testa un satapatis), per finire alle 'squadre' di 10 (dathaban guidate da un
satapatis) e perfino ai gruppi di cinque (pascadathabam, cioè “mezzo dathabam”).
107
È parecchio impreciso l'uso del termine 'ufficiali' riguardo agli eserciti dell'Ellade, dove non
esistevano eserciti professionisti. Erodoto li definisce opportunamente taxiarchi, “comandanti di
reparti”.
62
A Proposito di Platea
Data imprecisata di settembre. Notte fra il 13°e il 14° giorno. Sedizione di
Amomfareto
Il capitolo 53 è ben chiaro su questo punto: nella marcia notturna si mosse per primo
il centro e la parte sinistra dell'esercito, mentre il corno destro dei Tegeati e dei
Lacedemoni era rimasto immobile. La cosa doveva essere stata concordata, poiché
Erodoto precisa che solo dopo aver visto che gli alleati toglievano il campo, Pausania
ordinò ai suoi di prendere le armi e seguirli.
A questo punto però nel campo lacedemone si sviluppò quella scena drammatica cui
sopra accennavo, che Erodoto narra con particolare vivacità dedicandole addirittura
cinque capitoli - cosa piuttosto insolita - dal 53 fino al 58. Si tratta di forse il più noto
episodio d’insubordinazione di tutta storia militare greca.
Amomfareto108, lochago del lochos di Pitane, si rifiutò di eseguire l'ordine di muovere
interpretandolo come una fuga di fronte al nemico; aggiunse che non avrebbe
disonorato Sparta e che si meravigliava, anzi, nel vedere tanti altri lacedemoni
apprestarsi a partire109. A scusante del lochago Erodoto apporta il particolare che,
essendo un taxiarco minore, non aveva partecipato al consiglio di guerra e così non era
al corrente che si trattava di una decisione presa in comune e comunque di un
riposizionamento e non di una fuga degli spartani.
Di fronte all’ostinato rifiuto di Amomfareto Pausania ed Eurianatte si trovarono
concordi nel condannarlo come un atto intollerabile e turpe (δεινòν), ma erano
altrettanto consapevoli di non poter abbandonare Amomfareto e i suoi alla mercé del
nemico. Sulla base di tali considerazioni tenevano fermo tutto l'esercito lacedemone e
tentavano di convincere il lochago ribelle. Contemporaneamente gli Ateniesi, dall'ala
opposta, vedendo che gli Spartani e i Tegeati non si muovevano, rimasero anch'essi
fermi sulle loro posizioni, mentre il resto dei contingenti della Lega marciava per
riposizionarsi oltre l'Oeroe.
Prima di proseguire con il racconto erodoteo, intendo concentrare l'attenzione del
lettore su questo particolare episodio che può essere interpretato come il paradigma
della lenta e contrastata evoluzione, avvenuta agli inizi del V secolo, dall'arte militare
ancorata al passato, verso la scienza militare del futuro.
Per ben due volte Erodoto nel suo passo usa l'espressione “tentavano di convincerlo”
riferita a Pausania ed Eurianatte nei riguardi del loro lochago. Ora, qualsiasi lettore
converrà che “convincere” è un'espressione inconcepibile in un esercito moderno,
108
Amomfareto è un nome rarissimo, testimoniato a Sparta soltanto un'altra volta, al punto che
secondo taluni si tratta di un soprannome. Il significato è all'incirca “Colui sul quale non si dice
nulla di biasimevole”. Preferisco rendere in italiano il nome nella sua traslitterazione perfetta e
non in quella, più consueta, di Amonfareto.
109
Pitane, sull'Eurota, era uno dei quattro distretti che, riunendosi in un sinecismo, avevano dato
origine a Sparta. A loro volta i Pitanati erano una delle quattro philai (obe in dialetto locale)
originarie in cui erano divisi gli spartiati. Ogni tribù forniva un lochos.
63
Piero Pastoretto
concepito come un organismo in cui viga una gerarchia di comando che fa capo ad un
potere riconosciuto e nei confronti della cui volontà sono validi soltanto i verbi “ordinare”
e “ubbidire”. Un'espressione che denota quanto, tra gli Spartani come tra i Greci in
genere, il concetto di esercito agli inizi del V secolo fosse ancora simile a quello dei
poemi omerici, in cui non soltanto i capi come Achille, ma anche i gregari come Patroclo
devono essere convinti, e combattono per scelta personale più che per dovere militare,
obbedendo in primo luogo al loro onore, e poi al loro capo.
Mi pare dunque che nell'intera vicenda riportata da Erodoto sia possibile, sì, rinvenire
la cronaca di un momento della battaglia di Platea, probabilmente udita da una fonte
spartana, ma che si possa contemporaneamente interpretarla secondo un sapore e un
valore didascalico.
Nella figura di Amomfareto, infatti, e nelle sue motivazioni legate all'onore proprio e
della sua patria Erodoto rappresenta l'attaccamento cieco alla tradizione licurghea;
mentre, nello sdegno impotente di Pausania ed Eurianatte vi è il messaggio delle nuove
generazioni e delle nuove esigenze tattiche che avanzano. La scena concitata che ne
scaturisce è la trasposizione artistica, ricavata dalla memoria di qualche reduce, del
dibattito tra la conservazione e l'innovazione, l'andreia e la techne, la kalokagathia
dell'oplite-eroe (ἥρως) e la subordinazione del soldato (στρατιώτες) verso l'autorità del
comando.
Sotto l’aspetto della disciplina risulta molto più moderno il concetto di esercito presso
i Persiani, dove la volontà di un capo supremo viene diffusa e imposta attraverso una
catena di comando a essa subordinata. E non è detto che proprio dal contatto con
questa realtà così estranea allo spirito libertario, individualistico ed eroico greco, sia
venuto lo stimolo profondo per riformare concettualmente i loro eserciti sino a portarli al
livello di efficienza raggiunto alla fine delle guerre del Peloponneso e nel IV secolo.
Data imprecisata di settembre. 15° giorno. Battaglia degli Spartani
presso il tempio di Demetra
Conseguenza diretta dell'insubordinazione di Amomfareto durante la notte, con il
conseguente indugio di Lacedemoni e Tegeati, fu la pericolosissima rottura della fronte
greca, che ancora il giorno precedente aveva tenuto testa bravamente all'attacco
dell’intera cavalleria achemenide.
La situazione può essere così descritta. L'esercito della Lega era frantumato in tre
tronconi: l'ala sinistra degli Ateniesi e quella destra degli Spartani erano rimaste sulle
loro posizioni; il centro aveva rinculato, aveva oltrepassato l’Oeroe e si era posizionato
circa 3.500 metri più indietro, presso il tempio di Era e con alle spalle l'abitato di Platea.
Tra le due ali rimaneva dunque uno spazio vuoto di diverse centinaia di metri, mentre il
moncone che era stato il centro dello schieramento si trovava a non avere ali. Tale
dissennata frantumazione, per la quale una parte dell'esercito si muove senza attendere
64
A Proposito di Platea
l'altra, denota la carenza, o meglio l'inesistenza, tra le file degli Elleni, di comando,
controllo e comunicazione110. E quanto alla tempistica, è meglio non parlarne.
Gli Ateniesi intanto, vedendo che gli alleati del corno destro non si muovevano,
inviarono loro un araldo per chiederne la ragione e questi assistette alla miseranda
scena di Pausania, Eurianatte e Amomfareto che s’insultavano. A un certo punto del
litigio e davanti agli occhi allibiti dell'araldo, Amomfareto, al culmine della stizza, prese
addirittura una pietra con le mani e la posò ai piedi di Pausania, dicendo che con quel
voto votava di non fuggire111.
Erodoto non lesina di sicuro sugli aspetti comici e addirittura grotteschi della scena, al
punto che taluni - non io fra questi - ritengono addirittura che tutto l'episodio sia frutto
d’invenzione e del suo atteggiamento anti laconico112 anche perché il sistema di voto
con i sassolini bianchi era un uso ateniese ma non lacedemone.
Comunque stiano le cose, la contesa, se ci fu, dovette dilungarsi parecchio: almeno
sino a quando Pausania prese finalmente una decisione. Congedò l'araldo ordinandogli
di chiedere113 agli Ateniesi di avvicinarsi al suo corno e di seguirlo. Poi, convinto che
Amomfareto, nonostante le sue rimostranze, non sarebbe rimasto da solo vedendo gli
altri che si muovevano, dette l'ordine della partenza. Ordine troppo tardivo poiché, come
ricorda Erodoto, era già l'aurora.
Spartani e Tegeati dunque presero a ritirarsi mentre il lochos di Amomfareto ancora
non si decideva a muoversi. La marcia dell’ala lacedemone fu tuttavia breve, poiché
Pausania dette il comando di fermarsi dopo percorsi appena dieci stadi (1.700 m),
nell'attesa che Amomfareto e i suoi, che si erano finalmente mossi, potessero
raggiungerlo. Il luogo scelto era il corso d’acqua conosciuto come Moloeis e la località
piuttosto elevata chiamata Agriopio, nei pressi di un tempio dedicato a Demetra
Eleusina. Lì Amomfareto si ricongiunse con il resto degli Spartani, ma ormai doveva
essere l'alba inoltrata e la cavalleria di Mardonio si gettava nel varco lasciato vuoto e si
scagliava contro gli Spartani. Infatti:
«Quando Amomfareto e i suoi li raggiunsero, tutta la cavalleria dei barbari gli si scagliò contro.
I cavalieri infatti facevano quello che sempre erano soliti fare: vedendo che il luogo dove erano
schierati i Greci nei giorni precedenti era vuoto, lanciarono i loro cavalli sempre più avanti e,
quando li raggiunsero, li presero d’assalto.»114
110
Ciò che con linguaggio moderno si definisce C3.
111
Amomfareto avrebbe riscattato il suo impertinente atto d’insubordinazione con un
comportamento valoroso sul campo e risultò anzi essere uno dei migliori fra gli Spartani. Cadde
in battaglia e fu sepolto insieme agli altri spartiati in una delle tre tombe che i Lacedemoni
eressero a Platea (IX, 85, 1).
112
Tra le ragioni apportate da chi ritiene l'episodio di Amomfareto frutto d’invenzione vi è quella
che il sistema di esprimere il voto con un sassolino di diverso colore (ψῆφος) era in vigore ad
Atene, ma non a Sparta.
113
Si noti bene: “chiedere”, non “ordinare”.
114
IX, 57, 3.
65
Piero Pastoretto
Il capitolo successivo, il 58, interrompe ad arte la narrazione per inserire il discorso
retorico di un trionfante Mardonio, il quale si mostra sempre più convinto che gli Elleni, e
i tanto ammirati e temuti Spartani, siano in realtà degli imbelli 115. L'esame della
situazione viene ripreso invece nei capitoli 59-61, dove le sorti dell'esercito della Lega
sembrano ormai precipitare.
Su ordine di Mardonio, tutta l'ala sinistra dei persiani, ossia la fanteria migliore,
attraversò incontrastata l'Asopo116. A quella vista, e dunque in un secondo momento,
anche il resto dell'esercito achemenide, costituito dai popoli barbari e dai Greci che
fronteggiavano gli Ateniesi, superò il fiume e dilagò nella pianura.
Pausania, sottoposto alle cariche della cavalleria, inviò un cavaliere (ιππέα)117 con
una richiesta di aiuto agli Ateniesi affinché accorressero tutti insieme o inviassero
almeno i loro arcieri. Gli Ateniesi si mossero immediatamente, però a loro volta furono
subito attaccati e inchiodati sul posto dalla cavalleria beotica, e dagli opliti tebani, locresi
e macedoni alleati del Gran Re.
In questa maniera Lacedemoni e Tegeati, in tutto 11.500 uomini, con l'ausilio degli
iloti e degli skenophori che Erodoto si ostina a qualificare “armati alla leggera” (σύν
ψιλοĩσι) e che forse intervennero in battaglia alla disperata in difesa dei loro padroni,
rimasti soli, dovettero sopportare l'attacco del nerbo dei Medi, dei Saci e dei Persiani.
Questa volta però non erano più i cavalieri a incanzare Spartani e Tegeati, ma i fanti,
che nel frattempo li avevano raggiunti 118. Erodoto infatti è inequivocabile nel descrivere il
nemico. Mentre rammenta che Pausania sacrificava agli dèi, aggiunge:
115
Ovviamente il discorso di Mardonio sulla pusillanimità degli Spartani è frutto di pura inventio
artistica erodotea. Mardonio conosceva benissimo il valore dei Lacedemoni, avendolo
sperimentato alle Termopili l'anno precedente. Quel che preme all'autore è invece tratteggiare il
carattere oltracotante e l’insolente ybris del generale persiano destinato a morire di lì a poco per
mano di quegli Elleni che tanto disprezza.
116
Come ho osservato in precedenza, questa volta, avendo fatto avanzare le fanterie dietro la
cavalleria, Mardonio intendeva dare il colpo di grazia all’esercito della Lega e risolvere in giornata
la battaglia.
117
Anche l'araldo ateniese era un cavaliere. Poiché è comprovata l'assenza assoluta di cavalleria
tra gli Elleni della Lega a Platea (a differenza, come vedremo, dei Beoti alleati del Gran Re), non
resta che ritenere che solo alcuni personaggi ne fossero dotati. È ipotizzabile, ad esempio, che
l'araldo appartenesse alla classe dei cavalieri (triacosiomedimni) prevista dalla riforma censitaria
di Solone, e che quindi abbia partecipato alla campagna con il proprio cavallo. Può essere,
peraltro, che tutti gli araldi, per il prestigio della loro carica fossero nobili e pertanto qualificati
ippéis. Ritornerò sull’argomento con un apposito riquadro.
118
Torno a concentrare l’attenzione del lettore sulla tattica differente adottata da Mardonio
rispetto al giorno precedente. Allora era stata soltanto la cavalleria a caricare su tutto il fronte
greco, con l’unico scopo di allontanare il nemico dall’Asopo, ma non di attaccare una vera
battaglia. Adesso invece il generale persiano ritira la cavalleria e tenta di annientare gli Spartani
con la schiacciante superiorità numerica della sua fanteria migliore.
66
A Proposito di Platea
«I sacrifici non riuscivano favorevoli e molti di loro nel frattempo caddero e ancor più furono
feriti; i Persiani infatti, formando una barriera di scudi (φράξαντες γὰρ τὰ γέρρα), scagliavano
molte frecce, senza risparmio, così che, con gli spartiati incalzati e i sacrifici che non riuscivano,
Pausania, volgendo lo sguardo verso il tempio di Era dei Plateesi, invocò la dea chiedendole di
non deluderli nella loro speranza.» 119
A questo punto, all’inizio del cap. 62, Erodoto introduce uno dei tanti prodigi con cui
adorna sapientemente le sue narrazioni di battaglie. Poiché gli Spartani non si
decidevano ad attaccare combattimento a causa degli auspici sfavorevoli, e subivano
passivamente la pioggia di frecce persiane accusando parecchie perdite, lo fecero al
loro posto i Tegeati, che s’interposero generosamente fra le due schiere per proteggere
gli alleati.
All’improvviso però, e subito dopo la preghiera di Pausania, i suoi sacrifici riuscirono
finalmente propizi e anche gli Spartani, rinfrancati, mossero contro il nemico. I Persiani a
loro volta, «lasciati da parte gli archi» (τὰ τόξα μετέντες), attaccarono. Dapprima, riferisce
lo storico, la battaglia avvenne «intorno agli scudi» (περὶ τᾲ γέρρα). «Quando questi
caddero» (ὡς δὲ ταῦτα ἐπεπτώκεε), una «violenta battaglia» (μάχη ἰσχυρὴ) infuriò presso
il tempio di Demetra finché arrivarono al corpo a corpo (ἐς ὠθισμόν).
A questo punto è tuttavia opportuno che io abbandoni per un istante la cronaca degli
avvenimenti e mi soffermi per una breve riflessione sui termini greci che ho appena
riportato e sulle utili notizie che da questi possiamo ricavare.
119
Erodoto, IX, 61, 3. Era tradizione che il comandante spartano sacrificasse personalmente una
capra ad Artemide Agrotera prima di attaccare qualsiasi combattimento. Qui la preghiera di
Pausania rappresenta drammaticamente la pietas del comandante spartano in contrapposizione
alla empietas di Mardonio.
67
Piero Pastoretto
Di alcune considerazioni storico-lessicali
È noto a molti, se non a tutti, che, specie per le opere antiche, l’attenzione ai particolari e alle
scelte linguistiche degli autori è di capitale importanza sia per ricavarne notizie apparentemente
oscure, sia per non cadere in sciocchi errori.
Si tratta soltanto di esercitare un poco di pazienza e di acume; e il paragrafo precedente mi
fornisce il destro per offrirne una prova.
Comincio da τὰ τόξα μετέντες, “lasciati da parte gli archi” nella traduzione di Augusto Fraschetti,
da cui si evince che non soltanto la fanteria leggera degli eserciti achemenidi, ma anche quella
d’eccellenza, cioè scudata, dotata forse anche di qualche protezione del corpo come quella
persiana e meda degli sparabara120, nel 479 andava regolarmente in battaglia armata non soltanto
di scudi, ma anche di archi. Ciò costituisce una singolarità tutta persiana, mostrata peraltro anche
nei bassorilievi di Persepoli, dove si osservano gli stessi melofori, cioè le guardie del corpo del Re,
incedere solennemente con scudo a dypilon lancia, turcasso e arco a tracolla. Se ne deduce che
la fanteria d’eccellenza persiana, costituita esclusivamente da personale nazionale e scelto,
riuniva in sé entrambe le specialità degli arcieri e dei fanti di linea: era cioè scudata e fornita spada
(acinace, ἀκινάκης) come qualsiasi fanteria pesante, ma era capace di ferire a distanza come le
fanterie leggere. Da qui si deduce che le fanterie nazionali persiane dovevano subire un
particolare addestramento finalizzato a rendere familiari entrambe le specialità. Ciò peraltro non
deve affatto stupirci, se consideriamo che l’arco era l’arma perspicua dei popoli iranici e, come
afferma lo stesso Erodoto, a tutti i giovani persiani e specialmente ai nobili erano insegnate tre
cose: non mentire, montare a cavallo e tirare d’arco.
Più interessante è soffermarsi sull’espressione idiomatica περὶ τᾲ γέρρα (perì ta gherra),
“intorno agli scudi”. Cosa può voler comunicare l’autore con la locuzione che si combatteva intorno
agli scudi? La mia interpretazione è che qui Erodoto intenda nient’altro che l’ὠθισμός (othismόs) il
cozzo delle schiere dopo l’avanzare più o meno veloce che si risolveva in uno spingere forsennato
di scudo contro scudo. Ora, se questo modo di combattere in schiere serrate disposte su più linee
cercando di ferirsi con le lance era tipico della tattica oplitica greca, e se la mischia avveniva
secondo l’othismós da entrambe le parti, se ne deduce che fosse adottato anche della fanteria
achemenide; o che comunque, se anche questo non era l’approccio prediletto dai persiani, i loro
soldati migliori avevano ricevuto almeno un sommario addestramento di tipo oplitico in vista di un
quasi certo scontro con la falange greca.
