Piero Pastoretto A PROPOSITO DI PLATEA «Tra i barbari si distinsero la fanteria persiana, la cavalleria dei Saci e, dei singoli, si dice Mardonio; tra i Greci, sebbene fossero valorosi anche i Tegeati e gli Ateniesi, gli Spartani per valore li superarono. Non ho altre testimonianze per affermarlo (tutti costoro infatti vinsero quelli schierati di fronte a loro) se non che gli Spartani attaccarono il settore più forte e lo vinsero». Erodoto, Storie, IX, 71, 1-2 Piero Pastoretto 2 Presentazione Due parole di presentazione a questo saggio sono comunque necessarie anche se, ovviamente, solo dopo averlo letto ci si potrebbe permettere di esprimere qualche cauto giudizio. Il professor Pastoretto dà qui un saggio delle proprie capacità di storico, capacità notevoli per la cultura generale che possiede e per quella umanistica in particolare, servendosi della quale è in grado di leggere ed interpretare correttamente i testi che vengono utilizzati per la ricostruzione della battaglia di Platea, da millenni ormai portata ad esempio delle virtù di un popolo e del suo amore per la libertà. Cercando di evitare quell'eccesso di retorica che circonda l'avvenimento invitiamo il lettore a fermare la proria attenzione sul metodo seguito da Pastoretto nella sua ricostruzione piuttosto che sulle singole affermazioni cui di volta in volta giunge l'autore, perché è nel metodo che si vede il vero storico. Il primo problema che si presenta è, come abbiamo già accennato, quello di una corretta interpretazione dei testi antichi, non basta saperli tradurre, bisogna anche capire perché l'autore usi certi termini ed esageri o riduca l'importanza di un fatto e questo comporta anche un esame approfondito di tutta la cultura di un'epoca e della struttura sociale che l'ha generata. Per l'antica Grecia bisogna risalire ed esaminare anche i miti, essenziali perché per il cittadino di allora erano storia e non favola ed in questi miti egli si rifletteva concretamente, derivando ed imparando valori, norme, comportamenti e sapendo morire, cosa oggi poco valutata dai più. Insomma, prima di disquisire se la falange fosse schierata su sei, otto o dieci linee importa sapere chi erano gli uomini che la componevano come, ovviamente, i loro avversari. Una battaglia nasce ben prima dei quadratini disegnati su una cartina geografica. Per questo il saggio di Piero Pastoretto è attualmente forse il migliore in assoluto scritto sull'Arte Militare antica, e facciamo questa affermazione in piena buona fede. Un'ultima avvertenza, avevamo pensato in un primo momento di dare la traduzione dei termini greci usati, ma il loro significato è pienamente deducibile dal testo ed abbiamo rinunciato per non appesantire il lettore. Buona lettura. Roma, Pasqua 2015, Umberto Maria Milizia Piero Pastoretto Introduzione In uno dei miei ultimi interventi su arsmilitaris, Lo stato dell’arte della guerra terrestre e marittima agli inizi del V secolo a. C. e altro ancora, all’atto di congedarmi dai pochi lettori, mi ero impegnato a ritornare sull’argomento per verificare quanto, in quell’articolo, avevo affermato e scritto in linea astratta e, per così dire, soltanto rapsodica. Mantengo perciò la promessa fatta rivisitando adesso la battaglia di Platea nella versione tramandata da Erodoto1. E poiché, per inverare se possibile l’ipotesi avanzata allora, la mia attuale analisi dell’originale testo greco deve essere accurata e puntuale, come spesso succede il saggio rischia di essere più lungo e forse più noioso del racconto erodoteo. Spero pertanto che il lettore, clemente, vorrà darmi quartiere e seguirmi con docile indulgenza. Nello Stato dell’arte della guerra mi accontentavo di illustrare più o meno didascalicamente una tesi di fondo, seguendo una sorta di perspectiva historica. Tuttavia, badando soprattutto al theoréin, non avevo ancora affrontato un vero e proprio historéin, che ha invece il dovere di inverare e suffragare qualsiasi tesi in rebus, o meglio, nel mio caso, in proeliis, e non soltanto in abstracto. La tesi era la seguente: le guerre persiane, pur appartenendo ancora ad una fase “artistico-ripetitiva” e non “scientifico-osservativa” della guerra terrestre e marittima in Occidente, segnano già l’aurora di uno sviluppo prima lento, poi sempre più progressivo verso l’epistéme della polemologia; un progresso che, nell’arco di cinque secoli, avrebbe raggiunto il suo compimento nell’età antica. Se poi si tratti di una demiourghia cioè una “creazione” dal nulla frutto del genio ellenico come l’aritmetica o la filosofia; oppure di una gheneá, ovvero una lunga e progressiva “generazione” o, se si preferisce, “gestazione”, durata non sette giorni o nove mesi ma due secoli, condotta a termine modificando pazientemente vaghe e aurorali sapienze precedenti, sarebbe tutto da discutere. Si tratta, in altri termini, di un’evoluzione e non di una rivoluzione. Un’evoluzione speculativa determinata da un parallelo progresso del pensiero occidentale (ma anche, contemporaneamente, orientale) in tutti i campi del sapere. Non fu invece una repentina rivoluzione, simile a quella del XV secolo, perché la necessità di una completa revisione dell’arte bellica tradizionale non fu generata da alcuna novità come l’introduzione massiccia delle armi da fuoco. In sostanza, il progresso fu soltanto epistemologico, non tecnologico. Poiché, nell’articolo in questione, avevo trattato prima dello stato della guerra terrestre e poi di quella navale alle soglie del V secolo, inizierò il mio compito di verifica con Platea, pur essendo questa, cronologicamente, posteriore di almeno un mese a Salamina2. 1 Storie, IX (Calliope), 14-70. 4 A Proposito di Platea La fonte alla quale mi limiterò per la Battaglia di Platea è, ripeto, soltanto Erodoto 3: sia per brevità espositiva e per non creare eccessivi scrupoli tra i lettori di un articolo che vuol pur sempre essere di leggera ed agile consultazione; sia perché Erodoto è la voce narrante più vicina ai fatti e deve averne ascoltato perfino le narrazioni dirette, mentre gli storici successivi hanno dovuto necessariamente dipendere da lui o da fonti meno oggettive della sua4. Antiquam historiam intelligere: avviso al lettore Se intelligere significa intus legere, cioè “leggere dentro”, e dunque acquisire una conoscenza più ‘profonda’ di quanto si ritrova semplicemente scritto in un autore (per la qualcosa è sufficiente soltanto il legere, cioè apprendere in funzione di “conoscere” nella superficie il contenuto di un testo), ebbene un esempio di questa operazione, ben più ardua della pura ripetizione priva di critica di un fatto storico, si ritroverà nello scorrere il presente commentario alla battaglia di Platea. La ragione di questa mia condotta è facile da spiegare. Specialmente dagli storici più antichi come Erodoto non ci si può attendere una cronaca ‘ragionata’ di uno scontro armato, come anche di un fatto politico o economico, poiché questa indagine critica esulava dal loro compito e il loro historéin ancora in nuce non ricercava oggettivamente le cause degli accadimenti o delle decisioni degli uomini, ma soltanto la fissazione e la memoria cronologica degli eventi passati. Quanto io invece andrò elaborando nel corso della mia indagine sarà una lettura, per così dire, degli ‘spazi vuoti’ del racconto erodoteo, del ‘non scritto’ nella cronaca di Platea, del ‘tralasciato’, o se si preferisce, del ‘trascurato’ dall’autore. Il fine del mio sforzo è di ricavare da un testo in gran parte retorico-narrativo un succo ben più sostanzioso di notizie desumibili da un’attenta riflessione, da un solerte lavoro d’induzione e deduzione derivate anche da una ricerca presso altre fonti storiche, archeologiche o iconografiche. E infine, ma soprattutto, da un esercizio della ragione che non sia semplicemente osservativa e cronachistica, bensì vigile e continuamente insoddisfatta della semplice enarratio, alla ricerca cioè del tesoro profondo di ciò che nella superficie dell’enerratio non si trova, ma che dalla medesima enarratio si può scavare e ricavare: rifiutando alcune cose, mettendone in dubbio altre, spiegandone altre ancora, arrendendosi onestamente quando incapace di risolvere una lacuna o un 2 Ça va sans dire che è opportuno che il lettore, se già non l’ha consultato, faccia lo sforzo di leggere il mio precedente articolo di cui il presente è la naturale continuazione. 3 Io qui adotto la traduzione di Augusto Fraschetti per la Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006. 4 Per storici successivi intendo Eforo (IV secolo) e Ctesia (V secolo), conservatici rispettivamente da Diodoro Siculo nella propria Bibliotheca historica e dal patriarca e bibliografo Fozio (IX secolo d.C.) nelle epitomi della sua Bibliotheca. 5 Piero Pastoretto problema, ma anche avendo il coraggio di andare in rotta di collisione contro moderne opinioni storiche universalmente condivise e aprioristicamente ripetute. Tutto ciò rischia, ne sono cosciente, di rendere più lungo il cavilloso lavoro di commento di quanto lo siano i capitoli di Erodoto dedicati alla battaglia di Platea. E rischia anche di impegnare la mente e l’attenzione del lettore ben più di quanto una snella rivisitazione popolare, non ragionata, ma scorrevole, comporterebbe. Tuttavia, se la storia non è una pura ripetizione manualistica e fine a se stessa del già noto, ma continua indagine di quanto è rimasto ignoto nel già noto e di non scritto nello scritto, anche questo articolo, che non si rivolge certo agli storici esperti, ma ai comuni appassionati di storia, avrà un suo senso e una sua funzione. Τά Μηδικά Gli ultimi due libri delle Storie di Erodoto sono stati denominati già dagli antichi Tá Mediká5. Tale scelta, alla luce dei fatti, non è affatto peregrina. Infatti l’attenzione del lettore, per volontà stessa di Erodoto, viene concentrata più sulla disfatta degli invasori e della loro ybris, che sulla vittoria degli Elleni. È certamente un caso fortuito che il libro IX delle Storie, che contiene in 56 capitoli la battaglia di Platea ed i suoi precedenti, sia stato intitolato dagli Alessandrini alla musa dell’epica Calliope, una circostanza determinata semplicemente dall’ultimo posto che essa occupa nell’ordine canonico delle nove sorelle. Un caso fortuito, certo, ma felice. Infatti tutto il libro6 può essere letto come una sorta di narrazione epica connotata da precisi riferimenti alla guerra di Ilio. Tale trasparente velo di Maya che riveste la storia del biennio 480-479 di precisi appelli al ciclo troiano e all’Iliade in particolare non era sfuggito certo a Simonide il quale, nell’elegia per la battaglia di Platea, che Erodoto doveva ben conoscere e di cui possediamo solo i rarissimi frammenti del papiro di Ossirinco 7, citava espressamente Patroclo ed il figlio della ninfa oceanina Teti. Da quanto sembra possibile desumere, nell’elegia il poeta assimilava infatti la figura di Leonida caduto alle Termopili a quella di Patroclo, mentre ravvisava in Pausania l’Achille destinato a vendicarlo. 5 Come tutti i neutri plurali greci e latini, il significato è intuibile ma praticamente intraducibile. Con una certa approssimazione potremmo dire “Vicende dei Persiani”. 6 È forse utile ricordare che la divisione delle Storie in libri appartiene ad un’epoca molto posteriore alla loro originaria diffusione ed è alquanto estemporanea ed artificiosa, almeno quanto la suddivisione dei poemi omerici in ventiquattro libri ciascuno. Come si sa, Erodoto di Alicarnasso non scriveva affatto dei volumi strutturati di storia come Tucidide o Polibio, ma ancora dei logoi, ossia monografie indipendenti di vario contenuto (etnografico, geografico, mitologico, annalistico), che furono poi riunite in una cornice storica. 7 POxy 3965 e 2327, fr 2, 3, 26, 27. Sembra che riguardino lo scontro presso il tempio di Demetra. 6 A Proposito di Platea Il fatto che il libro IX delle Storie, rendendoci in un certo senso più compartecipi delle sciagure dei Medi e del Gran Re che degli allori della Lega Panellenica, lo renda affine al canto della poesia epica, non è un giudizio personale. L’epica greca, infatti, per sua natura, tocca le corde dei cuori cantando più le sventure dei vinti che le fronde dei vincitori. Semmai la gloria sul campo è cantata dall’epopea, che già per gli antichi era cosa ben diversa dall’epica. Sui Persiani, invece, come nella bilancia di Zeus dove la sorte di Ettore sprofonda, incombe già l’oscuro, mortale fato della Κήρ 8. Nel dialogo di un nobile persiano con Tersandro di Orcomeno durante il simposio offerto dal tebano Attagino, questi infatti gli confida: «Vedi questi persiani a banchetto e l’esercito che abbiamo lasciato mentre s’accampava sul fiume? Di tutti questi nel volgere di poco tempo ne vedrai sopravvissuti solo pochi» . Ed all’obiezione di Tersandro, che sarebbe necessario avvertire Mardonio affinché eviti la battaglia, aggiunge: «Straniero, quello che deve accadere per volontà del dio, l’uomo non può stornarlo […]. Molti di noi Persiani, conoscendo tutto ciò, lo seguiamo, avvinti dalla necessità. Il peggiore dolore umano è questo: avere molta saggezza e nessun potere» . Parole degne di essere pronunciate dall’eroe di un poema epico, più che da un oscuro persiano citato uno storico9. Questo notevole ed originale amalgama della storia erodotea con il mito e con la tragedia è peraltro ben noto a qualsiasi lettore anche distratto 10. Che poi l’Autore nella sua cronaca degli episodi bellici abbia potuto ritrovare, sulla scorta di Simonide, delle similitudini fra gli avvenimenti dell’autunno del 479 e le pugne nella fatale pianura della «Troade inseminata» è perfettamente comprensibile: Platea può infatti ricondurre la memoria e la fantasia alla seconda battaglia dell’Iliade e alla disfatta finale dei Teucri; la morte di Mardonio ricorda quella di Ettore; Micale poi, che fu combattuta il medesimo giorno di fine agosto o settembre 11 di Platea, ed in cui gli epibátai greci dettero fuoco alle navi persiane, richiama l’assalto al muro greco e l’incendio della nave di Protesilao. 8 Iliade, XXII, 209 ss. 9 Storie, IX (Calliope), 16, 3-5. Erodoto afferma di aver udito queste parole dalla narrazione diretta di Tersandro. 10 La distinzione rarefatta nei suoi logoi tra fabula o mythos e historia è assai nota. Basti pensare che nel libro I Erodoto fa risalire la secolare inimicizia tra Asia e Grecia, da cui sarebbero derivate le guerre persiane, al rapimento di Io da parte dei fenici, seguito da quello di Europa e infine dal ratto di Elena.. 11 Alcuni propongono una data precisa, il 26 agosto 479 a. C. Personalmente non mi fido di tale precisione. 7 Piero Pastoretto Ma, come dimostrerò, le allusioni al poema omerico non terminano qui, e sono anzi decisamente volute e persino forzate quando Erodoto tratta del numero dei Greci a Platea. Pertanto, insieme a uno sguardo d’insieme agli antefatti della battaglia, dovrò dedicare a essi e ad altri argomenti che stimo di pari rilevanza un razionale discorso preliminare alla battaglia vera e propria. Per tale motivo il seguito del mio discorso sarà diviso in tre sezioni, intitolate Ante rem, In re e Post rem. Nella prima discuto questioni che considero presupposti necessari per una chiara comprensione della battaglia di Platea; nella seconda la illustro, commentando di volta in volta sia gli errori commessi dai due avversari dovuti alla tradizione del passato, sia le felici novità tattiche annunciatrici della rivoluzione polemologica che a Platea, come sostengo, stava nascendo; nella terza illustro brevissimamente, come semplice pro memoria al lettore, gli avvenimenti che riguardano la battaglia di Micale. 8 A Proposito di Platea ANTE REM I precedenti Torniamo però adesso al concreto contenuto storico del IX libro delle Storie che comprende la rievocazione della battaglia di Platea. Nell’accompagnare pianamente il lettore al logos dedicato al crudo scontro dei guerrieri sul campo, Erodoto usa uno schema molto efficace ma piuttosto meccanico e ripetitivo in tutte le sue Storie. Tale sorta di preámbolos si può a sua volta dividere in due parti distinte: la narrazione degli accadimenti più lontani e quella degli antefatti immediati alla battaglia. I primi consistono generalmente in una rassegna di prodigi e segni divini, sacrifici, oracoli, ambascerie, discorsi e decisioni dei capi o delle assemblee, con notevole ricorso all’inventio, a digressioni e aneddoti, cioè a tutti quegli artifici retorici di ‘cosmesi’ necessari alla particolare vis narrativa che ha reso celebre Erodoto. I secondi comprendono, molto più concretamente, le marce, le manovre, la disposizione degli eserciti nell’imminenza della battaglia e la rassegna delle forze in campo; quest’ultima è modellata sul topos del libro II dell’Iliade. Nella fattispecie del IX delle Ἱστορίαι, i precedenti più lontani di Platea sono trattati nei capitoli 1-13 (seconda conquista di Atene, missione di Murichide, lapidazione di Licida, ritirata di Mardonio in Beozia); quelli immediati nei capitoli 14-47 (arrivo dei Peloponnesiaci, marcia, di conserva con gli Ateniesi fino ad Eritre in Beozia. Primi scontri con i persiani e morte di Masistio. Disputa fra Tegeati e Ateniesi per occupare l’estremità dello schieramento, catalogo delle forze alleate, occupazione persiana dei passi del Citerone e nuova disposizione dell’esercito greco sul campo con conseguente episodio di Amomfareto); la battaglia vera e propria, infine, nei capitoli 48-70. L’enigma del numero degli Elleni a Platea Allorché ci si dispone a studiare con un certo rigore scientifico una battaglia qualsiasi combattuta nel passato, la prima cosa che uno storico pretende per la propria successiva analisi è di informarsi diligentemente sulla quantità di forze (uomini, quadrupedi o mezzi) che in quello scontro furono messi in campo dai due avversari. In questa preventiva opera d’indagine delle fonti, peraltro, il ricercatore è ben consapevole che, quando nella storia militare si parla di forze combattenti, è sempre opportuno esercitare una buona dose di rigore critico, se non addirittura di epoché, nei riguardi delle cifre fornite dagli storici. E non soltanto dagli storici più antichi come Erodoto, ma anche dai più quotati come Polibio e Tucidide; senza escludere, perché no, neppure dai contemporanei. La falsificazione più o meno consapevole dei numeri può avere molteplici ragioni, ma di solito deriva da una mediocre acribia sulle fonti, da fattori ideologici (il più diffuso: molti nemici, molto onore, sia che si vinca o che si perda) e persino retorici. Nel caso che esamino adesso e tornerò a esaminare in seguito, ovvero il catalogo delle forze 9 Piero Pastoretto elleniche a Platea (capp. 28 e 29), tento di dimostrare che le cifre offerte dal libro IX sono fortemente implementate e dunque assai opinabili, in quanto l’obiettivo di Erodoto è di farle forzatamente coincidere - per quell’ammiccante e simonidea allusione al poema omerico di cui ho già detto - con il numero degli Achei a Ilio12. Ề innanzitutto da notare che l’adozione del catalogo, o rassegna delle forze di un esercito, è un topos caratteristico della poesia epica inaugurato da Omero e seguito in più occasioni da Erodoto per motivi eminentemente retorici e quindi non troppo fededegni. Per giunta si osserva che la somma che porta al computo stimato delle forze degli Elleni a Platea è alquanto macchinosa, storicamente poco affidabile e persino imprecisa, avendo Erodoto calcolato tra l’altro, 800 fanti in più. Procederò adesso commentando prima le cifre riportate dall’autore circa gli effettivi della Lega panellenica a Platea, e confrontandole successivamente con il numero dei Danai a Troia desumibile dal Nεῶν κατάλογος (Catalogo delle navi) del libro secondo dell’Iliade. La somma di entrambi ammonta a 110.000 uomini. Una coincidenza, lo si deve ben riconoscere, troppo sorprendente per non essere voluta. La rassegna dei contingenti greci a Platea viene introdotta subito dopo la contesa fra Ateniesi e Tegeati per occupare l’ala sinistra dello schieramento 13. L’episodio della disputa, collocato presso la sorgente Gargafia nell’imminenza dell’instructio aciei, appare assai poco verosimile, in quanto neppure i ragazzi della via Paal avrebbero atteso l’ultimo minuto per stabilire la collocazione dei ranghi. È invece realistico che si discutesse semplicemente dei posti da occupare nello schieramento della futura battaglia e dunque dove costruire i rispettivi accampamenti. L’importante è però notare fin d’ora, per inciso, che la disposizione sul campo degli alleati è ancora divisa per popoli e città come nella protofalange omerica, secondo cioè uno schema che, nell’articolo sullo stato dell’arte della guerra, avevo definito un modello arcaico della taxis14. La sostanziale differenza tra il catalogo dell’Iliade diviso per popoli e la rassegna delle forze alleate nel 479 consiste nel fatto che Omero cita i condottieri dei vari contingenti in quanto re o eroi, mentre Erodoto, che non ha questa necessità epica, riporta nel capitolo 28 soltanto il nome di Aristide a capo degli 8.000 Ateniesi e del re Pausania15. 12 Iliade, II, 494-759. Al catalogo delle navi achee segue quello dei Troiani e dei loro alleati (vv. 816-877). Persino nella Batracomiomachia vi è una rassegna degli eserciti dei topi e delle rane. 13 IX (Calliope), 26 e 27. 14 Cfr. P. Pastoretto, Lo stato dell’arte della guerra terrestre e marittima agli inizi del V secolo a. C. e altro ancora, Introduzione generale: temporibus illis, in www.arsmilitaris.org. Avverto che tanto nell’articolo citato, quanto nel presente, uso la voce greca taxis per definire in generale un reparto più o meno numeroso e strutturato di soldati. 15 Pausania non aveva episodi gloriosi in battaglia da vantare, mentre Aristide, insieme a Milziade (morto nel 489), era il vincitore di Maratona. 10 A Proposito di Platea I contingenti alleati della Lega vanno dal più piccolo, quello proveniente da Cefalonia con 200 opliti soltanto, al più numeroso, quello costituito da 10.000 Lacedemoni, 5.000 dei quali spartiati e 5.000 perieci. Il numero complessivo della fanteria pesante oplitica in campo è, secondo i calcoli di Erodoto, di 38.700 unità, mentre i popoli che hanno inviato le loro truppe contro il Persiano sono in tutto 23. Fin qui nulla da commentare: le cifre non sono esagerate e appaiono congrue. A questo punto però s’inserisce, innaturalmente e forzosamente aggiungo io, un calcolo paradossale per un greco e mai usato negli otto libri precedenti da Erodoto. Il che m’induce a ritenere che l’autore abbia voluto forzatamente aumentare il numero dei symmachόi per rendere, in un certo senso, omaggio alla musa della poesia epica Calliope. La quale purtroppo non è Clio, la terza delle sorelle, e musa della storia alla quale Erodoto dovrebbe essere fedele, bensì quella dell’epos, con la quale egli qui colpevolmente amoreggia. L’autore infatti aggiunge al numero dei 38.700 opliti, gli iloti che solevano accompagnare gli spartani in guerra e che, com’è noto, erano sette per ogni guerriero. Essendo 5.000 gli spartiati, gli iloti ammontavano a 35.00016; ed a questi Erodoto unisce disinvoltamente i servi (skenophόroi) che seguivano gli altri opliti dei vari contingenti in ragione di un servitore per oplite: in tutto 34.500 unità 17, che sommate agli iloti danno 69.500 uomini. A tutti costoro l’autore, con mia e nostra grande sorpresa devo dire 18, attribuisce il ruolo di “fanteria leggera”, sia che si tratti degli iloti, sia che si tratti dei doúloi degli altri combattenti, poiché tutti «armati alla leggera» (ψιλοὶ). Un ruolo a dir poco inconcepible, in quanto mai prima riscontrato in tutti i libri delle Storie. A Maratona infatti, per citare un esempio, Erodoto non ci parlava della presenza di 10.000 opliti ateniesi accompagnati da altrettanti fanti leggeri19; ed a proposito delle Termopili non si accennava affatto che, insieme ai Trecento di Leonida, cadessero 2.100 iloti “armati alla leggera”20; e neppure che, accanto agli altri 4.900 Elleni che avevano difeso quel passo, combattessero altrettanti schiavi, anch’essi armati alla leggera. Inoltre, se dai sette iloti che accompagnavano gli spartiati ci si poteva attendere, in ragione del loro numero molto elevato per ogni oplite, una certa capacità non soltanto di servire (trasportare ed accudire le armi ed i bagagli, procurare il cibo e preparare i pasti ecc.), ma anche di 16 17 I 5.000 perieci che accompagnavano gli spartani godevano di un unico skenophoro a testa. Con un errore di 800 uomini in più. In realtà avrebbero dovuto essere 33.700. 18 E in forte contrasto con la mia affermazione fatta nell’articolo precedente, se qualcuno avrà la voglia di riprenderla. 19 Libro VI (Erato), 111-117. 20 Libro VII (Polimnia), 222-224. Ricordo che secondo Erodoto alle Termopili, oltre al lochos dei 300 Spartiati, erano schierati anche 700 Tespiesi e 4.200 altri greci alleati (Mantinei, Tegeati, Orcomeni, Arcadi, Corinzi, Fliasi, Micenei, Tebani, Focei e Locresi). Dei 300 Spartani caddero in 299; dei Tespiesi tutti, degli alleati 4.000. 11 Piero Pastoretto autodifesa o di soccorso ai loro padroni21, e quindi una certa combattività pur con armi di fortuna22, i semplici skenophόroi, i ‘bagaglioni’ degli altri guerrieri erano del tutto inetti anche soltanto a impugnare un’arma23. Quanto agli iloti, tuttavia, non si può passare sotto silenzio il sacro terrore laconico che essi potessero imparare a portare le armi e ribellarsi ai loro padroni. È noto a tutti che gli opliti spartiati d’inverno smontavano il porpax dei loro scudi per evitare che gli iloti potessero trafugarli ed appropriarsene. Aggiungere dunque il numero degli schiavi a quello degli opliti effettivamente combattenti appare uno stratagemma palesemente retorico dell’autore, a tutto discapito del vero storico, per far salire la somma dei combattenti a Platea all’iperbolica cifra di 110.000 uomini. E poiché il numero non tornava ancora, ecco che Erodoto, come vedremo in seguito, aggiunge giusto giusto 1.800 Tespiesi che erano già sul luogo della battaglia. Desta francamente meraviglia che, tra i tanti commentatori, non ve ne sia uno che abbia osservato l’incongruità evidente di Erodoto e tutti invece abbiano più o meno accettato, supinamente e acriticamente, l’assurda presenza a Platea di una folta fanteria leggera formata di schiavi, più numerosa ancora di quella pesante degli opliti. Insomma, dal momento che dopo la citazione che sto esaminando Erodoto si dimentica del tutto degli psilόi, sembra che nessuno dei commentatori si sia mai chiesto come e dove si sarebbero schierati questi 70.000 combattenti (con la falange? Davanti alla falange? Dietro alla falange. Ai lati della falange? Di riserva?), né di quale armamento erano dotati, né, infine, quale funzione avrebbero assunto nella battaglia24. La possibile tesi avversa alla mia, che cioè a Platea, dove la Lega Panellenica era cosciente di giocarsi il tutto per tutto, fossero stati armati sommariamente anche gli schiavi e gli iloti, e dunque Erodoto avesse ragione a computarli insieme agli opliti, mi pare inconsistente. Anche a Maratona e alle Termopili i Greci sapevano di essere in fortissima inferiorità numerica e di rischiare la distruzione dell’intero esercito, e ciò 21 Secondo Erodoto (VII, 229-231) lo spartano Eurito, essendo cieco, alle Termopili si fece accompagnare eccezionalmente in battaglia da un suo ilota. Ma si trattò appunto di un’eccezione degna di essere riportata. Ricordo che l’altro oplite cieco che combatté alle Termopili e si salvò, Aristodemo, cadde a Platea. 22 Diversi iloti caddero effettivamente a Platea, ma non certo perché entrati in battaglia come fanteria leggera, fatto che non viene mai menzionato da Erodoto. In IX, 85, 2, l’autore scrive che gli Spartani dopo lo scontro eressero tre tombe collettive dove deposero, rispettivamente, i sacerdoti, gli opliti e gli iloti. 23 Possediamo tra l’altro alcune figure caricaturali di questi servitori, dipinte su vasi attici del IV secolo, che sono effigiati come dei bruti, comicamente deformi e miserevolmente chini sotto il peso delle armi e dei bagagli dei loro padroni. È tuttavia accertato l’uso di qualche oplite, soprattutto ateniese, di farsi accompagnare come skenophoro da un giovane parente per svezzarlo alla rude disciplina della guerra. 24 Simile, ad esempio, a quella dei peltasti o a quella dei velites? 12 A Proposito di Platea nonostante non armarono gli schiavi al loro seguito. Inoltre il greco, per ragioni culturali connaturate, diffidava profondamente della lealtà dello schiavo e soprattutto della sua capacità combattiva. Allo stesso modo, d’altronde, disprezzava i barbari come uomini inferiori e considerava le qualità morali e spirituali del cittadino greco del tutto superiori alle elevate quantità di guerrieri che si sarebbero potute raggiungere facendo combattere anche gli schiavi. Ma a parte ciò, ed a parte l’appena ricordata e proverbiale avversione dell’anima greca25 a far combattere degli schiavi accanto ai kalới kaì agathới quali gli opliti26, quale sarebbe stato, tecnicamente parlando, il significato di “armati alla leggera” negli eserciti greci degli inizi del V secolo a. C.? Per quanto mi consta, soltanto gli Spartani possedevano un minuscolo corpo di fanteria leggera, gli sciriti (Σκιρῖται) 27, che durante le marce dell’esercito lacedemone generalmente facevano da avanguardia e soprattutto nei passi montani aprivano la strada. Erodoto però, nei libri VII e IX non accenna affatto alla presenza di questi fanti leggeri né alle Termopili né a Platea. Le prime notizie dell’uso abituale della fanteria leggera, che agiva alle ali delle falangi o in operazioni d’inseguimento o agguato, risalgono invece soltanto alla guerra del Peloponneso. Questa fanteria leggera era costituita da peltasti o psilόi armati di giavellotti e da toxớtes (τοξότης) armati di archi, ma in nessun caso costituita da schiavi e semmai formata da truppe ausiliarie più o meno barbare come i Traci. Tali notizie dunque risalgono agli anni a partire da 431, cioè all’ultimo terzo del secolo, e non valgono per il 479, che è situato nel primo terzo; né dobbiamo in questo caso incorrere in un errore simile, per usare una metafora, a quello di attribuire alla prima Guerra Mondiale, quando esisteva solo qualche unità porta idrovolanti, l’uso delle grandi portaerei di squadra, che risale invece alla seconda. Luigi Annibaletto, che nel 1956 ha curato e tradotto l’edizione delle Storie per la Arnoldo Mondatori, ipotizza che a Platea si trattasse di schiavi usati come arcieri e frombolieri. La congettura però non regge, dal momento che schiavi e servitori non potevano certo aver ricevuto un addestramento confacente al maneggio di queste armi, che costituiscono pur sempre una specialità della fanteria, e che sono così tanto difficili da usare correttamente, che richiedono anni di preparazione.ben accurata, che non poteva certo essere fornita dalle polis agli schiavi, né privati, né pubblici. 25 E non soltanto greca, ma anche romana e antica in toto. Si ricordi che ancora nel 62 a. C. senatori e cavalieri rimasero inorriditi alla notizia che a Pistoia, tra i catilinari, combattessero anche degli schiavi. Cosa che, tra l’altro, in realtà non avvenne poiché Catilina, da buon romano, li aveva congedati prima della battaglia. 26 Aristotele nel libro I della Politica considerava gli schiavi come “strumenti animati” incapaci di autodeterminarsi. Eppure scriveva un secolo dopo Erodoto. 27 Gli Sciriti provenivano dalla Sciritide, regione montuosa a meridione dell’Arcadia, che confinava con la Laconia. Durante le guerre del Peloponneso gli Sciriti costituivano un lochos Σκιρῖτα di 600 uomini, che occupava l’estrema sinistra dello schieramento spartano. 13 Piero Pastoretto Nel logos di Platea, come vedremo tra breve, compaiono sì, in effetti, degli arcieri ateniesi nel primo scontro avvenuto a Eritre; ma, come dimostrerò nel prosieguo dell’articolo, dovevano costituire un modesto contingente di arcieri scelti barbari partiti insieme agli Ateniesi, e non sicuramente dei bruti doúloi o degli iloti. L’argomento per me dunque è irrisolvibile: o meglio, è risolvibile solo ammettendo che Erodoto abbia consapevolmente ignorato, nel capitolo 28, la verità storica per motivi estranei alla storia e finalizzati invece all’epica. Avanzate tutte queste riserve sul numero effettivo degli Elleni a Platea, riguardo ai quali Erodoto volutamente equivoca tra i presenti ed i combattenti, non mi resta che rendere conto se la cifra di 110.000 guerrieri corrisponda a quella tradizionale dei Danai sulle spiagge della “fatal Ilio”. A dire la verità Omero, o chi per lui, non presenta un catalogo dei guerrieri argivi 28 come Erodoto fa per la Lega Panellenica a Platea, bensì il catalogo delle navi che li hanno condotti fino alla Troade e dei duci di ogni contingente. Tuttavia dal numero delle navi e dalla loro capacità di trasporto già gli antichi erano stati in grado di calcolare approssimativamente gli uomini della spedizione a Troia. Ed è ovvio che Erodoto conoscesse molto bene queste cifre. Le navi dell’età micenea erano triacόntori o pentecόntori. Le prime erano mosse da trenta remi (quindici per fiancata) e potevano portare circa cinquanta uomini; le seconde, più grandi, possedevano cinquanta rematori (venticinque per fiancata) ed erano in grado di trasportare circa cento uomini. Le navi menzionate nel libro II sono in tutto 1.186 29 e poiché una buona aliquota di queste era costituita da triacόntori30, la cifra stimata dei loro equipaggi risaliva appunto a 110.00031 e non a 118.600, come sarebbe se fossero state tutte dei pentecόntori. La conclusione del discorso è che a Platea non potevano esserci più di 40.000 opliti e, naturalmente, come però in tutte le battaglie, i loro servitori e accompagnatori senza alcun valore bellico, tant’è vero che in nessun altro luogo delle Storie dove si riportano fatti d’arme vengono menzionati. 28 Nell’Iliade, per definire i popoli micenei convenuti a Troia, si usano indifferentemente tre diversi nomi: Danai, Achei o Argivi. 29 I condottieri sono 44 ed i popoli 29. 30 Le dodici navi di Odisseo e le cinquanta di Achille, ad esempio, erano chiaramente dei triacόntori. Ricordo al lettore che nei tempi omerici non vi era alcuna differenza tra rematori e combattenti, in quanto erano gli stessi guerrieri (ad esempio i compagni di Odisseo) a manovrare i remi. 31 I Troiani ed alleati, secondo Omero, erano circa 52.000, con 27 condottieri. 14 A Proposito di Platea Un esercito di privati La presenza a Platea di ben 70.000 schiavi (si badi bene, privati, e non pubblici), induce a qualche considerazione sulla carenza, per non dire la totale assenza, dei servizi logistici presso i Greci del primo terzo del V secolo, e su come le guerre del tempo in Occidente fossero piuttosto combattute da cittadini privati che da eserciti di soldati nel senso moderno del termine. È persino pleonastico ricordare che, agli inizi del V secolo, in Grecia non esistevano eserciti stabili di leva o di volontari professionisti, né un corpo militare di ufficiali o sottufficiali di carriera. Queste razionalizzazioni sarebbero giunte soltanto con Ottaviano cinque secoli dopo. Ma, se a Platea anche la maggior parte dell’intendenza, della logistica gestionale dei trasporti e dei vettovagliamenti (ovviamente non tutta però, come vedremo tra breve a proposito dei convogli di salmerie che attraversavano il Citerone) era in mano ai servi privati degli opliti, occorre concludere con una certa ironia che la dimensione della guerra agli occhi dei Greci rientrava molto più nella sfera del privato che in quella nel pubblico. Infatti il cittadino-oplite non soltanto acquistava con i propri denari tutto l’equipaggiamento bellico che gli serviva e non percepiva alcuna diaria dello Stato per le campagne di guerra, ma doveva provvedere in proprio, attraverso il servo che lo seguiva, al trasporto dei bagagli, a gran parte dell’acquisto delle derrate alimentari, al confezionamento del cibo, fino alle suppellettili da campo ed al giaciglio. Ciò comporta che, per gli eserciti greci della prima metà del V secolo, ma in un certo senso anche per le età successive sino ad Alessandro e ai regni ellenistici dei diadochi, si debba parlare più correttamente di cittadinisoldato, che di soldati-cittadini. Sotto l‘aspetto della logistica, dunque, gli eserciti delle poleis greche erano molto più arretrati di quello, dinastico e dotato di una complessa macchina logistica, degli Achemenidi; ed allo stesso modo, se ci soffermiamo ad esaminare l’aspetto storico culturale della guerra in Occidente e in Oriente, mentre gli opliti greci erano prima cittadini e poi soldati, quelli mobilitati dai persiani, essendo sudditi o mercenari, erano in primo luogo ed essenzialmente dei soldati. Una certa logistica più strutturata e meno “fai da te” sarebbe apparsa soprattutto tra gli Spartani negli anni successivi alla prima metà del V secolo. Essi, da popolo e organizzazione statale che più di ogni altro nell’Ellade erano preparati e finalizzati per la guerra, possedevano dei veri e propri convogli logistici forniti dallo Stato, la cui composizione e numero erano stabiliti dagli efori. Mentre i carri portavano l’occorrente per l’accampamento o le fortificazioni campali, come pale, picconi, asce, incudini, pali o attrezzi per la carpenteria, gli animali da soma portavano in genere gli attrezzi leggeri usati dal genio e dalla fanteria leggera (i già citati sciriti) per disboscare e rendere agibile la strada all’esercito ed alle salmerie. Di questi convogli facevano naturalmente parte anche schiavi pubblici e non più gli iloti personali degli opliti, e cioè fabbri, carpentieri, semplice mano d’opera ed anche, finalmente, medici. Ma tutto ciò era ancora ben al di là da venire. 15 Piero Pastoretto Il numero dei Persiani a Platea Quanto detto all’inizio del capitolo precedente a proposito del numero degli Elleni a Platea vale anche per i Persiani. Nel libro VII delle Storie viene presentata la rassegna delle truppe fatta da Serse a Dorisco32 dopo il passaggio dell’esercito in Europa. Anche in questo caso l’ars rethorica prevale sulla scientia historica di Erodoto il quale, pur affermando di non poter essere preciso circa il numero di soldati forniti da ciascun popolo alla spedizione, specifica che, nel suo insieme, l’esercito risultava di 1.700.000 unità ed era composto da 47 nazioni diverse, dagli Arabi agli Egizi, dagli Etiopi agli Indiani33. Molto interessante, sotto l’ottica dell’evoluzione della scienza militare, è la suddivisione della catena di comando. Lo storico, infatti, si diffonde su alcuni particolari che appaiono nuovi e comunque inconsueti: i capi dei singoli contingenti, conclusa la rassegna davanti al Gran Re e numerati i guerrieri con un sistema bizzarramente ingegnoso34, procedono alla scelta dei comandanti. Essi designano i comandanti dei 1.000 e dei 10.000; e questi a loro volta scelgono gli ufficiali inferiori comandanti dei 100 e dei 10. Erodoto inoltre osserva che gli ufficiali delle taxis regolari non erano quelli dei contingenti nazionali35, ma persiani. Se tutto ciò è vero, osserviamo che l’esercito achemenide appare ormai come un organismo complesso, capillarmente innervato dall’ufficialità, composto da reparti dotati di un organico fisso ed equivalenti, a partire dal basso, a quelli moderni di una squadra, plotone, compagnia, reggimento e divisione; e inoltre sottoposto a una catena di comando unitaria, che per prudenza e affidabilità è affidata all’elemento persiano e non a quello nazionale, militarmente molto meno attendibile 36. Tutto ciò, aldilà del numero iperbolico degli effettivi, degno dell’Ostfront della seconda G.M., denota indubbiamente una certa razionalizzazione, anche se sono ancora embrionali e non consapevoli quelle ulteriori caratteristiche di modernizzazione che nell’articolo sull’Arte della guerra avevo definito diversificazione, specializzazione e mobilità. Infatti, l’unica significativa differenziazione nell’esercito di Serse a Platea era costituita dalla cavalleria pesante e leggera, oltreché dalla fanteria pesante persiana e meda, mentre tutto il resto dello smisurato esercito, cioè la maggioranza assoluta, si riduceva ad una fanteria leggera armata confusamente di arco, spada e lancia e senza 32 Storie, VII (Polimnia), 59-83. 33 Senza contare la fanteria imbarcata sulle 1207 triere, gli uomini delle navi onerarie e delle ippagoghe. 34 Sia per il sistema di numerazione dei soldati, sia per la sbalorditiva quantità degli armati, cfr. Storie, VII (Polimnia), 59 e 60. 35 Uso, come nell’articolo precedente, il termine tecnico taxis per indicare un reparto di qualsiasi consistenza. 36 Sembra inutile rammentare che, nei reparti indigeni delle potenze coloniali europee, gli ufficiali erano tutti nazionali. 16 A Proposito di Platea specializzazioni al suo interno. Se questa diversificazione negli armamenti rendeva l’esercito achemenide in un certo senso più evoluto e senz’altro superiore alla ‘monotematicità’ oplitica di quello della Lega, tuttavia gli mancava del tutto l’elemento indispensabile della specializzazione dei ruoli. Non ha nessun senso, infatti, possedere una fanteria leggera o pesante, e in aggiunta una cavalleria leggera o pesante, se non si ha la minima idea di come usarle e di come sfruttarne le intrinseche capacità. Circa invece il numero degli invasori che, al comando di Mardonio affrontarono la Lega a Platea, Erodoto è più misurato. Quando, alla conclusione dello scontro, ci fornisce le cifre dei combattenti nemici, specifica che: «I Greci poterono così fare un tale massacro che, di 300.000 soldati che erano (meno i 40.000 con i quali Artabazo s’era dato alla fuga), di tutti gli altri, neppure 3.000 riuscirono a salvarsi.»37 Nel computo dei 260.000, si badi bene, erano compresi anche i cavalieri, dei quali però non fornisce le cifre. Erodoto specifica inoltre che, in aggiunta ai 260.000 dell’esercito persiano, combattevano anche gli alleati beoti e gli altri opliti ellenici che parteggiavano per il Gran Re, e ne stima il numero in 50.000. Sicché, le due cifre sommate porterebbero l’esercito nemico della Lega panellenica al numero veramente incredibile di 310.000 uomini. D’accordo con gli storici moderni ritengo di dover parecchio ridimensionare il numero dei barbari. A voler essere generoso, riduco gli Achemenidi a forse 100.000 combattenti, poco più del doppio del numero reale di quelli della Lega. Con tale seisáchteia, giungo a stimare che il numero totale dei combattenti a Platea non sia stato superiore ai 140.000, massimo 150.000 uomini. Una cifra, nonostante il ridimensionamento, senz’altro considerevole e anzi, spettacolare, se si considera che ci troviamo nel 479 a. C.38 Le capacità operative dei due eserciti Come avevo osservato nel precedente lavoro di cui le ricerche presenti sono soltanto i paralipomeni, l’articolazione e l’organizzazione interne dell’esercito achemenide del V secolo appaiono a prima vista più complesse e ‘moderne’ di quella dell’esercito della Lega Panellenica. 37 IX (Calliope), 70, 5. All’indomani di Salamina Serse era tornato in patria con tutto l’esercito, tranne i 300.000 che, in Tessaglia, Mardonio aveva accuratamente scelto di trattenere con sé per continuare le operazioni in Grecia. Cfr. VIII (Urania), 113. La ritirata del gigantesco esercito persiano insieme al suo re era dovuta essenzialmente a motivi logistici, non essendo in grado neppure tutta l’Ellade di mantenere e rifornire un così gran numero di uomini e animali. 38 A Waterloo, ventitré secoli dopo, si affrontarono fra Inglesi, Francesi e Prussiani, 212.000 uomini, mentre a El Alamein i combattenti in campo erano pressappoco 300.000. 17 Piero Pastoretto ‘A prima vista’, dico, poiché questa affermazione non deve farci ritenere che i Persiani avessero raggiunto un grado maggiore di razionalizzazione rispetto agli Elleni. La differenziazione all’interno dei propri reparti, infatti, era puramente di armamento ma non di specialità, derivando esclusivamente da quella interna fra i quarantasette contingenti barbari che componevano l’esercito; e, comunque, come ho già scritto, si riduceva a tre uniche componenti: cavalleria, fanteria pesante (persiani e medi) e fanteria leggera (tutto il resto delle milizie). Viceversa, una diversificazione autenticamente evoluta, sul tipo per intenderci di quella raggiunta da Alessandro, avrebbe imposto ad esempio l’ulteriore differenziazione della cavalleria in leggera e pesante con compiti specifici: e della fanteria leggera in reparti veloci armati di giavellotti, e reparti esclusivamente di arcieri e di frombolieri destinati a combattere a contatto soltanto balistico con il nemico. Nulla invece di tutto questo, anche se dobbiamo rendere merito a Mardonio (per la verità al tebano Timagenida, suo mentore) di avere avuto l’intuizione di selezionare con cura le truppe da trattenere in Grecia, premiando la qualità sulla quantità, e lasciando andare insieme a Serse, tutte le scorie inutili del gigantesco esercito: semplice carne da macello che gli avrebbe procurato soltanto problemi logistici per il suo svernamento 39 senza garantirgli alcun vantaggio, né tattico né strategico40. Ancor meno strutturato come un organismo, e quindi in un certo senso più arcaico, era l’esercito della Lega, concepito da almeno due secoli come un monolite e giustamente chiamato falange, cioè “rullo” che tutto schiaccia e frantuma. La vetustà della concezione, però, sperimentata e modificata nel corso di centinaia, se non migliaia di battaglie intestine piccole e grandi, garantiva l’alta tecnologia dell’armamento e la solidità rodata dei fanti sul campo. Niente cavalleria, dunque, nessuna fanteria leggera adatta all’aggiramento (ho già criticato a sufficienza l’accenno agli schiavi usati come psilόi) né armi adatte a colpire da lontano. Tanto sulla terra quanto sul mare gli Elleni concepivano soltanto lo scontro diretto, oplite contro oplite, lo sguardo fisso negli occhi dell’avversario, scudo contro scudo, e rostro contro rostro tra le navi. Tuttavia, per quello che oggi anche in Italia, chissà perché, si definisce con termini anglosassoni combat reading dei due eserciti in campo, possiamo senz’altro dare la palma a quello della Lega. 39 Naturalmente, se non ci fosse stata Platea. 40 La selezione di Mardonio fu molto oculata. A Platea combatterono infatti Persiani, cavalieri e fanti. selezionati e in più 2.000 cavalieri scelti. Accanto a loro c’era l’élite dell’esercito: Medi, Saci, Battriani e Indiani al completo. Tra gli altri popoli, furono scelti solo gli individui che «avevano compiuto qualche buona impresa». Erodoto, come ho scritto, non parla né di Immortali né di melofori, poiché forse avevano seguito Serse in Persia. Ciò non sorprenderebbe, essendo la sua guardia personale e costituendo l’unico reparto armato realmente valido per mantenere l’ordine nell’impero, dal momento che la migliore fanteria e cavalleria erano rimaste in occidente. 18 A Proposito di Platea Le capacità operative di un esercito, secondo il celebre storico e consulente del Pentagono Edward Luttwak, si fondano su due elementi: la tecnologia - high technology - e l’addestramento individuale - basic soldier41. Sulla “high technology”, aggiunge Martin van Creveld, massimo storico militare della Hebrew University di Gerusalemme: “«Tenendo conto dei limiti posti dalle sue dimensioni, la credibilità di un esercito come strumento di forza militare corrisponde alla qualità e quantità del suo equipaggiamento moltiplicati per il potere di combattimento». Restano sempre e comunque invariati, presso tutti gli eserciti in tutti i periodi storici, i tre fattori umani intangibili: capacità di comando, coesione del gruppo e morale individuale. Per l’addestramento dei due eserciti a Platea, il cui fine è quello di fornire ai soldati la capacità di combattere, la valutazione è ardua. A questo proposito va ricordato ancora una volta Luttwak: «Quello che veramente importa non è quello che il soldato sa, ma piuttosto quello che è condizionato a fare nella realtà del combattimento». Si tratta, come afferma l’autore, non dell’addestramento puro e semplice del combattente finalizzato all’uso ottimale del suo equipaggiamento militare, ma del suo equipaggiamento mentale. In altri termini, si torna ai tre fattori umani che trascendono qualsiasi altro fattore logistico, tecnologico o tattico della battaglia: la capacità di comando, la coesione del gruppo e il morale individuale. Ed in questo campo, almeno a giudizio di Erodoto, gli Elleni erano senz’altro superiori alla gran parte dell’esercito persiano. Il polìtes greco, specialmente quello spartiate, in qualsiasi città dell’Ellade sin dalla sua efebia riceveva una formazione globale, che andava dalla poesia alla retorica, dalla ginnastica nei ginnasi alla musica, alla danza e persino alla filosofia, e di cui faceva parte integrante anche quella militare. I giovanetti negli edifici pubblici imparavano l’istruzione militare, l’uso delle armi, la disciplina della lotta e, i più ricchi tra loro, godevano persino di un maestro d’armi privato, l’oplomaco, che li esercitava nell’arte del duello. Le continue guerre tra poleis, permettevano poi ai giovani di mettere in pratica più volte nella loro vita attiva gli insegnamenti ricevuti e ne facevano delle ottime e sperimentate ‘macchine da combattimento’, senz’altro superiori ai soldati persiani, disavvezzi alle guerre in un impero unificato ed essenzialmente, tranne poche ribellioni, pacifico al suo interno. Insomma, per quanto si rimanga poco informati sulla paideia persiana circa l’educazione militare dei nobili e dei ricchi, quattrocento anni di guerre continue fra le poleis greche avevano creato delle generazioni di cittadini fisicamente e psicologicamente pronti alla guerra, dotati inoltre di una eccellente formazione militare e culturale che ne rendeva dei fidati, e formidabili combattenti, in grado di affrontare qualunque rischio e qualsiasi fatica. Circa la motivazione poi, che è parte integrante della psicologia di qualsiasi combattente, non vi è dubbio che essa giocasse pesantemente in favore degli opliti greci, ansiosi di difendere la propria terra, rivaleggiare in valore tra le varie città, vendicare le Termopili e completare la vittoria di Salamina. 41 Edward N. Luttwak, Strategia. La logica della guerra e della pace, Milano, Rizzoli, 2001. 19 Piero Pastoretto Il morale dell’esercito di Serse, al contrario - se vogliamo prestar attenzione alla già citata testimonianza di Tersandro che Erodoto dice di aver udito con le proprie orecchie, se questo episodio non si riduce invece a un mero ornamento retorico, e soprattutto se il sentimento di angoscia confidato dall’ignoto persiano si estendeva effettivamente a tutto o a una buona parte degli uomini - era pessimo, rassegnato e lugubre; mentre l’atteggiamento dei suoi capi, dopo la catastrofe di Salamina e il ritorno (quasi una fuga) di Serse in patria, almeno come ci par di capire dal dialogo avvenuto al simposio, rasentava quello che oggi si chiama disfattismo. Per questi motivi affermo dunque con certezza che il basic soldier dell’esercito della Lega panellenica doveva essere superiore a quello dell’esercito di Mardonio. Riguardo al secondo elemento che confluisce nelle capacità operative di un esercito, la high technology, le qualità dovevano invece essere suppergiù pari per i due contendenti: i Persiani, i Saci e i Medi erano armati convenientemente, anche se con lance e scudi profondamente diversi nella concezione da quelli oplitici. Gli Immortali e di conseguenza forse anche gli altri corpi di fanteria pesante, inoltre, assumevano probabilmente in battaglia uno schieramento falangitico simile a quello dei Greci 42: formazione peraltro tanto logica da essere praticamente l’unica possibile per un dispiegamento di fanteria pesante in tutti i tempi sino a quelli della polvere da sparo. In più, mentre i Persiani potevano almeno annoverare una differenziazione di specialità nel loro esercito - cavalleria, fanteria leggera e pesante, alla quale potremmo aggiungere anche una quarta specializzazione, quella degli opliti della Ionia e tebani -, la Lega poteva invece contare soltanto sulla fanteria oplitica; e fu errore sommo di Mardonio non avere intuito quale vantaggio avevano le sue formazioni sul nemico, se soltanto le avesse volute usare intelligentemente. Per quanto riguarda la disposizione sul campo, infine, quella degli Elleni a Platea si colloca ancora in una fase artistico intuitiva ai livelli di quelle omeriche: l’esercito della Lega era ancora diviso non per reparti omogenei di numero di organico, ma per contingenti delle poleis di provenienza; non esisteva tra gli Elleni una vera unità di comando, anche se questa formalmente spettava a Pausania, ma le decisioni dovevano ancora essere prese attraverso il faticoso accordo di tutti i comandanti maggiori. Una forte unità di comando esisteva invece, poiché si trattava di un esercito dinastico, fra i Persiani, in quanto l’unico responsabile dell’esercito era Mardonio43; 42 Polibio, nei capitoli del Libro XII dedicati al commento di Callistene sulla battaglia di Isso, parla esplicitamente di falange persiana. Cfr. P. Pastoretto, Polibio vs. Callistene, in arsmilitaris.org. 43 Anche se, per la maledizione che sembra colpire tutti i generali in capo che si sono avvicendati nella storia, anche lui doveva sopportare la rivalità del suo secondo, Artabazo. 20 A Proposito di Platea la disposizione sul campo era soltanto fittiziamente ripartita in un centro e due ali, dal momento che queste, non disponendo la Lega di una cavalleria o di una fanteria leggera, non erano manovrabili più di quanto lo fosse il centro e dunque si riducevano a semplici fianchi, ma non ad ali tattiche. Se inoltre esisteva un capo riconosciuto del fianco destro, Pausania, e del fianco sinistro, Aristide44, Erodoto non menziona mai il nome di un comandante del centro. Tornerò su questo argomento di sostanziale importanza; non esistevano delle riserve strategiche, ma tutti gli uomini erano concentrati su un’unica linea falangitica di profondità variabile, generalmente e tradizionalmente dalle otto alle dodici file. Perché Platea può essere considerata la prima battaglia moderna Sebbene in apparenza, non si affacciasse nihil novi sub sole dei campi della Beozia bagnati dall’Asopo, tuttavia ci sono dei validi motivi per accostare quella battaglia del 479 a.C. a una tipologia molto differente dalle precedenti e per identificarla quindi come terminus post quem far iniziare la rivoluzione della guerra da ars semper idem faciens a episteme razionale. Vedrò di elencarli. Durata: mentre le battaglie anteriori al V secolo, ed anche la maggior parte di quelle successive al V, si risolvevano in una sola giornata di aspri combattimenti, quella di Platea si prolungò, con lunghi periodi di sosta, di scaramucce e di manovre, dal primo scontro con la morte di Masistio sino allo scontro finale e a quella di Mardonio, per tredici giorni45. Ciò preannuncia singolarmente la durata delle battaglie dell’età moderna e contemporanea che, in media, dal loro accendersi al loro esaurirsi, richiedono più di una settimana di combattimenti: la seconda battaglia di El Alamein, per citare un esempio e salvaguardate le debite differenze, si svolse in un arco di tempo di dieci giorni (23 ottobre – 3 novembre 1942) ed altrettanti ne durò quella di Kursk (5 luglio – 16 luglio 1943). Manovra: la battaglia di Platea, proprio per la sua lunghezza nel tempo, fu manovrata e non si ridusse a uno statico massacro di schiere seguito a una rapida e semplice disposizione sul campo. Gli elleni, incalzati dai Medi, furono costretti a marce e contromarce cambiando per tre volte di posizione e rischierandosi su tre fronti diversi. Le complicate manovre di riposizionamento e l’articolazione in diversi settori sono una delle caratteristiche più comuni delle battaglie moderne. Tattica: Mardonio giocò con molta bravura le sue carte prima dello scontro finale e manovrò alle spalle e davanti alle linee della Lega per tagliare al nemico sia la via dei 44 Bisogna ovviamente tener presente che Aristide, a sua volta, doveva vedersela con gli altri nove strateghi ateniesi. 45 Il calcolo dei giorni è personale e non coincide con quello di Erodoto. 21 Piero Pastoretto rifornimenti attraverso il Citerone, sia l’approvvigionamento dell’acqua dall’Asopo. Ciò è segno di un’evoluta e moderna concezione della battaglia, nella quale la vittoria va ricercata non semplicemente schiacciando l’avversario con la forza bruta in un’unica mischia risolutiva della durata di poche ore, ma indebolendolo progressivamente attraverso rapide puntate e incursioni dietro le sue linee tendenti a mettere in crisi i suoi rifornimenti e collegamenti. Strategia: inizialmente entrambe le parti erano timorose di uno scontro: gli Elleni temevano la cavalleria nemica e i persiani sapevano di essere molto inferiori nella fanteria. La tattica di Mardonio era dunque tutt’altro che aggressiva ed è piuttosto definibile come ‘attendista’. Altrettanto si deve dire dell’esercito della Lega che, per nulla disposto a prendere l’iniziativa e, una volta privato dei suoi approvvigionamenti, preferì ritirarsi anziché arrischiare una massiccia offensiva. Se tuttavia la tattica messa in atto da entrambi gli eserciti fu temporeggiatrice e indecisa, ciò non toglie però che la strategia generale alla quale obbediva la Lega nel 479 sembra essere stata quella risolutiva di una battaglia d’annientamento: la prima, vera, battaglia d’annientamento della storia greca. Uno scontro voluto coscientemente, risoluto, teso alla distruzione totale del nemico in un’unica gigantesca battaglia dalla quale non avrebbe più potuto riprendersi. Il pensiero naturalmente va a Bonaparte: ma questo concetto, ventidue secoli prima, era totalmente estraneo agli Elleni. Le guerre dell’Ellade degli ultimi duecento anni erano ancora concepite come delle rapide incursioni armate estive tese più che altro a devastare i raccolti del nemico per metterlo in difficoltà di sopravvivenza, dal momento che si sradicavano le vigne e si tagliavano anche gli ulivi. A questo punto, colui che subiva l’incursione aveva due scelte: arrendersi o dare battaglia. Questa comunque si concludeva in genere con la dissoluzione, ma non con la distruzione di una delle due falang,i e comunque non certo con l’annientamento di un intero esercito. Un obiettivo risolutivo di un’intera guerra come quello adottato dagli Elleni a Platea, chiarissimo alla mente dei moderni, era del tutto estraneo alla strategia greca almeno sino alla fine della guerra del Peloponneso nel 404. Dimensioni: Per rivedere una battaglia con quasi 150.000 uomini in campo si sarebbe dovuta attendere l’età di Alessandro o la giornata di Canne. Le cifre dei combattenti per l’epoca, e soprattutto per gli eserciti dell’Ellade e dell’Occidente, erano assolutamente enormi, persino fantastiche, e preannunciano quelle delle gigantesche battaglie del XIX e XX secolo. 22 A Proposito di Platea IN RE Data imprecisata di settembre. 1° giorno: a Eritre 46 Mentre l’ignoto e dolente persiano conversava a Tebe con Tersandro di Orcomeno, le operazioni militari erano in pieno svolgimento. Il re Pausania, figlio di Cleombroto, era partito da Sparta con l’esercito diretto in Megaride. Mardonio, avvisato dagli Argivi dell’arrivo dei Lacedemoni, aveva raso al suolo Atene ed aveva abbandonato l’Attica per ritirarsi nell’alleata Beozia, dove contava di dar battaglia su un terreno adatto alla cavalleria. Fece così costruire un accampamento fortificato lungo la riva settentrionale del fiume Asopo, e, in posizione più arretrata, un muro in legno chiaramente teso a separare il luogo prescelto per la battaglia, la pianura alluvionale del fiume Asopo che conteneva la città, piccola ma fortificata, di Platea47, da Tebe, la più potente dei suoi alleati e dalla quale dipendevano tutte le sue fonti di approvvigionamento. Asopo, accampamento e muro, infatti, guardavano le due strade che dal Citerone, da dove forzatamente dovevano passare gli Elleni che provenivano dall’Attica, avrebbero dovuto percorrere per giungere a Tebe. In tal maniera non solo Mardonio proteggeva la città che almeno per qualche tempo gli avrebbe garantito i rifornimenti, ma avrebbe bloccato ogni ulteriore avanzata nemica in Beozia e avrebbe costretto quelli della Lega Panellenica a combattere nel terreno scelto e convenientemente predisposto da lui con due linee di fortificazioni, e per giunta più adatto alle manovre della sua cavalleria. L’ideale sarebbe stato essere in possesso anche della città di Platea, ma questa, al contrario di Tebe e pur essendo in Beozia, non aveva aderito all’alleanza con il Persiano e Mardonio evidentemente non aveva ritenuto utile occuparla dopo averla incendiata, dal momento che non costituiva alcuna fonte di pericolo. Nel frattempo i Peloponnesiaci s’incontravano con gli Ateniesi e i Megaresi a Eleusi, sulla via che dall’Attica conduce a Tebe passando per il Citerone, e a forze riunite procedevano verso Eritre, in Beozia, che sorge appunto ai piedi del Citerone. Superato facilmente il monte percorrendo il passo che i Beoti chiamavano Tricefale 48 e gli Ateniesi Driocefale e giunti a Eritre, gli Elleni vennero a sapere che i Persiani erano accampati oltre l’Asopo e non scesero in pianura, ma si schierano a battaglia, prudentemente, e forse anche confusamente, alle falde settentrionali del monte, 46 Come ho già scritto, non mi affido ad alcuna cronologia esatta dei giorni degli avvenimenti. Mi pare già fin troppo parlare solo di settembre e non anche di ottobre. 47 Ognun vede che Platea, (Πλάταια), benché secondo il mito fosse una figlia del dio fluviale Asopo, all’orecchio greco suonava molto affine all’aggettivo femminile πλατεῖα (platéia) o πλατέα (platéa) “ampia”, “larga”, “pianeggiante”. Ancor oggi nelle sale teatrali o cinematografiche troviamo una ‘platea’ e una ‘galleria’. 48 Il nome Tricefale suggerisce che le vie che attraversavano il monte fossero tre, presumibilmente alternative, e che, dunque, sarebbe più corretto parlare di passi del Citerone, che non di un ‘passo’ del Citerone. 23 Piero Pastoretto temendo un assalto dei cavalieri persiani. Precauzione estremamente opportuna, dal momento che questo era precisamente il piano del nemico. Erodoto non ci descrive lo schieramento dei greci nel primo giorno di battaglia a Eritre, mentre sarà molto più prodigo di notizie in futuro. Sappiamo però che la fronte dell’esercito doveva essere grossolanamente posta verso nord, dal momento che l’Asopo scorre in quel luogo da est a ovest, e che l’attacco medo non fu una semplice scaramuccia, poiché i Persiani ‘scaraventarono’ contro l’esercito della Lega panellenica tutta la loro cavalleria (πᾶσαν τήν ἳππον) guidata da Masistio49. Non vi è dubbio tuttavia che con quel pásan Erodoto non intenda affatto tutta la cavalleria a disposizione di Mardonio, il che sarebbe davvero esagerato, ma soltanto tutti gli eccellenti corpi costituiti da Medi, Persiani e Saci: ovvero il fior fiore della cavalleria, ma soltanto di quella pesante e non la massa della cavalleria leggera dei popoli sottomessi, che pure doveva essere rimasta, almeno in parte, parte a disposizione degli occupanti. 49 IX, 20. Erodoto aggiunge che gli Elleni chiamavano questo personaggio Macisitio (Μακίστιος), “Altissimo”, forse per la sua imponente corporatura. Non è ben chiara la ragione per lo storico esca in questa precisazione, forse perché esistevano delle divergenze su quel nome. È comunque chiaro che, sebbene Masistio sia nominato solo adesso, i Greci dovevano in qualche modo conoscerlo bene. 24 A Proposito di Platea La cavalleria di Serse Nel Libro VII (Polimnia) Erodoto si diffonde in una lunga descrizione all’esercito di Serse, che occupa più di 40 capitoli. In 40 e 41 parla di 2.000 cavalieri scelti Persiani e Medi, armati di corazze e lance, che accompagnano il Re, e che verosimilmente sono proprio quelli che caricano ad Eritre. Quanto al resto della cavalleria, nei capitoli 84-87 del VII lo storico afferma che tutti i popoli sottomessi che seguivano il Re la possedevano, ma che soltanto alcuni di questi ne fornivano dei contingenti in quella campagna. Erodoto ce ne propone anche i nomi: si tratta dei Sagarti di stirpe persiana, Indiani, e poi ancora Medi, Saci, Battriani, Caspi, Pericani, Arabi, Libici. Il numero totale dei cavalieri viene fatto ascendere a 80.000. Ora, poiché sappiamo che Mardonio trattenne con sé in Grecia soltanto i migliori, ovvero Medi, Saci, Battriani e Indiani, possiamo supporre che ne trattenesse anche tutta la cavalleria. Viceversa, per quanto riguarda gli altri popoli – Sagarti, Caspi, Pericani, Libici e Arabi – possiamo invece supporre che ne mantenesse solo degli elementi selezionati e di provato valore. Peraltro, l’Ellade non era assolutamente in grado di produrre il foraggio necessario a far svernare così tante migliaia di quadrupedi, ed era tanto povera che già nel 490 si era stati costretti a mantenerli con l’erba medica trasportata dalla madre patria. Quanto alla carica della cavalleria a Eritre, fu sicuramente la prima usata massicciamente nella II guerra Persiana, dal momento che nel 480 alle Termopili, l’unica battaglia terrestre di una certa significanza, essa non compare. Certamente durante la II Persiana vi furono scorrerie, saccheggi e incursioni; tuttavia, devo aggiungere, la caica di Eritre fu in assoluto la prima che gli Elleni avessero sperimentato nella loro storia, e dovette per loro essere terrificante. 25 Piero Pastoretto Vediamo adesso come si sviluppò la carica di Eritre. Erodoto riferisce che i Persiani, guidati dal loro comandante Masistio, non caricarono in massa ma per ‘squadroni’ (κατὰ τέλεα) e dunque per reparti bene ordinati e distinti, e aggiunge che il settore sottoposto a maggior pressione fu quello occupato dai Megaresi, che Erodoto definisce il punto più vulnerabile (ἐπιμαχώτατον), e tra i quali si verificarono gravi perdite50. In mancanza di ulteriori precisazioni possiamo supporre che il punto più ‘vulnerabile’ fosse quello usuale di tutti gli eserciti antichi, ossia il fianco destro. A Platea questo sarebbe stato coperto dal robustissimo contingente dei Lacedemoni, ma può essere ammissibile che, appena superati in colonna i valichi del Citerone e dopo essersi frettolosamente ordinati a battaglia, per avventura fossero i Megaresi, i primi (o gli ultimi) a sboccare dalle pendici del monte nella vallata dell’Asopo, a occupare il lato destro. Ed è peraltro altrettanto comprensibile che Masistio dirigesse il proprio attacco di preferenza verso il punto più delicato della formazione nemica, che per di più vedeva occupato da un contingente piuttosto debole51. In breve i Megaresi, sul punto di cedere, inviarono un araldo ai comandanti della Lega chiedendo rinforzi; e a questo punto si manifesta tutta la fragilità del sistema di comando dell’esercito ellenico. Erodoto, infatti, narra che Pausania dovette chiedere agli alleati se qualcuno fosse disposto a soccorrere i Megaresi e a sostituirsi a loro, ma tutti rifiutarono tranne gli Ateniesi, che inviarono un lochos di 300 uomini scelti sotto il comando di un tale Olimpiodoro, accompagnati da un numero imprecisato da arcieri 52. Quanto ai trecento “scelti” (λογάδες), è ipotizzabile che ogni esercito greco del V – IV secolo, almeno tra quelli più forti e importanti, avesse un corpo d’élite più o meno di quella consistenza. Ne fanno fede i Tebani a Leuttra e Cheronea e gli Spartani alle Termopili. Sull’importante particolare degli arcieri che accompagnano Olimpiodoro, ritengo però utile soffermarmi un istante. 50 IX, 21, 1. 51 I Megaresi, come si vedrà più avanti, erano 3.000 e a Platea avrebbero tenuto il fianco sinistro a immediato contatto con gli 8.000 Ateniesi di Aristide. 52 Adotto qui il termine λόχος, che non traggo da Erodoto, per definire in maniera piuttosto vaga un corpo di 300 opliti, ispirandomi al celebre ierόs lochos tebano, che aveva appunto questa consistenza. Avrei potuto usare anche, genericamente, taxis. Pare che tutti gli eserciti greci possedessero dei corpi scelti di trecento opliti. Questo numero, infatti, in Erodoto ricorre troppo spesso per essere casuale. 26 A Proposito di Platea Arcieri sciti fra gli Ateniesi Chi erano gli arcieri ateniesi? Avverto che la mia è un’ipotesi puramente deduttiva, che non mi risulta sia mai stata presa in considerazione. Nel capitolo 22 del Libro IX, quello che sto esaminando, si legge dunque che gli Ateniesi sostituirono i Megaresi e «si schierarono davanti agli altri Greci verso Eritre, prendendo con sé gli arcieri (τοὺς τοξότας προσκελόμενοι)». Erodoto sembra dare questa notizia con una certa trascuratezza, come se ai suoi tempi fosse noto a tutti che gli Ateniesi possedessero un corpo di arcieri. Poco più oltre, riporta che il cavallo niseo di Masistio fu colpito proprio da una freccia, scosse il suo cavaliere e questi cadde a terra venendo poi ucciso da un fante, forse un oplite53 o un arciere stesso. Ora, questi arcieri, benché Erodoto soltanto qui ne faccia cenno, dovevano ovviamente appartenere al contingente di Atene, ma sappiamo anche che gli Ateniesi schieravano, come tutti gli altri contingenti della lega, soltanto fanteria pesante e, per di più, che l’arma dell’arco non era affatto coltivata in Ellade se non per la caccia ai piccoli animali. Qualsiasi resoconto o immagine di caccia alle fiere di provenienza greca, infatti, ci descrive o mostra soltanto uomini armati di giavellotti; persino nel mito, l’arco era l’arma sacra di due sole divinità, Apollo e Artemide, mentre degli eroi omerici soltanto Odisseo fa strage di nemici (i Proci) con le sue frecce. Dunque, come spiegare la presenza di arcieri tra gli Ateniesi, mentre Erodoto nel libro IX non ce ne dà notizia per nessun altro contingente? I rapporti commerciali di Atene con le colonie elleniche del Chersoneso e del Lago Meotide (Cnido, Olbia, Tyras, Panticapeo) erano molto intensi già dalla fine del VI secolo. Queste colonie, a loro volta, erano per necessità in stretti contatti con le tribù scitiche dell’interno, tant’è vero che Erodoto, nel Libro IV (Melpomene), è in grado di scrivere un intero logos sui costumi degli Sciti, o almeno di quelli più limitrofi ai centri d’irradiazione della cultura greca e parzialmente ellenizzati. Tra le ‘importazioni’ di provenienza scitica, oltre a quella del pellame e dei metalli, soprattutto oro, vi era anche quella di arcieri, molto rinomati nell’antichità. Da tre commedie di Aristofane (Thesmoforiazuse, Lisistrata, Ecclesiazuse) apprendiamo che nell’Atene della metà del V secolo esisteva un corpo di 300 arcieri sciti54, poi passati addirittura a 1.000, che costituivano una sorta di corpo di polizia addetto all’ordine pubblico e soprattutto alla disciplina e alla difesa della Boulé (a esempio costringere a entrare i cittadini che indugiavano nell’agorà prima delle sedute o allontanare i disturbatori) 55. Inoltre, almeno a partire dalle guerre del Peloponneso, ogni trierarca e kybernétes ateniese era difeso da quattro arcieri sciti. Dunque mi pare sia possibile ammettere che i toxotài che accompagnavano il lochos degli Ateniesi in soccorso di Megaresi fossero costituiti da tutti o da una parte degli Sciti impiegati come forze dell’ordine in città, indipendentemente che essi conservassero in quella campagna militare lo status di schiavi pubblici privilegiati, come i banditori e gli impiegati dell’Ecclesìa, che fossero stati emancipati per l’occasione, o che fossero milizie del tutto mercenarie. Se la mia tesi è esatta, gli arcieri di Platea sarebbero stati il primo contingente di barbari usato da eserciti dell’Ellade nel corso della storia. E, se di nuovo non erro, in quell’occasione questi barbari si trovarono a combattere anche contro i propri compatrioti dalla parte opposta, dal momento che i Saci schierati con i Persiani null’altro erano se non Sciti anch’essi 53 Scrivo, e scriverò sempre di seguito oplite (ὀπλίτης) con la desinenza ionica, e non oplita, con la desinenza dorica in alfa. 54 Ancora una volta ritorna il numero trecento. 55 Cfr. a questo proposito, Paolo A. Tuci, Arcieri sciti, esercito e democrazia nell’Atene del V secolo a.C., in “Aevum”, 78, I (gennaio-aprile 2004), pp. 3-18. 27 Piero Pastoretto La breve cronaca della battaglia di Eritre fornita da Erodoto ci rende in particolare avvertiti delle evolute manovre adottate dalla cavalleria persiana. Essa non solo carica per squadroni, ma questi non si limitano allo scontro brutale: invece attaccano, indeboliscono la linea difensiva, si ritirano, si ricompattano, si riorganizzano e tornano ad attaccare in successive ondate, volteggiando e sostituendosi sul campo come sarebbe avvenuto venti secoli più tardi con il sistema del caracollo. Una tattica certo molto raffinata, consumata e oserei dire oltremodo moderna. Non certo improvvisata sul momento dal loro comandante, ma frutto di una lunga evoluzione precedente al V secolo, della quale tuttavia solo qui abbiamo la prima traccia56. Si desume quanto dico sopra dal seguente lucido passo che segue alla morte di Masistio. Il corsivo è ovviamente mio: «Quanto era avvenuto era sfuggito però agli altri cavalieri: non lo avevano visto cadere da cavallo e morire e, mentre si voltavano indietro e si ritiravano, non si accorsero di quanto era accaduto. Ma quando si furono fermati, ne sentirono subito la mancanza, poiché non c’era nessuno che li mettesse in ordine (οὐδείς ἦν ὁ τάσσων); compreso quanto era avvenuto, incoraggiandosi l’un l’altro, tutti lanciarono i cavalli per recuperarne almeno il cadavere.» 