A questo punto occorre però concentrarsi su quell’ὡς δὲ ταῦτα ἐπεπτώκεε (os de tàuta
epeptókee), che sottintende τᾲ γέρρα ed è traducibile con “quando questi caddero”.
La voce greca γέρρον (gherron) designa precisamente lo scudo persiano di vimini rivestito di
cuoio, a forma di torre (spara) o lunata, piuttosto che di dypilon. L’enigmatica proposizione
temporale “Quando questi caddero” indica poi che nello, sforzo schiera contro schiera e scudo
contro scudo, quelli persiani, molto più leggeri e fragili di quelli argivi costruiti in solido legno,
ricoperti all’esterno da una sottile lamina di bronzo e all’interno foderati di cuoio, cedettero e furono
abbandonati o gettati perché infranti nello scontro o trapassati dai δόρυ 121.
Per questo motivo esito definire veramente “pesante” la fanteria pur d’eccellenza dei Medi e dei
Persiani che si scontrarono con Pausania a Platea. Innanzitutto, come mostrerò in modo
120
Per il modo di combattere degli sparabara persiani, vedi l’Appendice II.
68
A Proposito di Platea
inoppugnabile tra breve, gli achemenidi erano scarsamente dotati di lance da urto; in secondo
luogo, se anche portavano delle leggere protezioni del corpo sotto le vesti, queste non erano
nemmeno lontanamente paragonabili alle corazze e agli elmi corinzi di bronzo degli opliti spartani;
infine anche i loro gherra erano molto più fragili di quelli avversari
Se dunque quel “quando gli scudi caddero” connota indiscutibilmente la superiore efficienza
dell’equipaggiamento pesante dell’oplite nei confronti del fante persiano, quanto alla μάχη ἰσχυρὴ
(màche iskyrè) che infuria nei pressi del tempio di Demetra, mi sembra non ci sia modo diverso
d’interpretare queste parole se non come l’indizio che lo schieramento persiano, prima ordinato,
aveva ceduto subendo la classica παράρρηξις (paràrrexis), e la battaglia, da disciplinato scontroincontro di due schiere su più linee, era per così dire dilagata nella pianura frazionandosi in feroci
mischie individuali o di gruppi.
Non rimane che analizzare quell’ἐς ὠθισμόν (es othismón) “a corpo a corpo” finale e giudicarlo
un uso improprio da parte di Erodoto della voce greca, che nel lessico militare indicava lo scontro
e il premere scudo contro scudo tra falangi fino alla rottura e al cedimento di una delle due. Nella
fase descritta, invece, tale fase del combattimento era già stata superata avendo i persiani perduto
o abbandonato i loro scudi.
121
Il δόρυ (dory) era la pesante lancia da urto dell’oplite, lunga dai due a tre metri, con il corpo in
legno di corniolo o di frassino di circa cinque centimetri di diametro e punta in ferro e puntale in
bronzo. Il peso totale di quest’arma micidiale era di circa due chilogrammi - due chilogrammi e
mezzo.
69
Piero Pastoretto
Procedendo a una sintesi ragionata del primo scontro nella piana di Agriopio, si può
così riassumere:
gli Spartani e i Tegeati al loro fianco sinistro si fermano presso il torrente 122
Moloeis e il tempio di Demetra e vengono raggiunti dalla fanteria persiana e meda;
-
i nemici si fermano a distanza, assumono uno schieramento compatto su più file
protette dagli scudi (φράξαντες γὰρ τὰ γέρρα) e cominciano a tempestare gli Spartani
(ma, apparentemente, non i Tegeati), con le loro frecce;
gli Spartani, obbedendo agli auspici sfavorevoli, non attaccano combattimento e
dal racconto di Erodoto non vi è alcun indizio che siano schierati a falange; anzi, dal
momento che subiscono forti perdite, è deducibile che non lo fossero;
-
I Tegeati, che invece dovevano già aver assunto la formazione, avanzano verso
il nemico e gli Spartani, riusciti i sacrifici, li seguono. Stavolta, come appare ovvio dalla
relazione erodotea, nella consueta formazione falangitica spalla contro spalla123;
lo schieramento persiano non sopporta l’urto e cede (παράρρηξις), ma non si dà
alla fuga;
-
la battaglia si frantuma.
Il capitolo 62 continua con le opportune osservazioni dell’autore sui motivi
dell’inferiorità tattica e della conseguente sconfitta persiana. Si tratta, devo aggiungere,
di un’analisi apprezzabile in quanto opera di un uomo di lettere e non di uno storico con
esperienza e familiarità dei temi militari, come ad esempio Tucidide e, dopo di lui,
Polibio.
Riporterò per prima cosa il pensiero di Erodoto, per poi soffermarmi su due brevi ma
piuttosto difficili passi del capitol 62 che mi sembra richiedano un’attenta lettura e
riflessione.
«I Persiani per ardimento e per forza non erano certo inferiori ma, privi di armatura oplitica
(ᾃνοπλοι ἐόντες) e inoltre inesperti, erano impari ai nemici in abilità tattica (οὐκ ὅμοιοι τοῖσι
ἐναντίοισι σοφίην.»
122
Scrivo ‘torrente’ e non ‘fiume’, dal momento che il Moloeis (oggi, se non erro, scomparso)
doveva essere estremamente povero d’acque, altrimenti gli Elleni avrebbero potuto
approvvigionarsi dalle sue sponde, essendo ubicato nelle loro retrovie.
123
Si osservi come, a differenza del giorno precedente, quando era rimasta immobile alla carica
della cavalleria, la falange greca riassume il consueto schema di combattimento e avanza
incontro al nemico.
70
A Proposito di Platea
«[…] A danneggiarli era soprattutto il loro equipaggiamento privo di armi pesanti: armati alla
leggera (γυμνῆτης), infatti, si scontravano con opliti.»124
In questo breve inciso Erodoto non solo tributa onore al nemico, cosa comprensibile
trattandosi del nerbo delle truppe persiane, e tuttavia parecchio inusuale tra gli storici
greci, ma individua anche oculatamente le ragioni della superiorità degli Elleni, che non
sono ricercate nell’eccellenza delle qualità fisiche o morali, ma molto più concretamente
nell’equipaggiamento oplitico e nell’addestramento pratico.
Procedo adesso a esaminare, come mi sono ripromesso, i due periodi del capitolo 62
che a mio parere sono bisognosi di un certo impegno interpretativo da parte mia.
Ermeneutica che, ovviamente, il lettore avrà tutto il diritto di accettare come di
respingere.
Il primo periodo, posto fra due punti fermi e molto essenziale, viene subito dopo il
racconto dell’abbandono degli scudi seguito dalla confusione nella linea persiana e la
μάχη ἰσχυρὴ presso il tempio di Demetra. Suona così
«I barbari infatti afferrando le lance le spezzavano (τᾲ γᾲρ δόρατα ἐπιλαμβανόμενοι
κατέκλων).»
Per essere precisi fin dall’inizio, devo ricordare che in nessun luogo dei capitoli 62 e
63 si evince che la fanteria achemenide a Platea fosse dotata di lance come quella
greca. Peraltro, neppure nella copiosissima ceramica del V secolo si osservano figure di
persiani armati di lance, a meno che non si tratti cavalieri, di Immortali (in persiano
Amrtaka) o di melofori.
La certezza che lo scontro fra Tegeati e Spartani contro l’élite delle truppe
achemenidi sia avvenuto sì scudo contro scudo, ma non lancia contro lancia, ci è però
fornita soltanto dal passo appena citato.
Per ricapitolare, ci troviamo nel momento della narrazione in cui gli Elleni, effettuato il
rinserramento delle file (πύκνωσις), premono sugli scudi avversari e le linee nemiche
vacillano sfaldandosi e perdendo di compattezza. A questo punto la battaglia si
trasforma in un “corpo a corpo” in cui i barbari afferrano le lance degli Elleni e le
troncano.
Ora, ragioniamo insieme:
per ghermire una lancia nemica in un estremo gesto di autodifesa è necessario usare
entrambe le braccia, o almeno quello destro se il sinistro regge ancora lo scudo. In ogni
caso occorre non possedere a nostra volta una lancia, poiché altrimenti la useremmo
sia per difenderci parando o deviando il colpo, sia per offendere colui che ci assale;
allo stesso tempo, per troncare una lancia avversaria sono necessarie due mani, la
sinistra che la tiene ferma e la destra che la spezza con una lama tagliente;
124
IX, 62, 3 e 63, 3.
71
Piero Pastoretto
in conclusione ricaviamo che la fanteria achemenide che si oppose all’ala destra
degli Spartani e dei Tegeati era dotata di scudi, archi e armi corte, ma non di lance 125; e
che la loro mancanza, unita all’assenza di robuste corazze e di scudi solidi, la poneva in
insormontabili condizioni d’inferiorità nei confronti dei micidiali dory degli opliti.
A proposito delle due concezioni tattiche che stiamo osservando, quella greca del
muro di scudi irto di lance, e quella persiana dotata di scudi e di archi ma non di lance,
non mi sembra corretto giudicare quest’ultima inferiore alla prima. Il dory degli opliti era
un’arma eccellente, ma nella storia abbiamo esempi di disposizioni tattiche ancor più
efficaci di quella oplitica, che tuttavia non erano armate di lance da urto, né si
disponevano in ranghi serrati fino allo spasimo. Intendo riferirmi all’agile ed ‘arioso’
schieramento della legione manipolare e successivamente coortale, in cui i fanti erano
distanziati di quasi un metro gli uni dagli altri e nel combattimento schiera contro schiera
non facevano uso di lance, ma soltanto di armi corte come i gladi, essendo i loro pili
soltanto delle armi da getto.
Ora però, il discorso intorno al passo erodoteo non può dirsi esaurito se non cercassi
di individuare con quale arma i barbari troncavano le lance greche. L’acinace, la
rinomata spada persiana, qualunque forma avesse (l’iconografia greca ci propone
parecchie fogge molto differenti tra loro) e per quanto fosse dotata di un ottimo taglio, mi
sembra insufficiente a troncare di colpo un’asta di cinque centimetri di diametro,
soprattutto se fatta di corniolo, legno notoriamente tra i più duri.
Esisteva però molto diffusa tra i Persiani un’altra arma parecchio letale e temuta dagli
Elleni, la sagaris (σάγαρις), che molti erroneamente attribuiscono alla sola cavalleria,
mentre numerosi vasi attici del V secolo la mostrano maneggiata anche da semplici
fanti.
La sagaris era una scure da guerra, tipica dei popoli nomadi delle steppe
eurasiatiche come i Sarmati e gli Sciti ed ereditata in particolare dai Medi. I Greci, e in
particolare Diodoro, favoleggiavano che la sua invenzione e uso risalissero alle
Amazzoni. L’arma, maneggevole ma robusta, era costituita da un manico che doveva
essere lungo 70 - 80 centimetri e da una testa con una lama a scure da un lato e a
becco dall’altro. In alcune raffigurazioni compare invece come una bipenne.
Qualunque fosse la sua forma al tempo delle Guerre Persiane, la sagaris, a
differenza dell’acinace, doveva possedere tutte la caratteristiche necessarie a troncare o
comunque a rendere inservibile l’asta di un pesante dory oplitico e pertanto si deve
dedurre che i fanti persiani, tutti o in parte, dovevano esserne dotati in luogo delle lance.
125
Questa mia conclusione, che cioè la fanteria meda e persiana a Platea non era armata di
lance, contrasta con la ricostruzione che gli storici fanno dell’armamento degli sparabara
persiani. Non me ne sgomento, poiché ci troviamo nel 479 a.C. e non ai tempi di Alessandro,
quando sappiamo che queste milizie erano dotate di lance almeno nella prima fila. Rimando
comunque il lettore, per un maggiore approfondimento sulla questione, all’Appendice II.
72
A Proposito di Platea
Resta da esaminare il secondo passo che mi sono riproposto di commentare, che si
colloca immediatamente dopo la citata constatazione erodotea che i Persiani erano
inferiori agli Spartani per inesperienza e abilità tattica.
«Balzando avanti (προεξαΐσσοντες) ad uno ad uno, oppure a dieci, o raccogliendosi anche in
torme più o meno numerose, piombavano sugli Spartani ed erano fatti a pezzi (ἐσέπιπτον ἐς τοὺς
Σπαρτιήτας καὶ διεφθείροντο).»
Dalla lettura del brano appare evidente l’impreparazione e l’imperizia dei Persiani
nello scontro falangitico a linee serrate e la loro innata inclinazione a combattere in
formazioni allargate. Infatti, uscire dei ranghi individualmente o a gruppi costituisce una
vera e propria ingenuità tattica in una battaglia tra falangi, dal momento che lo
sfaldamento incontrollato della linea non solo espone il singolo o il gruppo a morte certa,
ma crea anche delle falle esiziali nell’intero schieramento. “Balzare avanti”, come
facevano i Persiani lasciando la linea di fila, può essere giudicato un atto di coraggio
eroico o di profonda disperazione, ma in entrambi i casi metteva tutto l’esercito in un
pericolo capitale. Grande merito va riconosciuto a Spartani e Tegeati per aver imposto al
nemico di combattere secondo le loro regole e per non essersi essi adattati a quelle dei
Persiani.
Morte di Mardonio
La battaglia sul fianco destro di quello che era stato lo schieramento greco, battaglia
rischiosissima in quanto Pausania era rimasto isolato e doveva sostenere l’offensiva
della parte migliore della fanteria persiana, si risolve nel più omerico dei modi, con la
morte sul campo di Mardonio. Caduto lui e i mille valorosi che lo accompagnavano 126,
contro i quali maggiore si era fatto il furore dei Lacedemoni, tutta l’ala sinistra persiana si
sfaldò e fu messa in rotta.
Stando alla narrazione di Erodoto ai capitoli 63 e 64, sul suo cadavere non si accese
però, come si potrebbe immaginare la lotta furibonda che era invece avvampata sul
corpo di Masistio127. L’autore si limita infatti a citare il nome dell’uccisore, lo spartiate
Aeimnesto, aggiungendo che questo personaggio sarebbe morto, insieme ad altri
trecento Spartani poco dopo la fine della guerra persiana, a Steniclaro, combattendo
126
Osservo che Mardonio, come d’altra parte Masistio prima di lui, adottavano le consuetudini dei
loro re che, ancora al tempo di Alessandro, si collocavano al centro dello schieramento circondati
dalle loro guardie scelte.
127
Secondo altre fonti più tarde, Mardonio scampò alla morte con pochi altri, oppure fuggì ferito e
fu poi ucciso a Delfi mentre si apprestava a saccheggiarne il santuario.
73
Piero Pastoretto
contro i Messeni128. Sulla sorte successiva del corpo di Mardonio Erodoto torna più
tardi129.
Qui invece l’autore si diffonde a esaltare la figura eroica di Pausania ricordandone gli
antenati e soprattutto a sottolineare, facendo ricorso all’epica omerica, come ho
osservato all’inizio del lavoro, che Platea e la morte di Mardonio erano l’espiazione, la
compensazione e la vendetta (ποινή) per le Termopili e per la morte di Leonida (δίκη
τοῦ φόνου τοῦ Λεωνίδεω). Erodoto infatti rammenta la profezia di Artabazo (VII 108, 3) e
richiama la reazione sdegnata di Serse alla richiesta spartana di soddisfazione per
l’uccisione di Leonida, il cui corpo fu invece vilipeso e sconciato. Nell’immaginario e
nella ricostruzione di Erodoto, dunque, Platea è il più grande trionfo degli Elleni sui
barbari, superando di gran lunga la gloria di Salamina e della medesima Maratona. Si
tratta, in brevi termini, dell’unica volta in cui all’autore viene meno il suo spirito filo attico
e anti laconizzante. Di Pausania, anzi, si dilunga a descrivere anche l’aspetto
magnanimo. Ai capitoli 78 e 79 narra ad esempio come l’egineta Lampone, terminata la
battaglia, esortasse lo spartano a trattare il cadavere di Mardonio come Serse aveva
trattato quello di Leonida, e cioè a tagliargli il capo e issarlo su un palo. La nobile
risposta di Pausania fu che quel comportamento conveniva più ai barbari che agli Elleni,
e che Leonida era stato vendicato a sufficienza.
Battaglia nel settore sinistro degli Ateniesi
Credo di aver chiarito a sufficienza che l’esercito greco, durante la ritirata notturna, si
era pericolosamente spezzato in tre tronconi:
quello sinistro di Aristide, tenuto da Ateniesi, Megaresi e Plateesi (11.600 uomini),
praticamente non si era mosso dalle sue posizioni iniziali per recare supporto al fianco
destro degli Spartani e Tegeati. Su queste posizioni era stato inchiodato dall’attacco dei
contingenti di opliti e cavalieri alleati del Gran Re, primi fra tutti i Beoti, nemici storici di
Atene;
128
Confesso di non essere riuscito a venire a capo di questa notizia di Erodoto. Dai dizionari
delle battaglie da me consultati risulta che lo scontro di Steniclaro (Στενυκλήρος) era avvenuto
durante la seconda guerra Messenica intorno al 650, al tempo del re Euricrate della dinastia degli
Agìadi, allorché Aristomene, alleato di Arcadi e Argivi, sconfisse gli Spartani. Qui forse l’autore
cita un episodio sconosciuto della terza guerra messenica (464-461) combattuta contro gli iloti
ribelli dal figlio di Leonida Plistarco. Anche il nome Aeimnesto è praticamente sconosciuto
all’onomastica greca e forse è da sostituirsi con Arimnesto. Erodoto tra l’altro cita tra i
combattenti di Platea un Arimnesto plateese (IX, 72,2). Plutarco riferisce che Mardonio fu ucciso
dall’oplite spartano con una pietra, ma è da pensare che si sia rifatto un po’ troppo ai modelli
dell’Iliade, dove gli eroi spesso combattevano a colpi di macigni (cfr. ad es. il duello tra Aiace ed
Ettore, Iliade, VII, 206-312).
129
IX, 84, 1.
74
A Proposito di Platea
il settore destro di Pausania, attardato dall’increscioso incidente di Amomfareto, si
era spostato di appena due chilometri ed era stato raggiunto dai Persiani ad Agriopio,
vicino al tempio di Demetra, con il grave rischio di venire annientato dalla potente e
numerosa fanteria achemenide;
il centro, composto da un numero di opliti più o meno pari alla somma dei due
tronconi precedenti, ed in cui i Corinzi costituivano il contingente più folto, aveva
condotto invece una manovra ben ordinata e si era disciplinatamente schierato presso il
santuario di Era (Ἥραιον) con alle spalle l’abitato di Platea, in modo da non poter
essere eventualmente aggirato. Anche il centro, ovviamente, era destinato a essere
raggiunto dalla marea montante dell’offensiva generale persiana che aveva passato
l’Asopo;
l’orientamento della battaglia fu di conseguenza modificato e, mentre Ateniesi e
Spartani combatterono con la fronte verso nord, i Corinzi ed il centro tenevano lo
schieramento rivolto grossolanamente a nord-est.
Poiché la battaglia si è così frazionata, di necessità Erodoto deve dividere la propria
attenzione fra ciascuno dei tre episodi separati ed io, dietro a lui, devo fare altrettanto
cercando di mantenere salda la concentrazione, l’unità e la contemporaneità degli
avvenimenti.
L’interesse dello storico greco segue ancora, nei capitoli 65 e 66, le vicende più calde
e gloriose del fianco destro di Pausania, là dove era caduto Mardonio insieme ai mille
Persiani scelti che lo accompagnavano, e dove si profilava la rotta della fanteria nemica.
Questa, nel panico più totale, si diresse prima verso l’accampamento fortificato oltre
l’Asopo e, non sembrando questo sufficiente a fermare gli opliti spartani, ancora più
indietro verso il “muro di legno” (τεῖχος ξύλινον) che prudentemente Mardonio aveva
fatto erigere tra Platea e la vicina Tebe.
La vittoria così netta di Spartani e Tegeati è però parzialmente ridimensionata da un
particolare che Erodoto mette in luce solo adesso, e cioè che essi non dovettero
combattere contro tutta la fanteria persiana, ma soltanto contro una parte di essa. Era
avvenuta infatti, in campo persiano, una defezione ben più grave ed esiziale di quella di
Amomfareto tra gli Elleni: la diserzione di Artabazo e di tutta la fanteria comandata
personalmente da lui, che Erodoto stima, esagerando, in quarantamila uomini.
Che fra Artabazo e Mardonio non fosse mai corso buon sangue per motivi di gelosia
o di strategia ho già avuto occasione di sottolinearlo130. Entrambi nelle grazie di Serse, il
primo però sin dall’inizio, al contrario di Mardonio, si era mostrato molto dubbioso
sull’utilità e la riuscita della spedizione. Pur essendo rimasti inascoltati i suoi consigli,
130
Occorre forse ricordare che Mardonio aveva ottenuto l’incarico di comandante supremo delle
truppe rimaste in Ellade anche perché nipote di Dario e genero e cugino di Serse; e che
comunque le sue opinioni strategiche si mostrarono sempre servilmente favorevoli a quelle del
suo augusto cugino.
75
Piero Pastoretto
l’aver sedato la rivolta di Potidea131 lo aveva posto ancor più in buona luce presso il Re
ed era perciò l’indiscusso comandante in seconda di tutte le forze persiane lasciate in
Ellade dopo la disfatta di Salamina. Lo abbiamo già visto suggerire a Mardonio, ancora
una volta inascoltato, di non accettare battaglia contro la Lega ma di percorrere invece
la via diplomatica del divide et impera. Nella giornata di Platea il suo tradimento dovuto
al malanimo verso il comandante in capo, o la sua sincera convinzione che attaccare
battaglia avrebbe condotto a un disastro senza pari dell’intera spedizione, oppure
ancora la sua onesta volontà di salvare almeno una parte dell’esercito del suo Re,
vennero finalmente allo scoperto132.
Fatto sta che, a quanto si evince dal capitolo 66 del libro IX, Artabazo era al comando
della retroguardia o comunque delle seconde linee della fanteria meda e persiana.
Appena Mardonio ebbe attaccata battaglia contro gli Spartani egli condusse in avanti le
proprie truppe in assetto di guerra (κατηρτισμένους) come se volesse entrare in
combattimento; ma, quando vide i Persiani che fuggivano disordinatamente, fece la
stessa cosa. Non si diresse però verso il muro di legno come gli altri, ma prese
precipitosamente la via dell’Ellesponto, salvando così se stesso e i suoi.
Nel capitolo successivo, il 67, Erodoto passa a occuparsi dell’ala ateniese, che si
confrontava con gli alleati greci del Re. Il suo giudizio verso costoro (tra i quali, non
dimentichiamolo, vi erano anche i Macedoni di un segreto partigiano della Lega come
Alessandro), forse anche per spirito partigiano verso i traditori della propria stirpe, è
drastico: Locresi, Mali, Focei e Tessali vengono qualificati tutti insieme come: coloro che
“combatterono da vili” (ἐθελοκακεόντων). Fanno eccezione, invece, nel parere di
Erodoto, i Beoti e in particolare i Tebani, trecento dei quali, i più valorosi, caddero per
mano degli Ateniesi133. I Beoti, gli unici a uscire onorevolmente sconfitti sul campo,
presero la via di Tebe senza mescolarsi con la massa degli altri che, senza neppure
aver combattuto, avevano preso la fuga insieme alle turbe dei Persiani e ai barbari
(Sciti) loro alleati. Non vi è dubbio che l’autore, concentrando l’attenzione del lettore su
quell’isolato e ordinato ripiegamento dei Beoti mostri, una certa ammirazione per la
dignità di questo popolo che, alleato di un nemico mortale per tutta l’Ellade, in quanto
greco aveva saputo combattere lealmente rispettando fino alla morte la fedeltà alla
causa scelta, ancorché quella causa fosse perdente e soprattutto apparisse a Erodoto
stesso scellerata. Peraltro, la sostanziale obiettività e il formale rispetto dell’autore
anche verso i nemici della sua gente erano già emersi nei suoi giudizi nei riguardi delle
fanterie nazionali persiane e di singoli combattenti come Masistio o Mardonio.
131
Erodoto, VIII (Urania), 126-129.
132
Ho voluto in prima persona avanzare tutte le ipotesi possibili sulle motivazioni del
comportamento di Artabazo. Erodoto, su questo tema, non si sbilancia. Certo è però che Serse
accolse il suo generale come un fedele servitore e lo premiò nominandolo nel 477 satrapo della
Frigia ellespontica. Si trattò forse, in questo caso, di pura convenienza politica: non fece forse la
stessa cosa il Senato con Terenzio Varrone sopravvissuto a Canne?
133
Ancora una volta ricorre il numero trecento.
76
A Proposito di Platea
Nel capitolo 68 l’autore tesse pure le lodi dei cavalieri tebani, che si sacrificarono per
proteggere la ritirata dei loro opliti. Un impiego tattico, occorre dirlo, inedito per la
cavalleria, adoperata non più solo nelle incursion, o a scopo esplorativo, nello
sfondamento brutale o nell’aggiramento veloce, ma con il compito precipuo di
alleggerire la pressione dell’avanzata nemica per favorire lo sganciamento della propria
fanteria.
Osservo che questa innovazione, ancorché appaia per così dire spontanea, non
regolamentata e, a quanto mi consta, neppure ripetuta durante le guerre del
Peloponneso o di Alessandro, ma codificata nei più tardi manuali di polemologia
ellenistici, è sorprendente e torna a vantaggio della mia tesi di partenza, che cioè
qualcosa stava spontaneamente cambiando negli orientamenti tattici dell’Occidente
all’inizio del V secolo.
Il passo con cui inizia il capitolo 68 mi consente di approfondire l’argomento
cavalleria e di apportare alcune ulteriori osservazioni.
«Così fuggivano tutti eccetto (πλήν) la cavalleria e in particolare quella dei Beoti: quest’ultima
diede un grande aiuto ai fuggitivi, sia tenendosi sempre vicinissima ai nemici, sia allontanando
dai Greci gli amici che fuggivano (φιλίους φεύγοντας). I vincitori tenevano dietro agli uomini di
Serse, inseguendoli e massacrandoli.»
I due brevi periodi che compongono il brano ci rendono informati di diversi particolari
e pertanto invito chi mi sta seguendo a rileggerli attentamente:
innanzitutto apprendiamo che i cavalieri beoti non erano i soli a fronteggiare gli
Ateniesi, ma con loro dovevano esserci anche dei barbari, verosimilmente i Saci, che
sappiamo essere schierati al fianco destro dell’esercito di Mardonio e che al capitolo 71
Erodoto loda per il valore dimostrato in battaglia;
in secondo luogo si ricava che il primo impeto contro Ateniesi, Plateesi e Megaresi
non dovette essere quello della cavalleria, ma della fanteria oplitica, in quanto Erodoto
cita i cavalieri beoti solo a proposito delle loro manovre per proteggere la fanteria in fuga
e non parla affatto di una carica lanciata contro la falange;
dunque la cavalleria tebana, certamente non numerosa, e quella sace, dovevano
essere disposte in seconda schiera e, dal momento che i cavalieri avevano già
attraversato l’Asopo il giorno precedente, dobbiamo supporre che essi si siano aperti
per far passare le fanterie;
infine apprendiamo che i cavalieri tebani non soltanto contrastavano l’inseguimento
di quelli della Lega Panellenica, ma allontanavano dai Greci anche “gli amici in fuga”,
cioè gli alleati, impedendo loro di mescolarsi con le file tebane. Questo singolare
comportamento spinge a formulare almeno due ipotesi:
o la cavalleria beotica agiva così per impedire che i barbari, lanciati in una rotta ormai
irrefrenabile, comunicassero agli opliti connazionali il loro timor panico; e in questo caso
77
Piero Pastoretto
si deve supporre che le fanterie tebane stessero arretrando ordinatamente e non
fuggendo;
oppure, e ritengo sia di gran lunga la congettura più verosimile, i cavalieri beoti
impedivano agli “amici” barbari di rifugiarsi fra le file tebane per cercare scampo a Tebe
anziché, insieme ai loro connazionali, dietro il “muro di legno” fatto preparare da
Mardonio. In altri termini i soldati non greci sapevano perfettamente che, se avessero
continuato a seguire la sorte dei loro compagni oramai sconfitti, sarebbero stati
sterminati senza pietà dagli opliti della Lega; viceversa, rifugiarsi a Tebe, avrebbe fornito
loro una minima speranza di rimanere in vita.
In ogni caso, se la mia ricostruzione è esatta, l’orribile scena della rotta dei barbari
dell’ala destra achemenide a Platea, incalzati dagli Ateniesi e scacciati dai cavalieri
tebani, non sarebbe rimasta unica nella storia ma si sarebbe riproposta, fra eserciti
alleati, molte volte al termine di una battaglia perduta. Una delle ultime, correggetemi se
sbaglio, vide a El Alamein i tedeschi sacrificare alla prigionia i “camerati” italiani
sottraendo i loro automezzi e impedendo loro di salire a bordo di quelli germanici, pur di
salvarsi e sfuggire all’8a Armata di Montgomery.
Il profondo disprezzo di Erodoto verso i contingenti barbari a Platea 134, in contrasto
con la sostanziale ammirazione verso le milizie nazionali persiane e nei confronti del
comportamento valoroso in battaglia dei loro capi quale che fosse il giudizio morale su
di loro, emerge tutto dal seguente e lineare periodo con cui inizia il capitolo 68.
«È per me dimostrato che tutta la potenza dei barbari dipendeva dai Persiani, se anche allora
essi si davano alla fuga prima di scontrarsi con i nemici, quando videro che lo facevano anche i
Persiani.»
Questo inciso permette di confermare un’ulteriore notizia di una certa importanza per
la ricostruzione degli avvenimenti di Platea: che la fuga dell’ala destra persiana davanti
agli Ateniesi dovette avvenire successivamente a quella dell’ala sinistra davanti agli
Spartani. Infatti Erodoto è ben esplicito nel riferire che i nemici (ma non i Beoti)
fuggirono senza combattere dopo aver visto la fuga dei Persiani. Fuga che certamente
non doveva essere difficile scorgere, considerando le limitate distanze e la circostanza
che anche le truppe di Artabazo si stavano ritirando in fretta; così come non doveva
essere neppure difficile udire i peana di vittoria degli Spartani e dei Tegeati trionfanti.
Peraltro, così come la fuga, anche l’attraversamento dell’Asopo da parte di tutto
l’esercito achemenide era avvenuto solo in seguito all’avanzata della fanteria e della
cavalleria comandate direttamente da Mardonio135.
134
Ma, io aggiungo, anche dei Greci non Tebani, ovvero Tessali, Mali, Focei e Macedoni, in
quanto Erodoto osserva che essi si comportarono deliberatamente da vili e fuggirono senza
combattere. IX, 67, 1.
135
Al capitolo 59, 2 Erodoto aveva scritto:«Vedendo i Persiani lanciati all’inseguimento dei Greci,
gli altri comandanti dei contingenti barbari levarono subito tutti le insegne e li seguivano il più
78
A Proposito di Platea
La successione cronologica dei fatti accaduti a Platea fino a questo punto dovette
perciò essere la seguente:
disposizione iniziale dell’esercito achemenide:
la fanteria persiana è acquartierata al di là della riva settentrionale dell’Asopo mentre
la cavalleria, dopo aver passato il fiume e aver respinto alquanto più indietro gli Elleni,
ha trascorso la notte accampata al di qua delle sponde meridionali del fiume;
pressappoco alle prime luci dell’alba attraversa per prima l’Asopo la fanteria meda e
persiana comandata da Mardonio, che insieme alla cavalleria che lo aveva già passato il
giorno precedente, aggancia i Lacedemoni e i Tegeati presso il Moloeis e il tempio di
Demetra Eleusina, dove si sono attardati in attesa del lochos di Amomfareto. La
cavalleria in qualche modo si ritira per far passare la fanteria persiana che attacca
combattimento, formando inizialmente una linea di scudi e bersagliando gli Spartani;
in successione, mentre si accende la mischia su questo fianco, tutto il resto della
fanteria barbara del Gran Re, entusiasmato alla vista dei Persiani che passano il fiume
(con gran frastuono, si può immaginare, di tamburi, cimbali e strumenti a fiato e solenne
incedere di insegne) oltrepassa a sua volta disordinatamente l’Asopo nella convinzione
che gli Elleni siano in rotta;
poiché gli Ateniesi non si sono praticamente mossi dalle loro posizioni della notte
precedente, la seconda fase degli scontri si accende immediatamente sul loro fronte.
Ciò avviene però quando i Persiani cominciano a fuggire davanti ai peloponnesiaci;
la rotta del fianco sinistro persiano genera il terrore in quello destro e solo i Tebani
attaccano veramente battaglia136, mentre tutti gli altri, Greci, Saci e barbari a loro
mescolati, fuggono senza neppure combattere;
la terza fase cronologica della battaglia, che rimane ancora da esaminare, si svolge
presso il tempio di Era, dal momento che il centro greco dei Corinzi e di altri popoli
minori si era allontanato durante la notte di venti stadi dalle sue posizioni presso l’Asopo
e dunque ai barbari occorse un certo tempo per venire a contatto con gli opliti della Lega
Panellenica. Quando ciò accade, tutto il resto del fronte persiano è già crollato.
rapidamente possibile, senza nessun ordine e senza tenere le linee.»
136
La sconfitta dei Tebani non fu certo dovuta a pavidità, dal momento che dovevano trovarsi in
forte inferiorità numerica rispetto agli Ateniesi, Megaresi e Plateesi uniti.
79
Piero Pastoretto
La cavalleria greca
Ho p iù vo lt e a ffe rma t o ch e gli E lle n i a P lat ea , co sì co me d ie ci an n i p rima g li
At en ie si a Ma ra t on a , e ran o p rivi d i ca va lle ria . A l co nt ra rio , co me mo st ra
E ro d ot o , i B eo t i n on so lo n e era no b en f o rn it i, ma i lo ro ca va lie ri co mb a tt e ron o
sp le nd id a men t e.
Pe n so che a q ue sto p un to si ren d a n ece ssa ria un a q ua lche p re cisa zio ne su
qu e st a , a lmen o a pp a re n te me nt e , p ale se co n t rad d izio ne circa l’imp ie go de lla
ca va lle ria p re sso i G re ci f in o a l V se co lo a . C.
I l ca va llo , n e lla G re cia co nt in en t a le e ne l P e lo p on ne so , è usa to f in d a ll’e tà
mice ne a, co me ci a t te sta n o le p itt u re va sco la ri e i p oe mi o me rici. No n vie ne p e rò
mon t at o , ma il su o imp ie go si li mit a a l t iro de l ca r ro d a g ue rra (ἅ ρ μ α ). Tiro pe r il
qu a le g li an ima li era no spe sso d o mat i d a i lo ro med e simi p ro p rie ta ri qu a lu nq ue
fo sse il lo ro st at u s so cia le , co me te st imon ia l’e p ite t o d i Ἱ ππό δ αμ ο ς
( I pp όd a mo , “Do mat o re di ca va ll i”) at t ribu it o a E tt o re e l’e siste n za a n ch e
de ll’id e nt ico n o me p ro p rio ch e po rt a u n g ue rrie ro t ro ian o ucciso da Od isseo
in sie me a I pe iro co 1 3 7 .
Po iché i co sto si ca rri d a g ue rra son o pe rò a pp an na g g io d e i so li re ( ϝ ά να ξ ) 1 3 8 ,
de i no b ili (l a wò i ) o de i co n do t t ie ri (l a wag hé t a s) e, a d iffe re n za d eg li e se rcit i
eg izi, it t it i o assiri, t ra i Mice n e i n on e siste va no a ffa t to de i ve ri co rp i di “fa n te ria
ipp o t ra in a ta ”, i ca va lli e i ca rr i d ove van o e sse re u na ra rit à . S u ll’u so in gu e rra d i
qu e st i ca rri, co sì co m’è te st imo n iat o in O me ro , n on mi d ilun g o p o ich é
l’a rgo me n to mi con d u rreb b e lo n ta no .
In ep o ca su cce ssiva la ca va lle r ia, q ue sta vo lta con ca va lli mo n ta t i a p e lo
se co nd o l’e se mp io ch e i G re ci rice ve tt e ro da ll’A sia Min o re, f io rì p re sso q ue lle
reg io n i in cu i il t e rren o p ian eg g ian t e ed e ste so si pre sta va a ll’a lle va men t o d i un a
ce rt a q ua nt it à d i ca va ll i e a l lo ro imp ie g o ta t t ico in gu e rra : Ma ce do n ia ,
Be o zia , Te ssa g lia , Eu be a, Cip ro , Cret a e le co lo n ie d e lla I on ia e d e lla Ma gn a
G re cia , sp e cia lme nt e S ira cu sa e Ta ra n to 1 3 9 .
Vice ve rsa , in a lt ri t e rrit o ri p iù mo n tu o si e a ng u st i, la ca va lle ria co me a rma
eb be un min o re svilu pp o e sop ra t tu t to f u d e l t ut t o ab ba nd on a ta qu an do i re g imi
lo ca li con ob be ro un p re co ce pa ssag g io da lla f o rma d i g o ve rn o a risto cra t ica a lla
de mo cra zia, co me a d At en e . Co sì , se le a nf o re at t ich e ci mo st ra n o a nco ra de i
ca va lie ri a rma t i a l te mpo d i P isist rat o e de i P isist ra t id i, se mb ra ch e Cl iste n e
137
Iliade, XI, 355.