57 Dal passo si deduce con molta chiarezza che, venuto meno il comandante e regista dell’attacco, la cavalleria persiana perde l’esemplare coordinamento che aveva mantenuto fino a quel frangente, gettandosi in maniera confusa e caotica sulle schiere greche e venendo proprio per questo rigettata indietro. Da successivi altri particolari ricaviamo, inoltre, due ulteriori preziose notizie: che la cavalleria comandata da Masistio va intesa come un corpo di cavalleria pesante e corazzata, in un certo senso una precorritrice dei catafratti. Infatti Erodoto non menziona alcun lancio di frecce da parte dei Persiani, cosa invece tipica delle cavallerie leggere barbariche58; e, quando descrive la scena di Masistio disarcionato e ucciso da un fante, ricorda che fu prima ripetutamente colpito, ma rimase illeso poiché sotto la lunga veste di porpora indossava un’armatura a scaglie, e solo alla fine venne trafitto in un occhio. Che poi l’armatura fosse effettivamente d’oro come dice Erodoto (θώρηκα εἶχε χρύσεον), un metallo non troppo adatto a resistere al ferro delle lance o delle spade, potrebbe anche essere messo in dubbio. Se comunque Masistio indossava la lorica preziosa di un capo persiano, verosimilmente anche i suoi uomini facevano altrettanto con armature meno pregiate ma senz’altro più efficienti. Caduto Masistio la battaglia di Eritre non ha più storia e si conclude con una scena parecchio movimentata e ispirata ancora una volta ai canoni epici dell’Iliade, il più 56 Una tattica molto simile troviamo, centocinquanta anni dopo, nelle manovre della cavalleria persiana a Isso. Cfr. P. Pastoretto, Polibio vs. Callistene, in arsmilitaris.org. 57 IX, 22, 3. 58 Arcieri a cavallo, e dunque cavalleria leggera, spunteranno più tardi durante la battaglia di Platea. 28 A Proposito di Platea classico dei quali è la mischia sul cadavere dell’eroe morto in battaglia 59. Secondo la ricostruzione di Erodoto, quanto più i Persiani si accaniscono nel tentativo di recuperare il corpo del loro generale60, tanto più accorrono gli altri Elleni a dar man forte agli Ateniesi, e alla fine della zuffa i Persiani sono costretti a ritirarsi lasciando le spoglie del loro comandante nelle mani del nemico. 59 Si rammentino, tra le tante, la furibonda mischia intorno al corpo di Sarpedonte del Libro XVI (che ha ispirato, tra l’altro, lo splendido cratere di Euforione) e quella per i cadaveri di Euforbo e di Patroclo del XVII. 60 Si può immaginare, scendendo da cavallo e combattendo appiedati. 29 Piero Pastoretto Le novità di Eritre Occorre a questo punto che mi soffermi a ‘leggere’ un po’ più approfonditamente la carica di Eritre alla luce della mia tesi iniziale. Nella storia militare l’impiego tattico della cavalleria nello scontro diretto contro forze avversarie si è diversificato in due modi: la carica contro altre cavallerie e la carica contro le fanterie. Nel primo caso si adottava una tattica d’urto molto semplice, addirittura intuitiva e sanguinosa, lanciando i cavalli a tutta velocità contro i cavalieri nemici, i quali non avevano altra scelta che fuggire o fare altrettanto. Nella seconda circostanza si sceglieva un approccio più raffinato e complesso, sostanzialmente identico a quello che ho appena dedotto dal testo erodoteo della carica di Eritre. Infatti, poiché massicce formazioni di fanteria ben inquadrate e irte di lance o, più tardi, di armi da fuoco, erano impenetrabili ai cavalli, che rifiutano di calpestare gli uomini, l’unico sistema evoluto era quello che ho definito del caracollo: cariche successive per squadroni, tese a intaccare via via più profondamente le file avversarie senza andare a infilzarsi sulle lance o sulle baionette nemiche. Anziché un urto frontale, si preferiva dunque cavalcare parallelamente alle linee avversarie, in modo da colpirle da una distanza minima con le sciabole o le lance. La differenziazione di queste due tattiche tuttavia non fu affatto immediata nei tempi antichi, ma frutto di secoli di esperienze e di maturazione, poiché l’uso intuitivo che l’uomo fa del suo cavallo in guerra è quello di scagliarlo ventre a terra contro il nemico appiedato per calpestarlo. Ebbene la carica di Eritre, lanciata dalla cavalleria pesante di Masistio contro una compatta formazione di fanteria altrettanto pesante come la falange dei Megaresi, ostenta già questo uso accorto dell’attacco contro le fanterie ben schierate e quindi si fa apprezzare per un alto grado di finezza tattica. Un sofisticato grado di finezza che le cariche di Alessandro, di un secolo e mezzo posteriori, ancora non avrebbero posseduto, in quanto le sue cavallerie pesanti o leggere caricavano con l’identica irruenza del ‘ventre a terra’ tanto le cavallerie quanto le fanterie persiane. Grado di finezza, infine, che non osserviamo neppure nelle guerre del IV secolo che videro contrapposte Sparta e Tebe. In conclusione del discorso, a Eritre abbiamo la prima testimonianza storica di un uso avveduto e evoluto della cavalleria; un uso che si sarebbe universalmente affermato e consolidato soltanto nei raffinati manuali di tattica a partire dal III secolo e che vide in Annibale il primo stratega a metterle diffusamente in pratica. Ciò naturalmente non vuol dire che a Eritre era sorta l’alba dell’evoluzione tattica della cavalleria; né che il sistema d’attacco adottato da Masistio fosse una novità scaturita dal suo genio come Atena dalla testa di Zeus. Sarebbe ridicolo solo il pensarlo. Intendo affermare semplicemente che questa battaglia combattuta sulle propaggini del Citerone è stata la prima in assoluto a esserci stata tramandata, che ci fornisce l’esempio di un uso accorto e molto moderno della cavalleria e che questo esempio, anche se non immediatamente, avrebbe accompagnato e favorito l’evoluzione generale della guerra da una fase di immobilismo artistico-ripetitivo ancorata alla tradizione, a una fase scientifico-polemologica ispirata all’innovazione. Il che è esattamente quanto sostenevo nel mio saggio sull’Arte della guerra. 30 A Proposito di Platea Lo scontro del primo giorno della battaglia di Platea fu molto acceso e mise in seria crisi una parte dello schieramento ellenico. Ho già ricordato, però, che coinvolse un settore limitato dell’esercito della lega, e probabilmente coinvolse soltanto l’élite, anche se tutta, della cavalleria persiana; forse proprio quei 2.000 cavalieri scelti menzionati da Erodoto nel libro VII. Si trattò di una sorta di battaglia d’incontro, un approccio, un’avvisaglia di ciò che sarebbe successo quando i Persiani avrebbero messo in campo veramente tutte le loro forze. Si concluse comunque con una vittoria parziale, e di significato soprattutto morale, della Lega Panellenica. Terminata la battaglia, quasi a sottolineare che la conduzione dell’esercito ellenico era sempre collettiva e mai unitaria, Erodoto usa il verbo «decisero» di scendere dalle propaggini del Citerone per sboccare nella pianura di Platea, molto più adatta per accamparsi e soprattutto molto più ricca d’acqua. La mossa successiva dell’esercito panellenico fu dunque di portarsi alla fonte Gargafia e porre gli accampamenti tra questa e il tempietto dedicato all’antico eroe plateese Androcrate. Per i mitografi, Gargafia era la fonte in cui Artemide e le sue ninfe furono spiate bagnarsi ignude dal cacciatore Atteone. 31 Piero Pastoretto Il monte Citerone A lt o p oco p iù d i 1. 40 0 me t ri, il “b o sco so ” Cit e ron e ricco d ’a cqu e è leg a to in d isso lu b ilme n te a l cu lt o dio n isia co e a l ciclo te ba no . Su l Cit e ron e e ra sta t o a bb an do n at o E d ip o , men t re su l Ficio , u n ’a p pe nd ice d e l Cit e ron e , la S f in g e p rop o ne va il p ro p rio d ile mma a ch i vi t ra n sit a va . S u l Cit e ron e Nio be ave va p e rso i suo i do d ici f ig li, P en t éo e ra sta t o d ilan ia to da lle b acca nt i e A tt eo n e da i suo i st e ssi ca n i in cita t ig li con t ro da A rte m ide . Su l Cit e ron e , in f ine , il d ivino O rf eo amma n siva con il can t o le f ie re ed An f io n e ne f a ce va mu o ve re le p ie t re con la lira pe r co st ru i re le mu ra di Te b e . S e co nd o u no d e i ta nt i mit i, ad d irit tu ra , Cit e ron e sa reb b e sta to un a nt ico re d i P la te a, f ra t e llo d i E licon a . Con f in e na tu ra le t ra l’A t t ica e la Be o zia e la rg o a pp en a se i ch ilo met r i, n on e ra d i pe r sé u n g ra ve o sta co lo a l pa ssag g io d i e se rc it i in a rmi, in qu an t o la via che co ng iu ng e va A te ne a Te be p a ssa nd o p e r P la te a co rre va piu t to sto a ge vo lmen t e a tt ra ve rso i su o i va lich i. 32 A Proposito di Platea Data imprecisata di settembre. 2° giorno: a Gargafia, contesa fra gli Elleni «Allora, mentre si schieravano, ci fu un lungo alterco fra Tegeati e Ateniesi. Pretendevano entrambi di occupare l’altra ala, adducendo imprese sia recenti che antiche». Con queste parole si apre il capitolo 26 del libro IX. Parole che necessitano però di una certa interpretazione. Erodoto parla effettivamente di schieramento ed è anzi molto preciso nell’uso del termine: scrive in effetti ἐν τῇ διατάξι, “durante lo schieramento”. Tuttavia la prima impressione che ne ricaviamo, ovvero quella dell’esercito che va ordinando le proprie schiere di fronte al nemico, è profondamente sbagliata. Qui si deve intendere invece come la semplice scelta di ordine e disposizione sul terreno dei contingenti collegati e delle loro relative tende in vista della futura battaglia, allorquando il settore precedentemente occupato da ogni esercito cittadino sarebbe effettivamente diventato un settore dello schieramento totale della Lega sul campo. In sostanza, la scena che Erodoto qui rappresenta è quella di una contesa che sorge per una mera questione di prestigio e di onore fra poleis al momento alleate, ma che non riescono a dimenticare la tradizionale rivalità e la secolare gelosia che le divideva nel frammentario microcosmo del mondo politico ellenico. A questo punto sorge spontaneo considerare che nell’esercito della Lega mancava qualsiasi forma di pianificazione per la futura battaglia, dal momento che si discuteva sullo schieramento soltanto quando si aveva praticamente l’esercito nemico di fronte, a poche centinaia di metri di distanza, oltre l’Asopo. Il che non depone a favore dello ‘stato maggiore’ ellenico e qualifica la sua campagna in Beozia ancora al livello di uno stadio intuitivo e ripetitivo del passato e non certo in quello di una strategia evoluta accompagnata da una tattica altrettanto sviluppata. Comunque, la prima impressione che offre la lettura del passo è che qui ci troviamo di fronte ad una questione di puntiglio, dal momento che il vanto maggiore al quale una qualsiasi taxis poteva aspirare nell’antichità era l’onore di tenere l’estremo fianco destro, il più delicato e il più bisognoso di spiriti forti e valorosi, in quanto non protetto al lato destro dagli scudi61. Riflettendo meno affrettatamente, però, si osserva che Erodoto ci sta parlando di una disputa tra Tegeati e Ateniesi per tenere l’altra ala (τὸ ἕτερον κέρας), ossia il meno ‘nobile’ ma pur sempre prestigioso fianco sinistro; la qualcosa fa sospettare che presumibilmente la posizione ‘nobile’ sul campo fosse già stata aggiudicata ai Lacedemoni fin dall’inizio della campagna, anche in virtù della forza del loro contingente, che era il più numeroso di tutti. Quanto detto impone adesso alcune osservazioni. La Lega Panellenica era indubbiamente una coalizione di pari, ma non di uguali, in quanto il comando generale, per quanto si rivelasse in verità assai labile, spettava ovviamente a chi forniva i contingenti maggiori e a chi si sobbarcava agli oneri più gravi. Nulla da obiettare su questo punto, poiché così accade anche ai giorni nostri. La cos, 61 I re di Sparta, ad esempio, in battaglia si collocavano regolarmente all’ala destra. 33 Piero Pastoretto però, si aggravava dal momento che gli Stati più forti dell’Ellade erano due e non certo teneramente amici l’uno dell’altro: Sparta e Atene. La latente rivalità tra le due polis, e di conseguenza tra i loro polemarchi sul campo, doveva dunque essere oggetto di sottili e molto delicati compromessi e negoziati, tanto più che, se la prima era più potente sulla terra, la gran parte della potenza marittima della Lega apparteneva alla seconda. Ciò nonostante, all’Artemisio il navarca Euribiade e i Lacedemoni avevano preteso il comando della flotta e gli Ateniesi l’avevano concesso, nonostante la loro città schierasse 127 navi contro soltanto 10 di Sparta. A Salamina viceversa fu Euribiade a diventare il secondo e l’ateniese Temistocle ad assumere il comando. A Platea pare che il comandante in capo, ma sarebbe più preciso definirlo il primus inter pares, fosse di nuovo un lacedemone, Pausania, mentre l’ateniese Aristide fungeva da ‘brillante secondo’. Così si spiega il fatto che nessuno contestasse agli Spartani e ai loro perieci di tenere l’ala destra e, ovviamente, a Pausania di comandarla. La disputa fra Tegeati ed ateniesi ha questo di interessante: che Tegea, insieme a Mantinea e Orcomeno62, era la città più importante dell’Arcadia, in un certo senso ne era la capitale, che aveva combattuto fino al VI secolo contro Sparta e poi, sconfitta, era entrata nella Lega Peloponnesiaca e vi era rimasta per almeno due secoli fedele alleata dei suoi antichi nemici. A prima vista appare senza dubbio strano che i Tegeati, peloponnesiaci, reclamassero di occupare e comandare il fianco diametralmente opposto a quello dei Laconi63. La pretesa era effettivamente speciosa, ma Erodoto ce ne offre una spiegazione sensata: la richiesta derivava dal fatto che in tutte le spedizioni precedenti della Lega Peloponnesiaca i Tegeati avevano effettivamente occupato, e dunque comandato, il fianco sinistro dell’esercito. Ciò non toglie che l’argomentazione rimanesse ingannevole (‘sofistica’, oserei dire), poiché quella a cui partecipavano anche i Tegeati nel 479 era una guerra panellenica contro un comune nemico e non certo una campagna peloponnesiaca; se dunque il posto d’onore alla destra e il comando spettavano concordemente ai Lacedemoni che schieravano un numero di uomini superiore a tutti gli altri, il fianco sinistro opposto a rigore di logica spettava alla seconda potenza militare in campo, cioè Atene. Furono gli stessi Spartani a decidere, molto, diplomaticamente, la contesa che minacciava di dividere l’esercito nel momento meno opportuno, e ad acclamare che il comando dell’ala sinistra doveva essere affidato agli Ateniesi. E con altrettanta perspicace avvedutezza vollero che i Tegeati si schierassero all’ala destra accanto a loro stessi, condividendone così l’onore64. 62 Da non confondersi con l’altra Orcomeno in Beozia. 63 Erodoto, in I (Clio), 48, narra come prima della vittoria sugli Arcadi, gli Spartani portassero i capelli corti ed i Tegeati, invece, lunghi; e che viceversa, una volta sottomessi gli Arcadi, i due popoli avessero scambiato il modo di acconciarsi la capigliatura: i Tegeati per il lutto della sconfitta, ed i Lacedemoni in ricordo della vittoria. 64 Mi sembra opportuno aggiungere che, di fatto, il contingente che forniva più uomini ad un’ala ne esercitava pure il comando, poiché gli altri contingenti minori erano scelti fra i suoi tradizionali alleati. A Platea, come vedrò tra poco, accanto agli Ateniesi stavano i Megaresi e gli Egineti, tutti 34 A Proposito di Platea Concludo argomentando su una possibile domanda: Erodoto si dilunga per due capitoli, il 26 ed il 27, ad illustrarci come gli Elleni discutessero animatamente per stabilire a chi spettasse la guida delle due ali; e cosa ci dice del centro? Assolutamente nulla, dal momento che un centro greco non esisteva e l’ancora “artistico” o “primitivo” esercito panellenico si disponeva su un’unica linea continua senza alcuna suddivisione e distinzione interna. Ora, qualsiasi segmento di retta, come quello rappresentato graficamente dall’esercito della Lega, ha di necessità due estremità fisiche, quelle che fino a ora ho impropriamente chiamato ali, e più correttamente fianchi. Non ha però un centro che sia qualcosa di più o di diverso da un punto geometrico equidistante dagli estremi. E dunque non aveva neppure senso, per l’esercito della Lega, parlare di un comando del centro. La realtà sul campo era piuttosto la seguente: che tutta la parte destra dello schieramento era costituita dai Peloponnesiaci, mentre tutta la parte sinistra, a partire da un immaginario centro, era occupata dai Greci del continente. popoli subordinati ed un tempo sconfitti da Atene; e dal lato opposto, accanto ai Lacedemoni, gli antichi nemici ed ora alleati opliti di Tegea. 35 Piero Pastoretto Corna e ali Breve considerazione semantica. Erodoto usa, per definire il fianco destro o sinistro dello schieramento, la voce κέρας, che nell’uso comune in greco significa “corno”. Ora la scelta di questo termine in ambito militare spiega il fatto che nell’esercito ellenico degli inizi del V secolo non esistesse un centro identificabile, dal momento che le corna (o meglio ‘i corni’, non trattandosi di animali) sono solo due, costituiscono un tutt’uno rigido e non v’è certo un terzo corno nel centro della fronte. Più tardi, in epoca macedone, l’ala sarebbe stata chiamata non più kéras, ma télos. Altra cosa invece è la parola latina ala, anch’essa mutuata da un organismo animale. L’ala di per sé non soltanto è mobile mentre il corno no; ma implica anche che vi sia un centro, ovvero il corpo del volatile a cui le ali sono attaccate e di cui costituiscono le appendici. Il termine ala dunque è appropriato per definire gli schieramenti più progrediti successivi alla seconda guerra Persiana, quando l’ordinamento sul campo era divisibile in tre parti e non in due, e quando le ali dovevano essere essenzialmente manovriere, mentre la funzione richiesta al centro doveva essere eminentemente quella di tenere e resistere. 36 A Proposito di Platea Schema dello spostamento degli Elleni da Eritre al fiume Asopo. Le indicazioni della cartina sono però errate. Gli Spartani occupano in realtà il fianco destro e anche la fonte Gargafia deve stare sulla destra Rassegna delle forze della Lega Il lungo discorso che ho dedicato alla contesa fra Tegeati e Ateniesi nel secondo giorno delle complesse manovre che precedettero Platea, potrebbe sembrare sin troppo fine a se stesso, se non fosse che, proprio da questa controversia scaturisce in Erodoto la distribuzione definitiva dei contingenti greci sul campo ed i numeri degli opliti di ciascun contingente. Distribuzione che venne rispettata anche nelle successive marce, nei successivi cambiamenti di fronte e nel grande scontro finale della battaglia vera e propria. E per di più: distribuzione in base alla quale anche Mardonio divise i suoi soldati nel modo in cui avrebbero affrontato gli Elleni nel giorno fatale alle armi degli Achemenidi. Comincio per ordine. Possediamo tre diverse redazioni dell’elenco delle città-stato che parteciparono alla coalizione panellenica: quella della Colonna Serpentina65, quella di Erodoto VII-IX e quella del geografo e viaggiatore Pausania66. Tutte e tre differiscono nei particolari circa 65 La Colonna Serpentina fu offerta al santuario di Delfi nella primavera del 478 dai vincitori di Platea e reca l’iscrizione dei popoli che avevano aderito alla Lega Panellenica. Essa faceva parte di un tripode d’oro collocato sopra una colonna di bronzo in forma di spire di un serpente con tre teste. Il tripode è scomparso, la colonna invece esiste ancora oggi a Costantinopoli, dove fu trasportata da Costantino nel IV secolo, mentre nel museo della città si conserva anche una delle tre teste. Di quest’offerta a Apollo delfico parla Erodoto in IX, 81, 1. 66 Pausania, Periegesi della Grecia (Ἑλλάδος περιήγησις), V, 23, 1-2. L’opera, come si sa, è del II secolo d.C.. 37 Piero Pastoretto la presenza o no dei popoli minori. Mi limiterò qui, naturalmente, al solo elenco di Erodoto, che sembra essere il più completo, comprendendo anche città assenti nelle altre due liste. Gli Stati membri della coalizione panellenica secondo le Storie erano in tutto 39. Non tutti però parteciparono alle cinque battaglie che si verificarono nella II Persiana, e cioè Termopili, Artemisio, Salamina, Platea e Micale. Gli Ateniesi, ad esempio, non combatterono certo alle Termopili, mentre i Crotoniati mandarono un contingente soltanto a Salamina. A Platea ne erano presenti ventiquattro. Di tutti i popoli della Lega i Lacedemoni furono gli unici a prendere parte a tutte e cinque le battaglie. Al capitolo 28, dedicato insieme al 26 e 27 al secondo giorno della campagna, Erodoto fornisce la disposizione dei diversi contingenti presenti a Eritre secondo la loro diposizione partendo da destra; disposizione che si manterrà immutata anche al momento della battaglia di Platea. Qui io per necessità grafiche sono costretto a proporli in un ordine verticale ed evito di menzionare le fantomatiche fanterie leggere degli iloti e degli skenophori, limitandomi ai soli opliti67. 67 Come si avrà occasione di notare, gli Argivi non compaiono né tra i popoli della Lega, né tra gli alleati dei Persiani. Argo era un’antichissima rivale di Sparta, e infatti non solo Mardonio aveva tentato di attirarla dalla sua parte, ma Erodoto al capitolo 12 narra che gli Argivi avevano avvisato Mardonio della partenza di Pausania e dei Peloponnesiaci verso l’Attica. Tuttavia la città si era mantenuta neutrale. 38 A Proposito di Platea Elenco dei contingenti greci Lacedemoni 10.000 (5.000 spartiati e 5.000 perieci) Tegeati 1.500 Corinzi 5.000 Potideati 300 Arcadi di Orcomenio 600 Sicioni 3.000 Epidauri 800 Trezeni 1.000 Leprei 200 Micene e Tirinto 400 Fliasi 1.000 Ermionei 300 Eretria e Stirea 600 Calcidesi 400 Ambracia 500 Leucade e Anattorio 800 Palei di Cefalonia 200 Egineti 500 Megaresi 3.000 Plateesi 600 Ateniesi68 8.000 ___________________________ Totale 38.70069 68 Non è chiaro se negli 8.000 fossero compresi gli arcieri. 69 Mancano i contingenti di Mantinea e di Elea, che giunsero a battaglia conclusa e si dolsero amaramente del loro ritardo. Quelli di Mantinea mandarono addirittura in esilio i loro strateghi. IX, 77, 3.Mancano anche i Tespiesi, il cui modesto contingente, 700 opliti, si era sacrificato al completo alle Termopili. 39 Piero Pastoretto Le cose però qui si complicano, poiché a queste forze esclusivamente oplitiche Erodoto, come ho già riferito mettendolo in forte dubbio, al capitolo 29 aggiunge tanti fanti leggeri “adatti a combattere” (σύν… ψιλοῖσι τοῖσι μαχίμοισι), costituiti dagli iloti e dai servitori, da raggiungere il numero di 110.000 (ἕνδεκα μυριάδες) meno 1.80070. Sorvolando sull’inconsueto modo di esprimere un numero: «centodiecimila meno milleottocento» invece che “centottomiladuecento”, Erodoto aggiunge che al campo vi erano però esattamente 1.800 Tespiesi «sopravvissuti» (περιεόντες). Ora, per «sopravvissuti» si può intendere tanto i superstiti delle Termopili, dove i Tespiesi avevano perduto 700 uomini (VII, 202 e 222), quanto i cittadini scampati alla distruzione di Tespie, incendiata dai Persiani insieme a Platea (VIII, 50, 2). Escludo a priori che fossero degli scampati alla strage delle Termopili, poiché Erodoto è chiaro nell’affermare che tutti i Tespiesi vi perirono uccisi dalle armi persiane. Deve perciò trattarsi di cittadini maschi sopravvissuti all’incendio della loro città, privi persino di quel sommario armamento che li avrebbe fatti assimilare ai 69.500 psilόi “adatti a combattere” degli iloti e degli schiavi privati, in quanto non avevano neppure uno scudo (ὄπλα δέ οὐδ’οὗτοι εἶχον). Verosimilmente, dunque, i 1.800 Tespiesi, la cui presenza faceva tornare esatto fino al decimale il numero di110.000 Greci a Platea, erano cittadini inadatti alle armi (altrimenti sarebbero morti a Platea o, schierati come i Plateesi, insieme agli altri opliti della Lega), perché troppo giovani o troppo vecchi. L’artificiosità della narrazione erodotea, che vuol a forza far tornare il conto dei 110.000, mi appare fin troppo evidente. Fermi restando questi dubbi, Erodoto al capitolo 31 aggiunge che tra gli Elleni vi erano anche alcuni Focei71 che si erano rifiutati di militare sotto gli Achemenidi e che anzi facevano scorrerie contro l’esercito di Mardonio ed i contingenti greci a lui alleati. Non ne specifica il numero, ma proprio per questo dobbiamo supporre che fossero poche decine. Cercando di razionalizzare al massimo il complicato discorso di Erodoto sul numero degli Elleni, possiamo raggiungere queste cifre certe: a. nel campo della pianura di Platea erano presenti 38.700 opliti provenienti da ventiquattro popoli e città; 70 Erodoto, ripeto, li calcola a 69.500. 71 Uso il termine Focei anziché il più comune Focesi poiché più consono all’originale greco. Rimango nel dubbio se qui si tratti di abitanti della Focide, compatrioti quindi dei Focei delle Termopili che però paradossalmente militavano insieme ai Beoti per il Gran Re, oppure di opliti provenienti dalla città di Focea nella Ionia. 40 A Proposito di Platea b. ipotizzando che non vi fosse alcuna soluzione di continuità fra i contingenti e che la distanza tra oplite ed oplite fosse quella consueta di circa 60-65 cm, se la falange era profonda otto file la lunghezza dello schieramento superava come minimo gli 800 metri; se di dodici, doveva essere di circa 540; c. di questi 38.700 opliti, 11.500 (Spartani e Tegeati) occupavano il fianco destro ed altri 11.600 (Ateniesi Megaresi e Plateesi) quello sinistro. Se ne deduce che il settore centrale della lunga linea dello schieramento della Lega, composto dal pulviscolo di tutti gli altri diciannove popoli, contava 15.600 uomini; d. le dimensioni delle tre parti ideali dello schieramento (11.600, 15.600, 11.500) erano dunque abbastanza omogenee: tuttavia il ‘centro’, essendo composto da una somma di contingenti minori, doveva essere necessariamente meno coeso e dunque più fragile dei fianchi. e. tutti costoro, con l’aggiunta degli iloti (in ragione di sette per ogni lacedemone), dei portatori (in ragione di uno per ogni oplite), dei Tespiesi reduci non si sa bene da dove e dei Focei ribelli alla sudditanza con il Persiano, il campo degli Elleni ospitava qualcosa di più di 110.000 uomini; f. Erodoto afferma che skenophori e iloti costituivano una fanteria leggera (psilόi); g. io al contrario avanzo la tesi che l’unica fanteria leggera veramente adatta a combattere a Platea fosse quella degli arcieri che militavano con gli Ateniesi e che erano intervenuti nello scontro di Eritre. Tutto il resto dei cosiddetti ψιλοὶ erano in grado, al massimo, di difendere se stessi. Data imprecisata di settembre. 3° giorno: sull’Asopo, rassegna e schieramento dei Persiani Il capitolo 31 si apre con la notizia che gli Elleni, dopo aver stabilito il loro schieramento di battaglia, e aver lasciato Eritre alle spalle, avanzano oltre la fonte Gargafia e pongono il loro accampamento di fronte alla riva meridionale dell’Asopo72. A questo punto Erodoto torna a occuparsi dei barbari i quali, quando ebbero finito di piangere Masistio, uscirono dai loro accampamenti e si presentarono anch’essi sull’Asopo. Poiché Erodoto non segnala che l’abbiano attraversato, e peraltro sarebbe stato illogico con il nemico già pronto a riceverli, non rimane da supporre che si siano 72 Quando si parla di accampamento greco non si deve assolutamente pensare a un insieme di tende. L’oplite dormiva all’aperto sul suo stroma, un materassino che l’attendente portava arrotolato dentro lo scudo, o al massimo, se il clima era inclemente, sotto una capannuccia di frasche costruita dal suo servo. 41 Piero Pastoretto arrestati sulla riva settentrionale del fiume, di fronte all’accampamento greco, e lì abbiano preso posizione. In assenza di precise indicazioni dello storico, decido di collocare questa manovra di Mardonio nel terzo giorno dall’inizio della campagna, cioè all’indomani della contesa fra Tegeati ed Ateniesi, della dislocazione degli Elleni presso la fonte Gargafia e della loro successiva marcia fino all’Asopo. Ciò per due motivi: in primo luogo le cerimonie di lutto per la morte di Masistio, che dovettero durare almeno un giorno e una notte 73; secondariamente perché Mardonio, come scrive Erodoto, dislocò e distribuì con oculatezza le proprie truppe in funzione dello schieramento nemico per popoli, che dunque all’Asopo doveva già essere consolidato, ordinato ed evidente. Ora, poiché gli Elleni si erano anche spostati dalla fonte Gargafia aIla riva meridionale dell’Asopo, un tale ordine non poteva essere possibile il giorno immediatamente successivo alla battaglia di Eritre. Ho scritto più sopra ‘con oculatezza’ poiché la ratio di Mardonio in quell’occasione fu quella di soppesare il diverso valore bellico sul campo dei vari popoli greci e di contrapporre a ciascuno delle truppe di pari livello e attitudine al combattimento. Colto con sagacia che i due punti più forti della disposizione greca erano il ‘corno’ destro e sinistro, tenuto il primo dai Lacedemoni insieme ai Tegeati (11.500 uomini), ed il secondo dagli Ateniesi insieme ai Megaresi e ai Plateesi (11.600 uomini), contrappose a questi delle forze di pari peso ed esperienza militare, ma più numerose. Ai Lacedemoni contrappose i migliori reparti dei Persiani, mentre quelli dei Medi, sui quali faceva minore affidamento, furono posti di fronte ai Tegeati. E poiché il numero dei Persiani era molto superiore a quello degli Spartani e dei Tegeati messi insieme, schierò i suoi «su più file». Quest’ultimo inciso di Erodoto, «su più file», merita un minimo di riflessione. Che i Persiani si disponessero su più file appare persino ozioso menzionarlo. Dunque è necessario usare un minimo di ermeneutica per capire il significato del messaggio. Anche Spartani e Tegeati si schieravano su più file, otto o dodici. Dunque l’espressione di Erodoto va intesa come un numero di file superiore a quello della comune falange oplitica. Non è dato sapere quante, ma di certo più profondo delle dodici greche o delle tradizionali dieci file della fanteria persiana, e dunque è necessario dedurre dalle parole di Erodoto che lo schieramento persiano al fianco sinistro era molto più massiccio di quello ellenico. Quanto al proprio fianco destro, opposto ad Ateniesi, Megaresi e Plateesi, Mardonio adottò una strategia altrettanto convincente. Pose in quel punto le milizie greche alleate agli Achemenidi, che adottavano lo stesso tipo di falange e adottavano una panoplia oplitica identica a quelli della Lega che avevano di fronte. I contingenti usati a questo scopo, oltre ai Saci che effettivamente non combattevano alla maniera greca e che 73 Erodoto in IX, 24 narra che, secondo il costume barbaro, tutto l’esercito compreso Mardonio si rase il capo e furono rasati anche i cavalli e gli animali da soma, mentre tutti gli uomini si abbandonavano a lamenti infiniti. 42 A Proposito di Platea furono messi lì probabilmente solo per aumentare il peso numerico del fianco destro, furono i Beoti, i Locresi, i Mali, i Focei (1.000) 74, i Macedoni e i Tessali con alcuni contingenti di loro alleati. Mardonio indubbiamente contava soprattutto sull’atavica inimicizia di alcuni di quei popoli con Atene. La Beozia ne era un’antica e tradizionale rivale, la Locride ne sopportava a malapena l’egemonia; con la Tessaglia e la sua sottomessa Malide i rapporti non erano mai stati buoni neanche ai tempi dell’Amfizionia Delfica75. Lo schieramento dei Persiani descritto in questo capitolo rimase immutato anche nella battaglia di Platea, nonostante le ripetute manovre e contromanovre che la precedettero. Il loro esercito, secondo la descrizione che ce ne dà Erodoto, era diviso in sei sottosettori, che ovviamente corrispondevano ad altrettante sezioni dell’esercito ellenico. Qui appresso ne riporto lo schema76. Saci, Beoti, Locresi Mali, Macedoni Saci Indi Battriani Medi i Persiani Corinto Potidea Orcomeno Sicione Spartani Tegeati FIUME ASOPO Ateniesi Megaresi Plateesi Ambracia Anattorio Leucade Palei Egineti Ermione Eretria Stirea Calcide Epidauro Trezene Lepreo Tirinto e Micene Fliunte Nel successivo capitolo 32 Erodoto avvisa di aver elencato soltanto i popoli più importanti schierati da Mardonio, ma che insieme a questi vi erano anche Frigi, Misi, Traci, Peoni ed Egizi chiamati Ermotibi e Calasiri. Lo storico aveva già parlato di 74 Il numero dei Focei è l’unico a essere riportato da Erodoto a proposito di tutti i popoli greci che combattevano dalla parte dei Persiani: o perché una parte di quel popolo militava a favore della Lega Panellenica; oppure perché l’autore, durante le sue indagini era riuscito ad avere informazioni certe solo riguardo alla consistenza numerica di questo contingente. 75 Nell’Amfizionia Delfica, cui partecipavano anche gli Ioni oltre che i Dori, la Tessaglia e i popoli a essa alleati detenevano la maggioranza assoluta dei voti, quattordici su ventiquattro. Si noti che, anche se Erodoto non ne riporta il nome probabilmente per la loro scarsità numerica, al fianco destro dei Persiani combatterono altri popoli sottomessi ai Tessali. 76 Avverto che alternativamente e per variare, tanto qui quanto nel catalogo delle forze della Lega Panellenica, riporto talvolta i nomi delle città, talaltra quelli dei popoli. Erodoto menziona solamente i popoli e il nome degli abitanti (ad es. i Fliasi per gli abitanti di Fliunte). 43 Piero Pastoretto Ermotibi e Calasiri a proposito della spedizione di Cambise in Egitto come di una delle sette classi in cui erano divisi gli Egiziani, specificando che quelli erano i nomi della corporazione dei guerrieri, che venivano reclutati in due serie di appositi distretti (nomoi) del Paese, una per gli Ermotibi e una per i Calasiri77. Qui Erodoto aggiunge però un particolare interessante. Dopo averli definiti «portatori di machaira» (μαχαιροφόροι) e gli «unici guerrieri» (μοῦνοι μάχιμοι) tra gli Egizi, aggiunge testualmente: «[Mardonio] li fece sbarcare dalle navi quando era ancora al Falero, essendo soldati di marina (ἐόντας ἐπιβάτας); infatti nell’esercito che giunse ad Atene con Serse non erano schierati Egizi». Mi sembra utile soffermarmi sulla traduzione che, ricordo, è di Augusto Fraschetti, del termine epibátas. La voce greca epibati indica dei comuni opliti imbarcati sulle triere per difesa e abbordaggio. Nulla dunque a che vedere con una vera fanteria di marina come ad esempio quella romana dei classiarii. In questo caso però, visto che Ermotibi e Calasiri erano sbarcati al Falero e non erano arrivati in Grecia con le truppe di terra che avevano seguito Serse, possono darsi due interpretazioni: . o gli Egizi furono semplicemente trasportati dall’Egitto via mare come una qualsiasi fanteria, sul tipo di quella sbarcata a Maratona o di quella naufragata all’Athos; ed in questo caso eόntas epibátas va correttamente tradotto con “soldati imbarcati”78; . oppure essi costituivano effettivamente un corpo di fanteria di marina destinato a operazioni anfibie; e allora la versione “soldati di marina” di Fraschetti è opportuna. Personalmente propendo per la seconda ipotesi, dal momento che nel primo ventennio del V secolo la trasformazione di quella che io chiamo arte militare in scienza militare o polemologia era appena agli inizi e la rivoluzione della differenziazione e della specificazione dei ruoli era ancora lontana da venire. Durante le guerre del Peloponneso si osservano soltanto due diversificazioni: di tipo terrestre tra fanteria leggera e pesante e cavalleria leggera e pesante con compiti tattici diversi; e di tipo marittimo fra soldati imbarcati ed equipaggio di marinai e rematori. Il concetto di una vera differenziazione tra fanteria terrestre e fanteria anfibia di marina sembra invece posteriore di circa due secoli, dal momento che la prima notizia di legioni classiariae composte da specifici milites navales ci proviene da Livio e risale alla seconda Punica. Erodoto conclude il capitolo 32 con le stime, che ho già riportate per confutarle, delle forze agli ordini di Mardonio: i barbari erano 300.000; degli Elleni alleati lo storico non sa 77 Storie, II (Euterpe), 165. 78 I Persiani imbarcavano sulle loro navi da guerra 30 fanti, che venivano tratti da Egizi o da Etiopi e mai da contingenti nazionali. 44 A Proposito di Platea dare il numero poiché non furono contati, ma congettura che raggiungessero i 50.000. Cifra da ritenere assolutamente fantasiosa, dal momento che a Platea gli Elleni alleati degli Achemenidi fronteggiavano il solo fianco destro degli Ateniesi, Megaresi e Plateesi; sicché, se fosse vero il numero ipotizzato da Erodoto, gli 11.600 della Lega avrebbero affrontato e vinto 50.000 opliti (più i Saci) armati alla loro stessa maniera, adottanti l’identico modo di combattere ed in più sostenuti, come vedremo più avanti, dalla cavalleria beotica e barbara.. La cavalleria persiana, infine, non era schierata insieme alla fanteria, ma stava a parte, ben distinta da essa, con ogni probabilità in un altro accampamento. Constateremo successivamente che essa attaccherà da sola per un’intera giornata senza l’aiuto dei fanti ed anche in seguito agirà senza eccezione in autonomia dalla fanteria. 