138
Occorre aggiungere che neppure tutti i re dell’età omerica possedevano carri da guerra.
Odisseo di Itaca e Aiace di Salamina, tanto per portare due esempi, nell’Iliade compaiono
combattere sempre a piedi.
139
La cavalleria mercenaria tarantina fu anzi molto apprezzata, sia durante le guerre del
Peloponneso, sia in età ellenistica. A Siracusa si sviluppò nel V secolo anche la specialità degli
ᾅμιπποι (ámippoi), fanti leggeri che operavano posizionati sotto il ventre dei cavalli oppure
correndo dietro questi tenendosi alle loro code.
80
A Proposito di Platea
ab b ia su cce ssiva men te ab o lito la ca va lle ria p e r ma nt en e re so lta n to la fa nt e ria
op lit ica fo rma t a d a i co mu n i citt a d in i. A lt re t ta n to d ica si p e r Sp a rta . Ne ll ’V II I -V I I
se co lo e siste va u na g ua rd ia a ca va llo d e i re, ch e f u pe rò a pp ied a ta , seb be n e g li
sp a rt ia t i che la co mp on e va n o co n t inu a sse ro a g od e re de ll’o n o re d i esse re
ch ia ma t i Ἱ ππε ῖς, “Ca va lie ri” a rico rdo de lla lo ro a nt ica con d izio ne . Ug ua lme n te
ad A te ne e siste va la cla sse ‘f isca le ’ d e i ca va lie ri sen za ch e p e rò q ue st i, a
d iff e ren za d i Ro ma , fo rn isse ro u na miliz ia p e r la g ue rra .
Dun qu e tu t t i i Tre cen to d i Le on id a p rob a b ilme nt e ave va n o l’a p pe lla t ivo
on o rif ico d i ca va lie ri p u r esse nd o se mp lici op lit i; e a nche mo lt i ca va lie ri a te n ie si,
pu r d isp o ne nd o fo rse d i u n ca va llo p e rso na le , co mb a tt e van o p e rò co me fa nt i. Ho
g ià an che o sse rva to che a P la te a , q ua nd o si men zio na un a ra ld o a te n ie se o
sp a rt an o , lo si qu a lif ica a n ch e co me “ca va lie re ”.
Anfora attica del periodo pisistratide (550 circa)
con un cavaliere armato accanto a un oplite
81
Piero Pastoretto
Battaglia presso il santuario di Era
Con il capitolo 69 Erodoto inizia l’esame della situazione presso il santuario di Era.
Quello che era stato fino al giorno prima il centro del lungo schieramento greco, era
rimasto fermo sulle proprie posizioni senza intervenire negli scontri in atto, né per
portare aiuto ai relativamente più vicini Ateniesi, né per soccorrere i più distanti Spartani.
Un comportamento piuttosto enigmatico, dal momento che, a mio avviso, i clamori delle
due battaglie, se non addirittura la vista delle nuvole di polvere che sollevavano,
dovevano essere udibili da tutti.
La ragione di tale curiosa inattività non è spiegata da Erodoto, il quale sembra non
porsi questo problema. Perciò sono dovuto ricorrere a Plutarco, il quale la rintraccia
nell’assenza di precisi ordini superiori da parte di Pausania, dovuta o al turbamento del
generale spartano per la sedizione di Amomfareto, o all’improvviso arrivo dei Persiani 140.
Ricordo, per inciso, che l’ordine di accorrere immediatamente in aiuto del fronte
lacedemone in pericolo era stato invece spedito agli Ateniesi tramite un araldo; e che
Aristide, se non fosse stato a sua volta sorpreso dall’attacco dei Beoti, lo avrebbe
eseguito prontamente.
Fatto sta che l’azione presso il santuario di Era dovette di necessità avvenire
successivamente a quella che aveva interessato il settore ateniese, così come questa
era stata preceduta dallo scontro sostenuto dal fianco destro spartano. E poiché
sappiamo che la battaglia sul fronte lacedemone si era accesa alle prime luci del giorno,
posso tranquillamente avanzare l’ipotesi che la lotta presso il santuario di Era si sia
sviluppata non prima della seconda mattinata o verso il mezzogiorno.
Ho osservato poc’anzi che, a mio parere, il fragore delle due battaglie in corso,
qualcosa come centomila combattenti che si stavano massacrando, doveva per forza
essere udito dagli opliti a ridosso dell’abitato di Platea. O almeno poteva essere udibile
almeno lo strepito del combattimento più vicino, quello degli Ateniesi con i Tebani. Se io
abbia o no qualche ragione, tutto sommato non ha però importanza, dal momento che
Erodoto tace su tale dettaglio; tiene invece a precisare che, prima che dall’ondata dei
nemici, gli opliti del centro greco furono raggiunti dalla notizia che i Lacedemoni stavano
prevalendo sui Persiani. Scrive infatti:
«Mentre avveniva questa fuga 141, agli altri Greci schierati intorno al santuario di Era, che non
avevano partecipato alla battaglia, fu annunciato che la battaglia era avvenuta e stavano
vincendo quelli con Pausania.»
A commento del passo appena riportato, e per comprendere il comportamento
successivo del centro greco, mi sembra utile rimarcare che, secondo questa
ricostruzione di Erodoto, ai Corinzi e alleati giunge la notizia della vittoria degli Spartani,
140
141
Plutarco, Vita di Aristide, 17, 6-7.
Erodoto si riferisce a quella dei barbari e dei Greci di fronte agli Ateniesi.
82
A Proposito di Platea
che pure erano più distanti, mentre nessun annuncio giunge loro dal fronte ateniese,
che pure era più vicino; tanto vicino che alcune schiere del centro, come vedremo tra
breve, ebbero occasione di scontrarsi crudelmente con gli stessi cavalieri beoti che
proteggevano la ritirata dei Tebani di fronte agli Ateniesi. In altri termini i Corinzi e i
popoli alleati ignoravano cosa stesse accadendo sulla loro sinistra, mentre erano
informati della vittoria spartana.
Sarebbe facile criticare il comandante del centro, se pure ve n’era uno 142, per non
aver spedito esploratori a verificare cosa ne era stato degli altri due tronconi dell’esercito
e soprattutto a osservare l’andamento delle battaglie in corso. Eppure il valore
essenziale dell’esplorazione e della raccolta delle informazioni era ben noto persino nei
tempi precedenti a quella che io chiamo “arte della guerra”, e la trascuratezza dei
Corinzi e degli altri alleati ha dell’incredibile.
Naturalmente, questo ragionamento avrebbe un qualche valore se noi non
dovessimo prendere il racconto erodoteo con un certo beneficio d’inventario. La sua
cronaca di Platea fu scritta forse quarant’anni dopo la battaglia 143 e, per quanto l’autore
potesse essere scrupoloso nella raccolta delle testimonianze, non possiamo pretendere
da lui l’esattezza e la precisione su qualunque minimo particolare come se vi avesse
partecipato. Se però l’incuria mostrata dai Corinzi fosse vera, essa testimonierebbe
quanto ancora deficitari fossero fra i Greci degli inizi del V secolo tanto il Controllo,
quanto la Comunicazione nei campi di battaglia. Un esercito che si spezza in tre parti
durante un riposizionamento che in teoria sarebbe dovuto essere unitario e coordinato;
un comandante come Pausania che ‘dimentica’ di impartire ordini a una parte
consistente della propria armata; i responsabili di questo corpo che non s’accorgono di
una grossa battaglia a pochi stadi da loro; la totale disgregazione dei collegamenti
(niente staffette; nessun segnale predisposto) e l’ignoranza reciproca circa le posizioni
assunte rispettivamente dalle due ali e dal centro; tutto ciò, soltanto un secolo dopo,
sarebbe stato giudicato un’incuria intollerabile da qualsiasi stratego.
Avanzate queste elementari considerazioni, è opportuno ritornare al racconto
erodoteo.
In seguito all’annuncio della vittoria spartana 144 il centro, che si suppone che fosse
disposto in posizione difensiva a falange compatta, ruppe lo schieramento, si divise in
142
Erodoto non riporta mai il nome di un responsabile del centro ellenico. Logicamente avrebbe
dovuto appartenere ai Corinzi, dal momento che questi fornivano il maggior numero di opliti, ma
Erodoto in tutto il libro IX non cita un solo nome di un corinzio.
143
Peraltro nulla vieta che con il verbo “fu annunciato” non si sottenda da un esploratore. In tal
caso dovremmo chiederci perché la ricognizione era stata indirizzata verso un’unica direzione (i
Greci del centro, a causa della lontanaza, non potevano conoscere i movimenti di Pausania dalla
fonte Gargafia al Moloeis) e non a raggio in tutte le direzioni, compresa quella dove
combattevano gli Ateniesi.
144
Viene da chiedersi: portato da chi?
83
Piero Pastoretto
due tronconi e si precipitò verso il tempio di Demetra seguendo due strade diverse. Così
l’autore descrive efficacemente la scena:
«Ascoltato questo, non mantenendo alcun ordine di schieramento (οὐδένα κόσμον ταχθέντες),
i Corinzi e quelli con loro si volsero lungo le falde del monte (ὑπωρέης)145 e le colline per la
strada che porta in alto direttamente al tempio di Demetra Eleusina, mentre i Megaresi e i Fliasi e
quelli con loro, attraverso la pianura lungo la strada più pianeggiante.»
Questi ultimi, che dovevano percorrere la via più breve e diretta nella direzione del
Moloeis e del tempio, forse condotti da qualcuno del luogo, furono però intercettati dai
cavalieri beoti che, scortili di lontano avanzare in disordine, si lanciarono loro incontro
guidati dal tebano Asopodoro146. Ne nacque una confusa mischia che dovette essere
qualcosa di più di una semplice scaramuccia e si potrebbe anzi definire una strage,
poiché Erodoto annota:
«Piombatigli addosso, ne abbatterono seicento, mentre ricacciarono gli altri inseguendoli
verso il Citerone. Costoro dunque morirono senza gloria (ἐν οὐδενί λογῳ “senza nessun conto”)
…»147
I due periodi del cap. 69 e 70 che ho riportato mi sembrano degni di qualche
riflessione. Vi si ricava da un lato che non tutta la cavalleria beotica era impegnata nel
proteggere il ripiegamento delle fanterie greco-tebane e nell’impedire agli alleati barbari
di mescolarsi con loro. Se una o più ile148 infatti si scontrarono casualmente con i Fliasi e
i Megaresi149 che senza alcuna prudenza si dirigevano in una direzione eccentrica alla
battaglia in atto (verso est, mentre lo scontro è a nord), poiché sembra difficile che
potessero essersi sperdute, bisogna concludere che verosimilmente erano in missione
di ricognizione. Il che tornerebbe a lode della cavalleria tebana e del suo controllo del
territorio. E se questi cavalieri, sebbene agevolati dalla contingenza che il nemico non
manteneva alcun ordine falangitico ma procedeva come un gregge disperso, riescirono
a uccidere (“ἐν οὐδενί λογῳ”, come scrive Erodoto) ben seicento opliti, bisogna dedurre
che i tebani non erano sicuramente delle pattuglie di poche decine di uomini. Tanto più
che l’eccidio in questione non poté certo durare a lungo né essere di grande impegno,
145
Suppongo che qui s’intenda la falda pedemontana del Citerone.
146
Notare, prego, il nome di questo personaggio, “Dono di Asopo”, che lo qualifica come nativo di
Platea o dintorni.
147
IX, 70, 1.
148
Uso qui a sproposito il termine greco ile (ἴλη, in dorico ἴλα), che era un’unità di cavalleria
macedone nota a partire dall’età di Filippo II, per evitare l’ancor più incongruo vocabolo italiano
“squadrone”.
149
I conti non mi tornano. I Megaresi, secondo il catalogo delle forze in campo e della loro
disposizione, al capitolo 28, avrebbero dovuto stare accanto agli Ateniesi all’ala sinistra, e non
nel centro insieme ai Fliasi e ai Corinzi.
84
A Proposito di Platea
dal momento che l’esercito beotico era in arretramento e questi uomini dovevano
necessariamente seguirlo.
La rotta persiana a Platea
Battaglia presso il muro di legno
La carica dei Tebani costituisce solo un episodio minore tra quelli contenuti nel
capitolo 70. L’attenzione di Erodoto, infatti, si sposta immediatamente da quell’eccidio
senza gloria alla tragica scena dei Persiani e dei barbari che cercano scampo dietro
quel muro di legno che, suppongo in mancanza di ulteriori indicazioni, era stato costruito
a nord di Platea, a una certa distanza sia dalle rive dell’Asopo, sia dall’accampamento di
Mardonio, a cavallo delle due strade che, dal Citerone e dalla città di Platea,
conducevano a Tebe. La coreograficità dell’azione di massa, del panico dei fuggitivi e
dell’incedere furioso degli Elleni non può non risentire, nella narrazione e nella cultura di
Erodoto, dell’episodio dell’attacco troiano al muro di legno costruito dai Danai a difesa
delle navi150. Soltanto che qui le parti sono invertite, poiché che sono i Persiani-Troiani,
colpevoli della morte di Leonida-Patroclo, a rifugiarsi dietro il muro, e i Danai-Elleni ad
attaccarlo.
Abbandonato definitivamente il centro che si dirige verso il tempio di Demetra e non
ha alcuna influenza sulla battaglia, Erodoto rappresenta adesso il terrore dei barbari e
dei Persiani che:
«… si affrettarono a salire sulle torri prima che arrivassero gli Spartani e, saliti, fortificarono il
muro come meglio potevano.»
150
Iliade, XII e XIII.
85
Piero Pastoretto
Poiché la fuga dell’esercito achemenide era cominciata dapprima sulla fronte dei
Lacedemoni dopo la morte di Mardonio, e successivamente sulla fronte degli Ateniesi,
appare logico che per primi giungessero al muro gli opliti di Pausania e poi quelli di
Aristide. Affido il lettore alla penna di Erodoto per la descrizione dello scenario degli
avvenimenti.
«Quando gli Spartani di Pausania arrivarono, iniziò una violenta battaglia presso il muro.
Infatti, finché gli Ateniesi erano assenti, essi si difendevano e prevalevano di molto sugli Spartani,
che erano inesperti di assalti alle mura; quando però sopraggiunsero gli Ateniesi, l’attacco al
muro si fece violento e durò a lungo. Infine, con il loro valore e la loro tenacia, gli Ateniesi
scalarono il muro, lo abbatterono e di lì i Greci si riversarono dentro.» 151
A taluni la narrazione può apparire piuttosto partigiana, in quanto sono gli Ateniesi a
risolvere la situazione di grave affanno in cui versano gli Spartani “inesperti di assalti
alle mura”. In effetti non si vede come gli Ateniesi potessero essere più esperti dei
peloponnesiaci nella scalata delle mura, visto che tra gli Elleni non si erano ancora
sviluppate le tecniche ossidionali e lo stato della loro arte era ancora pressappoco
quello dell’assedio di Troia o dei Sette contro Tebe152.
La ragione dell’affanno degli Spartani nell’attaccare il muro va invece ricercata
semplicemente nel numero. Già essi erano inferiori al nemico quando questi li aveva
attaccati nei pressi del tempio di Demetra; adesso che, insieme ai Medi ed ai Persiani di
Mardonio, il muro di legno era difeso anche dalle torme dei barbari del resto dell’esercito
achemenide, il loro contingente e quello dei Tegeati insieme erano del tutto insufficienti
a condurre un attacco efficace. Quando inve ce giunsero anche gli Ateniesi, che
evidentemente avevano desistito dal difficile inseguimento dei Tebani troppo ben protetti
dalla loro cavalleria, la situazione si capovolse a favore degli Elleni153.
Aggiungo che nel passo citato Erodoto sembra palesemente voler magnificare la
prodezza degli Ateniesi dopo aver lodato a lungo il comportamento intrepido degli
Spartani. Si tratterebbe dunque di un delicato intervento di equilibrio e distribuzione dei
meriti della vittoria, teso a non scontentare né i lettori attici, né quelli peloponnesaici;
sicché, nell’economia generale del racconto, se ai Lacedemoni spetta la gloria di aver
sconfitto e respinto il nerbo più importante dell’esercito di Serse, ai loro alleati Ateniesi
151
IX, 1, 2.
152
Mi riferisco naturalmente al celebre caprifico su cui invano i ‘coturnati Achei’ tentavano di
arrampicarsi per raggiungere il punto più basso delle mura di Ilio; e alla scala di Capaneo, che
tentò di raggiungere da solo la cima della torre Elettra difesa dal tebano Polifonte e non vi riuscì
perché fulminato da Zeus.
153
Non vi era nessuna ragione perché i Tebani si rifugiassero dietro il muro come gli altri barbari
avendo a disposizione una comoda strada diretta che dalla pianura di Platea conduceva alla loro
città.
86
A Proposito di Platea
va il vanto di aver distrutto la resistenza del muro dietro il quale si erano rifugiati i
fuggitivi154.
Valicato il muro, avviene il collasso dell’intero esercito achemenide e la conseguente
strage dei barbari, che Erodoto descrive in due brevi ma densi paragrafi:
«Una volta caduto il muro, i barbari non si raggrupparono più a schiera, nessuno dette segni
di valore, ma facevano ressa, come è naturale, in un piccolo spazio, pieni di paura e ammassati
in molte decine di migliaia. I Greci erano liberi di farne strage (φονεύειν), in modo tale che dei
trecentomila uomini dell’esercito, tolti i quarantamila che Artabazo aveva con sé nella fuga, del
resto non ne sopravvissero neppure tremila. Dei Lacedemoni di Sparta nello scontro morirono in
tutto novantuno, dei Tegeati sedici, degli Ateniesi cinquantadue.» 155
Con queste parole, e con queste cifre in verità iperboliche in un verso e nell’altro, si
concludono i capitoli del libro IX che mi ero ripromesso di esaminare. Non voglio
dilungarmi più oltre nei successivi cinquantuno capitoli del libro poiché esulano dalla
battaglia. Mi limito perciò soltanto a fornire notizia sulla sorte di Tebe (capp.86-88).
L’undicesimo giorno dopo la vittoria gli Elleni della Lega assediarono la città
chiedendo che fossero loro consegnati coloro che avevano parteggiato per Serse ed
indotto Tebe ad allearsi con l’invasore. In verità la capitale della Beozia avrebbe meritato
una punizione ben peggiore, avendo combattuto con tutte le proprie forze al completo,
falange e cavalieri, dalla parte del Gran Re. Tuttavia le richieste furono di necessità miti,
sia perché la Lega non aveva materialmente la possibilità di prendere Tebe per la nota
carenza degli eserciti greci riguardo agli assedi, sia perché distruggere una delle più
nobili città greche avrebbe ricordato troppo la furia di Serse su Atene.