45 Piero Pastoretto Il fiume Asopo E sist e va no in G re cia du e f iu mi Aso po (Ἀ σ ωπό ς ) 7 9 : un o in Be o zia e un o n e l P e lo p on ne so , ch e sco rre va p re sso S icio ne e p e rciò e ra de tt o S icion io . I l più ce leb re , o lt re che ricco d ’a cqu e , e ra pe rò il p rimo (o gg i Va r ién ē s), su lle cu i d ue spo n de e ra n o d ispo st i i P e rsian i e g li E lle n i ne l 47 9. L’A sop o Be ot ico na sce d a l Cite ro ne vicin o a Le ut t ra , lu o go de lla ba t ta g lia de l 3 71 , e a llo ra seg n a va il con f ine f ra il te rr ito r io d i Te b e e qu e llo di P lat e a. E nt ra t o p o i in A t t ica , sfo cia ne ll’E u rip o . I l viag g ia to re Pa u sa n ia ci h a la scia to il rico rd o de i mit i che circo n da van o q ue sto f iu me. Asop o e ra il f ra te llo d i Cite ro n e e gli su cced e tt e su l t ron o d i P la te a. Se mp re se co nd o il mit o a vreb be avu to d ue f ig lie , P lat ea ed O e ro e , che a vreb b e d at o il no me ad un a lt ro f iu me che in co n t re re mo n e l co rso de ll’a rt ico lo . I n a lt ri p un t i Pa u sa n ia p a rla d i p iù f ig lie di Asop o : Te b e, S a la min a , Te sp ie e A nt io pe . La po et e ssa Co rin na scrive in ve ce d i n ove f ig lie d e l mo rt a le A so po : t re ra p ite da Zeu s, t re d a Po se id on e , d ue d a Ap o llo e un a da E rme s. Tu t t i e n ove i n o mi so n o e po n imi d i cit tà be ot ich e o pe lop o nn e sia ch e . S e co nd o un alt ro mit o, in f ine , A so p o lo t tò con Zeu s che g li ave va ra p ito la f ig lia E g in a e fu ucciso d a u n f u lmin e d e l d io . 79 In realtà ve ne erano altri tre del medesimo nome, un Asopo Tracico, uno Laodiceo ed uno Malico, ma si trattava di niente più che torrenti. 46 A Proposito di Platea Data imprecisata di settembre. 11° giorno: manovra persiana sulle retrovie I capitoli dal 33 al 39 del libro IX costituiscono una specie di digressione, un logos a parte, che si occupa dei sacrifici preliminari alla battaglia, degli indovini e dei vaticini per entrambi gli eserciti. L’argomento è senza dubbio interessante e persino colorito, con le vicende personali dei due sacerdoti, Tisamene per gli Elleni ed Egesistrato per i Persiani. Nondimeno, poiché esula dall’esame puramente militare di Platea, rimando la lettura diretta di questi episodi all’affascinante prosa erodotea. Quel che importa invece all’economia della mia rivisitazione è che per otto giorni i due eserciti, continuando a rimanere sfavorevoli i sacrifici, evitarono di attaccare battaglia e rimasero a fronteggiarsi immobili. Ciò non giovava a Mardonio, in quanto tutto il suo esercito era accampato all’Asopo e il dilungarsi dell’attesa non avrebbe contribuito a rinforzare i suoi contingenti. Giovava invece alla Lega, poiché gli Elleni continuavano ad affluire dal Citerone e «diventavano sempre più numerosi (γινομένων πλεύνων». Sul fatto che i Greci ricevessero continui rinforzi di uomini rimango parecchio incerto, poiché Erodoto ne ha ormai fissato il numero definitivo in 38.700 ed è inverosimile che si aggiungessero di continuo nuovi contingenti oltre a quelli che le singole poleis avevano già inviato ‘raschiando’ ciascuna fino in fondo il barile di casa propria 80. Che affluissero ulteriori opliti è possibile, ed Erodoto lo ribadisce nel capitolo 41, nondimeno mi sembra più opportuno interpretare l’inciso nel seguente modo: che gli Elleni ricevevano tutti i loro rifornimenti attraverso il Citerone e per questo diventavano sempre più forti dal punto di vista logistico più che di quello numerico. Infatti, mentre l’approvvigionamento del pur gigantesco esercito di Mardonio almeno fino a quel momento non aveva creato soverchie difficoltà, potendo egli rifornirsi da tutta la Beozia e dalla Tessaglia attraverso spedite vie di comunicazione, gli Elleni si trovavano in una stretta fascia di terreno tra l’Asopo di fronte a nord ed il Citeronne alle spalle a sud, e tutti i loro vettovagliamenti che provenivano dal Peloponneso, dall’Attica e dalla Megaride dovevano passare attraverso il passo Driocefale di questo monte. Fu sulla scorta di tali considerazioni sulla debolezza delle posizioni della Lega, che i Persiani agirono per primi. L’idea, per il tempo ingegnosa, di una manovra sulle retrovie nemiche per occupare il passo, tagliare i rifornimenti e costringere così l’esercito avversario ad agire od a ritirarsi - tattica ‘napoleonica’ molto moderna81 e indice di una sicura evoluzione nel modo di 80 Come ho scritto sopra, la Lega attendeva l’arrivo soltanto dei due piccoli contingenti di Elea e Mantinea, che giunsero a battaglia conclusa. 81 Il succo dei vantaggi di questa tattica si può così riassumere: se uno attacca un esercito nemico si scontra con la sua parte più forte; se uno ne attacca le retrovie, incontra minore resistenza e lo mette in maggiore difficoltà. Inoltre, ne recide anche le vie di comunicazione. 47 Piero Pastoretto concepire una battaglia non solo come il cozzo di schiera contro schiera - , secondo Erodoto venne dal tebano Timagenida, e fu accolta da Mardonio. L’incursione avvenne di notte82 e fu affidata alla sola cavalleria, ottenendo un pieno successo: Erodoto riferisce che cinquecento animali da soma e i loro conducenti furono massacrati, mentre il bottino fu portato all’accampamento persiano senza che l’esercito della Lega ne avesse il minimo sospetto. D’altra parte era pressoché obbligatorio che l’attacco dovesse avvenire di notte, sia per tenere occultate le manovre di avvicinamento della cavalleria, sia per impedire che le sentinelle lasciate sul Citerone dessero l’allarme agli uomini svernanti sulla pianura dell’Asopo e questi accorressero a difesa dei loro rifornimenti. Interessante dal punto di vista logistico è soffermarsi sulle cifre del convoglio che, verosimilmente, era solito attraversare il passo di notte e tornare indietro di giorno. Sappiamo che i cinquecento animali da soma (non si parla di carri) dovevano trasportare provviste varie e viveri per 110.000 uomini: tanti, tra opliti e servi, erano accampati di fronte all’Asopo. Calcolando che ogni uomo consumasse, con la dieta parca degli Elleni, poco più di 600 grammi ai due pasti giornalieri (qualcosa di più l’oplite, qualcosa di meno l’ilota e lo skenophoro) e che di questi cibi una certa parte se ne procurasse in loco, ogni quadrupede doveva essere carico di circa un quintale di vettovaglie deperibili per un solo giorno di vitto83 e dunque occorreva almeno un convoglio giornaliero per il mantenimento dell’esercito e costituire una congrua scorta di viveri secchi a lunga conservazione. Tuttavia, quel che qui importa maggiormente aldilà dei precedenti calcoli ‘da fureria’ è che i Persiani, con la loro fortunata e innovatrice operazione notturna e la successiva occupazione del Driocefale, avevano tagliato fuori l’esercito della Lega dalle sue vie di rifornimento e di comunicazione. In verità Erodoto, nel capitolo 39 in cui narra questa azione sulle retrovie greche, non fa alcun cenno ad un’occupazione persiana dei passi del Citerone, ma sarebbe veramente assurdo che i Persiani non se ne fossero impadroniti e non l’avessero anche presidiato. Ne parlerà invece, e con molta chiarezza, nel successivo capitolo 50, dove scrive testualmente che gli Elleni «non avevano più cibo e gli uomini al loro seguito, mandati nel Peloponneso a procurarsene, erano stati tagliati fuori dalla cavalleria e non potevano giungere all’accampamento». 82 Colgo qui un’ulteriore novità: quella dell’incursione notturna. Nella guerra allo stadio che definisco artistico la notte era dedicata soltanto al riposo. In Iliade, X, 326-347, vi è sì l’incursione di Odisseo e Diomede che s’incontrano fortuitamente con Dolone; tuttavia si trattava di una semplice missione di spie e non di un’incursione armata di valore bellico. L’uso delle ore notturne per condurre una complessa operazione bellica è una conquista che appare per la prima volta a Platea. 83 Un oplite ateniese, consumava una razione di cipolle e pesce salato avvolto in foglie di fico e aromatizzato con sale e timo. Lo spartiate si accontentava del famoso brodo nero (μέλας ζωμός) spartano, contenente dello spezzatino di maiale reso scuro da vino e sanguinaccio, che all’occorrenza poteva essere sorbito anche dal kothon, il boccale per i liquidi. Sotto l’aspetto calorico il malfamato brodo nero laconico era però un apportatore di calorie migliore della dieta ateniese. 48 A Proposito di Platea Pausania (515/10 - 471/69) Famiglia degli Agiadi, pretesa discendente da Eracle I Anassandrida II (Re 560-520 circa) I Cleomene Dorieo Leonida Cleombroto Re 520-491 + circa 520 Re + 491-480 Re + 480 I I I Eurianatte Plistarco Pausania co-reggente Re 470-458 reggente Pausania era figlio di Cleombroto, fratello minore di Leonida. Alla morte di questi alle Termopili nel 480, ed essendo ancora fanciullo l'erede Plistarco, secondo la legge spartana divenne reggente per la famiglia Agiade l'unico fratello di Leonida ancora in vita, Cleombroto 84, il quale a sua volta morì nello stesso anno del fratello mentre riportava in città le truppe che presidiavano l'Istmo durante la costruzione del muro. Pausania divenne così il tutore-reggente di Plistarco e cooptò come co-reggente il cugino Eurianatte, insieme al quale comandò i Lacedemoni a Platea. Per il prestigio ottenuto durante la battaglia e nel successivo assedio di Tebe, valore riconosciutogli dallo stesso Erodoto, nel 478 Pausania ottenne dalla Lega il comando della flotta, che fu tolto al vincitore di Micale Leotichida, l’altro re di Sparta della famiglia degli Euripontidi. Con questo incarico liberò Cipro e Bisanzio, ma gli Ioni di quelle città, vicini per stirpe e mentalità agli Ateniesi, lo accusarono di tirannide e fu sollevato dal comando, che fu affidato all'ateniese Cimone. In quella circostanza Sparta uscì dalla Lega e dal conflitto contro la Persia. Pausania allora lasciò la reggenza al fratello Nicomede e proseguì la guerra come privato, riconquistando Bisanzio, dalla quale però fu cacciato da Cimone. Dietro le accuse degli ex alleati, gli efori lo richiamarono in patria nel 471 e lo sottoposero a processo per aver tentato di sovvertire lo Stato e prendere il potere. Assolto una prima volta, un delatore di nome Argilio consegnò agli efori un presunto carteggio fra Pausania e Serse. Condannato, si rifugiò come supplice nelle mura del tempio di Atena Calcieca e lì, non potendo essere toccato perché sacro alla dea, Pausania fu murato vivo finché non morì di stenti. Ciò nonostante il figlio di Pausania Plistoanatte ed il nipote anche lui di nome Pausania, diventeranno entrambi re per la famiglia degli Agiadi. Già nell'antichità lo storico Tucidide ha fortemente messo in dubbio l'autenticità delle lettere rese pubbliche dopo la sua morte. 84 Come credo tutti sappiano, i due re di Sparta appartenevano l'uno alla famiglia degli Agidi originaria di Pitane e l'altro agli Euripontidi di Limne o Cinosura. 49 Piero Pastoretto Schema della manovra persiana sulle retrovie Data imprecisata di settembre. 11° e 12° giorno. Tentato scambio di settore fra le ali greche e contromanovre persiane Al capitolo 39 che descrive l’incursione notturna sul Citerone seguono sei capitoli, dal 40 al 45, in cui Erodoto sospende la cronaca degli avvenimenti puramente militari sulla pianura dell’Asopo per introdurre un intermezzo in cui dà ampio spazio alla sua vis narrativa e alla sua formidabile abilità novellistica. Poiché questa digressione ha parzialmente a che fare con il contenuto del mio studio, la riassumerò brevemente, aggiungendo però un paio di considerazioni logiche e commenti. I Persiani continuano a molestare l’esercito della Lega con rapide incursioni di cavalleria al di là dell’Asopo, cercando di provocarlo a battaglia; gli Elleni però, i cui presagi sono al momento sfavorevoli, non si muovono. Artabazo, il secondo in grado dopo Mardonio, poiché anche gli oracoli consultati dai Persiani seguitano ad essere contrari a uno scontro85, consiglia, d’accordo con i Tebani, di rinchiudere tutto l’esercito dentro le mura di Tebe e tentare di corrompere le città greche usando il bottino in oro ricavato dalle scorrerie86. 85 Il vaticinio negativo di Bacide, che Mardonio tenta di far passare per favorevole, è riportato in maniera parziale da Erodoto al cap. 43, 1. 86 In sostanza il prudente Artabazo consiglia di tornare all’antica arma della diplomazia e della corruzione delle venali poleis greche, che aveva dato ottimi risultati in passato. Quanto all’appoggio dei Tebani, è comprensibile il loro tentativo di raggiungere una soluzione politica piuttosto che militare dal momento che, se Mardonio fosse stato sconfitto, ne andava della potenza della loro città. Già in IX, 2, 1 i Tebani avevano cercato di convincere Mardonio a sottomettere l’Ellade con la corruzione anziché con le armi. 50 A Proposito di Platea Devo aggiungere al proposito che il suggerimento di Artabazo appare in realtà niente di più di un artifizio retorico di Erodoto, dal momento che la città di Tebe non avrebbe certo potuto contenere né i 300.000 persiani che lo storico attribuisce all’esercito di Mardonio più i 50.000 alleati greci, ma nemmeno i 100.000 uomini che io al contrario ipotizzo fossero realmente presenti a Platea; e neppure i Tebani, che si suppone conoscessero a sufficienza la loro città, sarebbero stati così ingenui da proporre una tale misura. Più sensato invece è supporre che Artabazo suggerisse di spostare l’esercito, dall’attuale posizione sulla riva settentrionale dell’Asopo, a ridosso di Tebe, in maniera da potersi appoggiare alle sue robuste mura. Comunque sia, nel racconto erodoteo Mardonio si mostra immediatamente contrario al parere del «lungimirante» (προειδότος) Artabazo. L’autore si contenta di spiegare la posizione del generale con un semplice connotato psicologico, atto a rendere artisticamente drammatica la sua figura, ma che certo non convince. Scrive infatti: «[…] il parere di Mardonio era più violento, più dissennato e in nulla accomodante». Viceversa la decisione di Mardonio di rifiutare il consiglio di Artabazo può essere interpretata con motivazioni ben più solide di natura tattica. Egli era conscio della precaria posizione degli Elleni dopo che erano state recise le loro linee di collegamento. Allo stesso tempo doveva essere altrettanto consapevole della difficoltà logistica, anche per le sue linee di rifornimento, di approvvigionare a lungo un esercito così numeroso e con così tanti quadrupedi concentrati in un luogo tanto ristretto e alle porte della stagione inclemente87. Quanto al tentativo di corrompere, intimidire o alimentare le discordie fra le città greche, un tale sistema poteva anche essere stato efficace nel tempo trascorso; ma dopo la missione di Murichide 88, la ferita inferta all’Attica con la distruzione di Atene, la cocente sconfitta di Salamina e il desiderio di rivalsa dei Lacedemoni per la strage delle Termopili e la morte di un loro re, aveva contro le due maggiori potenze dell’Ellade e tutto il corteo dei loro alleati. Per dirla in breve: gli schieramenti pro e contro i Persiani erano ormai consolidati e le soluzioni diplomatiche o ricattatorie impraticabili. L’unica soluzione rimasta era quella militare e, tanto prima sarebbe venuta, tanto meglio sarebbe stato. Infatti, più il tempo passava, più la Lega (e 87 Mardonio, con una mentalità veramente moderna, prestava sempre molta attenzione alla logistica e alla strategia generale. In IX, 13 egli abbandona spontaneamente l’Attica dopo aver incendiato Atene poiché quella non è terra da nutrire i cavalli e perché un’eventuale ritirata sarebbe dovuta avvenire di necessità attraverso le strettoie dei passi montani del Citerone. Peraltro la drammatica situazione delle sue scorte alimentari e dei suoi rifornimenti è rivelata al capitolo 45 che esaminerò tra breve, dove il macedone Alessandro dice di Mardonio: «Gli restano viveri per pochi giorni». Evidentemente a Mardonio e al suo esercito lasciato nell’Ellade non giungeva più alcun rifornimento dalla madrepatria. 88 Murichide era stato mandato da Mardonio a Salamina per trattare offerte di pace con gli Ateniesi lì rifugiati. In quell’occasione il buléuta Licida aveva proposto di accettarle ed era stato immediatamente lapidato lui e tutta la sua famiglia (IX, 4-5). In seguito a quell’episodio Mardonio aveva dato alle fiamme tutti i templi di Atene per poi ritirarsi in Beozia. 51 Piero Pastoretto non l’esercito sull’Asopo, come insinua Erodoto) rischiava di diventare potente e di raccogliere nuovi alleati. Riprendo adesso la narrazione erodotea. Mardonio, nettamente contrario a procrastinare la battaglia - e ne ho appena mostrato le ragioni plausibili, prima fra tutte la crisi dei rifornimenti - dà una propria interpretazione dell’oracolo di Bacide ribaltandone il significato sfavorevole e si dimostra sempre più deciso ad attaccare. Tra parentesi, un tale volontario stravolgimento di un oracolo sacro, agli occhi del lettore greco, lo rende colpevole di ‘oltracotanza’ (ὕβρις), e degno quindi di punizione divina. A questo punto rientra però in scena un personaggio già altre volte apparso tanto nel libro IX quanto nel V e nell’VIII: il re di Macedonia Alessandro, figlio di Aminta89. In verità l’episodio di Alessandro, che occupa tutti i capitoli 44 e 45, sembra frutto di un’accurata regia narrativa di Erodoto, che introduce un passaggio notturno nella sua narrazione90. Nottetempo il re si reca al campo degli Ateniesi 91 e rivela ai loro strateghi l’intenzione di Mardonio di attaccare battaglia all’alba ignorando i presagi avversi. Se invece il generale nemico ritornerà sulle proprie decisioni e non attaccherà, Alessandro esorta gli Elleni a resistere sul posto ancora per pochi giorni, dal momento che i Persiani sono a corto di viveri. Con la preghiera di riferire il messaggio soltanto a Pausania e, una volta battuto il nemico, di tenere conto dell’aiuto prestato alla causa greca con proprio grave rischio personale, Alessandro si congeda e gli strateghi ateniesi si recano subito all’ala destra per conferire con Pausania. Dal colloquio tra i capi scaturisce la decisione di procedere a un profondo rimescolamento del fronte ellenico, che viene illustrato ai capitoli 46 e 47. Dichiaro francamente che i motivi accampati da Erodoto per spiegare la risoluzione presa di comune accordo da Ateniesi a Lacedemoni appaiono del tutto irrazionali, mentre le vere ragioni a mio parere rimangono sconosciute. In sostanza l’autore narra che, da Pausania, parte la proposta di scambiare di posto l’ala sinistra con quella destra. La motivazione, che appare del tutto illogica e frutto dell’inventio dell’artista, sarebbe che gli Ateniesi conoscono molto meglio i Persiani e il loro modo di combattere, poiché li hanno già sconfitti a Maratona; viceversa gli Spartani non godono di questa esperienza, ma conoscono invece molto bene i popoli greci alleati di Mardonio, avendoli 89 Si tratta di Alessandro I detto Filelleno, 494-454 a.C. Ufficialmente fedele all’alleanza con il Gran Re contratta dal padre Aminta I, appoggiava invece segretamente i Greci. A Platea era il comandante del contingente macedone. 90 Scene notturne sono presenti in tutti i poemi epici: da quella di Odisseo e Diomede che incontrano Dolone, a Priamo che si reca al campo dei Danai per riscattare il cadavere di Ettore, a Eurialo e Niso nell’Eneide. 91 Era il campo per lui più vicino: sappiamo infatti che tutti i greci alleati di Mardonio erano schierati contro il fianco sinistro dell’esercito della lega tenuto dagli Ateniesi. 52 A Proposito di Platea affrontati e vinti diverse volte. La conclusione di Pausania è che sia opportuno per le sorti dell’esercito schierare gli Ateniesi contro il fior fiore delle truppe mede e persiane, e i Lacedemoni contro gli opliti che militano per il Gran Re. Sull’inconsistenza del ragionamento attribuito a Pausania, che mostra tra l’altro un non troppo celato atteggiamento filo attico dell’autore92, avanzo tre considerazioni: la prima è la semplice constatazione che i comandanti della Lega erano perfettamente informati dello schieramento assunto da Mardonio al suo fianco sinistro, e dunque potevano contare su un efficiente servizio di spionaggio che si avvaleva verosimilmente delle notizie fornite dai disertori o dai traditori corrotti; la seconda intende invece demolire il racconto erodoteo della proposta di Pausania. È infatti inverosimile che un polemarco spartiate proponga spontaneamente, e sostanzialmente per pavidità, di spostare i suoi uomini dal punto più critico dello schieramento, ma anche il più onorevole e prestigioso per la mentalità militare dell’epoca, a quello per lui meno rischioso; infine, che i Lacedemoni non avessero mai incontrato i Persiani e perciò non conoscessero il loro modo di combattere è un’affermazione falsa, dal momento che trecento di loro erano caduti alle Termopili. Semmai ci si aspetterebbe che Pausania dichiarasse che gli Spartani, al contrario degli Ateniesi non potevano trarre frutto da questa esperienza poiché nessuno era tornato da quella battaglia. La conclusione di tutto ciò è che il dialogo fra i comandanti e soprattutto le ragioni accampate da Pausania sono una ricostruzione, o meglio, una costruzione retorica di Erodoto, le cui fonti non gli fornivano la vera natura dello scambio delle ali fra loro. Scambio che pure ci fu, ma fu dovuto a esigenze tattiche ben diverse da quelle accampate dall’autore che, non avendo avuto esperienze militari di qualche importanza, non riusciva a ipotizzare93. In verità, su quali fossero le reali esigenze che costrinsero gli Elleni a una così complessa operazione di rischiaramento del fronte non di certo io - e, penso, nemmeno altri - sono in grado di avanzare qualche ipotesi alternativa. Il capitolo 47 ci rende informati delle complesse operazioni che investono entrambi gli eserciti: operazioni che mi spingono a dire che quella di Platea fu la prima battaglia veramente studiata e manovrata di cui abbiamo conoscenza. 92 Si sa che Erodoto fu per molti anni ospite ad Atene, amico della sua classe dirigente e poi cittadino della colonia panellenica di Turi voluta da Pericle. Il suo atteggiamento filo attico è risaputo. 93 Peraltro la storiografia classica, anche dopo Erodoto, che è colui che vi si avventura e vi muove i primi passi, continuò ad essere per secoli un opus maxime rhetoricum, in cui i dialoghi e i discorsi fittizi introdotti dallo storico erano consentiti e anzi apprezzati soprattutto per il loro valore pedagogico. Polibio e Livio ne fanno grande uso e Plutarco ne segna l’apoteosi. La definizione latina è di Cicerone. 53 Piero Pastoretto Allo spuntare dell’aurora Pausania dà inizio al trasferimento della sua ala destra in direzione del fianco sinistro, mentre gli Ateniesi fanno altrettanto nel verso opposto. A questo punto i Beoti, che forse possedevano delle spie o più verosimilmente avevano delle sentinelle molto vigili, si accorgono del movimento e avvertono Mardonio. Questi a sua volta fa spostare verso la propria destra le sue truppe persiane e mede in maniera che si trovino nuovamente di fronte agli Spartani. Possiamo soltanto immaginare, dal momento che Erodoto non la descrive, l’improvvisa, impressionante e coreografica sfilata parallela, lungo le rispettive linee immobili del centro, di decine di miglia di uomini tra persiani e Lacedemoni, separati soltanto dall’Asopo. Pausania però, osservando che anche l’ala sinistra di Mardonio si spostava parallelamete alla propria ala destra, comprende che oramai la sua marcia risulta inutile poiché avrebbe avuto di fronte sempre le medesime forze e ritorna sulle proprie posizioni. Mardonio, ovviamente, fa altrettanto con i suoi94 e l’intera manovra, in realtà piuttosto pasticciata, si conclude con un ritorno alle posizioni iniziali. Schema dell’attacco delle cavallerie persiane e del riposizionamento dell’esercito della Lega in seguito alla marcia notturna. A mio parere, sia il movimento degli Spartani, sia quello degli Ateniesi riportati nella carta, sono eccessivi Data imprecisata di settembre. 13° giorno. Primo giorno di battaglia I capitoli 48-52 descrivono in modo vivace il primo giorno della battaglia che, a rigore, non può ancora chiamarsi “di Platea”, dal momento che si svolse piuttosto dalle parti di 94 Dal racconto di Erodoto non si evince se anche i Beoti si siano mossi per sostituirsi ai Persiani al fianco sinistro. 54 A Proposito di Platea Eritre, presso le rive dell’Asopo e la fonte Gargafia, a dieci stadi (circa 1.800 metri) dalla località di Platea. A mattino suppongo inoltrato, poiché le prime ore del giorno dovevano essere state impiegate nelle piuttosto convulse marce e contromarce delle ali greche e persiane, Mardonio inviò ai Lacedemoni un araldo con un provocante messaggio di sfida che suona pressappoco così: poiché la loro fama tra gli Elleni era quella di valorosi combattenti, e tuttavia erano stati visti lasciare il loro posto per timore dei Persiani che avevano di fronte, Mardonio era rimasto molto meravigliato e deluso di quel comportamento, essendosi aspettato al contrario di ricevere lui un araldo spartano che sfidasse esplicitamente i suoi soldati a battaglia. Poiché ciò non era accaduto, a questo punto erano i suoi soldati stessi a lanciare agli spartani una proposta: che si combattesse in numero pari fra Lacedemoni e Persiani senza coinvolgere il resto dei due eserciti, e che il vincitore dello scontro fosse anche il vincitore della battaglia. L’episodio si conclude con il ritorno dell’araldo all’accampamento achemenide senza aver ottenuto alcuna risposta, seguito dal compiacimento di Mardonio, che rimane convinto della codardia degli elleni che ha di fronte e pertanto scatena l’attacco della sua cavalleria. Va da sé che tutta la vicenda dell’araldo è molto poco verosimile e palesemente ricalcata sui topoi dell’Iliade e del ciclo tebano, dove torna ricorrente il motivo del duello risolutivo di un’intera guerra, che questo sia tra Paride e Menelao, o tra Eteocle e Polinice. Può anche darsi, non lo nego, che Erodoto abbia udito tale episodio da qualche presunto testimone; non è infatti impossibile, poiché l’attitudine mitopoietica dei Greci è sempre stata straordinaria95, e inoltre tutti sanno che i reduci di qualsiasi età tendono a ‘ricamare’ i loro ricordi di eventi immaginari purché siano belli e mirabolanti. Presumo dunque che tutta la scena orchestrata da Erodoto nasconda una realtà piuttosto consuetudinaria e molto meno epica, ovvero un semplice abboccamento tra parlamentari dei due eserciti prima della battaglia: in sostanza un ultimo tentativo persiano per evitarla attraverso una sorta di gentlemen’s agreement. La cosa certa di tutta la vicenda è però che l’attacco persiano, dopo qualche tergiversazione, fu condotto dalla sola cavalleria, mentre la fanteria rimase immobile sulla sponda settentrionale dell’Asopo. Sarà necessario individuare il perché della singolare scelta di Mardonio e avventurarci96 a spiegarla, anziché accontentarci semplicemente di constatarla come fanno, con leggerezza, tutti i commentatori di Erodoto. 95 Basta pensare anche solo un momento a quante leggende sono sorte intorno ad Alessandro Magno tra i suoi soldati mentre era ancora in vita. 96 Non uso a caso il verbo ‘avventurarsi’, poiché lo sforzo di interpretare la mossa di Mardonio non mi risulta sia stato mai fatto da nessuno. 55 Piero Pastoretto Il capitolo 49 offre alcuni brevi ma significativi dettagli del drammatico scontro che mise in seria crisi tutto l’esercito della Lega e specialmente, come vedremo tra breve, il suo fianco destro. L’esteso schieramento greco attende immobile la carica della cavalleria persiana senza avanzare, come invece era sua consuetudine nelle guerre tra falangi cittadine. Si tratta della prima volta che la falange, concepita fin dal VII secolo per avanzare in un reciproco incontro-scontro con una falange avversaria, rimane sulla difensiva esattamente come la futura falange macedone. A Maratona, infatti, gli Ateniesi avevano ancora attaccato contro forze numericamente superiori, e addirittura di corsa. A Maratona, però, come tutti sanno, i Persiani erano privi di cavalleria. L’atteggiamento difensivo assunto a Platea è invece perfettamente logico per due ottimi motivi: gli opliti vedevano di fronte a sé la cavalleria persiana disposta per l’attacco, e far avanzare seppur lento pede la fanteria contro la cavalleria in procinto di caricare non avrebbe avuto alcun senso; in secondo luogo non si deve trascurare che la falange greca aveva di fronte a sé l’Asopo e che quel fiume, benché povero d’acque perché si era in settembre, con le sue sponde scoscese e il greto tormentato, avrebbe fatto disunire le file ordinate degli opliti. La falange era sì una formazione meravigliosa, ma molto limitata nei movimenti e necessitante di un terreno piano, spoglio e regolare. Ancora a 150 anni di distanza Alessandro, che pure adottava una falange e una tattica totalmente diverse da quelle oplitiche, nelle battaglie del Granico e di Isso, che si svolsero sulle rive di due fiumi dell’Anatolia e della Cilicia, trattenne immobile sulla propria sponda la falange97 e li attraversò con la cavalleria: esattamente la medesima tattica adottata da Mardonio sull’Asopo, salvo che, in quella giornata il comandante persiano non fece passare il fiume alla fanteria. Particolare che, se considerato con attenzione e un minimo di sagacia interpretativa, ci rivela come l’obiettivo di Mardonio non fosse la distruzione dell’esercito della Lega Panellenica, ma semplicemente la sua separazioni dalle fonti di rifornimento idrico, in modo da costringerlo, finalmente, ad attaccare o a rinunciare alla campagna per l’impossibilità di approvvigionarsi né dal Citerone, né dal fiume, né dalla fonte Gargafia. Che questa sia l’unica interpretazione possibile della mossa di Mardonio è dimostrato da due considerazioni che ritengo facilissime: a nessun generale, anche il più barbaro immaginabile, affiderebbe un attacco risolutivo alla sola cavalleria, senza il supporto della fanteria che ha a sua disposizione. E noi abbiamo già constatato, all’opposto, che Mardonio non era uno stupido, ma era dotato di una mente pensante e pianificante, almeno all’altezza dei suoi tempi, se non addirittura precorritrice; 97 Mi pare persino superfluo ricordare che Alessandro, a differenza dell’esercito della Lega Panellenica a Platea, era dotato di un’eccellente cavalleria e la falange dei suoi pezeteri dalle lunghe sarisse era soltanto l’incudine contro la quale il martello della cavalleria doveva schiacciare il nemico. 56 A Proposito di Platea b il giorno successivo quando, come apprenderemo tra breve, considerate le circostanze venutasi a creare nell’esercito nemico, scatenò quello che davvero nelle sue intenzioni doveva essere l’attacco destinato a distruggere l’armata avversaria, Mardonio avrebbe fatto attraversare il fiume anche alla fanteria. Nulla dunque da obiettare sulle scelte degli Elleni e dei Persiani, salvo che, secondo la narrazione di Erodoto, la cavalleria achemenide attaccò diluita su tutta la fronte nemica. Scrive infatti l’autore: «Quando i cavalieri partirono all’attacco, inflissero perdite a tutto l’esercito greco lanciando giavellotti e frecce: erano arcieri a cavallo ed era difficile avvicinarli». 98 A commento del passo riportato posso aggiungere che, se lo scopo di Mardonio non fosse stato quello immediato e modesto di cui ho discusso sopra, e cioè di respingere tutto il nemico lontano dalle risorse idriche per evitare così una sanguinosa e incerta battaglia, non avrebbe certamente attaccato su tutto il fronte, disperdendo e annacquando così la capacità dirompente della sua cavalleria. Se al contrario avesse avuto il reale obiettivo di battere sul campo il nemico e demolirlo sotto il peso della propria superiorità numerica, un’offensiva più avveduta e ‘scientifica’ avrebbe imposto invece la concentrazione della massa della cavalleria o sul centro nemico, più fragile poiché formato da piccoli contingenti non amalgamati fra loro; oppure su entrambi o uno solo dei fianchi, senz’altro più robusti ma che, una volta rotto il fronte, avrebbero favorito un più facile aggiramento 99. Manovra che avrebbe richiesto però anche l’apporto e dunque l’avanzata della fanteria oltre il fiume per inchiodare l’esercito della Lega e costituire il famoso ‘incudine’ del Macedone, contro il quale spingere il nemico con il maglio della cavalleria. Proseguendo nell’analisi dell’inciso di Erodoto sopra riportato, in cui si legge che i cavalieri colpivano da lontano («era difficile avvicinarli») con frecce e giavellotti, si ricava l’ulteriore certezza che la massa della cavalleria impiegata sulle rive dell’Asopo era di tipo leggero e non pesante, poiché essa adotta precisamente la tattica di qualsiasi cavalleria leggera, da quella partica a quella numidica, che evita lo scontro diretto preferendo volteggiare elusiva con scarse o nulle perdite e sfiancare il nemico con dardi e proiettili di ogni genere. Possiamo dunque arguire che l’attacco non fu condotto da Medi, Persiani e Saci, che formavano la cavalleria pesante per eccellenza e che erano stati comandati da Masistio, ma dai popoli alleati. Quel che importa però è che le cariche dei Persiani si prolungarono per diverse ore assumendo la fisionomia non di una semplice azione, ma di un vero e proprio attacco 98 99 IX, 49, 2. Intendo, in parole brevi, l’individuazione di uno schwerpunkt. 57 Piero Pastoretto generale che, grazie anche alla sottigliezza dello schieramento ellenico, mise in seria crisi tutto il fronte greco. Ribadisco però la scelta del termine “attacco” al posto di “offensiva generale”, poiché ho dimostrato che sarebbe improprio giudicare che il piano tattico di Mardonio fosse l’annientamento definitivo dell’esercito della Lega. L’attacco generale protratto e ostinato della cavalleria, anche se non a scopo risolutivo della battaglia, incise fortemente sul troppo lungo e sottile schieramento dell’esercito ellenico e lo costrinse a ripiegare. Con ordine, certo, dato che non ci fu alcun reale tentativo di sfondamento, ma pur sempre a ripiegare perdendo ogni contatto, e questo era il lato tragico della situazione voluto da Mardonio, con le due uniche risorse per l’approvvigionamento idrico dell’intero esercito, e cioè il fiume e la fonte Gargafia. Tra gli Elleni e l’Asopo, infatti, si era ormai stabilita la cavalleria nemica, e anche il corno destro lacedemone, originariamente schierato davanti alla fonte, nel suo lento ripiegamento l’aveva abbandonata in mano al nemico, che aveva immediatamente provveduto a intorbidirla e ostruirla. Così, in quella dannata giornata di tribolazioni sotto la pressione costante e feroce della cavalleria leggera avversaria, nessun ilota o skenophoro poté attingere né alla fonte, né tantomeno all’ormai irraggiungibile Asopo e l’intero esercito consumò le ultime razioni di acqua senza alcuna prospettiva di potersene ancora rifornire. La posizione degli Elleni, parecchio drammatica, e che mi sembra potersi collocare pressappoco nella tarda giornata, è perfettamente rappresentata da Erodoto al capitolo 50: «In questa situazione i comandanti dei Greci, dal momento che l’esercito era privo d’acqua e messo in difficoltà dalla cavalleria, si radunarono per questi e altri motivi, andando da Pausania all’ala destra100. Infatti, pur stando così le cose, c’era altro a renderli ancora più inquieti; non avevano più cibo e gli uomini al loro seguito, mandati nel Peloponneso a procurarsene, erano stati tagliati fuori (ἀπεκεκληίατο) dalla cavalleria e non potevano giungere all’accampamento 101.» Il concilio degli strateghi prese alcune importanti decisioni: 100 Semplicemente per la ragione che quello spartano era il settore maggiormente in crisi e aveva appena perduto il possesso della fonte Gargafia, o perché tutta la Lega riconosceva tacitamente che il comando spettava di fatto a Pausania? Anche in precedenza, dopo l’incontro con Alessandro, furono gli strateghi ateniesi a recarsi da Pausania, anziché convocarlo al loro campo. Erodoto non specifica affatto che a Platea il re spartano avesse il comando dell’esercito (come ad esempio parla invece del comando della flotta affidato a Temistocle a Salamina), anche perché si evince chiaramente che non è lui a prendere le decisioni, che sono sempre collettive; tuttavia mi sembra che questo continuo recarsi all’ala destra sia da interpretarsi almeno come un segno di rispetto e subordinazione. 101 Ovviamente, i rifornimenti erano già stati interrotti dalla cavalleria achemenide nei giorni precedenti con la puntata notturna sul passo Driocefale del Citerone. 58 A Proposito di Platea togliere il campo dalle posizioni in quel momento occupate e riposizionare l'esercito in un luogo distante dieci stadi dall'Asopo, chiamato l'Isola, posto di fronte alla città di Platea. Il nome di questo luogo era derivato dal fatto che il fiume Oeroe, che scende dal Citerone, separa a monte le proprie correnti e le ricongiunge a valle dopo circa tre stadi formando di fatto una sorta di piccola isola102; il nuovo posto avrebbe garantito l'approvvigionamento d'acqua e parzialmente protetto l'esercito dalle cariche della cavalleria achemenide103; lo spostamento doveva avvenire occultamente di notte, onde evitare di essere assaliti durante la marcia dalla cavalleria nemica104; contestualmente si decise di inviare metà esercito sul Citerone per liberare i passi indispensabili al rifornimento viveri105. In realtà, considerando la breve distanza, (dieci stadi, neppure due chilometri), tra il nuovo luogo e quello attualmente occupato, nonché la notevole lunghezza dello schieramento greco, il fianco sinistro ateniese avrebbe dovuto spostarsi di appena qualche centinaio di metri, mentre quello destro spartano avrebbe dovuto percorrere un tragitto più lungo e ruotare insieme al centro in modo da assumere un nuovo orientamento nord-ovest sud-est, quello cioè del corso dell'Oeroe, leggermente spostato rispetto alla fronte nord che i Lacedemoni adottavano alla fonte Gargafia. L'uso del condizionale in questo caso è d'obbligo poiché il piano originario appena descritto in realtà, e come riporterò tra breve, non venne attuato. Tuttavia merita di essere almeno commentato. Le decisioni prese dai comandanti della Lega meritano un giudizio positivo, considerato lo stato dell'arte della guerra agli inizi del V secolo. Vi è dell'intelligenza tattica; trapela del coraggio di osare qualcosa di nuovo per la mentalità del tempo; si osserva una corretta analisi di diversi fattori, tanto logistici quanto strategici; e tutto ciò a mio avviso diventa tanto più apprezzabile quanto più si consideri che le decisioni tra gli Elleni erano soggette sempre a lunghi contrasti e dovevano essere condivise da tutti. Aggiungo poi l’ulteriore considerazione che ci troviamo di fronte alla risposta greca all'azione persiana di due giorni prima, ossia alla seconda manovra notturna della battaglia dopo l'attacco al passo Driocefale; e in più assistiamo anche a una contemporanea conversione di fronte dell'intero schieramento, non certo troppo 102 L'Oeroe era dunque un breve corso d'acqua che scorreva in direzione est-ovest contraria all'Asopo. La gente del luogo, come ho già scritto, favoleggiava che Oeroe fosse una figlia di Asopo. 103 Ribadisco 'parzialmente', dal momento che la cavalleria di Mardonio non aveva avuto alcuna difficoltà ad attraversare l'Asopo e ad attaccare su tutta la linea. 104 La marcia, presumo, doveva avvenire senza fiaccole e nel buio, per non rivelare la partenza e il percorso. 105 In verità Erodoto dice che la spedizione doveva essere finalizzata a liberare i servi, ma di certo cade in equivoco, poiché al capitolo 39 aveva scritto che costoro erano stati tutti sterminati. Comunque, di questa spedizione non esiste traccia nelle pagine successive. 59 Piero Pastoretto complessa, ma che tuttavia era resa difficoltosa dalle tenebre. Tale manovra, ulteriormente complicata dall'enorme numero degli skenophopri e degli loti, manifesta senza dubbio non soltanto un buon coordinamento generale, ma anche una novità nella tattica usuale dei secoli precedenti, quando le battaglie erano pur sempre uno statico cozzo di schiere in cui la formazione più numerosa, o più pesante, o più determinata, era destinata ad avere la meglio. In tutto il discorso precedente appare però una lacuna che risalta già dall'osservazione di Erodoto e dalla semplice osservazione di una piantina della pianura: la cosiddetta Isola, lunga appena tre stadi106, era troppo angusta per costituire un bastione per l'intero esercito greco, e in realtà poteva servire soltanto a risolvere il problema dell'approvvigionamento dell'acqua. Attestarsi aldilà del modesto corso dell'Oeroe era dunque superfluo e non avrebbe certo salvato l'esercito dalla cavalleria persiana, che aveva già attraversato senza difficoltà il ben più ampio Asopo. Infatti, a riprova che la primitiva decisione non apportava dei significativi vantaggi, quanto Erodoto prospettava al capitolo 50 riguardo alla ritirata dei Greci dall'Asopo viene smentito al 52. L'esercito della Lega con l'enorme massa dei servitori si mosse sì la notte fra il 13° e il 14° giorno, presumibilmente per primi gli Ateniesi, poi il centro e infine la destra, ma non per portarsi alla cosiddetta Isola, bensì per marciare ancora un chilometro e mezzo più oltre, e portarsi di fronte all'abitato di Platea presso l'antico tempio di Era. Qui l'esercito era destinato a disporsi con Platea alle spalle e la fronte a est. Erodoto specifica anche la distanza del nuovo campo dalla fonte Gargafia, che, come sappiamo, costituiva l'estremità orientale dello schieramento tenuta dall'ala destra: venti stadi, circa tre chilometri e mezzo, il doppio di quella dell'Isola, che era di dieci stadi. Il motivo preciso di questo cambiamento di obiettivo (tra l'altro non si parlerà più di liberare il Driocefale), e quando e come venne presa la decisione di proseguire sino al tempio di Era rimarrà per sempre sconosciuto, poiché Erodoto non lo rivela. Posso avanzare l'ipotesi che la ragione più probabile sia stata la mediocre conoscenza dei luoghi. Quando durante la marcia notturna i primi contingenti attraversarono l'Oeroe dovettero accorgersi che questo non offriva alcun vantaggio tattico e perciò, fatta fare agli skenophori una congrua provvista d'acqua, i comandanti fecero dirigere la falange in modo da disporla con le retrovie almeno coperte dalle mura della cittadina di Platea. La nuova posizione assunta non era dunque più orientata a sud-est, come quella preventivata se ci si fosse fermati all'Isola, ma orientativamente essere rivolta ad est. La rotazione dell'asse dell'esercito, dal momento che sull'Asopo era orientato verso nord, dovette essere di circa 45° Quel che però adesso importa all'esame tattico della situazione e del suo svolgimento nell'immediato futuro è che il tratto più lungo di strada da percorrere di 106 Erodoto adotta la misura dello stadio attico, che è di 177 metri. Quello alessandrino era invece di 185. 60 A Proposito di Platea notte, appunto venti stadi, spettava agli Spartani di Pausania e ai Tegeati che stavano al loro fianco. E proprio tra gli Spartani di Pausania si manifestò un atto che, in qualsiasi esercito di epoca posteriore sottoposto ad una corretta disciplina militare, come ad esempio un esercito di Alessandro o anche soltanto una coorte romana, sarebbe stato giudicato e punito come un reato di sedizione. Si tratta infatti, come Erodoto ci descriverà tra poco, di un gravissimo atto di insubordinazione che fece fallire la manovra della ritirata notturna, mise in pericolo l'intero esercito e ne causò lo smembramento in tre tronconi. Il particolare che un tale rifiuto di obbedienza, perché di autentico rifiuto d'obbedienza si trattò, non sia stato punito, ma abbia dato luogo a semplici alterchi, è indice che l'arte militare del tempo, per quanto mostrasse già delle significative modifiche contrarie alla semplice ripetizione della tradizione, doveva percorrere ancora una lunga strada per diventare una scienza della guerra. 61 Piero Pastoretto Suddivisioni dell'esercito spartano Nella battaglia di Platea, sebbene i diversi contingenti ellenici si schierassero ancora in maniera piuttosto arcaica e 'omerica' secondo le città di provenienza, all'interno di ogni esercito, minuscolo o grande che fosse, vigeva già una ben organizzata suddivisione organica di reparti caratterizzati da un numero determinato di uomini; e di conseguenza esisteva pure una stabile, anche se non salda, catena di comando. L'organigramma più conosciuto è quello della falange spartana, ma è da supporre che anche le falangi delle altre polis, mutando magari il nome e qualche dettaglio, adottassero una suddivisione simile. L'unità base della falange spartana nel V secolo era l'enomotìa, costituita da 23 opliti su 3 file di otto uomini o due file di dodici e comandata da due ufficiali: un enomotarca in prima fila e un ouragos nell'ultima107. Due enomotie (50 uomini) formavano una pentecostia, guidata da un pentecontarco. Due pentecostie (100 uomini, quattro enomotie) costituivano un lochos al comando si un lochago. Quattro lochoi, 400 uomini, formavano una mora e sei more un esercito di 2.400 uomini. Nel corso dell’articolo, discorrendo genericamente dell’esercito della Lega Panellenica, uso indifferentemente i termini lochos e taxis per riferirmi a reparti costituiti da un numero definito di opliti. Senofonte, che scrive dopo le guerre del Peloponneso, cita delle cifre leggermente differenti per l'esercito lacedemone: l'enomotia di 36 elementi e il lochos di 144. La mora, invece, non compare mai in Erodoto ed è perciò da suppore che il lochos dei suoi tempi potesse essere anche più numeroso, come ad esempio quello tebano che, nel IV secolo era di 300 uomini. L'esercito achemenide, di contro, era capillarmente suddiviso secondo il sistema decimale, a partire dalla 'divisione' di 10.000 uomini (baivarabam, comandata da un baivarapatis ), ai 'reggimenti 'di 1.000 (hazarabam sotto il comando di un hazarapatis), alle 'compagnie' di 100 (satabam con alla testa un satapatis), per finire alle 'squadre' di 10 (dathaban guidate da un satapatis) e perfino ai gruppi di cinque (pascadathabam, cioè “mezzo dathabam”). 107 È parecchio impreciso l'uso del termine 'ufficiali' riguardo agli eserciti dell'Ellade, dove non esistevano eserciti professionisti. Erodoto li definisce opportunamente taxiarchi, “comandanti di reparti”. 62 A Proposito di Platea Data imprecisata di settembre. Notte fra il 13°e il 14° giorno. Sedizione di Amomfareto Il capitolo 53 è ben chiaro su questo punto: nella marcia notturna si mosse per primo il centro e la parte sinistra dell'esercito, mentre il corno destro dei Tegeati e dei Lacedemoni era rimasto immobile. La cosa doveva essere stata concordata, poiché Erodoto precisa che solo dopo aver visto che gli alleati toglievano il campo, Pausania ordinò ai suoi di prendere le armi e seguirli. A questo punto però nel campo lacedemone si sviluppò quella scena drammatica cui sopra accennavo, che Erodoto narra con particolare vivacità dedicandole addirittura cinque capitoli - cosa piuttosto insolita - dal 53 fino al 58. Si tratta di forse il più noto episodio d’insubordinazione di tutta storia militare greca. Amomfareto108, lochago del lochos di Pitane, si rifiutò di eseguire l'ordine di muovere interpretandolo come una fuga di fronte al nemico; aggiunse che non avrebbe disonorato Sparta e che si meravigliava, anzi, nel vedere tanti altri lacedemoni apprestarsi a partire109. A scusante del lochago Erodoto apporta il particolare che, essendo un taxiarco minore, non aveva partecipato al consiglio di guerra e così non era al corrente che si trattava di una decisione presa in comune e comunque di un riposizionamento e non di una fuga degli spartani. Di fronte all’ostinato rifiuto di Amomfareto Pausania ed Eurianatte si trovarono concordi nel condannarlo come un atto intollerabile e turpe (δεινòν), ma erano altrettanto consapevoli di non poter abbandonare Amomfareto e i suoi alla mercé del nemico. Sulla base di tali considerazioni tenevano fermo tutto l'esercito lacedemone e tentavano di convincere il lochago ribelle. Contemporaneamente gli Ateniesi, dall'ala opposta, vedendo che gli Spartani e i Tegeati non si muovevano, rimasero anch'essi fermi sulle loro posizioni, mentre il resto dei contingenti della Lega marciava per riposizionarsi oltre l'Oeroe. Prima di proseguire con il racconto erodoteo, intendo concentrare l'attenzione del lettore su questo particolare episodio che può essere interpretato come il paradigma della lenta e contrastata evoluzione, avvenuta agli inizi del V secolo, dall'arte militare ancorata al passato, verso la scienza militare del futuro. Per ben due volte Erodoto nel suo passo usa l'espressione “tentavano di convincerlo” riferita a Pausania ed Eurianatte nei riguardi del loro lochago. Ora, qualsiasi lettore converrà che “convincere” è un'espressione inconcepibile in un esercito moderno, 108 Amomfareto è un nome rarissimo, testimoniato a Sparta soltanto un'altra volta, al punto che secondo taluni si tratta di un soprannome. Il significato è all'incirca “Colui sul quale non si dice nulla di biasimevole”. Preferisco rendere in italiano il nome nella sua traslitterazione perfetta e non in quella, più consueta, di Amonfareto. 109 Pitane, sull'Eurota, era uno dei quattro distretti che, riunendosi in un sinecismo, avevano dato origine a Sparta. A loro volta i Pitanati erano una delle quattro philai (obe in dialetto locale) originarie in cui erano divisi gli spartiati. Ogni tribù forniva un lochos. 63 Piero Pastoretto concepito come un organismo in cui viga una gerarchia di comando che fa capo ad un potere riconosciuto e nei confronti della cui volontà sono validi soltanto i verbi “ordinare” e “ubbidire”. Un'espressione che denota quanto, tra gli Spartani come tra i Greci in genere, il concetto di esercito agli inizi del V secolo fosse ancora simile a quello dei poemi omerici, in cui non soltanto i capi come Achille, ma anche i gregari come Patroclo devono essere convinti, e combattono per scelta personale più che per dovere militare, obbedendo in primo luogo al loro onore, e poi al loro capo. Mi pare dunque che nell'intera vicenda riportata da Erodoto sia possibile, sì, rinvenire la cronaca di un momento della battaglia di Platea, probabilmente udita da una fonte spartana, ma che si possa contemporaneamente interpretarla secondo un sapore e un valore didascalico. Nella figura di Amomfareto, infatti, e nelle sue motivazioni legate all'onore proprio e della sua patria Erodoto rappresenta l'attaccamento cieco alla tradizione licurghea; mentre, nello sdegno impotente di Pausania ed Eurianatte vi è il messaggio delle nuove generazioni e delle nuove esigenze tattiche che avanzano. La scena concitata che ne scaturisce è la trasposizione artistica, ricavata dalla memoria di qualche reduce, del dibattito tra la conservazione e l'innovazione, l'andreia e la techne, la kalokagathia dell'oplite-eroe (ἥρως) e la subordinazione del soldato (στρατιώτες) verso l'autorità del comando. Sotto l’aspetto della disciplina risulta molto più moderno il concetto di esercito presso i Persiani, dove la volontà di un capo supremo viene diffusa e imposta attraverso una catena di comando a essa subordinata. E non è detto che proprio dal contatto con questa realtà così estranea allo spirito libertario, individualistico ed eroico greco, sia venuto lo stimolo profondo per riformare concettualmente i loro eserciti sino a portarli al livello di efficienza raggiunto alla fine delle guerre del Peloponneso e nel IV secolo. Data imprecisata di settembre. 15° giorno. Battaglia degli Spartani presso il tempio di Demetra Conseguenza diretta dell'insubordinazione di Amomfareto durante la notte, con il conseguente indugio di Lacedemoni e Tegeati, fu la pericolosissima rottura della fronte greca, che ancora il giorno precedente aveva tenuto testa bravamente all'attacco dell’intera cavalleria achemenide. La situazione può essere così descritta. L'esercito della Lega era frantumato in tre tronconi: l'ala sinistra degli Ateniesi e quella destra degli Spartani erano rimaste sulle loro posizioni; il centro aveva rinculato, aveva oltrepassato l’Oeroe e si era posizionato circa 3.500 metri più indietro, presso il tempio di Era e con alle spalle l'abitato di Platea. Tra le due ali rimaneva dunque uno spazio vuoto di diverse centinaia di metri, mentre il moncone che era stato il centro dello schieramento si trovava a non avere ali. Tale dissennata frantumazione, per la quale una parte dell'esercito si muove senza attendere 64 A Proposito di Platea l'altra, denota la carenza, o meglio l'inesistenza, tra le file degli Elleni, di comando, controllo e comunicazione110. E quanto alla tempistica, è meglio non parlarne. Gli Ateniesi intanto, vedendo che gli alleati del corno destro non si muovevano, inviarono loro un araldo per chiederne la ragione e questi assistette alla miseranda scena di Pausania, Eurianatte e Amomfareto che s’insultavano. A un certo punto del litigio e davanti agli occhi allibiti dell'araldo, Amomfareto, al culmine della stizza, prese addirittura una pietra con le mani e la posò ai piedi di Pausania, dicendo che con quel voto votava di non fuggire111. Erodoto non lesina di sicuro sugli aspetti comici e addirittura grotteschi della scena, al punto che taluni - non io fra questi - ritengono addirittura che tutto l'episodio sia frutto d’invenzione e del suo atteggiamento anti laconico112 anche perché il sistema di voto con i sassolini bianchi era un uso ateniese ma non lacedemone. Comunque stiano le cose, la contesa, se ci fu, dovette dilungarsi parecchio: almeno sino a quando Pausania prese finalmente una decisione. Congedò l'araldo ordinandogli di chiedere113 agli Ateniesi di avvicinarsi al suo corno e di seguirlo. Poi, convinto che Amomfareto, nonostante le sue rimostranze, non sarebbe rimasto da solo vedendo gli altri che si muovevano, dette l'ordine della partenza. Ordine troppo tardivo poiché, come ricorda Erodoto, era già l'aurora. Spartani e Tegeati dunque presero a ritirarsi mentre il lochos di Amomfareto ancora non si decideva a muoversi. La marcia dell’ala lacedemone fu tuttavia breve, poiché Pausania dette il comando di fermarsi dopo percorsi appena dieci stadi (1.700 m), nell'attesa che Amomfareto e i suoi, che si erano finalmente mossi, potessero raggiungerlo. Il luogo scelto era il corso d’acqua conosciuto come Moloeis e la località piuttosto elevata chiamata Agriopio, nei pressi di un tempio dedicato a Demetra Eleusina. Lì Amomfareto si ricongiunse con il resto degli Spartani, ma ormai doveva essere l'alba inoltrata e la cavalleria di Mardonio si gettava nel varco lasciato vuoto e si scagliava contro gli Spartani. Infatti: «Quando Amomfareto e i suoi li raggiunsero, tutta la cavalleria dei barbari gli si scagliò contro. I cavalieri infatti facevano quello che sempre erano soliti fare: vedendo che il luogo dove erano schierati i Greci nei giorni precedenti era vuoto, lanciarono i loro cavalli sempre più avanti e, quando li raggiunsero, li presero d’assalto.»114 110 Ciò che con linguaggio moderno si definisce C3. 111 Amomfareto avrebbe riscattato il suo impertinente atto d’insubordinazione con un comportamento valoroso sul campo e risultò anzi essere uno dei migliori fra gli Spartani. Cadde in battaglia e fu sepolto insieme agli altri spartiati in una delle tre tombe che i Lacedemoni eressero a Platea (IX, 85, 1). 112 Tra le ragioni apportate da chi ritiene l'episodio di Amomfareto frutto d’invenzione vi è quella che il sistema di esprimere il voto con un sassolino di diverso colore (ψῆφος) era in vigore ad Atene, ma non a Sparta. 113 Si noti bene: “chiedere”, non “ordinare”. 114 IX, 57, 3. 65 Piero Pastoretto Il capitolo successivo, il 58, interrompe ad arte la narrazione per inserire il discorso retorico di un trionfante Mardonio, il quale si mostra sempre più convinto che gli Elleni, e i tanto ammirati e temuti Spartani, siano in realtà degli imbelli 115. L'esame della situazione viene ripreso invece nei capitoli 59-61, dove le sorti dell'esercito della Lega sembrano ormai precipitare. Su ordine di Mardonio, tutta l'ala sinistra dei persiani, ossia la fanteria migliore, attraversò incontrastata l'Asopo116. A quella vista, e dunque in un secondo momento, anche il resto dell'esercito achemenide, costituito dai popoli barbari e dai Greci che fronteggiavano gli Ateniesi, superò il fiume e dilagò nella pianura. Pausania, sottoposto alle cariche della cavalleria, inviò un cavaliere (ιππέα)117 con una richiesta di aiuto agli Ateniesi affinché accorressero tutti insieme o inviassero almeno i loro arcieri. Gli Ateniesi si mossero immediatamente, però a loro volta furono subito attaccati e inchiodati sul posto dalla cavalleria beotica, e dagli opliti tebani, locresi e macedoni alleati del Gran Re. In questa maniera Lacedemoni e Tegeati, in tutto 11.500 uomini, con l'ausilio degli iloti e degli skenophori che Erodoto si ostina a qualificare “armati alla leggera” (σύν ψιλοĩσι) e che forse intervennero in battaglia alla disperata in difesa dei loro padroni, rimasti soli, dovettero sopportare l'attacco del nerbo dei Medi, dei Saci e dei Persiani. Questa volta però non erano più i cavalieri a incanzare Spartani e Tegeati, ma i fanti, che nel frattempo li avevano raggiunti 118. Erodoto infatti è inequivocabile nel descrivere il nemico. Mentre rammenta che Pausania sacrificava agli dèi, aggiunge: 115 Ovviamente il discorso di Mardonio sulla pusillanimità degli Spartani è frutto di pura inventio artistica erodotea. Mardonio conosceva benissimo il valore dei Lacedemoni, avendolo sperimentato alle Termopili l'anno precedente. Quel che preme all'autore è invece tratteggiare il carattere oltracotante e l’insolente ybris del generale persiano destinato a morire di lì a poco per mano di quegli Elleni che tanto disprezza. 116 Come ho osservato in precedenza, questa volta, avendo fatto avanzare le fanterie dietro la cavalleria, Mardonio intendeva dare il colpo di grazia all’esercito della Lega e risolvere in giornata la battaglia. 117 Anche l'araldo ateniese era un cavaliere. Poiché è comprovata l'assenza assoluta di cavalleria tra gli Elleni della Lega a Platea (a differenza, come vedremo, dei Beoti alleati del Gran Re), non resta che ritenere che solo alcuni personaggi ne fossero dotati. È ipotizzabile, ad esempio, che l'araldo appartenesse alla classe dei cavalieri (triacosiomedimni) prevista dalla riforma censitaria di Solone, e che quindi abbia partecipato alla campagna con il proprio cavallo. Può essere, peraltro, che tutti gli araldi, per il prestigio della loro carica fossero nobili e pertanto qualificati ippéis. Ritornerò sull’argomento con un apposito riquadro. 118 Torno a concentrare l’attenzione del lettore sulla tattica differente adottata da Mardonio rispetto al giorno precedente. Allora era stata soltanto la cavalleria a caricare su tutto il fronte greco, con l’unico scopo di allontanare il nemico dall’Asopo, ma non di attaccare una vera battaglia. Adesso invece il generale persiano ritira la cavalleria e tenta di annientare gli Spartani con la schiacciante superiorità numerica della sua fanteria migliore. 66 A Proposito di Platea «I sacrifici non riuscivano favorevoli e molti di loro nel frattempo caddero e ancor più furono feriti; i Persiani infatti, formando una barriera di scudi (φράξαντες γὰρ τὰ γέρρα), scagliavano molte frecce, senza risparmio, così che, con gli spartiati incalzati e i sacrifici che non riuscivano, Pausania, volgendo lo sguardo verso il tempio di Era dei Plateesi, invocò la dea chiedendole di non deluderli nella loro speranza.» 119 A questo punto, all’inizio del cap. 62, Erodoto introduce uno dei tanti prodigi con cui adorna sapientemente le sue narrazioni di battaglie. Poiché gli Spartani non si decidevano ad attaccare combattimento a causa degli auspici sfavorevoli, e subivano passivamente la pioggia di frecce persiane accusando parecchie perdite, lo fecero al loro posto i Tegeati, che s’interposero generosamente fra le due schiere per proteggere gli alleati. All’improvviso però, e subito dopo la preghiera di Pausania, i suoi sacrifici riuscirono finalmente propizi e anche gli Spartani, rinfrancati, mossero contro il nemico. I Persiani a loro volta, «lasciati da parte gli archi» (τὰ τόξα μετέντες), attaccarono. Dapprima, riferisce lo storico, la battaglia avvenne «intorno agli scudi» (περὶ τᾲ γέρρα). «Quando questi caddero» (ὡς δὲ ταῦτα ἐπεπτώκεε), una «violenta battaglia» (μάχη ἰσχυρὴ) infuriò presso il tempio di Demetra finché arrivarono al corpo a corpo (ἐς ὠθισμόν). A questo punto è tuttavia opportuno che io abbandoni per un istante la cronaca degli avvenimenti e mi soffermi per una breve riflessione sui termini greci che ho appena riportato e sulle utili notizie che da questi possiamo ricavare. 119 Erodoto, IX, 61, 3. Era tradizione che il comandante spartano sacrificasse personalmente una capra ad Artemide Agrotera prima di attaccare qualsiasi combattimento. Qui la preghiera di Pausania rappresenta drammaticamente la pietas del comandante spartano in contrapposizione alla empietas di Mardonio. 67 Piero Pastoretto Di alcune considerazioni storico-lessicali È noto a molti, se non a tutti, che, specie per le opere antiche, l’attenzione ai particolari e alle scelte linguistiche degli autori è di capitale importanza sia per ricavarne notizie apparentemente oscure, sia per non cadere in sciocchi errori. Si tratta soltanto di esercitare un poco di pazienza e di acume; e il paragrafo precedente mi fornisce il destro per offrirne una prova. Comincio da τὰ τόξα μετέντες, “lasciati da parte gli archi” nella traduzione di Augusto Fraschetti, da cui si evince che non soltanto la fanteria leggera degli eserciti achemenidi, ma anche quella d’eccellenza, cioè scudata, dotata forse anche di qualche protezione del corpo come quella persiana e meda degli sparabara120, nel 479 andava regolarmente in battaglia armata non soltanto di scudi, ma anche di archi. Ciò costituisce una singolarità tutta persiana, mostrata peraltro anche nei bassorilievi di Persepoli, dove si osservano gli stessi melofori, cioè le guardie del corpo del Re, incedere solennemente con scudo a dypilon lancia, turcasso e arco a tracolla. Se ne deduce che la fanteria d’eccellenza persiana, costituita esclusivamente da personale nazionale e scelto, riuniva in sé entrambe le specialità degli arcieri e dei fanti di linea: era cioè scudata e fornita spada (acinace, ἀκινάκης) come qualsiasi fanteria pesante, ma era capace di ferire a distanza come le fanterie leggere. Da qui si deduce che le fanterie nazionali persiane dovevano subire un particolare addestramento finalizzato a rendere familiari entrambe le specialità. Ciò peraltro non deve affatto stupirci, se consideriamo che l’arco era l’arma perspicua dei popoli iranici e, come afferma lo stesso Erodoto, a tutti i giovani persiani e specialmente ai nobili erano insegnate tre cose: non mentire, montare a cavallo e tirare d’arco. Più interessante è soffermarsi sull’espressione idiomatica περὶ τᾲ γέρρα (perì ta gherra), “intorno agli scudi”. Cosa può voler comunicare l’autore con la locuzione che si combatteva intorno agli scudi? La mia interpretazione è che qui Erodoto intenda nient’altro che l’ὠθισμός (othismόs) il cozzo delle schiere dopo l’avanzare più o meno veloce che si risolveva in uno spingere forsennato di scudo contro scudo. Ora, se questo modo di combattere in schiere serrate disposte su più linee cercando di ferirsi con le lance era tipico della tattica oplitica greca, e se la mischia avveniva secondo l’othismós da entrambe le parti, se ne deduce che fosse adottato anche della fanteria achemenide; o che comunque, se anche questo non era l’approccio prediletto dai persiani, i loro soldati migliori avevano ricevuto almeno un sommario addestramento di tipo oplitico in vista di un quasi certo scontro con la falange greca. A questo punto occorre però concentrarsi su quell’ὡς δὲ ταῦτα ἐπεπτώκεε (os de tàuta epeptókee), che sottintende τᾲ γέρρα ed è traducibile con “quando questi caddero”. La voce greca γέρρον (gherron) designa precisamente lo scudo persiano di vimini rivestito di cuoio, a forma di torre (spara) o lunata, piuttosto che di dypilon. L’enigmatica proposizione temporale “Quando questi caddero” indica poi che nello, sforzo schiera contro schiera e scudo contro scudo, quelli persiani, molto più leggeri e fragili di quelli argivi costruiti in solido legno, ricoperti all’esterno da una sottile lamina di bronzo e all’interno foderati di cuoio, cedettero e furono abbandonati o gettati perché infranti nello scontro o trapassati dai δόρυ 121. Per questo motivo esito definire veramente “pesante” la fanteria pur d’eccellenza dei Medi e dei Persiani che si scontrarono con Pausania a Platea. Innanzitutto, come mostrerò in modo 120 Per il modo di combattere degli sparabara persiani, vedi l’Appendice II. 68 A Proposito di Platea inoppugnabile tra breve, gli achemenidi erano scarsamente dotati di lance da urto; in secondo luogo, se anche portavano delle leggere protezioni del corpo sotto le vesti, queste non erano nemmeno lontanamente paragonabili alle corazze e agli elmi corinzi di bronzo degli opliti spartani; infine anche i loro gherra erano molto più fragili di quelli avversari Se dunque quel “quando gli scudi caddero” connota indiscutibilmente la superiore efficienza dell’equipaggiamento pesante dell’oplite nei confronti del fante persiano, quanto alla μάχη ἰσχυρὴ (màche iskyrè) che infuria nei pressi del tempio di Demetra, mi sembra non ci sia modo diverso d’interpretare queste parole se non come l’indizio che lo schieramento persiano, prima ordinato, aveva ceduto subendo la classica παράρρηξις (paràrrexis), e la battaglia, da disciplinato scontroincontro di due schiere su più linee, era per così dire dilagata nella pianura frazionandosi in feroci mischie individuali o di gruppi. Non rimane che analizzare quell’ἐς ὠθισμόν (es othismón) “a corpo a corpo” finale e giudicarlo un uso improprio da parte di Erodoto della voce greca, che nel lessico militare indicava lo scontro e il premere scudo contro scudo tra falangi fino alla rottura e al cedimento di una delle due. Nella fase descritta, invece, tale fase del combattimento era già stata superata avendo i persiani perduto o abbandonato i loro scudi. 121 Il δόρυ (dory) era la pesante lancia da urto dell’oplite, lunga dai due a tre metri, con il corpo in legno di corniolo o di frassino di circa cinque centimetri di diametro e punta in ferro e puntale in bronzo. Il peso totale di quest’arma micidiale era di circa due chilogrammi - due chilogrammi e mezzo. 69 Piero Pastoretto Procedendo a una sintesi ragionata del primo scontro nella piana di Agriopio, si può così riassumere: gli Spartani e i Tegeati al loro fianco sinistro si fermano presso il torrente 122 Moloeis e il tempio di Demetra e vengono raggiunti dalla fanteria persiana e meda; - i nemici si fermano a distanza, assumono uno schieramento compatto su più file protette dagli scudi (φράξαντες γὰρ τὰ γέρρα) e cominciano a tempestare gli Spartani (ma, apparentemente, non i Tegeati), con le loro frecce; gli Spartani, obbedendo agli auspici sfavorevoli, non attaccano combattimento e dal racconto di Erodoto non vi è alcun indizio che siano schierati a falange; anzi, dal momento che subiscono forti perdite, è deducibile che non lo fossero; - I Tegeati, che invece dovevano già aver assunto la formazione, avanzano verso il nemico e gli Spartani, riusciti i sacrifici, li seguono. Stavolta, come appare ovvio dalla relazione erodotea, nella consueta formazione falangitica spalla contro spalla123; lo schieramento persiano non sopporta l’urto e cede (παράρρηξις), ma non si dà alla fuga; - la battaglia si frantuma. Il capitolo 62 continua con le opportune osservazioni dell’autore sui motivi dell’inferiorità tattica e della conseguente sconfitta persiana. Si tratta, devo aggiungere, di un’analisi apprezzabile in quanto opera di un uomo di lettere e non di uno storico con esperienza e familiarità dei temi militari, come ad esempio Tucidide e, dopo di lui, Polibio. Riporterò per prima cosa il pensiero di Erodoto, per poi soffermarmi su due brevi ma piuttosto difficili passi del capitol 62 che mi sembra richiedano un’attenta lettura e riflessione. «I Persiani per ardimento e per forza non erano certo inferiori ma, privi di armatura oplitica (ᾃνοπλοι ἐόντες) e inoltre inesperti, erano impari ai nemici in abilità tattica (οὐκ ὅμοιοι τοῖσι ἐναντίοισι σοφίην.» 122 Scrivo ‘torrente’ e non ‘fiume’, dal momento che il Moloeis (oggi, se non erro, scomparso) doveva essere estremamente povero d’acque, altrimenti gli Elleni avrebbero potuto approvvigionarsi dalle sue sponde, essendo ubicato nelle loro retrovie. 123 Si osservi come, a differenza del giorno precedente, quando era rimasta immobile alla carica della cavalleria, la falange greca riassume il consueto schema di combattimento e avanza incontro al nemico. 70 A Proposito di Platea «[…] A danneggiarli era soprattutto il loro equipaggiamento privo di armi pesanti: armati alla leggera (γυμνῆτης), infatti, si scontravano con opliti.»124 In questo breve inciso Erodoto non solo tributa onore al nemico, cosa comprensibile trattandosi del nerbo delle truppe persiane, e tuttavia parecchio inusuale tra gli storici greci, ma individua anche oculatamente le ragioni della superiorità degli Elleni, che non sono ricercate nell’eccellenza delle qualità fisiche o morali, ma molto più concretamente nell’equipaggiamento oplitico e nell’addestramento pratico. Procedo adesso a esaminare, come mi sono ripromesso, i due periodi del capitolo 62 che a mio parere sono bisognosi di un certo impegno interpretativo da parte mia. Ermeneutica che, ovviamente, il lettore avrà tutto il diritto di accettare come di respingere. Il primo periodo, posto fra due punti fermi e molto essenziale, viene subito dopo il racconto dell’abbandono degli scudi seguito dalla confusione nella linea persiana e la μάχη ἰσχυρὴ presso il tempio di Demetra. Suona così «I barbari infatti afferrando le lance le spezzavano (τᾲ γᾲρ δόρατα ἐπιλαμβανόμενοι κατέκλων).» Per essere precisi fin dall’inizio, devo ricordare che in nessun luogo dei capitoli 62 e 63 si evince che la fanteria achemenide a Platea fosse dotata di lance come quella greca. Peraltro, neppure nella copiosissima ceramica del V secolo si osservano figure di persiani armati di lance, a meno che non si tratti cavalieri, di Immortali (in persiano Amrtaka) o di melofori. La certezza che lo scontro fra Tegeati e Spartani contro l’élite delle truppe achemenidi sia avvenuto sì scudo contro scudo, ma non lancia contro lancia, ci è però fornita soltanto dal passo appena citato. Per ricapitolare, ci troviamo nel momento della narrazione in cui gli Elleni, effettuato il rinserramento delle file (πύκνωσις), premono sugli scudi avversari e le linee nemiche vacillano sfaldandosi e perdendo di compattezza. A questo punto la battaglia si trasforma in un “corpo a corpo” in cui i barbari afferrano le lance degli Elleni e le troncano. Ora, ragioniamo insieme: per ghermire una lancia nemica in un estremo gesto di autodifesa è necessario usare entrambe le braccia, o almeno quello destro se il sinistro regge ancora lo scudo. In ogni caso occorre non possedere a nostra volta una lancia, poiché altrimenti la useremmo sia per difenderci parando o deviando il colpo, sia per offendere colui che ci assale; allo stesso tempo, per troncare una lancia avversaria sono necessarie due mani, la sinistra che la tiene ferma e la destra che la spezza con una lama tagliente; 124 IX, 62, 3 e 63, 3. 71 Piero Pastoretto in conclusione ricaviamo che la fanteria achemenide che si oppose all’ala destra degli Spartani e dei Tegeati era dotata di scudi, archi e armi corte, ma non di lance 125; e che la loro mancanza, unita all’assenza di robuste corazze e di scudi solidi, la poneva in insormontabili condizioni d’inferiorità nei confronti dei micidiali dory degli opliti. A proposito delle due concezioni tattiche che stiamo osservando, quella greca del muro di scudi irto di lance, e quella persiana dotata di scudi e di archi ma non di lance, non mi sembra corretto giudicare quest’ultima inferiore alla prima. Il dory degli opliti era un’arma eccellente, ma nella storia abbiamo esempi di disposizioni tattiche ancor più efficaci di quella oplitica, che tuttavia non erano armate di lance da urto, né si disponevano in ranghi serrati fino allo spasimo. Intendo riferirmi all’agile ed ‘arioso’ schieramento della legione manipolare e successivamente coortale, in cui i fanti erano distanziati di quasi un metro gli uni dagli altri e nel combattimento schiera contro schiera non facevano uso di lance, ma soltanto di armi corte come i gladi, essendo i loro pili soltanto delle armi da getto. Ora però, il discorso intorno al passo erodoteo non può dirsi esaurito se non cercassi di individuare con quale arma i barbari troncavano le lance greche. L’acinace, la rinomata spada persiana, qualunque forma avesse (l’iconografia greca ci propone parecchie fogge molto differenti tra loro) e per quanto fosse dotata di un ottimo taglio, mi sembra insufficiente a troncare di colpo un’asta di cinque centimetri di diametro, soprattutto se fatta di corniolo, legno notoriamente tra i più duri. Esisteva però molto diffusa tra i Persiani un’altra arma parecchio letale e temuta dagli Elleni, la sagaris (σάγαρις), che molti erroneamente attribuiscono alla sola cavalleria, mentre numerosi vasi attici del V secolo la mostrano maneggiata anche da semplici fanti. La sagaris era una scure da guerra, tipica dei popoli nomadi delle steppe eurasiatiche come i Sarmati e gli Sciti ed ereditata in particolare dai Medi. I Greci, e in particolare Diodoro, favoleggiavano che la sua invenzione e uso risalissero alle Amazzoni. L’arma, maneggevole ma robusta, era costituita da un manico che doveva essere lungo 70 - 80 centimetri e da una testa con una lama a scure da un lato e a becco dall’altro. In alcune raffigurazioni compare invece come una bipenne. Qualunque fosse la sua forma al tempo delle Guerre Persiane, la sagaris, a differenza dell’acinace, doveva possedere tutte la caratteristiche necessarie a troncare o comunque a rendere inservibile l’asta di un pesante dory oplitico e pertanto si deve dedurre che i fanti persiani, tutti o in parte, dovevano esserne dotati in luogo delle lance. 