Rifiutandosi i Tebani di consegnare i loro concittadini, gli assedianti ricorsero alla
classica strategia che sarebbe sopravvissuta per tutto il V secolo: devastarono le
campagne intorno a Tebe per venti giorni, fino a quando la città non si decise a
consegnare a Pausania i componenti del partito filo persiano. Costoro, fra i quali il
Timagenida che abbiamo già incontrato e quell’Attagino a casa del quale si svolse il
dialogo ricordato da Tersandro, furono condotti dagli Spartani a Corinto e colà uccisi
senza processo. Attagino, invece, fu l’unico che riuscì a fuggire.
Gli errori di Mardonio
Per concludere con una certa dignità storica il commento alla battaglia di Platea,
finalizzato alla dimostrazione della mia tesi iniziale, che questa segnò idealmente il
passaggio da una fase ancora arcaica e artistica della guerra terrestre a uno stadio più
moderno e per così dire scientifico, devo ancora soffermarmi su una questione.
154
A dire il vero, secondo Erodoto non furono né gli Ateniesi né gli Spartani a oltrepassare per
primi il muro, ma i Tegeati, che saccheggiarono anche la tenda di Mardonio.
155
IX, 70, 4-5.
87
Piero Pastoretto
Durante l’esame di quel che dice, e soprattutto di quel che non dice Erodoto, mi sono
alquanto dilungato a sottolineare i grossolani difetti e le manchevolezze tattiche
dell’azione greca a Platea, pur rimarcando, quando ce n’era bisogno, quei tratti di novità
che facevano presagire la futura nascita di una vera e propria polemologia nel III secolo.
Viceversa, di sovente ho avuto modo di sottolineare l’adeguatezza della visione
strategica e persino la lucida “modernità” della condotta mostrate da Mardonio nelle
giornate precedenti a Platea.
Affinché il lettore non equivochi, ritenendo che lo stato dell’arte della guerra fosse più
avanzato tra i Persiani che tra gli Elleni, devo però aggiungere che, quando si giunse
allo scontro decisivo, il generale persiano mostrò tutti i suoi limiti ancora barbarici: non
seppe affatto pianificare la condotta della battaglia; non seppe profittare dell’unità di
comando di cui, al contrario degli Elleni, egli godeva; e infine e soprattutto, non seppe
sfruttare la cavalleria della quale il nemico era privo. Così, una vittoria praticamente
certa ed offerta, come si suol dire, “su un piatto d’argento” dalla dissennata divisione in
tre tronconi dell’esercito avversario, si trasformò, per colpa attribuibile soltanto a lui, in
un disastro immane.
Né qualcuno può avanzare a sua discolpa la circostanza che Mardonio cadde al
primo e più importante scontro della giornata, mentre il suo secondo, Artabazo, pensò
bene di fuggire. Un buon generale deve impartire all’inizio di uno scontro delle direttive
piuttosto precise, se non proprio dei veri e propri ordini circostanziati, ai suoi sottoposti e
responsabili di settore nella prospettiva che non possa più essere in grado di farlo
successivamente; e soprattutto deve almeno improvvisare nella propria mente e
comunicare ai propri ufficiali in comando, un pur minimo piano tattico di base, un pur
minimo coordinamento dei movimenti, che siano insomma qualcosa di più complesso
dell’assalto dei banditi a una diligenza. Insomma: un comandante in capo tutto deve fare
tranne ciò che fece Mardonio quel giorno: ovvero non deve mai partire forsennatamente
all’attacco sull’onda della falsa supposizione che il nemico sia battuto e in rotta, e che
basti un ultimo sforzo per distruggerlo156.
Invito adesso il lettore, così, tanto per il gusto di esercitare un poco l’ingegno e senza
fare ricorso al senno del poi di cui sono piene le fosse, ma solo rifacendosi alla fonte di
Erodoto, a considerare insieme come avrebbe dovuto comportarsi Mardonio.
Minimo requisito iniziale sarebbe stato quello di avere una visione generale dei
movimenti del nemico e constatare che si era aperto un gigantesco varco fra il suo
fianco destro, parzialmente in ritirata, e quello sinistro ateniese, ancora praticamente
immobile sulle posizioni della notte precedente. Al contrario Mardonio si comportò non
156
Seguì una tale sciocca condotta Ney a Waterloo, quando scambiò delle colonne di feriti dirette
alle retrovie per le colonne dell’intero esercito inglese in ritirata e scatenò la dannata carica dei
diecimila cavalieri francesi contro i quadrati di Wellington. Ma Ney non era certo Napoleone, non
comandava l’Armata imperiale nel Belgio e, se Bonaparte in quel momento non fosse stato
trattenuto da una indisposizione (le sue molto poco eroiche emorroidi) lontano dalla battaglia,
certamente avrebbe impedito una simile idiozia.
88
A Proposito di Platea
come il generale responsabile di un intero esercito, ma come il subalterno capo di
un’ala, che parte ‘a testa bassa’ soltanto perché vede il vuoto dinanzi a sé.
Passiamo adesso all’impiego della potente cavalleria persiana, sace e barbara, che
nella giornata di Platea fu in sostanza nullo. Sia per quanto riguarda la battaglia sul
settore destro della Lega Penellenica, che su quello sinistro, Erodoto ci ha rammentato
che la cavalleria non entrò direttamente in combattimento se non per un periodo
brevissimo. Nel settore comandato da Pausania la cavalleria arrivò ovviamente per
prima, essendo partita dalle sue posizioni al di qua dell’Asopo, ma pare si sia contentata
di un primo assalto e poi abbia lasciato l’incarico di attaccare combattimento alla fanteria
pesante. Sul settore sinistro degli Ateniesi Erodoto addirittura parla dell’intervento della
cavalleria soltanto dopo la fuga disordinata della fanteria, per arginare l’avanzata della
Lega e proteggere la falange dei Beoti e degli altri greci in ritirata.
Ora, ammettendo pure che l’esperienza del giorno precedente, durante il quale la
cavalleria era riuscita soltanto a far retrocedere in ordine lo schieramento compatto degli
Elleni, ma non aveva causato nessuno sfondamento o fuga in massa, suggerisse a
Mardonio di non caricare frontalmente Spartani e Ateniesi e di usare invece contro il
fianco destro degli Spartani la fanteria scelta persiana, e contro quello sinistro degli
Ateniesi la robusta falange dei greci alleati mescolata a truppe barbare, si deve pur
sempre considerare criminale, da un punto di vista logico e soprattutto tattico, la
mancata utilizzazione della cavalleria in un’agevole e persino intuitiva manovra di
aggiramento157.
Con tutto lo spazio lasciato aperto fra le due ali dell’esercito ellenico, questa avrebbe
potuto incunearsi senza incontrare alcun ostacolo davanti a sé, per poi accerchiare e
quindi attaccare a tergo i due corpi separati schiacciandoli contro le fanterie 158. In questo
caso non ci sarebbe stato scampo per gli Ateniesi di Aristide e gli Spartani di Pausania.
E se anche Mardonio fosse ugualmente caduto nelle fasi iniziali della battaglia,
sicuramente, anziché fuggire, sarebbe intervenuto Artabazo con i suoi rinforzi a
sostituirlo159, e l’ebbrezza della vittoria imminente e della strage sparsa fra le schiere
nemiche avrebbe impedito la fuga rovinosa dei persiani.
157
Tale mancanza di ‘fantasia’ tattica in Mardonio meraviglia tanto più, quanto più si pensa che
l’aggiramento, in condizioni tanto più difficili, era stato messo in pratica l’anno precedente da
Idarne e dai suoi Immortali alle Termopili. L’aggiramento dunque non era una manovra
sconosciuta ai Persiani; e anzi, quando possibile, doveva essere universalmente attuato anche
nell’età pre-epistemica della guerra.
158
È esattamente la manovra che Alessandro, in situazioni molto più complesse di Platea, poiché
doveva preventivamente sfondare la resistenza della cavalleria avversaria, assegnava alla
propria cavalleria degli etairoi dell’ala destra. Tra l’altro meno robusta di quella su cui poteva
contare Mardonio.
159
Uso l’avverbio sicuramente poiché certo ad Artabazo sarebbe convenuto presentarsi al suo
Re come il trionfatore sui Greci a Platea.
89
Piero Pastoretto
Più complesso sarebbe stato l’uso della cavalleria contro il centro dell’esercito
ellenico, in quanto sappiamo che era schierato con alle spalle la città di Platea e dunque
non poteva essere aggirato. Tuttavia, con un esercito ridotto a neppure la metà di quello
iniziale e con lo sconforto di aver visto perire il fior fiore degli Ateniesi e degli Spartani,
ogni difesa sarebbe stata inutile e i sopravvissuti avrebbero accolto volentieri qualsiasi
condizione di pace proposta con una certa diplomazia dal vincitore160.
160
Tanto più che, dopo la debellatio di Spartani e Tegeati, l’esercito corinzio e quelli degli altri
popoli peloponnesiaci avrebbero avuto tutto l’interesse a tornare in patria intatti e protetti dal
muro costruito sull’Istmo, lasciando ai Persiani il resto dell’Ellade. Per di più, Arcadi e Argivi,
eterni nemici di Sparta, avrebbero avuto un’occasione di rivalsa verso una città praticamente
priva di truppe.
90
A Proposito di Platea
Un particolare non indifferente
Nel brano riportato nell’esergo, tratto dal capitolo 71,1, si legge: «Tra i barbari si distinsero la
fanteria persiana, la cavalleria dei Saci e, dei singoli, si dice Mardonio». Ora, avendo esaminato
passo dopo passo l’intera battaglia di Platea, mi chiedo in quale episodio si siano particolarmente
distinti i cavalieri Saci, in quanto non se ne riscontra nessuno. Erodoto infatti non li nomina mai
specificatamente nella sua cronaca dei combattimenti, ma li elogia (con la formula piuttosto elusiva
del «si dice» - λέγεται -, la cui scelta sottintende che sta riferendo opinioni di testimoni senza
ulteriori documenti di convalida), soltanto alla fine della battaglia, insieme agli Spartani.
Per affrontare il problema non resta che ricorrere all’induzione.
I Saci, barbari sciti ma eccellenti cavalieri, come sappiamo da Erodoto, erano schierati sul
fianco destro dell’esercito persiano insieme agli alleati Greci del Gran Re. Ciò non esclude però
che la loro cavalleria fosse presente anche in altri settori dello schieramento, sia quando questo fu
regolarmente ordinato da Mardonio, modellandolo su quello opposto ellenico, sia soprattutto
prima, allorché la cavalleria aveva attaccato gli opliti della Lega a Eritre, quando erano appena
discesi dal passo Driocefale. Sappiamo, ad esempio, che i Saci erano disposti anche di fronte a
quelli di Anattorio, Ambracia, Leucade, insieme ai Pelei e agli Egineti. Non sappiamo però se
questo settore greco aveva seguito il centro verso Platea o era rimasto accanto al corno sinistro di
Ateniesi, Megaresi e Plateesi.
Quando, dove e come i Saci, senza essere mai menzionati da Erodoto, si distinsero dunque sul
campo?
Escludo che i Saci siano stati impiegati, sotto il comando diretto di Mardonio, contro il fianco
destro dello schieramento ellenico, poiché Erodoto non potrebbe essere più chiaro nell’affermare
che lì vi erano soltanto cavalieri e fanti medi e persiani e dunque a loro va il merito di aver messo
in crisi l’ala spartana e averla costretta a ritirarsi oltre la fonte Gargafia.
Nella stessa giornata di Platea, quando l’autore si occupa del fronte sinistro dell’esercito della
Lega Panellenica, riporta soltanto le azioni dei cavalieri Tebani e Beoti che, in concorso con la
fanteria, avevano prima inchiodato sulle loro posizioni gli Ateniesi e protetto poi efficacemente la
ritirata dei loro opliti, impedendo che i barbari si mescolassero a loro nella fuga. Fu forse in questo
fatto d’arme che si distinsero i Saci, senza che Erodoto, per dimenticanza o per nazionalismo, li
menzionasse accanto ai cavalieri Tebani? Saci che poi, coinvolti nella fuga disordinata di tutto
l’esercito persiano tranne gli opliti tebani alleati, si diressero verso il muro di legno.
Mi sembra la soluzione più probabile, a meno che i Saci non si siano contraddistinti per
particolari valore e combattività il giorno precedente alla battaglia risolutiva, e cioè durante
l’attacco generale della cavalleria del Gran Re, che costrinse a rinculare l’intero esercito ellenico,
tagliandolo fuori da ogni possibile rifornimento idrico.
Tendo invece a escludere che l’attacco di Masistio sia stato condotto dai Saci. Masistio era un
capo persiano e non barbaro, e fu onorato dopo la morte secondo il costume persiano. Inoltre, la
cavalleria che comandava, dal modo di combattere che ho già commentato, era pesante e non
leggera e armata essenzialmente di archi, come presumibilmente doveva essere quella dei Saci.
91
Piero Pastoretto
POST REM
Il logos erodoteo dedicato alla battaglia di Platea si conclude con i capitoli dal 72
all’89. In questa sezione del libro IX si menzionano i nomi dei Greci che si sono
comportati con particolare onore in battaglia 161, il saccheggio degli accampamenti e dei
cadaveri dei Persiani, il seppellimento dei caduti e la spedizione contro Tebe, protrattasi
per venti giorni prima che i Tebani si decidessero a consegnare i rappresentanti del
partito filo persiano. Ritengo dunque che questi diciassette capitoli comprendano un
periodo di 23-24 giorni.
Con questa breve rassegna degli ultimi capitoli dedicati alla vittoria greca di Platea il
compito del mio articolo si conclude.
Mi pare tuttavia meritevole di una pur sommaria attenzione la battaglia che fa da
gemella alla prima: Micale, tanto idealmente connessa con Platea che Erodoto pretende
siano avvenute nel medesimo giorno.
Pertanto, nella breve sezione che segue, dal titolo POST REM, darò conto al lettore
degli avvenimenti intercorsi a Micale162, che portarono alla controffensiva ellenica nel
centro nevralgico e nelle regioni più ricche dell’Impero Persiano, alla vittoria definitiva
contro l’invasore e alla seconda rivolta della Ionia163.
Per inciso, con la vittoria di Micale terminano anche le lunghissime Storie di Erodoto
e la sua penna trova finalmente riposo.
Il capitolo 89 segna per così dire il distacco dalla scena degli avvenimenti in Beozia e
il passaggio a quelli sul Mar Egeo. Erodoto descrive la ritirata di Artabazo e dei suoi
quarantamila attraverso la Tessaglia e si sofferma a narrare di come il capo persiano,
invitato a banchetto dai Tessali, e interrogato dove fosse il resto dello sterminato
esercito di Serse164, li ingannasse dicendo che egli doveva compiere una missione
urgente in Tracia e che il resto degli uomini di Mardonio sarebbe arrivato in breve
tempo. Temeva infatti che i Tessali, saputa la sconfitta persiana a Platea, avrebbero
immediatamente assalito lui e tutti i suoi uomini.
Che sia vero o no questo episodio, dal capitolo 90 inizia il logos dedicato a Micale,
che Erodoto, ricordo, colloca avvenuta nello stesso giorno di Platea.
161
Tra costoro viene ricordato anche Aristodemo, il cieco unico superstite delle Termopili. Tuttavia
gli Spartani non lo considerarono valoroso al pari degli altri perché, entrato in battaglia con
l’obiettivo preciso di morire per riscattare l’ignominia di non essere caduto insieme ai trecento.
162
Il logos di Micale si estende per quindici capitoli del libro IX: dal 90 al 105.
163
La prima, che aveva trovato i suoi eroi e animatori in Istieo e Aristagora tiranni di Mileto, era
iniziata nel 499 e come tutti sanno aveva dato origine alla prima Guerra Persiana.
164
In Tessaglia non era ancora giunta la notizia della disfatta dei Persiani a Platea. Suppongo
che la scena si svolga a Larissa, capitale della Tessaglia, o a Farsalo.
92
A Proposito di Platea
Sulla contemporaneità di tante battaglie - Salamina nello stesso giorno di Imera; le
Termopili nello stesso giorno dell’Artemisio; e infine Platea nello stesso giorno di Micale
- non c’è storico serio che non sia scettico. Tanto più che Erodoto non riporta la data né
dei giorni, né del mese, forse anche impacciato dalle profonde diversità tra i calendari
dei diversi Stati greci. In ogni caso la narrazione del libro IX cessa di essere cronologica,
poiché torna indietro nel tempo per riprendere i fatti antecedenti a Micale.
Nei capitoli 90-95 la flotta ellenica reduce da Salamina è tranquillamente ancorata a
Delo sotto il comando non più di Euribiade come a Capo Artemisio e a Salamina, ma del
re Leotichida165, quando giunge un’ambasceria da Samo che, all’insaputa dei Persiani e
del tiranno Teomestore loro alleato, lo invita a una battaglia risolutiva contro la flotta
persiana, assicurandolo che tutti i Sami e tutta la Ionia sono pronti a passare dalla parte
dei Greci.
Leotichida, secondo la narrazione di Erodoto, chiede al capo dell’ambasceria il suo
nome e, avendogli quello risposto Egesistrato (ᾙγεσίστρατος), che significa “Conduttore
dell’esercito”, confidando in quel nome come in un presagio, si muove verso Samo e dà
fondo a Kalami166, sulla costa nord-orientale dell’isola, presso il tempio di Era167.
Saputa la notizia della defezione dei Sami, la flotta persiana lascia immediatamente
l’isola e, congedate le navi fenicie (Erodoto non ne motiva la ragione) 168, conscia della
propria inferiorità, rinuncia a dar battaglia sul mare e si dirige sul continente verso
Micale, presso la foce del Meandro, il cui promontorio sorgeva dirimpetto a Samo.
Micale viene scelta poiché vi stazionava un grosso contingente di sessantamila uomini,
lasciato lì da Serse durante la ritirata a sorvegliare la Ionia. Comanda il contingente il
satrapo Tigrane, capo dell’esercito dei Medi nella spedizione. Giunte a Micale nei pressi
del santuario di Demetra Eleusina169 sotto la protezione dell’esercito, le navi persiane
165
Scrivo correttamente Leotichida, e non Leotichide come fa Erodoto, che scrive in attico,
trattandosi di un nome dorico. Altrimenti dovremmo scrivere anche Leonide e non Leonida.
Leotichida era il re spartano della famiglia degli Euripontidi, mentre per gli Agiadi regnava il
reggente Pausania. Era salito al trono nel 491 dopo la rinuncia di Demarato.
166
In greco Κάλαμοι, “Canneto”, “Canne”.
167
Delo dista da Samo circa 80 miglia che, alla velocità di 6, massimo 8 nodi, quale quella
stimata raggiungibile dalle triere, richiede circa dieci ore di navigazione. Cfr. a proposito P.
Pastoretto, Di alcuni ragionamenti sopra il bassorilievo Lenormant, in www.arsmilitaris.org .
168
Secondo Erodoto (VIII, 130, 2) le navi fenicie della flotta persiana erano in origine trecento,
ma dovevano avere subito perdite terribili all’Artemisio e a Salamina, oltre che a causa delle
tempeste. L’autore non si sbilancia a precisare la consistenza delle navi che avevano
abbandonato Samo. Diodoro (XI, 27, 1) propone la cifra spropositata di quattrocentoquaranta.
Probabilmente la flotta persiana era alla fonda o tirata in secco sulla sponda meridionale
dell’isola, nel porto della città omonima di Samo.
169
Si osservi come Erodoto tenda sempre a precisare, nel suo racconto, il luogo sacro al culto
greco più vicino a una battaglia, quasi a suggerire che le vittorie della Lega sono anche frutto
della protezione degli dèi. Un santuario dedicato a Demetra Eleusina sorgeva anche presso il
93
Piero Pastoretto
sono tirate in secco e intorno a loro vengono erette due cortine concentriche: un muro di
sassi interno e una palizzata esterna170.
I navarchi della flotta ellenica, venuti a sapere della partenza da Samo dei nemici,
sono incerti sul da farsi: tornare a Delo, dirigersi verso l’Ellesponto, oppure sul vicino
continente. In modo del tutto casuale, decidono di far rotta proprio verso Micale e
approntano le navi per una possibile battaglia navale171.
Quando sono vicini al promontorio e scorgono dal largo tanto la flotta quanto il muro
e l’esercito persiano schierato lungo la riva, bordeggiando (παραπλέων) il più vicino
possibile alla costa, Leotichida fa annunciare ad alta voce da un araldo un messaggio
per i soldati e marinai ioni schierati con i persiani, con il quale li si invita a combattere
per la loro libertà. Così lo riporta Erodoto:
«Uomini della Ionia, quanti di voi mi ascoltano prestino attenzione a quello che dico: i Persiani
infatti non capiranno nulla di quanto vi raccomando. Quando ci scontreremo, bisogna che
ciascuno pensi in primo luogo alla libertà di tutti, poi alla parola d’ordine Ebe (συνθήματος
Ἥηβης). E chi di voi non ha udito lo sappia da chi ha udito.»172
Si tratta, in pratica, della riedizione dello stratagemma adottato da Temistocle
all’Artemisio (VIII, 33, 3). In realtà Leotichida sa bene che, imbarcati sulle navi persiane,
vi sono parecchi Sami propensi a disertare e vuole non soltanto invitarli a combattere
per la causa greca, ma anche gettare lo scompiglio nel campo nemico. I Persiani, infatti,
non comprendendo la lingua del messaggio, ma intuendone il tenore, disarmano per
sospetto i Sami e si liberano anche dei Milesi, inviandoli a presidiare i passi che portano
a Micale, da loro ben conosciuti dal momento che Micale e Mileto sono molto vicine.
Fatto ciò i Medi di Tigrane ammassano gli scudi (συνεφόρησαν τὰ γέρρα) come avevano
fatto a Platea contro gli Spartani.
Moloeis dove gli Spartani avevano disfatto i Persiani di Mardonio, mentre un altro consacrato a
Era era ubicato vicino a Platea, non lungi dall’ultima posizione assunta dal centro dell’esercito
della Lega Panellenica.
170
Ulteriore aggancio ideale al libro XV dell’Iliade.
171
Erodoto specifica che preparano le passerelle per l’abbordaggio degli epibàtai, le ἀποβάθρας,
antenate dei corvi romani (IX, 98, 2).
172
IX, 98, 3.
94
A Proposito di Platea
Consistenza delle due flotte a Micale
Se con do E ro do t o la con sist en za in izia le d e lla f lo t ta pe rsia na n e l 4 80 e ra d i
1. 20 7 n avi. 50 0 an da ron o p e rd u te d u ran te du e te mp e st e a l la rg o de lla Ma gn e sia
e de ll’E ub e a e 50 f u ro no d ist ru t te all’A rt e mis io, men t re t a li ma ssicce p e rd it e
fu ro no p a rzia lme nt e co mpe n sa t e p rima d i S a la m ina d a ll’in vio d i 1 20 n a vi t ra cie e
de lle iso le circo n vicin e.
Se bb en e vo lut a men t e n on a zza rd i né il nu me ro d elle na vi p e rsian e a
Sa la min a, n é il n u me ro d elle p e rd it e, in VI I I, 1 30 E ro do t o affe r ma ch e l’a n no
se g ue nt e a lla b at ta g lia le t rie re p e rsia n e e ran o 30 0.
P iù o me no a 30 0 u nit à po ssia mo d un qu e f a r risa lire il n a vig lio p e rsian o a
Mica le .
Se mp re E ro do t o f a risa lire a 3 78 le t rie re e b ie re d e lla L eg a P an e llen ica a
Sa la min a, men t re n on è p re ciso ci rca il nu me ro de lle n a vi a ff on d at e o d ist rut t e
ne llo sco n t ro. Dio do ro in ve ce , in I X, 1 9, ne men zio na 40 .
A Mica le d un qu e , la con sist en za nu me rica de lle du e f lot t e e qu ind i d e i lo ro
eq u ip a gg i d ove va e sse re p re ssa pp o co sim ile .
Pe r qu an to rigu a rda le fa nt e rie imb a rca te , sa pp ia mo che le t rie re e lle n iche
po rt a va no d a u n min imo d i do d ici a un ma ssimo d i ven t i o p lit i. Du nq u e a Mica le,
su p po ne nd o che in vista di un a ba tt a g lia loe na vi p o rt a van o il nu me ro ma ssimo
d i f an t i, do vet t e ro sba rca re circa 6. 00 0 uo min i. Fo rse q ua lche cen t ina io in più ,
se si ca lco la che le na vi e lle n iche p ot e sse ro a ve r imb a rca to an che q ua lche
co n t ing en t e d i Sa mi.
Le circa 30 0 un ità pe rsia ne t ira t e in se cco a Mica le e ra no d ot a te d i un
eq u ip a gg io d i f an t i su pe rio re a q ue llo d e lle t rie re e llen ich e, circa 3 0 og n i na ve,
pe r la mag g io r pa rte a rcie ri. Q u in d i in t eo ria le t ru p pe che d if e nd e va n o la
du p lice circo n va lla zion e in t o rno a lle n a vi do ve van o co n sist e re in 9. 00 0 uo min i.
S i de ve rico rd a re pe rò che i S a mi e ran o sta t i disa rma t i, i Mile si a llo n ta na t i e
so p ra tt u tt o ch e il no ccio lo de lle fo rze pe rsian e a Mica le e ra n o i 6 0. 00 0 Med i d i
Tig ran e .
95
Piero Pastoretto
A questo punto (IX, 101, 2-3), Erodoto inserisce una notizia che già nell’antichità
suscitò parecchio scetticismo, e cioè che ai Greci sulle navi in quel frangente giungesse
miracolosamente la notizia della vittoria di Pausania 173, adducendo la differenza di orario
fra le due battaglie: la mattina (πρωί) per Platea e la sera (περὶ δείλην) per Micale. Cosa
invece impossibile, dal momento che la Beozia dista da Micale circa 190 miglia marine e
nessuna nave né di allora, né di oggi, è in grado di percorrere una tale distanza in poche
ore174. Alcuni studiosi moderni175 pensano che la notizia sia potuta arrivare in così breve
tempo attraverso il sistema di segnali di fuoco, cosa nient’affatto rara nel V secolo 176.
Personalmente ritengo invece, insieme ai più, che la battaglia di Micale sia avvenuta a
qualche giorno di distanza da quella di Platea; e che, come pure si è da più parti
osservato, la pretesa coincidenza dei due fatti d’arme abbia non un valore storicocronologico, bensì puramente simbolico e didascalico teologico.
Il capitolo 102 inizia con lo sbarco degli Elleni trascinati dall’entusiasmo per la notizia
della vittoria di Platea, validamente contrastati dai Medi di Tigrane, a loro volta consci
che da quella battaglia sarebbero scaturite le sorti delle isole ionie e dell’Ellesponto.
Ancora una volta sembra che, come a Platea, Ateniesi e Spartani occupino i due
fianchi dello schieramento ellenico: lo storico precisa infatti che gli Ateniesi «e quelli
disposti intorno a loro» (τῶν προσεχέων, vedremo tra breve chi sono) fino a circa la
metà dell’esercito greco, prendono terra sulla spiaggia, mentre gli Spartani e l’altra metà
su un tratto di costa scoscesa, dove non sembra esserci la difesa persiana; sicché,
mentre i primi già ingaggiano battaglia, gli altri sono ancora impegnati ad aggirare le
alture per partecipare anch’essi al combattimento e portare aiuto alle armi degli alleati.
Non è dato però sapere, a differenza di Platea, quale delle due ali essi occupino; e
tengo ad aggiungere che, sempre a differenza di Platea, il cui riferimento è d’obbligo, vi
è una grande disuguaglianza tra la consistenza degli opliti ateniesi sbarcati e quelli dei
Lacedemoni, in quanto la flotta spartana, almeno nella naumachia di Salamina, era
meno di un decimo di quella ateniese: 16 navi contro 180.
173
Mi sembra degno di nota che Erodoto sottolinei che la vittoria era stata conquistata da
Pausania (γεγονέναι δὲ νίκην τῶν μετὰ Παυσανίεω). Penso che lo spinga a tale precisazione
poco corretta se non altro verso gli Ateniesi di Aristide, anch’essi vincitori, il parallelismo esiodeo
tra Pausania vendicatore di Leonida e Achille vendicatore di Patroclo.
174
Anche viaggiando a una velocità di 30 nodi, occorrono più di sei ore per coprire una simile
distanza.
175
Ad es. P. Barron, in The Cambridge Ancient History IV, p.614.
176
Nella prima delle tragedie dell’Orestea, Agamennone, Eschilo presenta Egisto e Clitemnestra
mentre sono informati del prossimo arrivo del re attraverso il sistema dei fuochi costieri.
L’Agamennone è l’unica tragedia dello trilogia che si sia salvata per intero. Le altre tragedie
presentate al concorso del 458, Le Coefore, Le Eumenidi e il dramma satiresco Proteo, ci sono
giunte mutile.
96
A Proposito di Platea
Neppure ci è dato conoscere, attraverso il testo erodoteo, come fossero disposte le
triere elleniche al loro approdo, o meglio, spiaggiamento a Micale. Certo la disposizione
non era simile a quella di Platea, dove accanto agli Ateniesi vi erano i Megaresi loro
alleati, e accanto agli Spartani i Tegeati, in quanto Erodoto testimonia che a Micale,
accanto agli Ateniesi che sbarcano agevolmente su un tratto di costa sabbioso, vi sono
tre contingenti peloponnesiaci, ovvero i Corinzi, i Sicioni e quelli di Trezene; contingenti
che a rigore, in una disposizione ‘etnica’ delle squadre, sarebbero dovuti stare accanto
agli Spartani di Leotichida come lo erano stati i Tegeati a sinistra di Pausania.
Un altro particolare di straordinaria importanza su cui Erodoto tace è il modus
operandi con cui è avvenuto lo sbarco. Infatti, mentre per gli Ateniesi è facile
immaginare che abbiano semplicemente fatto arenare le loro navi sulla sabbia, siano
saltati in mare dalle murate e abbiano percorso i pochi metri che li separavano
dall’asciutto con l’acqua inizialmente ai fianchi177, più difficile risulta rappresentarsi come
siano sbarcati gli Spartani su una costa alta e rocciosa, dove le navi non potevano certo
avvicinarsi alla riva con il rischio di danneggiare seriamente le carene sugli scogli o di
finire preda della risacca e della corrente marina178.
Abbandonando adesso i dubbi che Erodoto lascia irrisolti e rimangono pertanto delle
incognite, l’autore invece ci fa ben capire che a Micale, a differenza di Platea, la vittoria
va a tutto merito degli Ateniesi e di «quelli disposti intorno a loro».
E proprio sopra questo punto devo candidamente confessare tutta la mia meraviglia
nel non trovare, in tutto il logos dedicato da Erodoto alla battaglia, il nome del
comandante ateniese. Non certo Temistocle, l’eroe di Salamina, perché sarebbe
paradossale che Erodoto non lo menzioni neppure una volta, mentre per Platea, invece,
cita più volte Aristide. Ma allora chi? E perché l’autore non vi fa cenno, nonostante a
questo misterioso comandante e ai suoi uomini vada il merito maggiore
dell’annientamento della flotta e dell’esercito persiani?
177
C’è tuttavia da mettere in conto un problema non trascurabile: facendo riferimento a Salamina,
le navi impiegate nello sbarco tra Ateniesi e alleati erano ben 240 (180 ateniesi, 40 corinzie, 15 di
Sicione e 5 di Trezene). Qualcheduna in meno calcolando le perdite, le riparazioni delle unità
danneggiate o le possibili defezioni intervenute dopo Salamina. Dunque i casi sono due: o la
costa era lunga diversi chilometri perché le triere potessero ammassarsi a riva pur conservando
la capacità di manovrare con i remi senza intralciarsi l’una con l’altra, o lo sbarco dovette
avvenire a ondate successive di navi. Nel primo caso però nasceva il problema di raccogliere gli
opliti così dispersi in maniera da poter formare la falange da contrapporre al muro dei gherra
dell’esercito medo.
178
Neppure ai Tempi di Overlord, con tutti i mezzi e la tecnologia a disposizione, si pensò mai a
uno sbarco lungo una costa alta. L’episodio di Pointe du Hoc non fu uno sbarco, ma
un’operazione di ranger. In verità un progetto (piuttosto bizzarro) di sbarco lungo un’alta scogliera
con le scale dei pompieri faceva parte dell’operazione italo tedesca C3 su Malta, che infatti non
fu mai realizzata.
97
Piero Pastoretto
E se a capo del contingente ateniese non vi è Temistocle, che cosa era accaduto:
quale dissapore, quale lite, quale vendetta o veto si cerano verificati all’interno della
flotta della Lega, perché il vero vincitore di Salamina non divenisse anche il vero
vincitore di Micale?
Ovviamente le interrogative di cui è ricco il periodo precedente sono del tutto
retoriche e non potranno certo avere risposta né in questo studio, né altrove.
Riprendo perciò il breve sunto delle operazioni. Gli Ateniesi e gli altri alleati che
sbarcano sulla spiaggia si trovano innanzi il muro compatto degli spara dei Medi. Non è
chiaro perché Tigrane non abbia impegnato i propri uomini a contrastare lo sbarco dei
Greci sulla battigia, bersagliandoli di frecce e profittando del momento delicato in cui
erano disuniti e impacciati dallo stesso peso del loro armamento in un braccio d’acqua,
e abbia invece concesso loro di formare la falange e di avanzare compatti nel modo
consueto179. Non è neppure ben chiaro perché abbia disposto i suoi sparabara davanti
al muro parecchio lontano dalla costa, come si arguisce dal passo erodoteo che suona
così:
«Gli Ateniesi e quelli disposti accanto a loro, fino circa alla metà, percorrevano la strada ( ἡ
ὁδός) lungo la spiaggia e su un terreno pianeggiante.» 180
Si tratta di un comportamento irrazionale: eppure, sebbene Erodoto non sia così
esplicito, è proprio quello scelto dal comandante medo. Ecco la descrizione, molto simile
a quella dello scontro tra Persiani e Spartani presso il tempio di Demetra, dal quale si
deduce come anche gli Elleni abbiano formato una falange e non siano andati
all’attacco in modo disunito e disperso181.
«Finché i Persiani ebbero gli scudi eretti (ὂρθια ᾖν τὰ γέρρα), si difesero e non furono inferiori
nella battaglia; ma, quando le schiere degli Ateniesi e di quelli vicini, perché l’impresa fosse loro
e non degli Spartani, esortandosi a vicenda si impegnarono all’opera con maggiore ardore, allora
la situazione cambiò. Abbattuti gli scudi, piombarono di slancio in massa sui Persiani che
sostennero l’urto e si difesero a lungo, ma alla fine fuggirono verso il muro.» 182
A commento degli ultimi due passi citati, mi sembra decisamente lecito porsi un altro
interrogativo di non irrilevante gravità. Se gli Ateniesi e i loro compagni percorrono una
via successiva alla spiaggia per poi disporsi comodamente a falange nella pianura e
179
Il nemico che sbarca, o lo si ferma sulla spiaggia, o non lo si ferma più. Rommel docet et von
Rundstedt nocet.
180
IX, 102, 1.
181
Peraltro, per l’oplite greco, combattere singolarmente e non in uno schieramento massiccio
era una semplice assurdità. Un oplite da solo, o più opliti separati, diventavano dei fanti come
tutti gli altri e il peso del loro armamento addirittura li penalizzava gravemente rispetto ai persiani.
182
IX, 102, 2-3.
98
A Proposito di Platea
attaccare i Medi, che stavano disposti in lunghe file davanti al muro eretto a protezione
delle navi: ebbene, di quanto era stata tirata in secco la numerosa flotta persiana? Non
certo di poche decine di metri. Quindi saranno stati necessari falanche, rulli, animali da
soma e uomini in quantità, in un’operazione di gravoso impegno. Alla quale poi deve
essere succeduta quella dell’innalzamento del muro. E allora, come può essere
possibile anche soltanto immaginare veritiero il racconto di Erodoto, che sembra fare
intendere come la partenza delle navi persiane da Samo abbia preceduto di un solo
giorno o due quella delle navi della Lega Panellenica? 183 Infatti, come il lettore ricorderà,
egli dice che la flotta di Leotichida, venuto a sapere della partenza del nemico (cosa non
troppo difficile in verità, data la piccolezza di Samo), decide immediatamente di
prendere a propria volta il mare.
Non resta che ammettere che le informazioni di Erodoto circa la battaglia di Micale
dovevano essere molto meno dettagliate rispetto a quelle che mostra di possedere
intorno a quella di Platea e di Salamina. Non si potrebbero spiegare altrimenti tutte le
lacune e i dubbi che lascia scoperti nella sua narrazione.
La conclusione della battaglia di Micale è praticamente la copia di quella di Platea e
segue il medesimò cliché stereotipato.
Le linee dei Medi, quando cominciano a cadere i loro scudi dopo una lunga lotta
accanita, vengono sfondate e si verifica una fuga generale verso il muro. Ateniesi,
Corinzi, Sicioni e Trezeni li inseguono e fanno irruzione dentro la duplice difesa. A
questo punto tutti i barbari184 fuggono a eccezione dei Medi, che proseguono a
combattere contro gli Elleni che continuano a irrompere incessantemente dentro le
difese.
Dei comandanti nemici due fuggono, e sono Artaunte e Itamitre, capi della flotta,
mentre Mardonte e il comandante dell’esercito Tigrane, cadono nel combattimento.
Mentre proseguono le ultime, ostinate, resistenze, giungono anche gli Spartani e i non
meglio precisati «quelli che erano con loro»185 e segue un’aspra battaglia in cui cadono
parecchi Greci e in particolare Perileo, comandante dei Sicioni.