125 Questa mia conclusione, che cioè la fanteria meda e persiana a Platea non era armata di lance, contrasta con la ricostruzione che gli storici fanno dell’armamento degli sparabara persiani. Non me ne sgomento, poiché ci troviamo nel 479 a.C. e non ai tempi di Alessandro, quando sappiamo che queste milizie erano dotate di lance almeno nella prima fila. Rimando comunque il lettore, per un maggiore approfondimento sulla questione, all’Appendice II. 72 A Proposito di Platea Resta da esaminare il secondo passo che mi sono riproposto di commentare, che si colloca immediatamente dopo la citata constatazione erodotea che i Persiani erano inferiori agli Spartani per inesperienza e abilità tattica. «Balzando avanti (προεξαΐσσοντες) ad uno ad uno, oppure a dieci, o raccogliendosi anche in torme più o meno numerose, piombavano sugli Spartani ed erano fatti a pezzi (ἐσέπιπτον ἐς τοὺς Σπαρτιήτας καὶ διεφθείροντο).» Dalla lettura del brano appare evidente l’impreparazione e l’imperizia dei Persiani nello scontro falangitico a linee serrate e la loro innata inclinazione a combattere in formazioni allargate. Infatti, uscire dei ranghi individualmente o a gruppi costituisce una vera e propria ingenuità tattica in una battaglia tra falangi, dal momento che lo sfaldamento incontrollato della linea non solo espone il singolo o il gruppo a morte certa, ma crea anche delle falle esiziali nell’intero schieramento. “Balzare avanti”, come facevano i Persiani lasciando la linea di fila, può essere giudicato un atto di coraggio eroico o di profonda disperazione, ma in entrambi i casi metteva tutto l’esercito in un pericolo capitale. Grande merito va riconosciuto a Spartani e Tegeati per aver imposto al nemico di combattere secondo le loro regole e per non essersi essi adattati a quelle dei Persiani. Morte di Mardonio La battaglia sul fianco destro di quello che era stato lo schieramento greco, battaglia rischiosissima in quanto Pausania era rimasto isolato e doveva sostenere l’offensiva della parte migliore della fanteria persiana, si risolve nel più omerico dei modi, con la morte sul campo di Mardonio. Caduto lui e i mille valorosi che lo accompagnavano 126, contro i quali maggiore si era fatto il furore dei Lacedemoni, tutta l’ala sinistra persiana si sfaldò e fu messa in rotta. Stando alla narrazione di Erodoto ai capitoli 63 e 64, sul suo cadavere non si accese però, come si potrebbe immaginare la lotta furibonda che era invece avvampata sul corpo di Masistio127. L’autore si limita infatti a citare il nome dell’uccisore, lo spartiate Aeimnesto, aggiungendo che questo personaggio sarebbe morto, insieme ad altri trecento Spartani poco dopo la fine della guerra persiana, a Steniclaro, combattendo 126 Osservo che Mardonio, come d’altra parte Masistio prima di lui, adottavano le consuetudini dei loro re che, ancora al tempo di Alessandro, si collocavano al centro dello schieramento circondati dalle loro guardie scelte. 127 Secondo altre fonti più tarde, Mardonio scampò alla morte con pochi altri, oppure fuggì ferito e fu poi ucciso a Delfi mentre si apprestava a saccheggiarne il santuario. 73 Piero Pastoretto contro i Messeni128. Sulla sorte successiva del corpo di Mardonio Erodoto torna più tardi129. Qui invece l’autore si diffonde a esaltare la figura eroica di Pausania ricordandone gli antenati e soprattutto a sottolineare, facendo ricorso all’epica omerica, come ho osservato all’inizio del lavoro, che Platea e la morte di Mardonio erano l’espiazione, la compensazione e la vendetta (ποινή) per le Termopili e per la morte di Leonida (δίκη τοῦ φόνου τοῦ Λεωνίδεω). Erodoto infatti rammenta la profezia di Artabazo (VII 108, 3) e richiama la reazione sdegnata di Serse alla richiesta spartana di soddisfazione per l’uccisione di Leonida, il cui corpo fu invece vilipeso e sconciato. Nell’immaginario e nella ricostruzione di Erodoto, dunque, Platea è il più grande trionfo degli Elleni sui barbari, superando di gran lunga la gloria di Salamina e della medesima Maratona. Si tratta, in brevi termini, dell’unica volta in cui all’autore viene meno il suo spirito filo attico e anti laconizzante. Di Pausania, anzi, si dilunga a descrivere anche l’aspetto magnanimo. Ai capitoli 78 e 79 narra ad esempio come l’egineta Lampone, terminata la battaglia, esortasse lo spartano a trattare il cadavere di Mardonio come Serse aveva trattato quello di Leonida, e cioè a tagliargli il capo e issarlo su un palo. La nobile risposta di Pausania fu che quel comportamento conveniva più ai barbari che agli Elleni, e che Leonida era stato vendicato a sufficienza. Battaglia nel settore sinistro degli Ateniesi Credo di aver chiarito a sufficienza che l’esercito greco, durante la ritirata notturna, si era pericolosamente spezzato in tre tronconi: quello sinistro di Aristide, tenuto da Ateniesi, Megaresi e Plateesi (11.600 uomini), praticamente non si era mosso dalle sue posizioni iniziali per recare supporto al fianco destro degli Spartani e Tegeati. Su queste posizioni era stato inchiodato dall’attacco dei contingenti di opliti e cavalieri alleati del Gran Re, primi fra tutti i Beoti, nemici storici di Atene; 128 Confesso di non essere riuscito a venire a capo di questa notizia di Erodoto. Dai dizionari delle battaglie da me consultati risulta che lo scontro di Steniclaro (Στενυκλήρος) era avvenuto durante la seconda guerra Messenica intorno al 650, al tempo del re Euricrate della dinastia degli Agìadi, allorché Aristomene, alleato di Arcadi e Argivi, sconfisse gli Spartani. Qui forse l’autore cita un episodio sconosciuto della terza guerra messenica (464-461) combattuta contro gli iloti ribelli dal figlio di Leonida Plistarco. Anche il nome Aeimnesto è praticamente sconosciuto all’onomastica greca e forse è da sostituirsi con Arimnesto. Erodoto tra l’altro cita tra i combattenti di Platea un Arimnesto plateese (IX, 72,2). Plutarco riferisce che Mardonio fu ucciso dall’oplite spartano con una pietra, ma è da pensare che si sia rifatto un po’ troppo ai modelli dell’Iliade, dove gli eroi spesso combattevano a colpi di macigni (cfr. ad es. il duello tra Aiace ed Ettore, Iliade, VII, 206-312). 129 IX, 84, 1. 74 A Proposito di Platea il settore destro di Pausania, attardato dall’increscioso incidente di Amomfareto, si era spostato di appena due chilometri ed era stato raggiunto dai Persiani ad Agriopio, vicino al tempio di Demetra, con il grave rischio di venire annientato dalla potente e numerosa fanteria achemenide; il centro, composto da un numero di opliti più o meno pari alla somma dei due tronconi precedenti, ed in cui i Corinzi costituivano il contingente più folto, aveva condotto invece una manovra ben ordinata e si era disciplinatamente schierato presso il santuario di Era (Ἥραιον) con alle spalle l’abitato di Platea, in modo da non poter essere eventualmente aggirato. Anche il centro, ovviamente, era destinato a essere raggiunto dalla marea montante dell’offensiva generale persiana che aveva passato l’Asopo; l’orientamento della battaglia fu di conseguenza modificato e, mentre Ateniesi e Spartani combatterono con la fronte verso nord, i Corinzi ed il centro tenevano lo schieramento rivolto grossolanamente a nord-est. Poiché la battaglia si è così frazionata, di necessità Erodoto deve dividere la propria attenzione fra ciascuno dei tre episodi separati ed io, dietro a lui, devo fare altrettanto cercando di mantenere salda la concentrazione, l’unità e la contemporaneità degli avvenimenti. L’interesse dello storico greco segue ancora, nei capitoli 65 e 66, le vicende più calde e gloriose del fianco destro di Pausania, là dove era caduto Mardonio insieme ai mille Persiani scelti che lo accompagnavano, e dove si profilava la rotta della fanteria nemica. Questa, nel panico più totale, si diresse prima verso l’accampamento fortificato oltre l’Asopo e, non sembrando questo sufficiente a fermare gli opliti spartani, ancora più indietro verso il “muro di legno” (τεῖχος ξύλινον) che prudentemente Mardonio aveva fatto erigere tra Platea e la vicina Tebe. La vittoria così netta di Spartani e Tegeati è però parzialmente ridimensionata da un particolare che Erodoto mette in luce solo adesso, e cioè che essi non dovettero combattere contro tutta la fanteria persiana, ma soltanto contro una parte di essa. Era avvenuta infatti, in campo persiano, una defezione ben più grave ed esiziale di quella di Amomfareto tra gli Elleni: la diserzione di Artabazo e di tutta la fanteria comandata personalmente da lui, che Erodoto stima, esagerando, in quarantamila uomini. Che fra Artabazo e Mardonio non fosse mai corso buon sangue per motivi di gelosia o di strategia ho già avuto occasione di sottolinearlo130. Entrambi nelle grazie di Serse, il primo però sin dall’inizio, al contrario di Mardonio, si era mostrato molto dubbioso sull’utilità e la riuscita della spedizione. Pur essendo rimasti inascoltati i suoi consigli, 130 Occorre forse ricordare che Mardonio aveva ottenuto l’incarico di comandante supremo delle truppe rimaste in Ellade anche perché nipote di Dario e genero e cugino di Serse; e che comunque le sue opinioni strategiche si mostrarono sempre servilmente favorevoli a quelle del suo augusto cugino. 75 Piero Pastoretto l’aver sedato la rivolta di Potidea131 lo aveva posto ancor più in buona luce presso il Re ed era perciò l’indiscusso comandante in seconda di tutte le forze persiane lasciate in Ellade dopo la disfatta di Salamina. Lo abbiamo già visto suggerire a Mardonio, ancora una volta inascoltato, di non accettare battaglia contro la Lega ma di percorrere invece la via diplomatica del divide et impera. Nella giornata di Platea il suo tradimento dovuto al malanimo verso il comandante in capo, o la sua sincera convinzione che attaccare battaglia avrebbe condotto a un disastro senza pari dell’intera spedizione, oppure ancora la sua onesta volontà di salvare almeno una parte dell’esercito del suo Re, vennero finalmente allo scoperto132. Fatto sta che, a quanto si evince dal capitolo 66 del libro IX, Artabazo era al comando della retroguardia o comunque delle seconde linee della fanteria meda e persiana. Appena Mardonio ebbe attaccata battaglia contro gli Spartani egli condusse in avanti le proprie truppe in assetto di guerra (κατηρτισμένους) come se volesse entrare in combattimento; ma, quando vide i Persiani che fuggivano disordinatamente, fece la stessa cosa. Non si diresse però verso il muro di legno come gli altri, ma prese precipitosamente la via dell’Ellesponto, salvando così se stesso e i suoi. Nel capitolo successivo, il 67, Erodoto passa a occuparsi dell’ala ateniese, che si confrontava con gli alleati greci del Re. Il suo giudizio verso costoro (tra i quali, non dimentichiamolo, vi erano anche i Macedoni di un segreto partigiano della Lega come Alessandro), forse anche per spirito partigiano verso i traditori della propria stirpe, è drastico: Locresi, Mali, Focei e Tessali vengono qualificati tutti insieme come: coloro che “combatterono da vili” (ἐθελοκακεόντων). Fanno eccezione, invece, nel parere di Erodoto, i Beoti e in particolare i Tebani, trecento dei quali, i più valorosi, caddero per mano degli Ateniesi133. I Beoti, gli unici a uscire onorevolmente sconfitti sul campo, presero la via di Tebe senza mescolarsi con la massa degli altri che, senza neppure aver combattuto, avevano preso la fuga insieme alle turbe dei Persiani e ai barbari (Sciti) loro alleati. Non vi è dubbio che l’autore, concentrando l’attenzione del lettore su quell’isolato e ordinato ripiegamento dei Beoti mostri, una certa ammirazione per la dignità di questo popolo che, alleato di un nemico mortale per tutta l’Ellade, in quanto greco aveva saputo combattere lealmente rispettando fino alla morte la fedeltà alla causa scelta, ancorché quella causa fosse perdente e soprattutto apparisse a Erodoto stesso scellerata. Peraltro, la sostanziale obiettività e il formale rispetto dell’autore anche verso i nemici della sua gente erano già emersi nei suoi giudizi nei riguardi delle fanterie nazionali persiane e di singoli combattenti come Masistio o Mardonio. 131 Erodoto, VIII (Urania), 126-129. 132 Ho voluto in prima persona avanzare tutte le ipotesi possibili sulle motivazioni del comportamento di Artabazo. Erodoto, su questo tema, non si sbilancia. Certo è però che Serse accolse il suo generale come un fedele servitore e lo premiò nominandolo nel 477 satrapo della Frigia ellespontica. Si trattò forse, in questo caso, di pura convenienza politica: non fece forse la stessa cosa il Senato con Terenzio Varrone sopravvissuto a Canne? 133 Ancora una volta ricorre il numero trecento. 76 A Proposito di Platea Nel capitolo 68 l’autore tesse pure le lodi dei cavalieri tebani, che si sacrificarono per proteggere la ritirata dei loro opliti. Un impiego tattico, occorre dirlo, inedito per la cavalleria, adoperata non più solo nelle incursion, o a scopo esplorativo, nello sfondamento brutale o nell’aggiramento veloce, ma con il compito precipuo di alleggerire la pressione dell’avanzata nemica per favorire lo sganciamento della propria fanteria. Osservo che questa innovazione, ancorché appaia per così dire spontanea, non regolamentata e, a quanto mi consta, neppure ripetuta durante le guerre del Peloponneso o di Alessandro, ma codificata nei più tardi manuali di polemologia ellenistici, è sorprendente e torna a vantaggio della mia tesi di partenza, che cioè qualcosa stava spontaneamente cambiando negli orientamenti tattici dell’Occidente all’inizio del V secolo. Il passo con cui inizia il capitolo 68 mi consente di approfondire l’argomento cavalleria e di apportare alcune ulteriori osservazioni. «Così fuggivano tutti eccetto (πλήν) la cavalleria e in particolare quella dei Beoti: quest’ultima diede un grande aiuto ai fuggitivi, sia tenendosi sempre vicinissima ai nemici, sia allontanando dai Greci gli amici che fuggivano (φιλίους φεύγοντας). I vincitori tenevano dietro agli uomini di Serse, inseguendoli e massacrandoli.» I due brevi periodi che compongono il brano ci rendono informati di diversi particolari e pertanto invito chi mi sta seguendo a rileggerli attentamente: innanzitutto apprendiamo che i cavalieri beoti non erano i soli a fronteggiare gli Ateniesi, ma con loro dovevano esserci anche dei barbari, verosimilmente i Saci, che sappiamo essere schierati al fianco destro dell’esercito di Mardonio e che al capitolo 71 Erodoto loda per il valore dimostrato in battaglia; in secondo luogo si ricava che il primo impeto contro Ateniesi, Plateesi e Megaresi non dovette essere quello della cavalleria, ma della fanteria oplitica, in quanto Erodoto cita i cavalieri beoti solo a proposito delle loro manovre per proteggere la fanteria in fuga e non parla affatto di una carica lanciata contro la falange; dunque la cavalleria tebana, certamente non numerosa, e quella sace, dovevano essere disposte in seconda schiera e, dal momento che i cavalieri avevano già attraversato l’Asopo il giorno precedente, dobbiamo supporre che essi si siano aperti per far passare le fanterie; infine apprendiamo che i cavalieri tebani non soltanto contrastavano l’inseguimento di quelli della Lega Panellenica, ma allontanavano dai Greci anche “gli amici in fuga”, cioè gli alleati, impedendo loro di mescolarsi con le file tebane. Questo singolare comportamento spinge a formulare almeno due ipotesi: o la cavalleria beotica agiva così per impedire che i barbari, lanciati in una rotta ormai irrefrenabile, comunicassero agli opliti connazionali il loro timor panico; e in questo caso 77 Piero Pastoretto si deve supporre che le fanterie tebane stessero arretrando ordinatamente e non fuggendo; oppure, e ritengo sia di gran lunga la congettura più verosimile, i cavalieri beoti impedivano agli “amici” barbari di rifugiarsi fra le file tebane per cercare scampo a Tebe anziché, insieme ai loro connazionali, dietro il “muro di legno” fatto preparare da Mardonio. In altri termini i soldati non greci sapevano perfettamente che, se avessero continuato a seguire la sorte dei loro compagni oramai sconfitti, sarebbero stati sterminati senza pietà dagli opliti della Lega; viceversa, rifugiarsi a Tebe, avrebbe fornito loro una minima speranza di rimanere in vita. In ogni caso, se la mia ricostruzione è esatta, l’orribile scena della rotta dei barbari dell’ala destra achemenide a Platea, incalzati dagli Ateniesi e scacciati dai cavalieri tebani, non sarebbe rimasta unica nella storia ma si sarebbe riproposta, fra eserciti alleati, molte volte al termine di una battaglia perduta. Una delle ultime, correggetemi se sbaglio, vide a El Alamein i tedeschi sacrificare alla prigionia i “camerati” italiani sottraendo i loro automezzi e impedendo loro di salire a bordo di quelli germanici, pur di salvarsi e sfuggire all’8a Armata di Montgomery. Il profondo disprezzo di Erodoto verso i contingenti barbari a Platea 134, in contrasto con la sostanziale ammirazione verso le milizie nazionali persiane e nei confronti del comportamento valoroso in battaglia dei loro capi quale che fosse il giudizio morale su di loro, emerge tutto dal seguente e lineare periodo con cui inizia il capitolo 68. «È per me dimostrato che tutta la potenza dei barbari dipendeva dai Persiani, se anche allora essi si davano alla fuga prima di scontrarsi con i nemici, quando videro che lo facevano anche i Persiani.» Questo inciso permette di confermare un’ulteriore notizia di una certa importanza per la ricostruzione degli avvenimenti di Platea: che la fuga dell’ala destra persiana davanti agli Ateniesi dovette avvenire successivamente a quella dell’ala sinistra davanti agli Spartani. Infatti Erodoto è ben esplicito nel riferire che i nemici (ma non i Beoti) fuggirono senza combattere dopo aver visto la fuga dei Persiani. Fuga che certamente non doveva essere difficile scorgere, considerando le limitate distanze e la circostanza che anche le truppe di Artabazo si stavano ritirando in fretta; così come non doveva essere neppure difficile udire i peana di vittoria degli Spartani e dei Tegeati trionfanti. Peraltro, così come la fuga, anche l’attraversamento dell’Asopo da parte di tutto l’esercito achemenide era avvenuto solo in seguito all’avanzata della fanteria e della cavalleria comandate direttamente da Mardonio135. 134 Ma, io aggiungo, anche dei Greci non Tebani, ovvero Tessali, Mali, Focei e Macedoni, in quanto Erodoto osserva che essi si comportarono deliberatamente da vili e fuggirono senza combattere. IX, 67, 1. 135 Al capitolo 59, 2 Erodoto aveva scritto:«Vedendo i Persiani lanciati all’inseguimento dei Greci, gli altri comandanti dei contingenti barbari levarono subito tutti le insegne e li seguivano il più 78 A Proposito di Platea La successione cronologica dei fatti accaduti a Platea fino a questo punto dovette perciò essere la seguente: disposizione iniziale dell’esercito achemenide: la fanteria persiana è acquartierata al di là della riva settentrionale dell’Asopo mentre la cavalleria, dopo aver passato il fiume e aver respinto alquanto più indietro gli Elleni, ha trascorso la notte accampata al di qua delle sponde meridionali del fiume; pressappoco alle prime luci dell’alba attraversa per prima l’Asopo la fanteria meda e persiana comandata da Mardonio, che insieme alla cavalleria che lo aveva già passato il giorno precedente, aggancia i Lacedemoni e i Tegeati presso il Moloeis e il tempio di Demetra Eleusina, dove si sono attardati in attesa del lochos di Amomfareto. La cavalleria in qualche modo si ritira per far passare la fanteria persiana che attacca combattimento, formando inizialmente una linea di scudi e bersagliando gli Spartani; in successione, mentre si accende la mischia su questo fianco, tutto il resto della fanteria barbara del Gran Re, entusiasmato alla vista dei Persiani che passano il fiume (con gran frastuono, si può immaginare, di tamburi, cimbali e strumenti a fiato e solenne incedere di insegne) oltrepassa a sua volta disordinatamente l’Asopo nella convinzione che gli Elleni siano in rotta; poiché gli Ateniesi non si sono praticamente mossi dalle loro posizioni della notte precedente, la seconda fase degli scontri si accende immediatamente sul loro fronte. Ciò avviene però quando i Persiani cominciano a fuggire davanti ai peloponnesiaci; la rotta del fianco sinistro persiano genera il terrore in quello destro e solo i Tebani attaccano veramente battaglia136, mentre tutti gli altri, Greci, Saci e barbari a loro mescolati, fuggono senza neppure combattere; la terza fase cronologica della battaglia, che rimane ancora da esaminare, si svolge presso il tempio di Era, dal momento che il centro greco dei Corinzi e di altri popoli minori si era allontanato durante la notte di venti stadi dalle sue posizioni presso l’Asopo e dunque ai barbari occorse un certo tempo per venire a contatto con gli opliti della Lega Panellenica. Quando ciò accade, tutto il resto del fronte persiano è già crollato. rapidamente possibile, senza nessun ordine e senza tenere le linee.» 136 La sconfitta dei Tebani non fu certo dovuta a pavidità, dal momento che dovevano trovarsi in forte inferiorità numerica rispetto agli Ateniesi, Megaresi e Plateesi uniti. 79 Piero Pastoretto La cavalleria greca Ho p iù vo lt e a ffe rma t o ch e gli E lle n i a P lat ea , co sì co me d ie ci an n i p rima g li At en ie si a Ma ra t on a , e ran o p rivi d i ca va lle ria . A l co nt ra rio , co me mo st ra E ro d ot o , i B eo t i n on so lo n e era no b en f o rn it i, ma i lo ro ca va lie ri co mb a tt e ron o sp le nd id a men t e. Pe n so che a q ue sto p un to si ren d a n ece ssa ria un a q ua lche p re cisa zio ne su qu e st a , a lmen o a pp a re n te me nt e , p ale se co n t rad d izio ne circa l’imp ie go de lla ca va lle ria p re sso i G re ci f in o a l V se co lo a . C. I l ca va llo , n e lla G re cia co nt in en t a le e ne l P e lo p on ne so , è usa to f in d a ll’e tà mice ne a, co me ci a t te sta n o le p itt u re va sco la ri e i p oe mi o me rici. No n vie ne p e rò mon t at o , ma il su o imp ie go si li mit a a l t iro de l ca r ro d a g ue rra (ἅ ρ μ α ). Tiro pe r il qu a le g li an ima li era no spe sso d o mat i d a i lo ro med e simi p ro p rie ta ri qu a lu nq ue fo sse il lo ro st at u s so cia le , co me te st imon ia l’e p ite t o d i Ἱ ππό δ αμ ο ς ( I pp όd a mo , “Do mat o re di ca va ll i”) at t ribu it o a E tt o re e l’e siste n za a n ch e de ll’id e nt ico n o me p ro p rio ch e po rt a u n g ue rrie ro t ro ian o ucciso da Od isseo in sie me a I pe iro co 1 3 7 . Po iché i co sto si ca rri d a g ue rra son o pe rò a pp an na g g io d e i so li re ( ϝ ά να ξ ) 1 3 8 , de i no b ili (l a wò i ) o de i co n do t t ie ri (l a wag hé t a s) e, a d iffe re n za d eg li e se rcit i eg izi, it t it i o assiri, t ra i Mice n e i n on e siste va no a ffa t to de i ve ri co rp i di “fa n te ria ipp o t ra in a ta ”, i ca va lli e i ca rr i d ove van o e sse re u na ra rit à . S u ll’u so in gu e rra d i qu e st i ca rri, co sì co m’è te st imo n iat o in O me ro , n on mi d ilun g o p o ich é l’a rgo me n to mi con d u rreb b e lo n ta no . In ep o ca su cce ssiva la ca va lle r ia, q ue sta vo lta con ca va lli mo n ta t i a p e lo se co nd o l’e se mp io ch e i G re ci rice ve tt e ro da ll’A sia Min o re, f io rì p re sso q ue lle reg io n i in cu i il t e rren o p ian eg g ian t e ed e ste so si pre sta va a ll’a lle va men t o d i un a ce rt a q ua nt it à d i ca va ll i e a l lo ro imp ie g o ta t t ico in gu e rra : Ma ce do n ia , Be o zia , Te ssa g lia , Eu be a, Cip ro , Cret a e le co lo n ie d e lla I on ia e d e lla Ma gn a G re cia , sp e cia lme nt e S ira cu sa e Ta ra n to 1 3 9 . Vice ve rsa , in a lt ri t e rrit o ri p iù mo n tu o si e a ng u st i, la ca va lle ria co me a rma eb be un min o re svilu pp o e sop ra t tu t to f u d e l t ut t o ab ba nd on a ta qu an do i re g imi lo ca li con ob be ro un p re co ce pa ssag g io da lla f o rma d i g o ve rn o a risto cra t ica a lla de mo cra zia, co me a d At en e . Co sì , se le a nf o re at t ich e ci mo st ra n o a nco ra de i ca va lie ri a rma t i a l te mpo d i P isist rat o e de i P isist ra t id i, se mb ra ch e Cl iste n e 137 Iliade, XI, 355. 138 Occorre aggiungere che neppure tutti i re dell’età omerica possedevano carri da guerra. Odisseo di Itaca e Aiace di Salamina, tanto per portare due esempi, nell’Iliade compaiono combattere sempre a piedi. 139 La cavalleria mercenaria tarantina fu anzi molto apprezzata, sia durante le guerre del Peloponneso, sia in età ellenistica. A Siracusa si sviluppò nel V secolo anche la specialità degli ᾅμιπποι (ámippoi), fanti leggeri che operavano posizionati sotto il ventre dei cavalli oppure correndo dietro questi tenendosi alle loro code. 80 A Proposito di Platea ab b ia su cce ssiva men te ab o lito la ca va lle ria p e r ma nt en e re so lta n to la fa nt e ria op lit ica fo rma t a d a i co mu n i citt a d in i. A lt re t ta n to d ica si p e r Sp a rta . Ne ll ’V II I -V I I se co lo e siste va u na g ua rd ia a ca va llo d e i re, ch e f u pe rò a pp ied a ta , seb be n e g li sp a rt ia t i che la co mp on e va n o co n t inu a sse ro a g od e re de ll’o n o re d i esse re ch ia ma t i Ἱ ππε ῖς, “Ca va lie ri” a rico rdo de lla lo ro a nt ica con d izio ne . Ug ua lme n te ad A te ne e siste va la cla sse ‘f isca le ’ d e i ca va lie ri sen za ch e p e rò q ue st i, a d iff e ren za d i Ro ma , fo rn isse ro u na miliz ia p e r la g ue rra . Dun qu e tu t t i i Tre cen to d i Le on id a p rob a b ilme nt e ave va n o l’a p pe lla t ivo on o rif ico d i ca va lie ri p u r esse nd o se mp lici op lit i; e a nche mo lt i ca va lie ri a te n ie si, pu r d isp o ne nd o fo rse d i u n ca va llo p e rso na le , co mb a tt e van o p e rò co me fa nt i. Ho g ià an che o sse rva to che a P la te a , q ua nd o si men zio na un a ra ld o a te n ie se o sp a rt an o , lo si qu a lif ica a n ch e co me “ca va lie re ”. Anfora attica del periodo pisistratide (550 circa) con un cavaliere armato accanto a un oplite 81 Piero Pastoretto Battaglia presso il santuario di Era Con il capitolo 69 Erodoto inizia l’esame della situazione presso il santuario di Era. Quello che era stato fino al giorno prima il centro del lungo schieramento greco, era rimasto fermo sulle proprie posizioni senza intervenire negli scontri in atto, né per portare aiuto ai relativamente più vicini Ateniesi, né per soccorrere i più distanti Spartani. Un comportamento piuttosto enigmatico, dal momento che, a mio avviso, i clamori delle due battaglie, se non addirittura la vista delle nuvole di polvere che sollevavano, dovevano essere udibili da tutti. La ragione di tale curiosa inattività non è spiegata da Erodoto, il quale sembra non porsi questo problema. Perciò sono dovuto ricorrere a Plutarco, il quale la rintraccia nell’assenza di precisi ordini superiori da parte di Pausania, dovuta o al turbamento del generale spartano per la sedizione di Amomfareto, o all’improvviso arrivo dei Persiani 140. Ricordo, per inciso, che l’ordine di accorrere immediatamente in aiuto del fronte lacedemone in pericolo era stato invece spedito agli Ateniesi tramite un araldo; e che Aristide, se non fosse stato a sua volta sorpreso dall’attacco dei Beoti, lo avrebbe eseguito prontamente. Fatto sta che l’azione presso il santuario di Era dovette di necessità avvenire successivamente a quella che aveva interessato il settore ateniese, così come questa era stata preceduta dallo scontro sostenuto dal fianco destro spartano. E poiché sappiamo che la battaglia sul fronte lacedemone si era accesa alle prime luci del giorno, posso tranquillamente avanzare l’ipotesi che la lotta presso il santuario di Era si sia sviluppata non prima della seconda mattinata o verso il mezzogiorno. Ho osservato poc’anzi che, a mio parere, il fragore delle due battaglie in corso, qualcosa come centomila combattenti che si stavano massacrando, doveva per forza essere udito dagli opliti a ridosso dell’abitato di Platea. O almeno poteva essere udibile almeno lo strepito del combattimento più vicino, quello degli Ateniesi con i Tebani. Se io abbia o no qualche ragione, tutto sommato non ha però importanza, dal momento che Erodoto tace su tale dettaglio; tiene invece a precisare che, prima che dall’ondata dei nemici, gli opliti del centro greco furono raggiunti dalla notizia che i Lacedemoni stavano prevalendo sui Persiani. Scrive infatti: «Mentre avveniva questa fuga 141, agli altri Greci schierati intorno al santuario di Era, che non avevano partecipato alla battaglia, fu annunciato che la battaglia era avvenuta e stavano vincendo quelli con Pausania.» A commento del passo appena riportato, e per comprendere il comportamento successivo del centro greco, mi sembra utile rimarcare che, secondo questa ricostruzione di Erodoto, ai Corinzi e alleati giunge la notizia della vittoria degli Spartani, 140 141 Plutarco, Vita di Aristide, 17, 6-7. Erodoto si riferisce a quella dei barbari e dei Greci di fronte agli Ateniesi. 82 A Proposito di Platea che pure erano più distanti, mentre nessun annuncio giunge loro dal fronte ateniese, che pure era più vicino; tanto vicino che alcune schiere del centro, come vedremo tra breve, ebbero occasione di scontrarsi crudelmente con gli stessi cavalieri beoti che proteggevano la ritirata dei Tebani di fronte agli Ateniesi. In altri termini i Corinzi e i popoli alleati ignoravano cosa stesse accadendo sulla loro sinistra, mentre erano informati della vittoria spartana. Sarebbe facile criticare il comandante del centro, se pure ve n’era uno 142, per non aver spedito esploratori a verificare cosa ne era stato degli altri due tronconi dell’esercito e soprattutto a osservare l’andamento delle battaglie in corso. Eppure il valore essenziale dell’esplorazione e della raccolta delle informazioni era ben noto persino nei tempi precedenti a quella che io chiamo “arte della guerra”, e la trascuratezza dei Corinzi e degli altri alleati ha dell’incredibile. Naturalmente, questo ragionamento avrebbe un qualche valore se noi non dovessimo prendere il racconto erodoteo con un certo beneficio d’inventario. La sua cronaca di Platea fu scritta forse quarant’anni dopo la battaglia 143 e, per quanto l’autore potesse essere scrupoloso nella raccolta delle testimonianze, non possiamo pretendere da lui l’esattezza e la precisione su qualunque minimo particolare come se vi avesse partecipato. Se però l’incuria mostrata dai Corinzi fosse vera, essa testimonierebbe quanto ancora deficitari fossero fra i Greci degli inizi del V secolo tanto il Controllo, quanto la Comunicazione nei campi di battaglia. Un esercito che si spezza in tre parti durante un riposizionamento che in teoria sarebbe dovuto essere unitario e coordinato; un comandante come Pausania che ‘dimentica’ di impartire ordini a una parte consistente della propria armata; i responsabili di questo corpo che non s’accorgono di una grossa battaglia a pochi stadi da loro; la totale disgregazione dei collegamenti (niente staffette; nessun segnale predisposto) e l’ignoranza reciproca circa le posizioni assunte rispettivamente dalle due ali e dal centro; tutto ciò, soltanto un secolo dopo, sarebbe stato giudicato un’incuria intollerabile da qualsiasi stratego. Avanzate queste elementari considerazioni, è opportuno ritornare al racconto erodoteo. In seguito all’annuncio della vittoria spartana 144 il centro, che si suppone che fosse disposto in posizione difensiva a falange compatta, ruppe lo schieramento, si divise in 142 Erodoto non riporta mai il nome di un responsabile del centro ellenico. Logicamente avrebbe dovuto appartenere ai Corinzi, dal momento che questi fornivano il maggior numero di opliti, ma Erodoto in tutto il libro IX non cita un solo nome di un corinzio. 143 Peraltro nulla vieta che con il verbo “fu annunciato” non si sottenda da un esploratore. In tal caso dovremmo chiederci perché la ricognizione era stata indirizzata verso un’unica direzione (i Greci del centro, a causa della lontanaza, non potevano conoscere i movimenti di Pausania dalla fonte Gargafia al Moloeis) e non a raggio in tutte le direzioni, compresa quella dove combattevano gli Ateniesi. 144 Viene da chiedersi: portato da chi? 83 Piero Pastoretto due tronconi e si precipitò verso il tempio di Demetra seguendo due strade diverse. Così l’autore descrive efficacemente la scena: «Ascoltato questo, non mantenendo alcun ordine di schieramento (οὐδένα κόσμον ταχθέντες), i Corinzi e quelli con loro si volsero lungo le falde del monte (ὑπωρέης)145 e le colline per la strada che porta in alto direttamente al tempio di Demetra Eleusina, mentre i Megaresi e i Fliasi e quelli con loro, attraverso la pianura lungo la strada più pianeggiante.» Questi ultimi, che dovevano percorrere la via più breve e diretta nella direzione del Moloeis e del tempio, forse condotti da qualcuno del luogo, furono però intercettati dai cavalieri beoti che, scortili di lontano avanzare in disordine, si lanciarono loro incontro guidati dal tebano Asopodoro146. Ne nacque una confusa mischia che dovette essere qualcosa di più di una semplice scaramuccia e si potrebbe anzi definire una strage, poiché Erodoto annota: «Piombatigli addosso, ne abbatterono seicento, mentre ricacciarono gli altri inseguendoli verso il Citerone. Costoro dunque morirono senza gloria (ἐν οὐδενί λογῳ “senza nessun conto”) …»147 I due periodi del cap. 69 e 70 che ho riportato mi sembrano degni di qualche riflessione. Vi si ricava da un lato che non tutta la cavalleria beotica era impegnata nel proteggere il ripiegamento delle fanterie greco-tebane e nell’impedire agli alleati barbari di mescolarsi con loro. Se una o più ile148 infatti si scontrarono casualmente con i Fliasi e i Megaresi149 che senza alcuna prudenza si dirigevano in una direzione eccentrica alla battaglia in atto (verso est, mentre lo scontro è a nord), poiché sembra difficile che potessero essersi sperdute, bisogna concludere che verosimilmente erano in missione di ricognizione. Il che tornerebbe a lode della cavalleria tebana e del suo controllo del territorio. E se questi cavalieri, sebbene agevolati dalla contingenza che il nemico non manteneva alcun ordine falangitico ma procedeva come un gregge disperso, riescirono a uccidere (“ἐν οὐδενί λογῳ”, come scrive Erodoto) ben seicento opliti, bisogna dedurre che i tebani non erano sicuramente delle pattuglie di poche decine di uomini. Tanto più che l’eccidio in questione non poté certo durare a lungo né essere di grande impegno, 145 Suppongo che qui s’intenda la falda pedemontana del Citerone. 146 Notare, prego, il nome di questo personaggio, “Dono di Asopo”, che lo qualifica come nativo di Platea o dintorni. 147 IX, 70, 1. 148 Uso qui a sproposito il termine greco ile (ἴλη, in dorico ἴλα), che era un’unità di cavalleria macedone nota a partire dall’età di Filippo II, per evitare l’ancor più incongruo vocabolo italiano “squadrone”. 149 I conti non mi tornano. I Megaresi, secondo il catalogo delle forze in campo e della loro disposizione, al capitolo 28, avrebbero dovuto stare accanto agli Ateniesi all’ala sinistra, e non nel centro insieme ai Fliasi e ai Corinzi. 84 A Proposito di Platea dal momento che l’esercito beotico era in arretramento e questi uomini dovevano necessariamente seguirlo. La rotta persiana a Platea Battaglia presso il muro di legno La carica dei Tebani costituisce solo un episodio minore tra quelli contenuti nel capitolo 70. L’attenzione di Erodoto, infatti, si sposta immediatamente da quell’eccidio senza gloria alla tragica scena dei Persiani e dei barbari che cercano scampo dietro quel muro di legno che, suppongo in mancanza di ulteriori indicazioni, era stato costruito a nord di Platea, a una certa distanza sia dalle rive dell’Asopo, sia dall’accampamento di Mardonio, a cavallo delle due strade che, dal Citerone e dalla città di Platea, conducevano a Tebe. La coreograficità dell’azione di massa, del panico dei fuggitivi e dell’incedere furioso degli Elleni non può non risentire, nella narrazione e nella cultura di Erodoto, dell’episodio dell’attacco troiano al muro di legno costruito dai Danai a difesa delle navi150. Soltanto che qui le parti sono invertite, poiché che sono i Persiani-Troiani, colpevoli della morte di Leonida-Patroclo, a rifugiarsi dietro il muro, e i Danai-Elleni ad attaccarlo. Abbandonato definitivamente il centro che si dirige verso il tempio di Demetra e non ha alcuna influenza sulla battaglia, Erodoto rappresenta adesso il terrore dei barbari e dei Persiani che: «… si affrettarono a salire sulle torri prima che arrivassero gli Spartani e, saliti, fortificarono il muro come meglio potevano.» 150 Iliade, XII e XIII. 85 Piero Pastoretto Poiché la fuga dell’esercito achemenide era cominciata dapprima sulla fronte dei Lacedemoni dopo la morte di Mardonio, e successivamente sulla fronte degli Ateniesi, appare logico che per primi giungessero al muro gli opliti di Pausania e poi quelli di Aristide. Affido il lettore alla penna di Erodoto per la descrizione dello scenario degli avvenimenti. «Quando gli Spartani di Pausania arrivarono, iniziò una violenta battaglia presso il muro. Infatti, finché gli Ateniesi erano assenti, essi si difendevano e prevalevano di molto sugli Spartani, che erano inesperti di assalti alle mura; quando però sopraggiunsero gli Ateniesi, l’attacco al muro si fece violento e durò a lungo. Infine, con il loro valore e la loro tenacia, gli Ateniesi scalarono il muro, lo abbatterono e di lì i Greci si riversarono dentro.» 