I Sami, che erano stati disarmati da Tigrane dopo il messaggio dell’araldo, fanno
quello che possono per portare sostegno ai loro connazionali. Maggiormente influente è
però l’aiuto dei Milesi, che invece erano stati mandati a sorvegliare i passi montani
intorno a Micale. L’obiettivo di Tigrane era duplice: allontanare i Milesi dal campo di
battaglia per evitarne la ribellione e usarli come guide esperte dei luoghi per trarre in
183
Erodoto non era certo un Polibio, cha andava a misurare in loco, passo dopo passo, i luoghi
delle battaglie. Non c’è dubbio che, quando Polibio lesse il libro IX delle Storie che riguarda
Micale, si sia fatto prendere dallo sdegno per il pressapochismo e le contraddizioni dello storico
di Alicarnasso.
184
Presumo che con il nome barbari Erodoto intenda gli equipaggi navali e i fanti delle navi tirate
in secco
185
Situazione esattamente opposta a quella che si era verificata a Platea, dove erano stati i
Lacedemoni a dare l’assalto al muro, e gli Ateniesi a venire in loro aiuto in un secondo momento.
99
Piero Pastoretto
salvo l’esercito in caso di sconfitta. Proprio questa funzione di guida essi compiono
verso i barbari fuggitivi, salvo che essi li indirizzano di nuovo verso gli Elleni vincitori
invece che verso lo scampo e alla fine, come annota Erodoto, «furono i più ostili nel
massacro. Così per la seconda volta la Ionia si ribellò ai Persiani.»186
Il monte Micale
La scena si conclude con l’incendio del muro e delle navi, la raccolta dell’immenso
bottino, l’elenco dei caduti illustri e la menzione dei popoli che si erano maggiormente
distinti.
Contrariamente a quanto riportato nell’esergo con cui ho voluto aprire l’articolo, che
cita fra i più valorosi a Platea gli Spartani seguiti dai Tegeati e dagli Ateniesi, questa
volta i migliori sono proprio gli Ateniesi, seguiti dai Corinzi, Trezeni e SIcioni187.
Giustizia distributiva era fatta! A Platea la palma dei migliori in campo era andata ai
Lacedemoni. A Micale questi, pur disponendo del comando della flotta, svolgono un
ruolo del tutto secondario, quasi da comprimari.
Atene e Sparta potevano dirsi entrambe soddisfatte della penna del più grande
storico antico delle Guerre Persiane.
186
187
IX, 104, 3.
IX, 105.
100
A Proposito di Platea
Appendice I
Χαλκέοι ἅνδρες
Proponendomi in questa prima appendice di rammentare al lettore come si
presentasse la panoplia di un oplite greco a Platea, inizio con il dire che l’illustrazione
che ho posto all’inizio dell’articolo non è coeva a quella battaglia, ma io l’ho scelta per
pure ragioni estetiche. Le corazze che indossano i personaggi raffigurati nella ceramica
sono infatti già composite (linothorax)188, e l’ultimo a destra, che calza un elmo tracio189,
addirittura non sembra vestire alcuna corazza, ma soltanto un’exomis. La loro panoplia li
colloca quindi nella seconda metà del V secolo, prima cioè che venisse introdotto l’elmo
pileato, ma dopo che, per esigenze di leggerezza, era stato abbandonato quel bronzo
che aveva fatto nominare gli opliti greci del VI secolo, χαλκέοι ἅνδρες, “uomini di
bronzo”.
Inizio con le armi difensive.
Θώραξ – corazza
Agli inizi del V secolo l’oplite greco indossava ancora l’arcaica lorica in bronzo detta
“a campana” perché svasata all’altezza dei fianchi a seguire l’allargamento del bacino
rispetto alla vita. Nel VI secolo sul metallo erano incisi degli eleganti ornamenti
geometrici o una sommaria muscolatura; al tempo di Maratona e di Platea i particolari
erano invece ben modellati, sino a fare assumere alla lorica un vero aspetto anatomico.
Abbandonata poco dopo Platea, la corazza bronzea fu sostituita dal linothorax e
addirittura, durante le guerre del Peloponneso, a questo subentrò la semplice exomis
(ἐξωμίς), la tunica militare la cui manica destra poteva essere raccolta.
Successivamente, nel IV secolo, si pensò nuovamente a premiare la protezione
dell’oplite in luogo della sua leggerezza e fu reintrodotta la lorica di diverse fogge e
differenti materiali: lino, cuoio o metallo.
Una corazza di bronzo al tempo di Platea poteva pesare dai tredici ai quattordici
chilogrammi.
Κράνος – elmo
L’elmo universalmente adottato dagli opliti a Platea era il modello corinzio, che risale
all’VIII secolo e che, per intenderci, è calzato dal personaggio di sinistra e di centro
dell’illustrazione all’inizio dell’articolo.
188
Formate cioè da diversi strati di lino (più di dieci) tenuti insieme da colle animali o resine.
Purtroppo, a parte le raffigurazioni, non ci è giunto alcun resto di λινοθώραξ e perciò sulla loro
reale composizione il dibattito fra storici e archeologi è ancora aperto.
189
Scrivo deliberatamente tracio (greco θράκιος) in luogo di trace (latino trax) per evitare
confusione con l’elmo trace dei gladiatori romani.
101
Piero Pastoretto
Se l’avere il capo protetto era un motivo di indubbia superiorità dell’equipaggiamento
greco rispetto a quello achemenide, i cui fanti non indossavano alcuna protezione
metallica, tuttavia il modello corinzio aveva il grosso difetto del peso e di limitare
fortemente la visibilità e l’udito dell’uomo che lo portava. Per tali motivi fu abbandonato
nella seconda metà del V secolo in nome dell’elmo pileato o di quello tracio.
L’elmo corinzio degli opliti di Platea portava infine, come ornamento e ulteriore
protezione, un cimiero di crine di cavallo, talvolta anche colorato. Questo era sagittale
per gli opliti comuni e trasversale per gli strateghi e forse anche per i comandanti dei
lochoi, al fine di identificarli chiaramente. Dobbiamo dunque immaginarci Aristide,
Pausania, Eurianatte e forse anche Amomfareto, con gli elmi ornati da un cimiero di tal
fatta
Ὅπλον – scudo
Lo scudo, insieme alla lancia, era l’arma di elezione dell’oplite 190, ed entrambi sono
anche le armi più citate nella letteratura. Sino al’VIII - VII secolo il modello di scudo più
adottato era quello a dipylon (letteralmente “due porte”) “191, caratterizzato dalla forma
ovale con due anse laterali ed a sua volta derivante dagli scudi “ad otto” micenei.
Questo scudo fu poi sostituito nel VII secolo dal modello argivo (il vero e proprio oplon,
mentre lo scudo in generale si diceva ᾀσπίς) pesante fino a otto chilogrammi e costituito
da una spessa tavola circolare di noce scavata con un grosso succhiello nella parte
centrale in maniera che assumesse la forma di un disco concavo del diametro di 90-100
centimetri. Lo scudo era rivestito esternamente da una lamina di bronzo recante degli
ornamenti ai bordi e, internamente, da uno strato di cuoio. In epoca posteriore a Platea
lo scudo argivo poteva comprendere anche una pezza di cuoio, spesso dipinta, che
scendeva dal bordo inferiore per evitare abrasioni alla coscia durante la battaglia e
riparare dalle frecce, e parzialmente anche dai colpi di lancia, la parte superiore delle
gambe non coperta dagli schinieri. L’oplite di destra nell’illustrazione che apre l’articolo
mostra proprio un simile ‘grembiule’ che pende dal suo oplon e che risulta attaccato
esteriormente.
La concavità dello scudo argivo poteva essere più o meno pronunciata, comunque
era tale che colui che lo portava poteva appoggiarlo sulla spalla nei momenti di attesa
dello scontro per non stancare troppo il braccio sinistro.
L’oplon veniva solidamente imbracciato facendo passare l’avambraccio fino al gomito
attraverso un anello, porpax (πόρπαξ), mentre la mano impugnava una maniglia in
pelle, antilabé (ᾀντιλαβή)192. Durante la battaglia l’oplite doveva reggerlo praticamente a
190
Lo stesso nome ὁπλίτης deriva dallo scudo che portava e può grossolanamente tradursi
“scudato”.
191
Così chiamato dal nome del cimitero ateniese in cui ne sono state trovate diverse
raffigurazioni.
192
Ricordo ancora l’abitudine degli Spartani di smontare il porpax quando riponevano lo scudo in
inverno, per evitare che qualcuno degi iloti, dei quali temevano sempre le rivolte, se ne
impadronisse e potesse imbracciarlo.
102
A Proposito di Platea
contatto del volto, se si vuol dar retta a un passo delle Troiane di Euripide (415 a. C.) in
cui Ecuba ricorda la macchia di sudore della barba del figlio Ettore rimasta impressa
sullo scudo. L’oplon infine era dotato anche di una correggia (balteo) per poter essere
portato a tracolla durante le marce.
Gli scudi al tempo di Platea venivano dipinti esternamente con motivi scelti dal
proprietario. Neppure i Lacedemoni avevano ancora cominciato a dipingere la lambda
maiuscola Λ di Lakedàimon come avrebbero fatto più tardi nel corso del V – IV secolo.
Plutarco anzi riferisce di un oplite spartano che, avendo fatto dipingere sul suo oplon
una mosca di proporzioni reali, a chi gli faceva notare che così non poteva essere
riconosciuto in battaglia, rispose che anzi l’aveva fatto per essere notato, perché in
combattimento si sarebbe avvicinato tanto al nemico, che questo l’avrebbe potuta
vedere a grandezza naturale193.
Il pesante scudo argivo, insieme alla corazza di bronzo, come osserva giustamente
Erodoto, costituì la vera differenza tra la solidità dell’equipaggiamento degli opliti greci e
quello della pur migliore e più ben equipaggiata fanteria persiana.
Κνημῖδες – Schinieri
Gli schinieri, anch’essi in bronzo, erano piuttosto sottili e proteggevano le tibie. Erano
mantenuti in sede dalla semplice elasticità del metallo. Agli inizi del V secolo andavano
dalla caviglia al ginocchio e, durante la vestizione delle armi, venivano calzati per primi
poiché la corazza rigida avrebbe impedito all’oplita di chinarsi per allacciarli.
Le armi d’offesa
Ξίφος – spada
A partire dal VI secolo lo xiphos fu una spada lunga in media 60 centimetri, in ferro, a
due fili e con impugnatura cruciforme. La lama era “a foglia di salice”, stretta alla base,
che andava successivamente allargandosi per poi restringersi fino alla cuspide. Il
fodero, generalmente in legno, più raramente in metallo, veniva portato appeso a un
corto balteo di cuoio al fianco sinistro.
La spada, a differenza dei fanti romani, veniva usata dagli opliti soltanto dopo che la
lancia era andata perduta e la si adoperava dall’alto verso il basso a colpire
violentemente l’elmo cercando di ferire il capo, oppure di punta, contro il torace e
l’inguine. La larghezza dello scudo argivo rendeva però difficili entrambi i colpi.
In alternativa allo xiphos gli opliti di Platea forse cominciavano già ad usare la
màchaira (μάχαιρα), adottata sempre più massicciamente nei secoli successivi. La
màchaira in origine era il coltello che, in Omero, i guerrieri portavano appeso vicino alla
spada; a partire dalla seconda metà del V secolo essa aveva la forma di una corta
spada ricurva ad un solo taglio, simile alla falcata iberica. La machaira fu l’arma
prediletta dalla futura cavalleria greca e macedone.
193
Plutarco, Moralia, 234 d.
103
Piero Pastoretto
Δόρy – lancia
L’arma d’offesa di gran lunga preferita e più usata dall’oplite in tutti i tempi, fin da
quelli più arcaici, era la sua lancia. Persino gli eroi dell’epos omerico combattevano
soprattutto con le lance. Nell’Iliade esse venivano anche scagliate; il dory oplitico, per il
suo peso e la sua lunghezza, era adatto a essere usato soltanto come lancia da urto e
da combattimento ravvicinato.
In una scena di battaglia tra falangi dipinta sul vaso proto corinzio conservato al
Muso di Villa Giulia (olpe Chigi) gli opliti che si fronteggiano hanno due dory ciascuno,
uno in posizione di ferire e l’altro tenuto con la stessa mano che impugna l’antilabé e
poggiato sulla spalla sinistra. L’oplite di Platea invece entrava in battaglia con una sola
lancia, anche se lo skenophoros che l’accompagnava ne portava certamente diverse di
ricambio e di scorta. Il legno preferito per l’asta della lancia era il frassino per il semplice
motivo che la venatura lunga e diritta di questo legno permetteva di incidere il tronco
degli alberi in sezioni più lunghe e rettilinee rispetto agli altri tipi di legno. Frequente era
anche l’uso del corniolo, che aveva il pregio di essere un legno molto più duro. La punta,
all’epoca di Platea in ferro e non più in bronzo, era a forma di foglia, mentre di bronzo
continuava a essere il puntale. Questo aveva una duplice funzione: permetteva di usare
la lancia come arma offensiva anche se questa si era spaccata e all’oplita era rimasto
soltanto lo spezzone posteriore; consentiva di conficcare il dory nel terreno quando
venivano accatastate le armi nell’accampamento, senza danneggiare o far marcire il
legno a contatto con l’umidità del suolo.
Corredo e suppellettili dell’oplite
Aggiungo qui sommariamente alcune sommarie descrizioni che permetteranno al
lettore di farsi un’immagine realistica 194 di come si presentassero fisicamente quegli
Elleni dei quali Erodoto commenta le gesta.
Quando il cittadino greco andava in guerra non portava certo con sé soltanto le armi,
ma anche capi di vestiario ed accessori.
Pur immaginando che questi manufatti fossero simili per tutti i popoli dell’Ellade,
siamo molto più informati intorno a quelli dei lacedemoni, sui quali s‘intrattengono diversi
autori antichi195.
Gli Elleni usavano due tipi di mantello sopra il chitόn (χιτών), che era la loro tunica: la
clamide (χλαμύς) e l’imation (ἱμάτιον). Entrambi erano delle pezze di lana rettangolari,
ma l’imation era molto più lungo e ampio, simile a un lenzuolo, tant’è che lo si portava
avvolto intorno al corpo. La clamys, invece,era molto più comoda per il viaggio e
consentiva una maggiore libertà di movimento; la si portava drappeggiata sopra la
spalla sinistra e fissata con una fibbia sopra quella destra. Ai tempi di Platea tutti i greci
194
Realistica, ripeto, e non mediata da pellicole come ‘300’, che fanno strame di ogni realtà
storica.
195
Soprattutto Senofonte, Elleniche e La costituzione degli Spartani; ma anche Plutarco, Vita di
Licurgo e Vita di Agesilao.
104
A Proposito di Platea
avevano adottato ormai la clamide, ma gli spartani continuavano ad indossare l’imation
cremisi con niente sotto, neppure il chitόn. L’imation spartano era chiamato tribonio
(τρίβων) e si caratterizzava per la sua stoffa ruvida e grezza, per cui gli altri greci lo
definivano, deridendolo, “umile”, “senza valore” (φαῦλος). Uomini e ragazzi lo
indossavano anche d’inverno per addestrare il corpo alla sopportazione il freddo e
qualsiasi spartiate si faceva un punto d’onore nel portare sempre il medesimo, ancorché
unto e logoro, per mostrare il proprio disprezzo verso gli agi e le ricchezze.
Altro oggetto tipico degli spartani, anzi, quasi il loro simbolo nazionale, era il batterio
(βακτήριον), il bastone o verga d’appoggio caratteristico dei viandanti, dotato di
un’impugnatura trasversale a T come una stampella, sulla quale si poteva poggiare il
cavo dell’ascella per riposarsi quando si stava in piedi fermi. Gli spartani lo sfoggiavano
sempre in pubblico e, che fossero re, strateghi o semplici opliti, lo portavano con sé in
guerra come anche nelle ambascerie all’estero.
Mi pare interessante aggiungere che pure i filosofi ateniesi del V e IV secolo, per
primo Socrate, che biasimavano gli agi e volevano mostrare il loro stile di vita umile e
laconizzante, portavano tanto il batterio quanto il tribonio196.
Clamide
Nessun oplite classico indossò mai dei calzari, se non forse d’inverno, quando
s’infilavano ai piedi delle calzature di feltro per tenere calde le estremità (πίλοι) 197. Ma
poiché Platea si svolse in settembre o comunque agli inizi dell’autunno, gli Elleni
combatterono a piedi nudi; e poiché, almeno fino alla guerra del Peloponneso le
campagne avvenivano nei mesi caldi, possiamo ritenere veritiere le innumerevoli
immagini di opliti che ce li mostrano sempre privi di qualsiasi calzatura. Viceversa, i
196
Senofonte, Memorabili di Socrate, 1, 6, 2. Socrate, ricordo, probabilmente era un ammiratore
della rudezza e semplicità dei costumi spartani e dunque vestiva alla maniera dei Lacedemoni.
197
Al contrario, come dimostrano le figure di moltissime ceramiche, a caccia o durante i viaggi si
usavano delle calzature simili agli stivali.
105
Piero Pastoretto
cacciatori e i viaggiatori greci indossavano regolarmente i coturni, cioè dei comodi
stivaletti.
Un altro elemento caratteristico dei lacedemoni, oltre alla colorazione cremisi dei loro
mantelli, al batterio e al tribonio, era la loro capigliatura lunga e sempre accuratamente
pettinata. Nel corso dei secoli mutò il loro modo di acconciarsi le chiome, o in un grosso
crocchio che ricadeva in mezzo alle spalle, o viceversa in trecce, da un minimo di tre a
sette. In questo caso tre di queste trecce uscivano dalla gronda dell’elmo sulla nuca e
due ciocche ricadevano su ciascuna guancia fino al collo 198. Portare i capelli lunghi era
un obbligo di legge sin dal VII secolo 199 e per i Lacedemoni non solo costituiva un vanto,
ma anche un segno di distinzione aristocratica da tutti gli altri popoli dell’Ellade che
portavano sì la barba come loro, ma tagliavano i capelli corti. Va da sé che, come
rammenta anche Erodoto, gli Spartani si pettinassero accuratamente prima di ogni
battaglia200. E va anche da sé che, tra gli oggetti che portavano con loro in guerra, in
gran conto tenessero il pettine (κτείς).
Vi era però un altro attrezzo d’uso comune, che non mancava nel bagaglio di nessun
oplite, a qualsiasi popolo appartenesse: lo xuele (ξυήλη). Xuele, era un coltellino, ma
anche un arnese di metallo per affilare le spade e la punta delle lance e,
occasionalmente, adatto anche a ferire se, come scrive Senofonte, tra i Diecimila vi era
anche lo spartano Draconzio, esiliato dalla patria per aver ucciso da giovane, con il suo
xuele, un coetaneo spartiate201.