151 A taluni la narrazione può apparire piuttosto partigiana, in quanto sono gli Ateniesi a risolvere la situazione di grave affanno in cui versano gli Spartani “inesperti di assalti alle mura”. In effetti non si vede come gli Ateniesi potessero essere più esperti dei peloponnesiaci nella scalata delle mura, visto che tra gli Elleni non si erano ancora sviluppate le tecniche ossidionali e lo stato della loro arte era ancora pressappoco quello dell’assedio di Troia o dei Sette contro Tebe152. La ragione dell’affanno degli Spartani nell’attaccare il muro va invece ricercata semplicemente nel numero. Già essi erano inferiori al nemico quando questi li aveva attaccati nei pressi del tempio di Demetra; adesso che, insieme ai Medi ed ai Persiani di Mardonio, il muro di legno era difeso anche dalle torme dei barbari del resto dell’esercito achemenide, il loro contingente e quello dei Tegeati insieme erano del tutto insufficienti a condurre un attacco efficace. Quando inve ce giunsero anche gli Ateniesi, che evidentemente avevano desistito dal difficile inseguimento dei Tebani troppo ben protetti dalla loro cavalleria, la situazione si capovolse a favore degli Elleni153. Aggiungo che nel passo citato Erodoto sembra palesemente voler magnificare la prodezza degli Ateniesi dopo aver lodato a lungo il comportamento intrepido degli Spartani. Si tratterebbe dunque di un delicato intervento di equilibrio e distribuzione dei meriti della vittoria, teso a non scontentare né i lettori attici, né quelli peloponnesaici; sicché, nell’economia generale del racconto, se ai Lacedemoni spetta la gloria di aver sconfitto e respinto il nerbo più importante dell’esercito di Serse, ai loro alleati Ateniesi 151 IX, 1, 2. 152 Mi riferisco naturalmente al celebre caprifico su cui invano i ‘coturnati Achei’ tentavano di arrampicarsi per raggiungere il punto più basso delle mura di Ilio; e alla scala di Capaneo, che tentò di raggiungere da solo la cima della torre Elettra difesa dal tebano Polifonte e non vi riuscì perché fulminato da Zeus. 153 Non vi era nessuna ragione perché i Tebani si rifugiassero dietro il muro come gli altri barbari avendo a disposizione una comoda strada diretta che dalla pianura di Platea conduceva alla loro città. 86 A Proposito di Platea va il vanto di aver distrutto la resistenza del muro dietro il quale si erano rifugiati i fuggitivi154. Valicato il muro, avviene il collasso dell’intero esercito achemenide e la conseguente strage dei barbari, che Erodoto descrive in due brevi ma densi paragrafi: «Una volta caduto il muro, i barbari non si raggrupparono più a schiera, nessuno dette segni di valore, ma facevano ressa, come è naturale, in un piccolo spazio, pieni di paura e ammassati in molte decine di migliaia. I Greci erano liberi di farne strage (φονεύειν), in modo tale che dei trecentomila uomini dell’esercito, tolti i quarantamila che Artabazo aveva con sé nella fuga, del resto non ne sopravvissero neppure tremila. Dei Lacedemoni di Sparta nello scontro morirono in tutto novantuno, dei Tegeati sedici, degli Ateniesi cinquantadue.» 155 Con queste parole, e con queste cifre in verità iperboliche in un verso e nell’altro, si concludono i capitoli del libro IX che mi ero ripromesso di esaminare. Non voglio dilungarmi più oltre nei successivi cinquantuno capitoli del libro poiché esulano dalla battaglia. Mi limito perciò soltanto a fornire notizia sulla sorte di Tebe (capp.86-88). L’undicesimo giorno dopo la vittoria gli Elleni della Lega assediarono la città chiedendo che fossero loro consegnati coloro che avevano parteggiato per Serse ed indotto Tebe ad allearsi con l’invasore. In verità la capitale della Beozia avrebbe meritato una punizione ben peggiore, avendo combattuto con tutte le proprie forze al completo, falange e cavalieri, dalla parte del Gran Re. Tuttavia le richieste furono di necessità miti, sia perché la Lega non aveva materialmente la possibilità di prendere Tebe per la nota carenza degli eserciti greci riguardo agli assedi, sia perché distruggere una delle più nobili città greche avrebbe ricordato troppo la furia di Serse su Atene. Rifiutandosi i Tebani di consegnare i loro concittadini, gli assedianti ricorsero alla classica strategia che sarebbe sopravvissuta per tutto il V secolo: devastarono le campagne intorno a Tebe per venti giorni, fino a quando la città non si decise a consegnare a Pausania i componenti del partito filo persiano. Costoro, fra i quali il Timagenida che abbiamo già incontrato e quell’Attagino a casa del quale si svolse il dialogo ricordato da Tersandro, furono condotti dagli Spartani a Corinto e colà uccisi senza processo. Attagino, invece, fu l’unico che riuscì a fuggire. Gli errori di Mardonio Per concludere con una certa dignità storica il commento alla battaglia di Platea, finalizzato alla dimostrazione della mia tesi iniziale, che questa segnò idealmente il passaggio da una fase ancora arcaica e artistica della guerra terrestre a uno stadio più moderno e per così dire scientifico, devo ancora soffermarmi su una questione. 154 A dire il vero, secondo Erodoto non furono né gli Ateniesi né gli Spartani a oltrepassare per primi il muro, ma i Tegeati, che saccheggiarono anche la tenda di Mardonio. 155 IX, 70, 4-5. 87 Piero Pastoretto Durante l’esame di quel che dice, e soprattutto di quel che non dice Erodoto, mi sono alquanto dilungato a sottolineare i grossolani difetti e le manchevolezze tattiche dell’azione greca a Platea, pur rimarcando, quando ce n’era bisogno, quei tratti di novità che facevano presagire la futura nascita di una vera e propria polemologia nel III secolo. Viceversa, di sovente ho avuto modo di sottolineare l’adeguatezza della visione strategica e persino la lucida “modernità” della condotta mostrate da Mardonio nelle giornate precedenti a Platea. Affinché il lettore non equivochi, ritenendo che lo stato dell’arte della guerra fosse più avanzato tra i Persiani che tra gli Elleni, devo però aggiungere che, quando si giunse allo scontro decisivo, il generale persiano mostrò tutti i suoi limiti ancora barbarici: non seppe affatto pianificare la condotta della battaglia; non seppe profittare dell’unità di comando di cui, al contrario degli Elleni, egli godeva; e infine e soprattutto, non seppe sfruttare la cavalleria della quale il nemico era privo. Così, una vittoria praticamente certa ed offerta, come si suol dire, “su un piatto d’argento” dalla dissennata divisione in tre tronconi dell’esercito avversario, si trasformò, per colpa attribuibile soltanto a lui, in un disastro immane. Né qualcuno può avanzare a sua discolpa la circostanza che Mardonio cadde al primo e più importante scontro della giornata, mentre il suo secondo, Artabazo, pensò bene di fuggire. Un buon generale deve impartire all’inizio di uno scontro delle direttive piuttosto precise, se non proprio dei veri e propri ordini circostanziati, ai suoi sottoposti e responsabili di settore nella prospettiva che non possa più essere in grado di farlo successivamente; e soprattutto deve almeno improvvisare nella propria mente e comunicare ai propri ufficiali in comando, un pur minimo piano tattico di base, un pur minimo coordinamento dei movimenti, che siano insomma qualcosa di più complesso dell’assalto dei banditi a una diligenza. Insomma: un comandante in capo tutto deve fare tranne ciò che fece Mardonio quel giorno: ovvero non deve mai partire forsennatamente all’attacco sull’onda della falsa supposizione che il nemico sia battuto e in rotta, e che basti un ultimo sforzo per distruggerlo156. Invito adesso il lettore, così, tanto per il gusto di esercitare un poco l’ingegno e senza fare ricorso al senno del poi di cui sono piene le fosse, ma solo rifacendosi alla fonte di Erodoto, a considerare insieme come avrebbe dovuto comportarsi Mardonio. Minimo requisito iniziale sarebbe stato quello di avere una visione generale dei movimenti del nemico e constatare che si era aperto un gigantesco varco fra il suo fianco destro, parzialmente in ritirata, e quello sinistro ateniese, ancora praticamente immobile sulle posizioni della notte precedente. Al contrario Mardonio si comportò non 156 Seguì una tale sciocca condotta Ney a Waterloo, quando scambiò delle colonne di feriti dirette alle retrovie per le colonne dell’intero esercito inglese in ritirata e scatenò la dannata carica dei diecimila cavalieri francesi contro i quadrati di Wellington. Ma Ney non era certo Napoleone, non comandava l’Armata imperiale nel Belgio e, se Bonaparte in quel momento non fosse stato trattenuto da una indisposizione (le sue molto poco eroiche emorroidi) lontano dalla battaglia, certamente avrebbe impedito una simile idiozia. 88 A Proposito di Platea come il generale responsabile di un intero esercito, ma come il subalterno capo di un’ala, che parte ‘a testa bassa’ soltanto perché vede il vuoto dinanzi a sé. Passiamo adesso all’impiego della potente cavalleria persiana, sace e barbara, che nella giornata di Platea fu in sostanza nullo. Sia per quanto riguarda la battaglia sul settore destro della Lega Penellenica, che su quello sinistro, Erodoto ci ha rammentato che la cavalleria non entrò direttamente in combattimento se non per un periodo brevissimo. Nel settore comandato da Pausania la cavalleria arrivò ovviamente per prima, essendo partita dalle sue posizioni al di qua dell’Asopo, ma pare si sia contentata di un primo assalto e poi abbia lasciato l’incarico di attaccare combattimento alla fanteria pesante. Sul settore sinistro degli Ateniesi Erodoto addirittura parla dell’intervento della cavalleria soltanto dopo la fuga disordinata della fanteria, per arginare l’avanzata della Lega e proteggere la falange dei Beoti e degli altri greci in ritirata. Ora, ammettendo pure che l’esperienza del giorno precedente, durante il quale la cavalleria era riuscita soltanto a far retrocedere in ordine lo schieramento compatto degli Elleni, ma non aveva causato nessuno sfondamento o fuga in massa, suggerisse a Mardonio di non caricare frontalmente Spartani e Ateniesi e di usare invece contro il fianco destro degli Spartani la fanteria scelta persiana, e contro quello sinistro degli Ateniesi la robusta falange dei greci alleati mescolata a truppe barbare, si deve pur sempre considerare criminale, da un punto di vista logico e soprattutto tattico, la mancata utilizzazione della cavalleria in un’agevole e persino intuitiva manovra di aggiramento157. Con tutto lo spazio lasciato aperto fra le due ali dell’esercito ellenico, questa avrebbe potuto incunearsi senza incontrare alcun ostacolo davanti a sé, per poi accerchiare e quindi attaccare a tergo i due corpi separati schiacciandoli contro le fanterie 158. In questo caso non ci sarebbe stato scampo per gli Ateniesi di Aristide e gli Spartani di Pausania. E se anche Mardonio fosse ugualmente caduto nelle fasi iniziali della battaglia, sicuramente, anziché fuggire, sarebbe intervenuto Artabazo con i suoi rinforzi a sostituirlo159, e l’ebbrezza della vittoria imminente e della strage sparsa fra le schiere nemiche avrebbe impedito la fuga rovinosa dei persiani. 157 Tale mancanza di ‘fantasia’ tattica in Mardonio meraviglia tanto più, quanto più si pensa che l’aggiramento, in condizioni tanto più difficili, era stato messo in pratica l’anno precedente da Idarne e dai suoi Immortali alle Termopili. L’aggiramento dunque non era una manovra sconosciuta ai Persiani; e anzi, quando possibile, doveva essere universalmente attuato anche nell’età pre-epistemica della guerra. 158 È esattamente la manovra che Alessandro, in situazioni molto più complesse di Platea, poiché doveva preventivamente sfondare la resistenza della cavalleria avversaria, assegnava alla propria cavalleria degli etairoi dell’ala destra. Tra l’altro meno robusta di quella su cui poteva contare Mardonio. 159 Uso l’avverbio sicuramente poiché certo ad Artabazo sarebbe convenuto presentarsi al suo Re come il trionfatore sui Greci a Platea. 89 Piero Pastoretto Più complesso sarebbe stato l’uso della cavalleria contro il centro dell’esercito ellenico, in quanto sappiamo che era schierato con alle spalle la città di Platea e dunque non poteva essere aggirato. Tuttavia, con un esercito ridotto a neppure la metà di quello iniziale e con lo sconforto di aver visto perire il fior fiore degli Ateniesi e degli Spartani, ogni difesa sarebbe stata inutile e i sopravvissuti avrebbero accolto volentieri qualsiasi condizione di pace proposta con una certa diplomazia dal vincitore160. 160 Tanto più che, dopo la debellatio di Spartani e Tegeati, l’esercito corinzio e quelli degli altri popoli peloponnesiaci avrebbero avuto tutto l’interesse a tornare in patria intatti e protetti dal muro costruito sull’Istmo, lasciando ai Persiani il resto dell’Ellade. Per di più, Arcadi e Argivi, eterni nemici di Sparta, avrebbero avuto un’occasione di rivalsa verso una città praticamente priva di truppe. 90 A Proposito di Platea Un particolare non indifferente Nel brano riportato nell’esergo, tratto dal capitolo 71,1, si legge: «Tra i barbari si distinsero la fanteria persiana, la cavalleria dei Saci e, dei singoli, si dice Mardonio». Ora, avendo esaminato passo dopo passo l’intera battaglia di Platea, mi chiedo in quale episodio si siano particolarmente distinti i cavalieri Saci, in quanto non se ne riscontra nessuno. Erodoto infatti non li nomina mai specificatamente nella sua cronaca dei combattimenti, ma li elogia (con la formula piuttosto elusiva del «si dice» - λέγεται -, la cui scelta sottintende che sta riferendo opinioni di testimoni senza ulteriori documenti di convalida), soltanto alla fine della battaglia, insieme agli Spartani. Per affrontare il problema non resta che ricorrere all’induzione. I Saci, barbari sciti ma eccellenti cavalieri, come sappiamo da Erodoto, erano schierati sul fianco destro dell’esercito persiano insieme agli alleati Greci del Gran Re. Ciò non esclude però che la loro cavalleria fosse presente anche in altri settori dello schieramento, sia quando questo fu regolarmente ordinato da Mardonio, modellandolo su quello opposto ellenico, sia soprattutto prima, allorché la cavalleria aveva attaccato gli opliti della Lega a Eritre, quando erano appena discesi dal passo Driocefale. Sappiamo, ad esempio, che i Saci erano disposti anche di fronte a quelli di Anattorio, Ambracia, Leucade, insieme ai Pelei e agli Egineti. Non sappiamo però se questo settore greco aveva seguito il centro verso Platea o era rimasto accanto al corno sinistro di Ateniesi, Megaresi e Plateesi. Quando, dove e come i Saci, senza essere mai menzionati da Erodoto, si distinsero dunque sul campo? Escludo che i Saci siano stati impiegati, sotto il comando diretto di Mardonio, contro il fianco destro dello schieramento ellenico, poiché Erodoto non potrebbe essere più chiaro nell’affermare che lì vi erano soltanto cavalieri e fanti medi e persiani e dunque a loro va il merito di aver messo in crisi l’ala spartana e averla costretta a ritirarsi oltre la fonte Gargafia. Nella stessa giornata di Platea, quando l’autore si occupa del fronte sinistro dell’esercito della Lega Panellenica, riporta soltanto le azioni dei cavalieri Tebani e Beoti che, in concorso con la fanteria, avevano prima inchiodato sulle loro posizioni gli Ateniesi e protetto poi efficacemente la ritirata dei loro opliti, impedendo che i barbari si mescolassero a loro nella fuga. Fu forse in questo fatto d’arme che si distinsero i Saci, senza che Erodoto, per dimenticanza o per nazionalismo, li menzionasse accanto ai cavalieri Tebani? Saci che poi, coinvolti nella fuga disordinata di tutto l’esercito persiano tranne gli opliti tebani alleati, si diressero verso il muro di legno. Mi sembra la soluzione più probabile, a meno che i Saci non si siano contraddistinti per particolari valore e combattività il giorno precedente alla battaglia risolutiva, e cioè durante l’attacco generale della cavalleria del Gran Re, che costrinse a rinculare l’intero esercito ellenico, tagliandolo fuori da ogni possibile rifornimento idrico. Tendo invece a escludere che l’attacco di Masistio sia stato condotto dai Saci. Masistio era un capo persiano e non barbaro, e fu onorato dopo la morte secondo il costume persiano. Inoltre, la cavalleria che comandava, dal modo di combattere che ho già commentato, era pesante e non leggera e armata essenzialmente di archi, come presumibilmente doveva essere quella dei Saci. 91 Piero Pastoretto POST REM Il logos erodoteo dedicato alla battaglia di Platea si conclude con i capitoli dal 72 all’89. In questa sezione del libro IX si menzionano i nomi dei Greci che si sono comportati con particolare onore in battaglia 161, il saccheggio degli accampamenti e dei cadaveri dei Persiani, il seppellimento dei caduti e la spedizione contro Tebe, protrattasi per venti giorni prima che i Tebani si decidessero a consegnare i rappresentanti del partito filo persiano. Ritengo dunque che questi diciassette capitoli comprendano un periodo di 23-24 giorni. Con questa breve rassegna degli ultimi capitoli dedicati alla vittoria greca di Platea il compito del mio articolo si conclude. Mi pare tuttavia meritevole di una pur sommaria attenzione la battaglia che fa da gemella alla prima: Micale, tanto idealmente connessa con Platea che Erodoto pretende siano avvenute nel medesimo giorno. Pertanto, nella breve sezione che segue, dal titolo POST REM, darò conto al lettore degli avvenimenti intercorsi a Micale162, che portarono alla controffensiva ellenica nel centro nevralgico e nelle regioni più ricche dell’Impero Persiano, alla vittoria definitiva contro l’invasore e alla seconda rivolta della Ionia163. Per inciso, con la vittoria di Micale terminano anche le lunghissime Storie di Erodoto e la sua penna trova finalmente riposo. Il capitolo 89 segna per così dire il distacco dalla scena degli avvenimenti in Beozia e il passaggio a quelli sul Mar Egeo. Erodoto descrive la ritirata di Artabazo e dei suoi quarantamila attraverso la Tessaglia e si sofferma a narrare di come il capo persiano, invitato a banchetto dai Tessali, e interrogato dove fosse il resto dello sterminato esercito di Serse164, li ingannasse dicendo che egli doveva compiere una missione urgente in Tracia e che il resto degli uomini di Mardonio sarebbe arrivato in breve tempo. Temeva infatti che i Tessali, saputa la sconfitta persiana a Platea, avrebbero immediatamente assalito lui e tutti i suoi uomini. Che sia vero o no questo episodio, dal capitolo 90 inizia il logos dedicato a Micale, che Erodoto, ricordo, colloca avvenuta nello stesso giorno di Platea. 161 Tra costoro viene ricordato anche Aristodemo, il cieco unico superstite delle Termopili. Tuttavia gli Spartani non lo considerarono valoroso al pari degli altri perché, entrato in battaglia con l’obiettivo preciso di morire per riscattare l’ignominia di non essere caduto insieme ai trecento. 162 Il logos di Micale si estende per quindici capitoli del libro IX: dal 90 al 105. 163 La prima, che aveva trovato i suoi eroi e animatori in Istieo e Aristagora tiranni di Mileto, era iniziata nel 499 e come tutti sanno aveva dato origine alla prima Guerra Persiana. 164 In Tessaglia non era ancora giunta la notizia della disfatta dei Persiani a Platea. Suppongo che la scena si svolga a Larissa, capitale della Tessaglia, o a Farsalo. 92 A Proposito di Platea Sulla contemporaneità di tante battaglie - Salamina nello stesso giorno di Imera; le Termopili nello stesso giorno dell’Artemisio; e infine Platea nello stesso giorno di Micale - non c’è storico serio che non sia scettico. Tanto più che Erodoto non riporta la data né dei giorni, né del mese, forse anche impacciato dalle profonde diversità tra i calendari dei diversi Stati greci. In ogni caso la narrazione del libro IX cessa di essere cronologica, poiché torna indietro nel tempo per riprendere i fatti antecedenti a Micale. Nei capitoli 90-95 la flotta ellenica reduce da Salamina è tranquillamente ancorata a Delo sotto il comando non più di Euribiade come a Capo Artemisio e a Salamina, ma del re Leotichida165, quando giunge un’ambasceria da Samo che, all’insaputa dei Persiani e del tiranno Teomestore loro alleato, lo invita a una battaglia risolutiva contro la flotta persiana, assicurandolo che tutti i Sami e tutta la Ionia sono pronti a passare dalla parte dei Greci. Leotichida, secondo la narrazione di Erodoto, chiede al capo dell’ambasceria il suo nome e, avendogli quello risposto Egesistrato (ᾙγεσίστρατος), che significa “Conduttore dell’esercito”, confidando in quel nome come in un presagio, si muove verso Samo e dà fondo a Kalami166, sulla costa nord-orientale dell’isola, presso il tempio di Era167. Saputa la notizia della defezione dei Sami, la flotta persiana lascia immediatamente l’isola e, congedate le navi fenicie (Erodoto non ne motiva la ragione) 168, conscia della propria inferiorità, rinuncia a dar battaglia sul mare e si dirige sul continente verso Micale, presso la foce del Meandro, il cui promontorio sorgeva dirimpetto a Samo. Micale viene scelta poiché vi stazionava un grosso contingente di sessantamila uomini, lasciato lì da Serse durante la ritirata a sorvegliare la Ionia. Comanda il contingente il satrapo Tigrane, capo dell’esercito dei Medi nella spedizione. Giunte a Micale nei pressi del santuario di Demetra Eleusina169 sotto la protezione dell’esercito, le navi persiane 165 Scrivo correttamente Leotichida, e non Leotichide come fa Erodoto, che scrive in attico, trattandosi di un nome dorico. Altrimenti dovremmo scrivere anche Leonide e non Leonida. Leotichida era il re spartano della famiglia degli Euripontidi, mentre per gli Agiadi regnava il reggente Pausania. Era salito al trono nel 491 dopo la rinuncia di Demarato. 166 In greco Κάλαμοι, “Canneto”, “Canne”. 167 Delo dista da Samo circa 80 miglia che, alla velocità di 6, massimo 8 nodi, quale quella stimata raggiungibile dalle triere, richiede circa dieci ore di navigazione. Cfr. a proposito P. Pastoretto, Di alcuni ragionamenti sopra il bassorilievo Lenormant, in www.arsmilitaris.org . 168 Secondo Erodoto (VIII, 130, 2) le navi fenicie della flotta persiana erano in origine trecento, ma dovevano avere subito perdite terribili all’Artemisio e a Salamina, oltre che a causa delle tempeste. L’autore non si sbilancia a precisare la consistenza delle navi che avevano abbandonato Samo. Diodoro (XI, 27, 1) propone la cifra spropositata di quattrocentoquaranta. Probabilmente la flotta persiana era alla fonda o tirata in secco sulla sponda meridionale dell’isola, nel porto della città omonima di Samo. 169 Si osservi come Erodoto tenda sempre a precisare, nel suo racconto, il luogo sacro al culto greco più vicino a una battaglia, quasi a suggerire che le vittorie della Lega sono anche frutto della protezione degli dèi. Un santuario dedicato a Demetra Eleusina sorgeva anche presso il 93 Piero Pastoretto sono tirate in secco e intorno a loro vengono erette due cortine concentriche: un muro di sassi interno e una palizzata esterna170. I navarchi della flotta ellenica, venuti a sapere della partenza da Samo dei nemici, sono incerti sul da farsi: tornare a Delo, dirigersi verso l’Ellesponto, oppure sul vicino continente. In modo del tutto casuale, decidono di far rotta proprio verso Micale e approntano le navi per una possibile battaglia navale171. Quando sono vicini al promontorio e scorgono dal largo tanto la flotta quanto il muro e l’esercito persiano schierato lungo la riva, bordeggiando (παραπλέων) il più vicino possibile alla costa, Leotichida fa annunciare ad alta voce da un araldo un messaggio per i soldati e marinai ioni schierati con i persiani, con il quale li si invita a combattere per la loro libertà. Così lo riporta Erodoto: «Uomini della Ionia, quanti di voi mi ascoltano prestino attenzione a quello che dico: i Persiani infatti non capiranno nulla di quanto vi raccomando. Quando ci scontreremo, bisogna che ciascuno pensi in primo luogo alla libertà di tutti, poi alla parola d’ordine Ebe (συνθήματος Ἥηβης). E chi di voi non ha udito lo sappia da chi ha udito.»172 Si tratta, in pratica, della riedizione dello stratagemma adottato da Temistocle all’Artemisio (VIII, 33, 3). In realtà Leotichida sa bene che, imbarcati sulle navi persiane, vi sono parecchi Sami propensi a disertare e vuole non soltanto invitarli a combattere per la causa greca, ma anche gettare lo scompiglio nel campo nemico. I Persiani, infatti, non comprendendo la lingua del messaggio, ma intuendone il tenore, disarmano per sospetto i Sami e si liberano anche dei Milesi, inviandoli a presidiare i passi che portano a Micale, da loro ben conosciuti dal momento che Micale e Mileto sono molto vicine. Fatto ciò i Medi di Tigrane ammassano gli scudi (συνεφόρησαν τὰ γέρρα) come avevano fatto a Platea contro gli Spartani. Moloeis dove gli Spartani avevano disfatto i Persiani di Mardonio, mentre un altro consacrato a Era era ubicato vicino a Platea, non lungi dall’ultima posizione assunta dal centro dell’esercito della Lega Panellenica. 170 Ulteriore aggancio ideale al libro XV dell’Iliade. 171 Erodoto specifica che preparano le passerelle per l’abbordaggio degli epibàtai, le ἀποβάθρας, antenate dei corvi romani (IX, 98, 2). 172 IX, 98, 3. 94 A Proposito di Platea Consistenza delle due flotte a Micale Se con do E ro do t o la con sist en za in izia le d e lla f lo t ta pe rsia na n e l 4 80 e ra d i 1. 20 7 n avi. 50 0 an da ron o p e rd u te d u ran te du e te mp e st e a l la rg o de lla Ma gn e sia e de ll’E ub e a e 50 f u ro no d ist ru t te all’A rt e mis io, men t re t a li ma ssicce p e rd it e fu ro no p a rzia lme nt e co mpe n sa t e p rima d i S a la m ina d a ll’in vio d i 1 20 n a vi t ra cie e de lle iso le circo n vicin e. Se bb en e vo lut a men t e n on a zza rd i né il nu me ro d elle na vi p e rsian e a Sa la min a, n é il n u me ro d elle p e rd it e, in VI I I, 1 30 E ro do t o affe r ma ch e l’a n no se g ue nt e a lla b at ta g lia le t rie re p e rsia n e e ran o 30 0. P iù o me no a 30 0 u nit à po ssia mo d un qu e f a r risa lire il n a vig lio p e rsian o a Mica le . Se mp re E ro do t o f a risa lire a 3 78 le t rie re e b ie re d e lla L eg a P an e llen ica a Sa la min a, men t re n on è p re ciso ci rca il nu me ro de lle n a vi a ff on d at e o d ist rut t e ne llo sco n t ro. Dio do ro in ve ce , in I X, 1 9, ne men zio na 40 . A Mica le d un qu e , la con sist en za nu me rica de lle du e f lot t e e qu ind i d e i lo ro eq u ip a gg i d ove va e sse re p re ssa pp o co sim ile . Pe r qu an to rigu a rda le fa nt e rie imb a rca te , sa pp ia mo che le t rie re e lle n iche po rt a va no d a u n min imo d i do d ici a un ma ssimo d i ven t i o p lit i. Du nq u e a Mica le, su p po ne nd o che in vista di un a ba tt a g lia loe na vi p o rt a van o il nu me ro ma ssimo d i f an t i, do vet t e ro sba rca re circa 6. 00 0 uo min i. Fo rse q ua lche cen t ina io in più , se si ca lco la che le na vi e lle n iche p ot e sse ro a ve r imb a rca to an che q ua lche co n t ing en t e d i Sa mi. Le circa 30 0 un ità pe rsia ne t ira t e in se cco a Mica le e ra no d ot a te d i un eq u ip a gg io d i f an t i su pe rio re a q ue llo d e lle t rie re e llen ich e, circa 3 0 og n i na ve, pe r la mag g io r pa rte a rcie ri. Q u in d i in t eo ria le t ru p pe che d if e nd e va n o la du p lice circo n va lla zion e in t o rno a lle n a vi do ve van o co n sist e re in 9. 00 0 uo min i. S i de ve rico rd a re pe rò che i S a mi e ran o sta t i disa rma t i, i Mile si a llo n ta na t i e so p ra tt u tt o ch e il no ccio lo de lle fo rze pe rsian e a Mica le e ra n o i 6 0. 00 0 Med i d i Tig ran e . 95 Piero Pastoretto A questo punto (IX, 101, 2-3), Erodoto inserisce una notizia che già nell’antichità suscitò parecchio scetticismo, e cioè che ai Greci sulle navi in quel frangente giungesse miracolosamente la notizia della vittoria di Pausania 173, adducendo la differenza di orario fra le due battaglie: la mattina (πρωί) per Platea e la sera (περὶ δείλην) per Micale. Cosa invece impossibile, dal momento che la Beozia dista da Micale circa 190 miglia marine e nessuna nave né di allora, né di oggi, è in grado di percorrere una tale distanza in poche ore174. Alcuni studiosi moderni175 pensano che la notizia sia potuta arrivare in così breve tempo attraverso il sistema di segnali di fuoco, cosa nient’affatto rara nel V secolo 176. Personalmente ritengo invece, insieme ai più, che la battaglia di Micale sia avvenuta a qualche giorno di distanza da quella di Platea; e che, come pure si è da più parti osservato, la pretesa coincidenza dei due fatti d’arme abbia non un valore storicocronologico, bensì puramente simbolico e didascalico teologico. Il capitolo 102 inizia con lo sbarco degli Elleni trascinati dall’entusiasmo per la notizia della vittoria di Platea, validamente contrastati dai Medi di Tigrane, a loro volta consci che da quella battaglia sarebbero scaturite le sorti delle isole ionie e dell’Ellesponto. Ancora una volta sembra che, come a Platea, Ateniesi e Spartani occupino i due fianchi dello schieramento ellenico: lo storico precisa infatti che gli Ateniesi «e quelli disposti intorno a loro» (τῶν προσεχέων, vedremo tra breve chi sono) fino a circa la metà dell’esercito greco, prendono terra sulla spiaggia, mentre gli Spartani e l’altra metà su un tratto di costa scoscesa, dove non sembra esserci la difesa persiana; sicché, mentre i primi già ingaggiano battaglia, gli altri sono ancora impegnati ad aggirare le alture per partecipare anch’essi al combattimento e portare aiuto alle armi degli alleati. Non è dato però sapere, a differenza di Platea, quale delle due ali essi occupino; e tengo ad aggiungere che, sempre a differenza di Platea, il cui riferimento è d’obbligo, vi è una grande disuguaglianza tra la consistenza degli opliti ateniesi sbarcati e quelli dei Lacedemoni, in quanto la flotta spartana, almeno nella naumachia di Salamina, era meno di un decimo di quella ateniese: 16 navi contro 180. 173 Mi sembra degno di nota che Erodoto sottolinei che la vittoria era stata conquistata da Pausania (γεγονέναι δὲ νίκην τῶν μετὰ Παυσανίεω). Penso che lo spinga a tale precisazione poco corretta se non altro verso gli Ateniesi di Aristide, anch’essi vincitori, il parallelismo esiodeo tra Pausania vendicatore di Leonida e Achille vendicatore di Patroclo. 174 Anche viaggiando a una velocità di 30 nodi, occorrono più di sei ore per coprire una simile distanza. 175 Ad es. P. Barron, in The Cambridge Ancient History IV, p.614. 176 Nella prima delle tragedie dell’Orestea, Agamennone, Eschilo presenta Egisto e Clitemnestra mentre sono informati del prossimo arrivo del re attraverso il sistema dei fuochi costieri. L’Agamennone è l’unica tragedia dello trilogia che si sia salvata per intero. Le altre tragedie presentate al concorso del 458, Le Coefore, Le Eumenidi e il dramma satiresco Proteo, ci sono giunte mutile. 96 A Proposito di Platea Neppure ci è dato conoscere, attraverso il testo erodoteo, come fossero disposte le triere elleniche al loro approdo, o meglio, spiaggiamento a Micale. Certo la disposizione non era simile a quella di Platea, dove accanto agli Ateniesi vi erano i Megaresi loro alleati, e accanto agli Spartani i Tegeati, in quanto Erodoto testimonia che a Micale, accanto agli Ateniesi che sbarcano agevolmente su un tratto di costa sabbioso, vi sono tre contingenti peloponnesiaci, ovvero i Corinzi, i Sicioni e quelli di Trezene; contingenti che a rigore, in una disposizione ‘etnica’ delle squadre, sarebbero dovuti stare accanto agli Spartani di Leotichida come lo erano stati i Tegeati a sinistra di Pausania. Un altro particolare di straordinaria importanza su cui Erodoto tace è il modus operandi con cui è avvenuto lo sbarco. Infatti, mentre per gli Ateniesi è facile immaginare che abbiano semplicemente fatto arenare le loro navi sulla sabbia, siano saltati in mare dalle murate e abbiano percorso i pochi metri che li separavano dall’asciutto con l’acqua inizialmente ai fianchi177, più difficile risulta rappresentarsi come siano sbarcati gli Spartani su una costa alta e rocciosa, dove le navi non potevano certo avvicinarsi alla riva con il rischio di danneggiare seriamente le carene sugli scogli o di finire preda della risacca e della corrente marina178. Abbandonando adesso i dubbi che Erodoto lascia irrisolti e rimangono pertanto delle incognite, l’autore invece ci fa ben capire che a Micale, a differenza di Platea, la vittoria va a tutto merito degli Ateniesi e di «quelli disposti intorno a loro». E proprio sopra questo punto devo candidamente confessare tutta la mia meraviglia nel non trovare, in tutto il logos dedicato da Erodoto alla battaglia, il nome del comandante ateniese. Non certo Temistocle, l’eroe di Salamina, perché sarebbe paradossale che Erodoto non lo menzioni neppure una volta, mentre per Platea, invece, cita più volte Aristide. Ma allora chi? E perché l’autore non vi fa cenno, nonostante a questo misterioso comandante e ai suoi uomini vada il merito maggiore dell’annientamento della flotta e dell’esercito persiani? 177 C’è tuttavia da mettere in conto un problema non trascurabile: facendo riferimento a Salamina, le navi impiegate nello sbarco tra Ateniesi e alleati erano ben 240 (180 ateniesi, 40 corinzie, 15 di Sicione e 5 di Trezene). Qualcheduna in meno calcolando le perdite, le riparazioni delle unità danneggiate o le possibili defezioni intervenute dopo Salamina. Dunque i casi sono due: o la costa era lunga diversi chilometri perché le triere potessero ammassarsi a riva pur conservando la capacità di manovrare con i remi senza intralciarsi l’una con l’altra, o lo sbarco dovette avvenire a ondate successive di navi. Nel primo caso però nasceva il problema di raccogliere gli opliti così dispersi in maniera da poter formare la falange da contrapporre al muro dei gherra dell’esercito medo. 178 Neppure ai Tempi di Overlord, con tutti i mezzi e la tecnologia a disposizione, si pensò mai a uno sbarco lungo una costa alta. L’episodio di Pointe du Hoc non fu uno sbarco, ma un’operazione di ranger. In verità un progetto (piuttosto bizzarro) di sbarco lungo un’alta scogliera con le scale dei pompieri faceva parte dell’operazione italo tedesca C3 su Malta, che infatti non fu mai realizzata. 97 Piero Pastoretto E se a capo del contingente ateniese non vi è Temistocle, che cosa era accaduto: quale dissapore, quale lite, quale vendetta o veto si cerano verificati all’interno della flotta della Lega, perché il vero vincitore di Salamina non divenisse anche il vero vincitore di Micale? Ovviamente le interrogative di cui è ricco il periodo precedente sono del tutto retoriche e non potranno certo avere risposta né in questo studio, né altrove. Riprendo perciò il breve sunto delle operazioni. Gli Ateniesi e gli altri alleati che sbarcano sulla spiaggia si trovano innanzi il muro compatto degli spara dei Medi. Non è chiaro perché Tigrane non abbia impegnato i propri uomini a contrastare lo sbarco dei Greci sulla battigia, bersagliandoli di frecce e profittando del momento delicato in cui erano disuniti e impacciati dallo stesso peso del loro armamento in un braccio d’acqua, e abbia invece concesso loro di formare la falange e di avanzare compatti nel modo consueto179. Non è neppure ben chiaro perché abbia disposto i suoi sparabara davanti al muro parecchio lontano dalla costa, come si arguisce dal passo erodoteo che suona così: «Gli Ateniesi e quelli disposti accanto a loro, fino circa alla metà, percorrevano la strada ( ἡ ὁδός) lungo la spiaggia e su un terreno pianeggiante.» 180 Si tratta di un comportamento irrazionale: eppure, sebbene Erodoto non sia così esplicito, è proprio quello scelto dal comandante medo. Ecco la descrizione, molto simile a quella dello scontro tra Persiani e Spartani presso il tempio di Demetra, dal quale si deduce come anche gli Elleni abbiano formato una falange e non siano andati all’attacco in modo disunito e disperso181. «Finché i Persiani ebbero gli scudi eretti (ὂρθια ᾖν τὰ γέρρα), si difesero e non furono inferiori nella battaglia; ma, quando le schiere degli Ateniesi e di quelli vicini, perché l’impresa fosse loro e non degli Spartani, esortandosi a vicenda si impegnarono all’opera con maggiore ardore, allora la situazione cambiò. Abbattuti gli scudi, piombarono di slancio in massa sui Persiani che sostennero l’urto e si difesero a lungo, ma alla fine fuggirono verso il muro.» 182 A commento degli ultimi due passi citati, mi sembra decisamente lecito porsi un altro interrogativo di non irrilevante gravità. Se gli Ateniesi e i loro compagni percorrono una via successiva alla spiaggia per poi disporsi comodamente a falange nella pianura e 179 Il nemico che sbarca, o lo si ferma sulla spiaggia, o non lo si ferma più. Rommel docet et von Rundstedt nocet. 180 IX, 102, 1. 181 Peraltro, per l’oplite greco, combattere singolarmente e non in uno schieramento massiccio era una semplice assurdità. Un oplite da solo, o più opliti separati, diventavano dei fanti come tutti gli altri e il peso del loro armamento addirittura li penalizzava gravemente rispetto ai persiani. 182 IX, 102, 2-3. 