Nella sacca militare di ogni oplite, il gylios (γύλιος), oltre al piatto non potevano
mancare né la tazza per bere, chiamata kothon (κώθων), a due manici per tutti i Greci, a
uno solo per i Lacedemoni, né l’aryballo (ᾀρύβαλλος), la fiaschetta dell’olio con cui ci si
ungeva il corpo prima degli esercizi fisici, né infine l’indispensabile spiedo per arrostire
le carni fresche e il giaciglio, stroma (στρῶμα), che i servi trasportavano arrotolato
all’interno dello scudo.
198
Plutarco narra che Clearco uno degli spartani al comando dei Diecimila al servizio di Ciro,
catturato dai Persiani, fu portato in catene davanti al tribunale, dove chiese un pettine.
Avendoglielo fornito Ctesia, un medico greco al servizio di Artaserse, Clearco ne fu così felice
che per ringraziarlo gli regalò il proprio anello. Plutarco, Vita di Artaserse, 18, 1.
199
Erodoto, 1 (Clio), 82, 8.
200
Erodoto in VII (Polimnia), 208, narra dello stupore del persiano inviato a spiare quelli di
Leonida, nel vederli compiere esercizi fisici e pettinarsi accuratamente le chiome.
201
Anabasi, 4, 8, 26.
106
A Proposito di Platea
Appendice II
Armi ed equipaggiamenti dei Persiani
Sull’esercito del Gran Re abbiamo notizie piuttosto precise per il secolo IV e i tempi di
Alessandro. Purtroppo invece, per gli anni delle guerre Persiane, queste notizie storiche
difettano tanto in Erodoto quanto in altri autori e pertanto risulta difficile una
ricostruzione rigorosa.
La ceramica greca cominciò a raffigurare i barbari dopo la conclusione delle guerre
persiane, ma non possiamo sapere quanto di reale o di licenza artistica guidasse i pittori
dei vasi, tanto nell’effigiare i costumi, quanto nel renderne i colori. Una cosa appare
certa: in nessun vaso greco sono raffigurati soldati con le tiare e le lunghe vesti ricamate
simili agli Immortali e ai melofori che troviamo ritratti a Persepoli.
Fatto sta che le antiche lunghe vesti persiane che compaiono nello “stile di corte” dei
palazzi regali, e che per tradizione continuarono a essere ritratte uguali fino all’età di
Dario III (380-330), erano già state abbandonate all’epoca di Dario I in favore del più
sobrio e comodo vestiario militare dei Medi: tunica, pantaloni e mantello. Esattamente il
tipo di abbigliamento che troviamo ritratto nelle ceramiche greche del V secolo.
Ho già toccato più volte la questione se i Persiani e i Medi, le fanterie migliori di
Serse, indossassero qualche forma di protezione del corpo o del capo. Tutte le
raffigurazioni greche del V e IV secolo mostrano i fanti persiani con il capo coperto della
sola kyrbasia, il cappuccio nazionale persiano Questo cappuccio compare in due fogge
diverse: o come un copricapo apparentemente di cuoio, ben calzato e aderente alla
testa ed alle guance, che termina in due o più bande e sulla cui sommità si osserva
spesso una protuberanza rigida simile a quella del berretto frigio; oppure, in epoca non
sappiamo quanto posteriore a Platea, ma perfettamente effigiata nel sepolcro di
Abdalonimo202 del secolo successivo e nel celebre mosaico della battaglia di Isso,
questa cuffia di cuoio sembra essere diventata una sorta di berretta formata da una
sciarpa di stoffa che avvolge tutto il capo e la bocca e pende in una corta coda sulla
nuca. La sommità di questa kyrbasia, non più rigida, ricade floscia su uno dei lati. Anche
il re Dario III appare portarne una simile, chiamata però kitaris (in persiano “corona” e
quindi spettante solo a lui), la cui sommità al contrario sollevata sul capo ed eretta, e
non pendente.
Tutta l’iconografia che ho citato contrasta però con il ritrovamento di un elmo conico
di bronzo, offerto in dono votivo al santuario di Olimpia, che porta la scritta “Dagli
Ateniesi a Zeus avendolo sottratto ai Medi”. Poiché l’offerta sembra risalire agli anni
delle guerre Persiane, la sua stessa esistenza mette in imbarazzo gli storici e gli
archeologi, anche perché sembra essere l’unico elmo persiano mai ritrovato, a
differenza dei tantissimi elmi greci.
202
Re di Sidone fra il 333 e il 332, su un lato del cui sepolcro compare Alessandro a cavallo in un
combattimento contro i Persiani che viene interpretato come una scena della battaglia di Isso.
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Piero Pastoretto
Ritengo perciò che si trattasse di un elmo il cui uso era rarissimo: tanto raro ed
eccezionale che appunto fu offerto in voto ad Olimpia; oppure che si trattasse dell’elmo
di qualche capo mercenario al servizio del Gran Re, che costui lo portasse secondo il
suo costume nazionale e che non appartenesse realmente a un medo, come indica,
sbagliando la scrittura votiva.
In conclusione, mi sembra di poter affermare che i Persiani a Platea andarono in
battaglia regolarmente privi di qualsiasi protezione del cranio, che era invece una
prerogativa dei soli Elleni.
Sparabara katabara p.22
Per quanto riguarda le corazze, esse erano certamente indossate dai comandanti
come Masistio, che portava una lorica d’oro a squame sotto la veste di porpora. Che
fosse propriamente d’oro sarebbe da discutere, data la robustezza che Erodoto le
attribuisce, e che è propria del bronzo e non certo dell’oro; quel che importa è che i
comandanti come Masistio, e probabilmente Idarne, Mardonio e Artabazo, e persino i
baivarapatis e gli hazarapatis portavano delle corazze a scaglie, o sotto le vesti, come
Masistio, oppure ben visibili sopra di queste, come segno del grado e del potere che
rivestivano.
Ma i semplici fanti? Che la fanteria persiana e dei Medi indossasse delle loriche
nascoste sotto le tuniche, come ho già osservato, mi appare dubbio. Descrivendo il
saccheggio dei caduti nemici al capitolo 80, 2, Erodoto infatti non menziona affatto le
corazze, ma scrive soltanto:
«… spogliarono i cadaveri dei braccialetti, delle collane e delle acinaci, che erano d’oro 203,
mentre non si tenne alcun conto delle vesti ricamate.»
Il passo precedente, che non menziona alcuna lorica tra gli oggetti sottratti ai
cadaveri, non toglie però la possibilità che la fanteria pesante o, per meglio dire,
scudata, dei Medi e Persiani a Platea portasse qualche tipo di protezione sotto le
tuniche, come corsaletti di cuoio o di lino pressato; ma che, trattandosi di materiali vili e
non venali come ad esempio il bronzo, non abbia nemmeno attirato l’attenzione dei
vincitori.
Non vi è peraltro nessuna immagine giuntaci di fanti persiani che li mostri armati di
qualche forma di lorica. Essi appaiono invece rivestiti alla solita foggia dei Medi 204:
tuniche fino alle ginocchia e a maniche lunghe (kantus), impreziosite da bande o ricami
geometrici e pantaloni (che Senofonte nella Ciropedia chiama anakyrides) con motivi
perlopiù a losanghe. Tutti infine, al contrario degli Elleni, appaiono indossare delle
calzature di cuoio.
203
Ridicolo mi pare l’accenno a delle akinakes d’oro. Spade d’oro, come anche corazze d’oro,
possono anche essere state usate dai Persiani, ma come armi da cerimonia tendenti a
qualificare il prestigio e il rango di qualche generale o satrapo. Non certo in battaglia.
204
Foggia nella quale i vasai greci ritraevano spesso le amazzoni nelle loro amazzonomachie.
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A Proposito di Platea
Immagine di un soldato persiano alle prese con
un oplite greco. Kylix attica della metà del V secolo.
Entrambe i contendenti sembrano maneggiare una màchaira
Spostando adesso la nostra attenzione sulle disposizioni tattiche degli Persiani a
Platea, possiamo discorrere con una certa cognizione di causa sulle truppe nazionali
persiane, ma non certo su quelle dei federati o dei popoli succubi, che probabilmente
seguivano i loro costumi nazionali. Per avanzare un esempio chiarificatore, gli alleati
tebani che fronteggiarono gli Ateniesi, adottavano panoplie oplitiche, nonché uno
schieramento e un modo di combattere tipico della falange. A maggior ragione le nazioni
barbare, così minuziosamente descritte nelle vesti e nelle armi native da Erodoto nel
libro VII, ad eccezione forse dei Saci dovevano adottare nel combattimento dei costumi
alquanto differenti fa loro e totalmente diversi da quelli dei Persiani.
Gli eserciti achemenidi del VI, V e IV secolo possono grossolanamente dividersi in tre
categorie di combattenti: gli sparabara (“portatori di spara”, termine più o meno
equivalente al greco oplite) reclutati tra i medo-persiani; i takabara (“portatori di taka” un
leggero scudo lunato come la pelte greca205 e più tardi trasformatosi in un riparo ovale
simile al thureos romano), mercenari eminentemente ircaniani e battriani armati di asce
e lance206. Dei popoli alleati o soggetti si può dire ben poco..
A Platea Erodoto non menziona la presenza di mercenari, anche se non si può
escludere che i Battriani, che occupavano il centro insieme a Saci e Indi, fossero
effettivamente dei takabara, cioè dei mercenari.
Poiché non possiamo qui occuparci dei mercenari e degli alleati, mi soffermerò il
minimo indispensabile sugli sparabara.
205
Thureos “a forma di porta” (θυρεός)è il nome con cui Polibio descrive lo scutum ovale
romano..
206
I Greci chiamavano questi takabara peltasti o peltophori, armati cioè di uno scudo leggero
lunato di vimini simile alla loro pelte (πέλτη).
109
Piero Pastoretto
Mentre l’unità tattica fondamentale era per gli Elleni il lochos, per i Persiani questa
era più massiccia e costituita dallo hazarabam, il ”reggimento” di mille uomini con a
capo un hazarapatis, (il moderno “colonnello”), a sua volta suddiviso in dieci dathabam,
“compagnie” di cento uomini comandate da un “capitano”, il dathapatis.
Ho già avuto occasione di osservare che la fanteria degli sparabara era, per così
dire, “multiarma”, in quanto nello stesso reparto confluivano le specialità dei fanti pesanti
dotati di scudi e degli arcieri. Non è facile però desumere dal libro IX di Erodoto quale
aspetto gli hazarabam medi e persiani avessero quando si schierarono di fronte agli
opliti di Sparta e di Tegea.
Gli storici moderni concordano nel supporre che la disposizione sul campo dei vari
dathabam fosse molto simile a quella delle fanterie medievali ricoperte dai pavesi (o
palvesi). Per essere esplicito, gli storici ritengono che, in teoria, ogni dathabam persiano
di 100 uomini si disponesse in un quadrato di dieci uomini in linea per dieci file di
profondità. La prima linea, dotata di lance lunghe forse due metri e di spara, proteggeva
le successive nove di arcieri. Si può ipotizzare dunque che un intero hazaraban
mostrasse al nemico 100 sparabara in linea a creare un muro di scudi e lance, e 900
arcieri disposti sulle successive nove file.
Contro tale ricostruzione io avanzo alcune riserve. Innanzitutto, come ho già
osservato, in nessun luogo del testo erodoteo si evince che la fanteria persiana fosse
dotata di lance. Al contrario, da diversi passi appare chiaro che ne fosse priva e dunque
mi sembra di poter affermare che le lance da urto furono introdotte più tardi 207.
Secondariamente, mi sembra difficile poter accettare il fatto che un corpo di fanteria
chiamato sparabara, cioè “portatori di scudi” fosse composto in realtà per nove decimi
da arcieri privi di scudo208. Alla stessa maniera mi parrebbe incongruo chiamare oplitiche
delle falangi in cui soltanto la prima linea di fanti portasse l’oplon e le altre ne fossero
prive.
Ma ammettiamo pure che la composizione tradizionale degli sparabara nelle
campagne persiane contro altri popoli nomadi od orientali dotati di fanterie più o meno
composte per la massima parte di arcieri 209 comportasse una tale proporzione tra fanti
scudati e armati di arco. Tuttavia, nella seconda spedizione contro la Grecia, gli
strateghi persiani come Mardonio o Artabazo erano ben coscienti di doversi incontrare
con la pesante e massiccia falange greca formata da almeno otto file di fanti scudati e
dotati di lance. Falange che, grazie ai suoi immensi e robusti oplon, ai suoi elmi e
corazze di bronzo, dopo aver sopportato abbastanza agevolmente la pioggia di frecce
degli sparabara, una volta giunta a contatto con questi avrebbe polverizzato la prima
linea e fatto strage degli inermi arcieri che, come loro difesa nello scontro diretto
207
Occorre ricordare, a esempio, che intorno al 370 vi furono nell’esercito persiano le importanti
riforme del satrapo Datame.
208
Per la discussione sull’armamento degli sparabara persiani a Platea rimando all’Appendice II.
209
Ad esempio Saci ed Egizi.
110
A Proposito di Platea
possedevano solo le acinaci e le sagaris. Tale considerazione, a mio parere, dovette
indurre Mardonio, a Platea, a moltiplicare le linee dei fanti dotati di spara diminuendo di
conseguenza, o mantenendo inalterate, le file degli arcieri.
Di questa tesi non vi sono prove se non il buon senso. Tuttavia, a parziale supporto
della mia teoria, rileggendo il già riportato capitolo 62 ai paragrafi 2 e 3, si ricava che in
un primo tempo la battaglia avvenne presso gli scudi e quando questi caddero la
battaglia continuò a infuriare mentre entrambi gli schieramenti mantenevano una
formazione falangitica. Infatti l’autore osserva che i Persiani, insesperti nel
combattimento a file serrate, balzavano avanti a uno, a dieci o più abbandonando le
linee e finivano uccisi dagli spartani. Ugualmente, nel capitolo successivo Erodoto
ricorda che la resistenza dei barbari durò fino a quando cadde Mardonio con i mille che
lo attorniavano, e solo successivamente si manifestò il collasso dell’intero schieramento.
Queste osservazioni messe insieme possono indurre a ritenere che, se la resistenza
degli sparabara ebbe una certa durata ed efficacia, ciò fu dovuto al particolare che
anch’essi dovevano adottare uno schieramento di più linee di scudi in profondità. In
caso contrario, annientata la prima linea di gherra, per i Persiani non ci sarebbe stata
più storia e gli arcieri sarebbero fuggiti senza opporre alcuna forma significativa di
resistenza.
In conclusione ritengo che a Platea, come anche a Isso o Arbela, la fanteria degli
sparabara non si schierasse con una proporzione rigida fra arcieri e fanti scudati, ma
che potesse mutarla armonicamente a seconda delle esigenze e delle contingenze.
r
Ricostruzione pittorica di una schiera di sparabara.
I fanti indossano delle loriche e dunque non sono del periodo
di Platea. L’artista si uniforma al parere diffuso
e la linea degli spara è unica.
111
Piero Pastoretto
Principali fonti letterarie antiche
Le citazioni tratte da autori antichi e medioevali a loro volta riprese da quelli sotto
indicati sono state omesse.
E R O D O TO (484 a.C. circa – 425 a.C. circa), Le Storie , libro IX, qualsiasi
edizione.
C T E S I A (440 a.C. circa – 397 a.C. circa), Persicà, qualsiasi edizione.
D I O D O R O S I C U L O (90 a.C. circa – 27 a.C. circa), Bibliotheca historica ,
qualsiasi edizione.
P L U TA R C O (46 d.C. circa – 125/127 d.C. circa), Vite parallele , qualsiasi
edizione.
S A N F O Z I O I L G R A N D E (820 d.C. circa – 893 d.C. circa), Bibliotheca ,
qualsiasi edizione.
112
A Proposito di Platea
Indicazioni Bibliografiche
Essendo la bibliografia sull'argomento sterminata si indicano
solamente alcune delle pubblicazioni più recenti disponibili in Italiano
consigliando, per iniziare, quella di David Asher edita da Arnoldo
Mondadori, più completa ancora dell'originale.
Frediani A., Le
Compton, 1963,
grandi
battaglie
dell’Antica
Grecia,
Roma,
Newton
Cartledge P., “Hoplites and Heroes: Sparta’s Contribution to the
Technique of Ancient Warfare”, in Journal of Hellenic Studies 97, 1977.
,
Lazenby, J. F. The defence of Greece 490-479 BC , Newcastle, Aris &
Phillips, 1993.
A S H E R D., Erodoto Le Storie, commento aggiornato di V A N N I C E L L I P. , testi
critici di C O R A L L A A. , traduzione di F R A S C H E T T I A., Arnoldo Mondadori,
2006.
G. Cawkwell, The Greco-Persian Wars, Oxford, Oxford University Press,
2006.
Brizzi G., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo
classico , Bologna, il Mulino, 2008.
N.A.T. Olmstead, History of the Persian Empire , Chicago, University
Chicago Press,1948. Sekunda, L’esercito persiano , Milano, RBA Italia,
2010.
Sekunda N., Guerrieri spartani , Milano, RBA Italia, 2010.
Connolly P., Greece and Rome at War , Barnsey, Pen & Sword Books,
2011.
Lazenby, J. F. The Spartan Army, Paperback, 2012.
Shepherd W., Platea 479 BC: the Most Glorious Victory Ever Seen ,
Oxford, Osprey Publishing, 2012.
Pastoretto P., Lo stato dell’arte della guerra terrestre e marittima agli
inizi del V secolo a.C. e altro ancora , www.arsmilitari.org 2013.
113
Piero Pastoretto
INDICI
Per i riquadri di approfondimento contenuti nel testo e le illustrazioni si danno di
seguito indici separati
Presentazione
2
Introduzione
3
Ante Rem
8
In Re
22
Post Rem
91
Appendice I
100
Appendice II
106
Principali Fonti Letterarie
111
Indicazioni Bibliografiche
112
114
A Proposito di Platea
Indice dei riquadri di approfondimento
Un esercito di privati
15
La cavalleria di Serse
25
Arcieri sciti fra gli Ateniesi
27
Le novità di Eritre
30
Il monte Citerone
32
Corna e ali
36
Elenco dei contingenti greci
39
Il fiume Asopo
46
Pausania
49
Suddivisioni dell'esercito spartano
62
Di alcune considerazioni storico-lessicali
68
La cavalleria greca
80
Un particolare non indifferente
91
Consistenza delle due flotte a Micale
95
115
Piero Pastoretto
Indice delle illustrazioni
Le illustrazioni sono scaricate da internet per la cortesia di Wikipedia a eccezione
dello schema con lo schieramento dei due eserciti che è dell'autore.
Schema dello spostamento degli Elleni da Eritre al fiume Asopo
37
Schema dello schieramento dei due eserciti
43
Schema della manovra persiana sulle retrovie
50
Schema dell’attacco delle cavallerie persiane
54
Cavaliere armato accanto a un oplite
81
La rotta persiana a Platea
85
Il monte Micale
100
Clamide
105
Soldato persiano alle prese con un oplite greco
109
Una schiera di sparabara
111
116