98 A Proposito di Platea attaccare i Medi, che stavano disposti in lunghe file davanti al muro eretto a protezione delle navi: ebbene, di quanto era stata tirata in secco la numerosa flotta persiana? Non certo di poche decine di metri. Quindi saranno stati necessari falanche, rulli, animali da soma e uomini in quantità, in un’operazione di gravoso impegno. Alla quale poi deve essere succeduta quella dell’innalzamento del muro. E allora, come può essere possibile anche soltanto immaginare veritiero il racconto di Erodoto, che sembra fare intendere come la partenza delle navi persiane da Samo abbia preceduto di un solo giorno o due quella delle navi della Lega Panellenica? 183 Infatti, come il lettore ricorderà, egli dice che la flotta di Leotichida, venuto a sapere della partenza del nemico (cosa non troppo difficile in verità, data la piccolezza di Samo), decide immediatamente di prendere a propria volta il mare. Non resta che ammettere che le informazioni di Erodoto circa la battaglia di Micale dovevano essere molto meno dettagliate rispetto a quelle che mostra di possedere intorno a quella di Platea e di Salamina. Non si potrebbero spiegare altrimenti tutte le lacune e i dubbi che lascia scoperti nella sua narrazione. La conclusione della battaglia di Micale è praticamente la copia di quella di Platea e segue il medesimò cliché stereotipato. Le linee dei Medi, quando cominciano a cadere i loro scudi dopo una lunga lotta accanita, vengono sfondate e si verifica una fuga generale verso il muro. Ateniesi, Corinzi, Sicioni e Trezeni li inseguono e fanno irruzione dentro la duplice difesa. A questo punto tutti i barbari184 fuggono a eccezione dei Medi, che proseguono a combattere contro gli Elleni che continuano a irrompere incessantemente dentro le difese. Dei comandanti nemici due fuggono, e sono Artaunte e Itamitre, capi della flotta, mentre Mardonte e il comandante dell’esercito Tigrane, cadono nel combattimento. Mentre proseguono le ultime, ostinate, resistenze, giungono anche gli Spartani e i non meglio precisati «quelli che erano con loro»185 e segue un’aspra battaglia in cui cadono parecchi Greci e in particolare Perileo, comandante dei Sicioni. I Sami, che erano stati disarmati da Tigrane dopo il messaggio dell’araldo, fanno quello che possono per portare sostegno ai loro connazionali. Maggiormente influente è però l’aiuto dei Milesi, che invece erano stati mandati a sorvegliare i passi montani intorno a Micale. L’obiettivo di Tigrane era duplice: allontanare i Milesi dal campo di battaglia per evitarne la ribellione e usarli come guide esperte dei luoghi per trarre in 183 Erodoto non era certo un Polibio, cha andava a misurare in loco, passo dopo passo, i luoghi delle battaglie. Non c’è dubbio che, quando Polibio lesse il libro IX delle Storie che riguarda Micale, si sia fatto prendere dallo sdegno per il pressapochismo e le contraddizioni dello storico di Alicarnasso. 184 Presumo che con il nome barbari Erodoto intenda gli equipaggi navali e i fanti delle navi tirate in secco 185 Situazione esattamente opposta a quella che si era verificata a Platea, dove erano stati i Lacedemoni a dare l’assalto al muro, e gli Ateniesi a venire in loro aiuto in un secondo momento. 99 Piero Pastoretto salvo l’esercito in caso di sconfitta. Proprio questa funzione di guida essi compiono verso i barbari fuggitivi, salvo che essi li indirizzano di nuovo verso gli Elleni vincitori invece che verso lo scampo e alla fine, come annota Erodoto, «furono i più ostili nel massacro. Così per la seconda volta la Ionia si ribellò ai Persiani.»186 Il monte Micale La scena si conclude con l’incendio del muro e delle navi, la raccolta dell’immenso bottino, l’elenco dei caduti illustri e la menzione dei popoli che si erano maggiormente distinti. Contrariamente a quanto riportato nell’esergo con cui ho voluto aprire l’articolo, che cita fra i più valorosi a Platea gli Spartani seguiti dai Tegeati e dagli Ateniesi, questa volta i migliori sono proprio gli Ateniesi, seguiti dai Corinzi, Trezeni e SIcioni187. Giustizia distributiva era fatta! A Platea la palma dei migliori in campo era andata ai Lacedemoni. A Micale questi, pur disponendo del comando della flotta, svolgono un ruolo del tutto secondario, quasi da comprimari. Atene e Sparta potevano dirsi entrambe soddisfatte della penna del più grande storico antico delle Guerre Persiane. 186 187 IX, 104, 3. IX, 105. 100 A Proposito di Platea Appendice I Χαλκέοι ἅνδρες Proponendomi in questa prima appendice di rammentare al lettore come si presentasse la panoplia di un oplite greco a Platea, inizio con il dire che l’illustrazione che ho posto all’inizio dell’articolo non è coeva a quella battaglia, ma io l’ho scelta per pure ragioni estetiche. Le corazze che indossano i personaggi raffigurati nella ceramica sono infatti già composite (linothorax)188, e l’ultimo a destra, che calza un elmo tracio189, addirittura non sembra vestire alcuna corazza, ma soltanto un’exomis. La loro panoplia li colloca quindi nella seconda metà del V secolo, prima cioè che venisse introdotto l’elmo pileato, ma dopo che, per esigenze di leggerezza, era stato abbandonato quel bronzo che aveva fatto nominare gli opliti greci del VI secolo, χαλκέοι ἅνδρες, “uomini di bronzo”. Inizio con le armi difensive. Θώραξ – corazza Agli inizi del V secolo l’oplite greco indossava ancora l’arcaica lorica in bronzo detta “a campana” perché svasata all’altezza dei fianchi a seguire l’allargamento del bacino rispetto alla vita. Nel VI secolo sul metallo erano incisi degli eleganti ornamenti geometrici o una sommaria muscolatura; al tempo di Maratona e di Platea i particolari erano invece ben modellati, sino a fare assumere alla lorica un vero aspetto anatomico. Abbandonata poco dopo Platea, la corazza bronzea fu sostituita dal linothorax e addirittura, durante le guerre del Peloponneso, a questo subentrò la semplice exomis (ἐξωμίς), la tunica militare la cui manica destra poteva essere raccolta. Successivamente, nel IV secolo, si pensò nuovamente a premiare la protezione dell’oplite in luogo della sua leggerezza e fu reintrodotta la lorica di diverse fogge e differenti materiali: lino, cuoio o metallo. Una corazza di bronzo al tempo di Platea poteva pesare dai tredici ai quattordici chilogrammi. Κράνος – elmo L’elmo universalmente adottato dagli opliti a Platea era il modello corinzio, che risale all’VIII secolo e che, per intenderci, è calzato dal personaggio di sinistra e di centro dell’illustrazione all’inizio dell’articolo. 188 Formate cioè da diversi strati di lino (più di dieci) tenuti insieme da colle animali o resine. Purtroppo, a parte le raffigurazioni, non ci è giunto alcun resto di λινοθώραξ e perciò sulla loro reale composizione il dibattito fra storici e archeologi è ancora aperto. 189 Scrivo deliberatamente tracio (greco θράκιος) in luogo di trace (latino trax) per evitare confusione con l’elmo trace dei gladiatori romani. 101 Piero Pastoretto Se l’avere il capo protetto era un motivo di indubbia superiorità dell’equipaggiamento greco rispetto a quello achemenide, i cui fanti non indossavano alcuna protezione metallica, tuttavia il modello corinzio aveva il grosso difetto del peso e di limitare fortemente la visibilità e l’udito dell’uomo che lo portava. Per tali motivi fu abbandonato nella seconda metà del V secolo in nome dell’elmo pileato o di quello tracio. L’elmo corinzio degli opliti di Platea portava infine, come ornamento e ulteriore protezione, un cimiero di crine di cavallo, talvolta anche colorato. Questo era sagittale per gli opliti comuni e trasversale per gli strateghi e forse anche per i comandanti dei lochoi, al fine di identificarli chiaramente. Dobbiamo dunque immaginarci Aristide, Pausania, Eurianatte e forse anche Amomfareto, con gli elmi ornati da un cimiero di tal fatta Ὅπλον – scudo Lo scudo, insieme alla lancia, era l’arma di elezione dell’oplite 190, ed entrambi sono anche le armi più citate nella letteratura. Sino al’VIII - VII secolo il modello di scudo più adottato era quello a dipylon (letteralmente “due porte”) “191, caratterizzato dalla forma ovale con due anse laterali ed a sua volta derivante dagli scudi “ad otto” micenei. Questo scudo fu poi sostituito nel VII secolo dal modello argivo (il vero e proprio oplon, mentre lo scudo in generale si diceva ᾀσπίς) pesante fino a otto chilogrammi e costituito da una spessa tavola circolare di noce scavata con un grosso succhiello nella parte centrale in maniera che assumesse la forma di un disco concavo del diametro di 90-100 centimetri. Lo scudo era rivestito esternamente da una lamina di bronzo recante degli ornamenti ai bordi e, internamente, da uno strato di cuoio. In epoca posteriore a Platea lo scudo argivo poteva comprendere anche una pezza di cuoio, spesso dipinta, che scendeva dal bordo inferiore per evitare abrasioni alla coscia durante la battaglia e riparare dalle frecce, e parzialmente anche dai colpi di lancia, la parte superiore delle gambe non coperta dagli schinieri. L’oplite di destra nell’illustrazione che apre l’articolo mostra proprio un simile ‘grembiule’ che pende dal suo oplon e che risulta attaccato esteriormente. La concavità dello scudo argivo poteva essere più o meno pronunciata, comunque era tale che colui che lo portava poteva appoggiarlo sulla spalla nei momenti di attesa dello scontro per non stancare troppo il braccio sinistro. L’oplon veniva solidamente imbracciato facendo passare l’avambraccio fino al gomito attraverso un anello, porpax (πόρπαξ), mentre la mano impugnava una maniglia in pelle, antilabé (ᾀντιλαβή)192. Durante la battaglia l’oplite doveva reggerlo praticamente a 190 Lo stesso nome ὁπλίτης deriva dallo scudo che portava e può grossolanamente tradursi “scudato”. 191 Così chiamato dal nome del cimitero ateniese in cui ne sono state trovate diverse raffigurazioni. 192 Ricordo ancora l’abitudine degli Spartani di smontare il porpax quando riponevano lo scudo in inverno, per evitare che qualcuno degi iloti, dei quali temevano sempre le rivolte, se ne impadronisse e potesse imbracciarlo. 102 A Proposito di Platea contatto del volto, se si vuol dar retta a un passo delle Troiane di Euripide (415 a. C.) in cui Ecuba ricorda la macchia di sudore della barba del figlio Ettore rimasta impressa sullo scudo. L’oplon infine era dotato anche di una correggia (balteo) per poter essere portato a tracolla durante le marce. Gli scudi al tempo di Platea venivano dipinti esternamente con motivi scelti dal proprietario. Neppure i Lacedemoni avevano ancora cominciato a dipingere la lambda maiuscola Λ di Lakedàimon come avrebbero fatto più tardi nel corso del V – IV secolo. Plutarco anzi riferisce di un oplite spartano che, avendo fatto dipingere sul suo oplon una mosca di proporzioni reali, a chi gli faceva notare che così non poteva essere riconosciuto in battaglia, rispose che anzi l’aveva fatto per essere notato, perché in combattimento si sarebbe avvicinato tanto al nemico, che questo l’avrebbe potuta vedere a grandezza naturale193. Il pesante scudo argivo, insieme alla corazza di bronzo, come osserva giustamente Erodoto, costituì la vera differenza tra la solidità dell’equipaggiamento degli opliti greci e quello della pur migliore e più ben equipaggiata fanteria persiana. Κνημῖδες – Schinieri Gli schinieri, anch’essi in bronzo, erano piuttosto sottili e proteggevano le tibie. Erano mantenuti in sede dalla semplice elasticità del metallo. Agli inizi del V secolo andavano dalla caviglia al ginocchio e, durante la vestizione delle armi, venivano calzati per primi poiché la corazza rigida avrebbe impedito all’oplita di chinarsi per allacciarli. Le armi d’offesa Ξίφος – spada A partire dal VI secolo lo xiphos fu una spada lunga in media 60 centimetri, in ferro, a due fili e con impugnatura cruciforme. La lama era “a foglia di salice”, stretta alla base, che andava successivamente allargandosi per poi restringersi fino alla cuspide. Il fodero, generalmente in legno, più raramente in metallo, veniva portato appeso a un corto balteo di cuoio al fianco sinistro. La spada, a differenza dei fanti romani, veniva usata dagli opliti soltanto dopo che la lancia era andata perduta e la si adoperava dall’alto verso il basso a colpire violentemente l’elmo cercando di ferire il capo, oppure di punta, contro il torace e l’inguine. La larghezza dello scudo argivo rendeva però difficili entrambi i colpi. In alternativa allo xiphos gli opliti di Platea forse cominciavano già ad usare la màchaira (μάχαιρα), adottata sempre più massicciamente nei secoli successivi. La màchaira in origine era il coltello che, in Omero, i guerrieri portavano appeso vicino alla spada; a partire dalla seconda metà del V secolo essa aveva la forma di una corta spada ricurva ad un solo taglio, simile alla falcata iberica. La machaira fu l’arma prediletta dalla futura cavalleria greca e macedone. 193 Plutarco, Moralia, 234 d. 103 Piero Pastoretto Δόρy – lancia L’arma d’offesa di gran lunga preferita e più usata dall’oplite in tutti i tempi, fin da quelli più arcaici, era la sua lancia. Persino gli eroi dell’epos omerico combattevano soprattutto con le lance. Nell’Iliade esse venivano anche scagliate; il dory oplitico, per il suo peso e la sua lunghezza, era adatto a essere usato soltanto come lancia da urto e da combattimento ravvicinato. In una scena di battaglia tra falangi dipinta sul vaso proto corinzio conservato al Muso di Villa Giulia (olpe Chigi) gli opliti che si fronteggiano hanno due dory ciascuno, uno in posizione di ferire e l’altro tenuto con la stessa mano che impugna l’antilabé e poggiato sulla spalla sinistra. L’oplite di Platea invece entrava in battaglia con una sola lancia, anche se lo skenophoros che l’accompagnava ne portava certamente diverse di ricambio e di scorta. Il legno preferito per l’asta della lancia era il frassino per il semplice motivo che la venatura lunga e diritta di questo legno permetteva di incidere il tronco degli alberi in sezioni più lunghe e rettilinee rispetto agli altri tipi di legno. Frequente era anche l’uso del corniolo, che aveva il pregio di essere un legno molto più duro. La punta, all’epoca di Platea in ferro e non più in bronzo, era a forma di foglia, mentre di bronzo continuava a essere il puntale. Questo aveva una duplice funzione: permetteva di usare la lancia come arma offensiva anche se questa si era spaccata e all’oplita era rimasto soltanto lo spezzone posteriore; consentiva di conficcare il dory nel terreno quando venivano accatastate le armi nell’accampamento, senza danneggiare o far marcire il legno a contatto con l’umidità del suolo. Corredo e suppellettili dell’oplite Aggiungo qui sommariamente alcune sommarie descrizioni che permetteranno al lettore di farsi un’immagine realistica 194 di come si presentassero fisicamente quegli Elleni dei quali Erodoto commenta le gesta. Quando il cittadino greco andava in guerra non portava certo con sé soltanto le armi, ma anche capi di vestiario ed accessori. Pur immaginando che questi manufatti fossero simili per tutti i popoli dell’Ellade, siamo molto più informati intorno a quelli dei lacedemoni, sui quali s‘intrattengono diversi autori antichi195. Gli Elleni usavano due tipi di mantello sopra il chitόn (χιτών), che era la loro tunica: la clamide (χλαμύς) e l’imation (ἱμάτιον). Entrambi erano delle pezze di lana rettangolari, ma l’imation era molto più lungo e ampio, simile a un lenzuolo, tant’è che lo si portava avvolto intorno al corpo. La clamys, invece,era molto più comoda per il viaggio e consentiva una maggiore libertà di movimento; la si portava drappeggiata sopra la spalla sinistra e fissata con una fibbia sopra quella destra. Ai tempi di Platea tutti i greci 194 Realistica, ripeto, e non mediata da pellicole come ‘300’, che fanno strame di ogni realtà storica. 195 Soprattutto Senofonte, Elleniche e La costituzione degli Spartani; ma anche Plutarco, Vita di Licurgo e Vita di Agesilao. 104 A Proposito di Platea avevano adottato ormai la clamide, ma gli spartani continuavano ad indossare l’imation cremisi con niente sotto, neppure il chitόn. L’imation spartano era chiamato tribonio (τρίβων) e si caratterizzava per la sua stoffa ruvida e grezza, per cui gli altri greci lo definivano, deridendolo, “umile”, “senza valore” (φαῦλος). Uomini e ragazzi lo indossavano anche d’inverno per addestrare il corpo alla sopportazione il freddo e qualsiasi spartiate si faceva un punto d’onore nel portare sempre il medesimo, ancorché unto e logoro, per mostrare il proprio disprezzo verso gli agi e le ricchezze. Altro oggetto tipico degli spartani, anzi, quasi il loro simbolo nazionale, era il batterio (βακτήριον), il bastone o verga d’appoggio caratteristico dei viandanti, dotato di un’impugnatura trasversale a T come una stampella, sulla quale si poteva poggiare il cavo dell’ascella per riposarsi quando si stava in piedi fermi. Gli spartani lo sfoggiavano sempre in pubblico e, che fossero re, strateghi o semplici opliti, lo portavano con sé in guerra come anche nelle ambascerie all’estero. Mi pare interessante aggiungere che pure i filosofi ateniesi del V e IV secolo, per primo Socrate, che biasimavano gli agi e volevano mostrare il loro stile di vita umile e laconizzante, portavano tanto il batterio quanto il tribonio196. Clamide Nessun oplite classico indossò mai dei calzari, se non forse d’inverno, quando s’infilavano ai piedi delle calzature di feltro per tenere calde le estremità (πίλοι) 197. Ma poiché Platea si svolse in settembre o comunque agli inizi dell’autunno, gli Elleni combatterono a piedi nudi; e poiché, almeno fino alla guerra del Peloponneso le campagne avvenivano nei mesi caldi, possiamo ritenere veritiere le innumerevoli immagini di opliti che ce li mostrano sempre privi di qualsiasi calzatura. Viceversa, i 196 Senofonte, Memorabili di Socrate, 1, 6, 2. Socrate, ricordo, probabilmente era un ammiratore della rudezza e semplicità dei costumi spartani e dunque vestiva alla maniera dei Lacedemoni. 197 Al contrario, come dimostrano le figure di moltissime ceramiche, a caccia o durante i viaggi si usavano delle calzature simili agli stivali. 105 Piero Pastoretto cacciatori e i viaggiatori greci indossavano regolarmente i coturni, cioè dei comodi stivaletti. Un altro elemento caratteristico dei lacedemoni, oltre alla colorazione cremisi dei loro mantelli, al batterio e al tribonio, era la loro capigliatura lunga e sempre accuratamente pettinata. Nel corso dei secoli mutò il loro modo di acconciarsi le chiome, o in un grosso crocchio che ricadeva in mezzo alle spalle, o viceversa in trecce, da un minimo di tre a sette. In questo caso tre di queste trecce uscivano dalla gronda dell’elmo sulla nuca e due ciocche ricadevano su ciascuna guancia fino al collo 198. Portare i capelli lunghi era un obbligo di legge sin dal VII secolo 199 e per i Lacedemoni non solo costituiva un vanto, ma anche un segno di distinzione aristocratica da tutti gli altri popoli dell’Ellade che portavano sì la barba come loro, ma tagliavano i capelli corti. Va da sé che, come rammenta anche Erodoto, gli Spartani si pettinassero accuratamente prima di ogni battaglia200. E va anche da sé che, tra gli oggetti che portavano con loro in guerra, in gran conto tenessero il pettine (κτείς). Vi era però un altro attrezzo d’uso comune, che non mancava nel bagaglio di nessun oplite, a qualsiasi popolo appartenesse: lo xuele (ξυήλη). Xuele, era un coltellino, ma anche un arnese di metallo per affilare le spade e la punta delle lance e, occasionalmente, adatto anche a ferire se, come scrive Senofonte, tra i Diecimila vi era anche lo spartano Draconzio, esiliato dalla patria per aver ucciso da giovane, con il suo xuele, un coetaneo spartiate201. Nella sacca militare di ogni oplite, il gylios (γύλιος), oltre al piatto non potevano mancare né la tazza per bere, chiamata kothon (κώθων), a due manici per tutti i Greci, a uno solo per i Lacedemoni, né l’aryballo (ᾀρύβαλλος), la fiaschetta dell’olio con cui ci si ungeva il corpo prima degli esercizi fisici, né infine l’indispensabile spiedo per arrostire le carni fresche e il giaciglio, stroma (στρῶμα), che i servi trasportavano arrotolato all’interno dello scudo. 198 Plutarco narra che Clearco uno degli spartani al comando dei Diecimila al servizio di Ciro, catturato dai Persiani, fu portato in catene davanti al tribunale, dove chiese un pettine. Avendoglielo fornito Ctesia, un medico greco al servizio di Artaserse, Clearco ne fu così felice che per ringraziarlo gli regalò il proprio anello. Plutarco, Vita di Artaserse, 18, 1. 199 Erodoto, 1 (Clio), 82, 8. 200 Erodoto in VII (Polimnia), 208, narra dello stupore del persiano inviato a spiare quelli di Leonida, nel vederli compiere esercizi fisici e pettinarsi accuratamente le chiome. 201 Anabasi, 4, 8, 26. 106 A Proposito di Platea Appendice II Armi ed equipaggiamenti dei Persiani Sull’esercito del Gran Re abbiamo notizie piuttosto precise per il secolo IV e i tempi di Alessandro. Purtroppo invece, per gli anni delle guerre Persiane, queste notizie storiche difettano tanto in Erodoto quanto in altri autori e pertanto risulta difficile una ricostruzione rigorosa. La ceramica greca cominciò a raffigurare i barbari dopo la conclusione delle guerre persiane, ma non possiamo sapere quanto di reale o di licenza artistica guidasse i pittori dei vasi, tanto nell’effigiare i costumi, quanto nel renderne i colori. Una cosa appare certa: in nessun vaso greco sono raffigurati soldati con le tiare e le lunghe vesti ricamate simili agli Immortali e ai melofori che troviamo ritratti a Persepoli. Fatto sta che le antiche lunghe vesti persiane che compaiono nello “stile di corte” dei palazzi regali, e che per tradizione continuarono a essere ritratte uguali fino all’età di Dario III (380-330), erano già state abbandonate all’epoca di Dario I in favore del più sobrio e comodo vestiario militare dei Medi: tunica, pantaloni e mantello. Esattamente il tipo di abbigliamento che troviamo ritratto nelle ceramiche greche del V secolo. Ho già toccato più volte la questione se i Persiani e i Medi, le fanterie migliori di Serse, indossassero qualche forma di protezione del corpo o del capo. Tutte le raffigurazioni greche del V e IV secolo mostrano i fanti persiani con il capo coperto della sola kyrbasia, il cappuccio nazionale persiano Questo cappuccio compare in due fogge diverse: o come un copricapo apparentemente di cuoio, ben calzato e aderente alla testa ed alle guance, che termina in due o più bande e sulla cui sommità si osserva spesso una protuberanza rigida simile a quella del berretto frigio; oppure, in epoca non sappiamo quanto posteriore a Platea, ma perfettamente effigiata nel sepolcro di Abdalonimo202 del secolo successivo e nel celebre mosaico della battaglia di Isso, questa cuffia di cuoio sembra essere diventata una sorta di berretta formata da una sciarpa di stoffa che avvolge tutto il capo e la bocca e pende in una corta coda sulla nuca. La sommità di questa kyrbasia, non più rigida, ricade floscia su uno dei lati. Anche il re Dario III appare portarne una simile, chiamata però kitaris (in persiano “corona” e quindi spettante solo a lui), la cui sommità al contrario sollevata sul capo ed eretta, e non pendente. Tutta l’iconografia che ho citato contrasta però con il ritrovamento di un elmo conico di bronzo, offerto in dono votivo al santuario di Olimpia, che porta la scritta “Dagli Ateniesi a Zeus avendolo sottratto ai Medi”. Poiché l’offerta sembra risalire agli anni delle guerre Persiane, la sua stessa esistenza mette in imbarazzo gli storici e gli archeologi, anche perché sembra essere l’unico elmo persiano mai ritrovato, a differenza dei tantissimi elmi greci. 202 Re di Sidone fra il 333 e il 332, su un lato del cui sepolcro compare Alessandro a cavallo in un combattimento contro i Persiani che viene interpretato come una scena della battaglia di Isso. 107 Piero Pastoretto Ritengo perciò che si trattasse di un elmo il cui uso era rarissimo: tanto raro ed eccezionale che appunto fu offerto in voto ad Olimpia; oppure che si trattasse dell’elmo di qualche capo mercenario al servizio del Gran Re, che costui lo portasse secondo il suo costume nazionale e che non appartenesse realmente a un medo, come indica, sbagliando la scrittura votiva. In conclusione, mi sembra di poter affermare che i Persiani a Platea andarono in battaglia regolarmente privi di qualsiasi protezione del cranio, che era invece una prerogativa dei soli Elleni. Sparabara katabara p.22 Per quanto riguarda le corazze, esse erano certamente indossate dai comandanti come Masistio, che portava una lorica d’oro a squame sotto la veste di porpora. Che fosse propriamente d’oro sarebbe da discutere, data la robustezza che Erodoto le attribuisce, e che è propria del bronzo e non certo dell’oro; quel che importa è che i comandanti come Masistio, e probabilmente Idarne, Mardonio e Artabazo, e persino i baivarapatis e gli hazarapatis portavano delle corazze a scaglie, o sotto le vesti, come Masistio, oppure ben visibili sopra di queste, come segno del grado e del potere che rivestivano. Ma i semplici fanti? Che la fanteria persiana e dei Medi indossasse delle loriche nascoste sotto le tuniche, come ho già osservato, mi appare dubbio. Descrivendo il saccheggio dei caduti nemici al capitolo 80, 2, Erodoto infatti non menziona affatto le corazze, ma scrive soltanto: «… spogliarono i cadaveri dei braccialetti, delle collane e delle acinaci, che erano d’oro 203, mentre non si tenne alcun conto delle vesti ricamate.» Il passo precedente, che non menziona alcuna lorica tra gli oggetti sottratti ai cadaveri, non toglie però la possibilità che la fanteria pesante o, per meglio dire, scudata, dei Medi e Persiani a Platea portasse qualche tipo di protezione sotto le tuniche, come corsaletti di cuoio o di lino pressato; ma che, trattandosi di materiali vili e non venali come ad esempio il bronzo, non abbia nemmeno attirato l’attenzione dei vincitori. Non vi è peraltro nessuna immagine giuntaci di fanti persiani che li mostri armati di qualche forma di lorica. Essi appaiono invece rivestiti alla solita foggia dei Medi 204: tuniche fino alle ginocchia e a maniche lunghe (kantus), impreziosite da bande o ricami geometrici e pantaloni (che Senofonte nella Ciropedia chiama anakyrides) con motivi perlopiù a losanghe. Tutti infine, al contrario degli Elleni, appaiono indossare delle calzature di cuoio. 203 Ridicolo mi pare l’accenno a delle akinakes d’oro. Spade d’oro, come anche corazze d’oro, possono anche essere state usate dai Persiani, ma come armi da cerimonia tendenti a qualificare il prestigio e il rango di qualche generale o satrapo. Non certo in battaglia. 204 Foggia nella quale i vasai greci ritraevano spesso le amazzoni nelle loro amazzonomachie. 108 A Proposito di Platea Immagine di un soldato persiano alle prese con un oplite greco. Kylix attica della metà del V secolo. Entrambe i contendenti sembrano maneggiare una màchaira Spostando adesso la nostra attenzione sulle disposizioni tattiche degli Persiani a Platea, possiamo discorrere con una certa cognizione di causa sulle truppe nazionali persiane, ma non certo su quelle dei federati o dei popoli succubi, che probabilmente seguivano i loro costumi nazionali. Per avanzare un esempio chiarificatore, gli alleati tebani che fronteggiarono gli Ateniesi, adottavano panoplie oplitiche, nonché uno schieramento e un modo di combattere tipico della falange. A maggior ragione le nazioni barbare, così minuziosamente descritte nelle vesti e nelle armi native da Erodoto nel libro VII, ad eccezione forse dei Saci dovevano adottare nel combattimento dei costumi alquanto differenti fa loro e totalmente diversi da quelli dei Persiani. Gli eserciti achemenidi del VI, V e IV secolo possono grossolanamente dividersi in tre categorie di combattenti: gli sparabara (“portatori di spara”, termine più o meno equivalente al greco oplite) reclutati tra i medo-persiani; i takabara (“portatori di taka” un leggero scudo lunato come la pelte greca205 e più tardi trasformatosi in un riparo ovale simile al thureos romano), mercenari eminentemente ircaniani e battriani armati di asce e lance206. Dei popoli alleati o soggetti si può dire ben poco.. A Platea Erodoto non menziona la presenza di mercenari, anche se non si può escludere che i Battriani, che occupavano il centro insieme a Saci e Indi, fossero effettivamente dei takabara, cioè dei mercenari. Poiché non possiamo qui occuparci dei mercenari e degli alleati, mi soffermerò il minimo indispensabile sugli sparabara. 205 Thureos “a forma di porta” (θυρεός)è il nome con cui Polibio descrive lo scutum ovale romano.. 206 I Greci chiamavano questi takabara peltasti o peltophori, armati cioè di uno scudo leggero lunato di vimini simile alla loro pelte (πέλτη). 109 Piero Pastoretto Mentre l’unità tattica fondamentale era per gli Elleni il lochos, per i Persiani questa era più massiccia e costituita dallo hazarabam, il ”reggimento” di mille uomini con a capo un hazarapatis, (il moderno “colonnello”), a sua volta suddiviso in dieci dathabam, “compagnie” di cento uomini comandate da un “capitano”, il dathapatis. Ho già avuto occasione di osservare che la fanteria degli sparabara era, per così dire, “multiarma”, in quanto nello stesso reparto confluivano le specialità dei fanti pesanti dotati di scudi e degli arcieri. Non è facile però desumere dal libro IX di Erodoto quale aspetto gli hazarabam medi e persiani avessero quando si schierarono di fronte agli opliti di Sparta e di Tegea. Gli storici moderni concordano nel supporre che la disposizione sul campo dei vari dathabam fosse molto simile a quella delle fanterie medievali ricoperte dai pavesi (o palvesi). Per essere esplicito, gli storici ritengono che, in teoria, ogni dathabam persiano di 100 uomini si disponesse in un quadrato di dieci uomini in linea per dieci file di profondità. La prima linea, dotata di lance lunghe forse due metri e di spara, proteggeva le successive nove di arcieri. Si può ipotizzare dunque che un intero hazaraban mostrasse al nemico 100 sparabara in linea a creare un muro di scudi e lance, e 900 arcieri disposti sulle successive nove file. Contro tale ricostruzione io avanzo alcune riserve. Innanzitutto, come ho già osservato, in nessun luogo del testo erodoteo si evince che la fanteria persiana fosse dotata di lance. Al contrario, da diversi passi appare chiaro che ne fosse priva e dunque mi sembra di poter affermare che le lance da urto furono introdotte più tardi 207. Secondariamente, mi sembra difficile poter accettare il fatto che un corpo di fanteria chiamato sparabara, cioè “portatori di scudi” fosse composto in realtà per nove decimi da arcieri privi di scudo208. Alla stessa maniera mi parrebbe incongruo chiamare oplitiche delle falangi in cui soltanto la prima linea di fanti portasse l’oplon e le altre ne fossero prive. Ma ammettiamo pure che la composizione tradizionale degli sparabara nelle campagne persiane contro altri popoli nomadi od orientali dotati di fanterie più o meno composte per la massima parte di arcieri 209 comportasse una tale proporzione tra fanti scudati e armati di arco. Tuttavia, nella seconda spedizione contro la Grecia, gli strateghi persiani come Mardonio o Artabazo erano ben coscienti di doversi incontrare con la pesante e massiccia falange greca formata da almeno otto file di fanti scudati e dotati di lance. Falange che, grazie ai suoi immensi e robusti oplon, ai suoi elmi e corazze di bronzo, dopo aver sopportato abbastanza agevolmente la pioggia di frecce degli sparabara, una volta giunta a contatto con questi avrebbe polverizzato la prima linea e fatto strage degli inermi arcieri che, come loro difesa nello scontro diretto 207 Occorre ricordare, a esempio, che intorno al 370 vi furono nell’esercito persiano le importanti riforme del satrapo Datame. 208 Per la discussione sull’armamento degli sparabara persiani a Platea rimando all’Appendice II. 209 Ad esempio Saci ed Egizi. 110 A Proposito di Platea possedevano solo le acinaci e le sagaris. Tale considerazione, a mio parere, dovette indurre Mardonio, a Platea, a moltiplicare le linee dei fanti dotati di spara diminuendo di conseguenza, o mantenendo inalterate, le file degli arcieri. Di questa tesi non vi sono prove se non il buon senso. Tuttavia, a parziale supporto della mia teoria, rileggendo il già riportato capitolo 62 ai paragrafi 2 e 3, si ricava che in un primo tempo la battaglia avvenne presso gli scudi e quando questi caddero la battaglia continuò a infuriare mentre entrambi gli schieramenti mantenevano una formazione falangitica. Infatti l’autore osserva che i Persiani, insesperti nel combattimento a file serrate, balzavano avanti a uno, a dieci o più abbandonando le linee e finivano uccisi dagli spartani. Ugualmente, nel capitolo successivo Erodoto ricorda che la resistenza dei barbari durò fino a quando cadde Mardonio con i mille che lo attorniavano, e solo successivamente si manifestò il collasso dell’intero schieramento. Queste osservazioni messe insieme possono indurre a ritenere che, se la resistenza degli sparabara ebbe una certa durata ed efficacia, ciò fu dovuto al particolare che anch’essi dovevano adottare uno schieramento di più linee di scudi in profondità. In caso contrario, annientata la prima linea di gherra, per i Persiani non ci sarebbe stata più storia e gli arcieri sarebbero fuggiti senza opporre alcuna forma significativa di resistenza. In conclusione ritengo che a Platea, come anche a Isso o Arbela, la fanteria degli sparabara non si schierasse con una proporzione rigida fra arcieri e fanti scudati, ma che potesse mutarla armonicamente a seconda delle esigenze e delle contingenze. r Ricostruzione pittorica di una schiera di sparabara. I fanti indossano delle loriche e dunque non sono del periodo di Platea. L’artista si uniforma al parere diffuso e la linea degli spara è unica. 111 Piero Pastoretto Principali fonti letterarie antiche Le citazioni tratte da autori antichi e medioevali a loro volta riprese da quelli sotto indicati sono state omesse. E R O D O TO (484 a.C. circa – 425 a.C. circa), Le Storie , libro IX, qualsiasi edizione. C T E S I A (440 a.C. circa – 397 a.C. circa), Persicà, qualsiasi edizione. D I O D O R O S I C U L O (90 a.C. circa – 27 a.C. circa), Bibliotheca historica , qualsiasi edizione. P L U TA R C O (46 d.C. circa – 125/127 d.C. circa), Vite parallele , qualsiasi edizione. S A N F O Z I O I L G R A N D E (820 d.C. circa – 893 d.C. circa), Bibliotheca , qualsiasi edizione. 112 A Proposito di Platea Indicazioni Bibliografiche Essendo la bibliografia sull'argomento sterminata si indicano solamente alcune delle pubblicazioni più recenti disponibili in Italiano consigliando, per iniziare, quella di David Asher edita da Arnoldo Mondadori, più completa ancora dell'originale. Frediani A., Le Compton, 1963, grandi battaglie dell’Antica Grecia, Roma, Newton Cartledge P., “Hoplites and Heroes: Sparta’s Contribution to the Technique of Ancient Warfare”, in Journal of Hellenic Studies 97, 1977. , Lazenby, J. F. The defence of Greece 490-479 BC , Newcastle, Aris & Phillips, 1993. A S H E R D., Erodoto Le Storie, commento aggiornato di V A N N I C E L L I P. , testi critici di C O R A L L A A. , traduzione di F R A S C H E T T I A., Arnoldo Mondadori, 2006. G. Cawkwell, The Greco-Persian Wars, Oxford, Oxford University Press, 2006. Brizzi G., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico , Bologna, il Mulino, 2008. N.A.T. Olmstead, History of the Persian Empire , Chicago, University Chicago Press,1948. Sekunda, L’esercito persiano , Milano, RBA Italia, 2010. Sekunda N., Guerrieri spartani , Milano, RBA Italia, 2010. Connolly P., Greece and Rome at War , Barnsey, Pen & Sword Books, 2011. Lazenby, J. F. The Spartan Army, Paperback, 2012. Shepherd W., Platea 479 BC: the Most Glorious Victory Ever Seen , Oxford, Osprey Publishing, 2012. Pastoretto P., Lo stato dell’arte della guerra terrestre e marittima agli inizi del V secolo a.C. e altro ancora , www.arsmilitari.org 2013. 113 Piero Pastoretto INDICI Per i riquadri di approfondimento contenuti nel testo e le illustrazioni si danno di seguito indici separati Presentazione 2 Introduzione 3 Ante Rem 8 In Re 22 Post Rem 91 Appendice I 100 Appendice II 106 Principali Fonti Letterarie 111 Indicazioni Bibliografiche 112 114 A Proposito di Platea Indice dei riquadri di approfondimento Un esercito di privati 15 La cavalleria di Serse 25 Arcieri sciti fra gli Ateniesi 27 Le novità di Eritre 30 Il monte Citerone 32 Corna e ali 36 Elenco dei contingenti greci 39 Il fiume Asopo 46 Pausania 49 Suddivisioni dell'esercito spartano 62 Di alcune considerazioni storico-lessicali 68 La cavalleria greca 80 Un particolare non indifferente 91 Consistenza delle due flotte a Micale 95 115 Piero Pastoretto Indice delle illustrazioni Le illustrazioni sono scaricate da internet per la cortesia di Wikipedia a eccezione dello schema con lo schieramento dei due eserciti che è dell'autore. Schema dello spostamento degli Elleni da Eritre al fiume Asopo 37 Schema dello schieramento dei due eserciti 43 Schema della manovra persiana sulle retrovie 50 Schema dell’attacco delle cavallerie persiane 54 Cavaliere armato accanto a un oplite 81 La rotta persiana a Platea 85 Il monte Micale 100 Clamide 105 Soldato persiano alle prese con un oplite greco 109 Una schiera di sparabara 111 116