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D S E
Dipartimento
Scienze
Economiche
Studi
sull’Economia
Veneta
Università Dipartimento
Ca’ Foscari di Scienze
Venezia Economiche
Giovanni Favero
Le stagioni di Benetton:
una storia per immagini
No. 02/EV/2006
Studi sull’Economia Veneta
Dipartimento di Scienze Economiche
Università Ca’ Foscari di Venezia
No. 02/EV/2006
Le stagioni di Benetton:
una storia per immagini
Giovanni Favero
Università di Venezia
Abstract
Questo intervento concerne i cambiamenti nella politica d’immagine della Benetton dalla sua
fondazione nel 1965 a oggi. I nessi tra l’evoluzione parallela delle strategie promozionali, di
distribuzione e di produzione sono ampiamente discussi.
Il testo costituisce la versione italiana di un intervento presentato al convegno della European
Business History Association, Francoforte, 1-3 settembre 2005, ed è stato pubblicato su «Blu: la
rivista del territorio», 23, 2006.
Parole Chiave
Benetton, strategia d’immagine, franchising
:
Giovanni Favero
Dipartimento di Scienze Economiche
Università Ca’ Foscari di Venezia
Cannaregio 873, Fondamenta S.Giobbe
30121 Venezia - Italia
Telefono: (++39)041 2349165
Fax: (++39)041 2349176
e-mail: [email protected]
Gli Studi sull’Economia Veneta sono pubblicati a cura del Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di
Venezia. I lavori riflettono esclusivamente le opinioni degli autori e non impegnano la responsabilità del Dipartimento. Gli
studi sull’economia veneta vogliono promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti, per suscitare
commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della natura provvisoria dei lavori per eventuali citazioni o per ogni
altro uso.
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Cannaregio 873, Fondamenta San Giobbe
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Le stagioni di Benetton: una storia per immagini
1.
*
Sulla Benetton è stato scritto molto, in tempi recenti e meno recenti, e da
molteplici punti di vista (Nardin 1987, Brunetti-Bortoluzzi 2004, Favero 2005). I tratti
salienti di questa storia sono in buona parte noti. Nata nel 1965 a Ponzano Veneto, in
provincia di Treviso, da un piccolo laboratorio artigianale gestito dai fratelli Benetton,
l’azienda negli anni ’70 si è rapidamente affermata sul mercato italiano della maglieria e
ben presto di tutto l’abbigliamento casual. La distribuzione si è estesa in seguito al
mercato europeo, e progressivamente a quello statunitense e giapponese. Negli anni ’80
l’internazionalizzazione ha fatto da incentivo per una ristrutturazione interna dal punto
di vista manageriale e logistico che ha visto contemporaneamente l’azienda accedere
alla quotazione in borsa e investire in maniera massiccia nella telematica e
nell’automazione. A tentativi non riusciti di ulteriore ampliamento della gamma dei
prodotti nel settore dell’equipaggiamento sportivo si è peraltro affiancato, a partire dagli
anni ’90, l’impegno finanziario della famiglia in acquisizioni di imprese attive in settori
completamente diversi.
Ma nella memoria collettiva il nome Benetton è anche associato all’immagine
dell’azienda, ai piccoli negozi colorati degli anni ’80 e alle pubblicità “shock” di
Toscani degli anni ’90. Mi è parso interessante concentrare qui l’attenzione appunto
sugli aspetti legati all’immagine, rinviando alla bibliografia la curiosità di chi volesse
sapere di più sulla storia di un’impresa che ha saputo innovare radicalmente un settore,
quello del tessile e dell’abbigliamento, ritenuto maturo già quarant’anni fa.
*
Laddove non è indicato uno specifico riferimento bibliografico, vedi Favero (2005), da cui questo
intervento è in buona parte ripreso.
2
2.
Negli anni ’60 e ’70, la strategia promozionale della Benetton era
concentrata sui negozi, dal momento che gli ingenti investimenti richiesti dalle
campagne pubblicitarie apparivano proibitivi per quella che era ancora una piccola
azienda.
Il formato dei primi negozi, chiamati “My Market”, fu disegnato da Tobia
Scarpa, il figlio del famoso architetto Carlo Scarpa. Sua l’idea di eliminare il bancone
che separava il cliente dalla merce, di disporre i maglioni sugli scaffali, di permettere
che dalla vetrina fosse visibile l’interno del negozio. La maggior parte di questi punti
vendita non erano di proprietà della Benetton, ma di commercianti affiliati che, al
contrario di quanto avveniva normalmente nelle grandi catene in franchising, non
pagavano alcunché per l’utilizzo dell’immagine ma dovevano vendere solo prodotti
Benetton, non godevano di alcuna esclusiva territoriale e non potevano restituire
l’invenduto. I rappresentanti dell’azienda reclutavano i negozianti e ne raccoglievano gli
ordini, che di fatto erano l’unico tipo di contratto formale che li legava all’azienda.
Spesso i Benetton anticipavano ai negozianti i capitali necessari per avviare
l’attività, riducendo in questo modo il rischio di eventuali comportamenti opportunistici,
sempre possibili in una situazione in cui i rapporti tra produttore e distributori erano
garantiti da accordi informali. Il successo iniziale della “formula Benetton” si deve
proprio alla creazione di questa rete di negozi, che vendevano maglioni colorati ma dal
taglio classico, tessuti in serie, rifiniti da lavoranti a domicilio e tinti solo all’ultimo
momento con i colori alla moda (Heskett-Signorelli 1985).
Negli anni ’70, la Benetton iniziò a produrre anche jeans e pantaloni in velluto,
camicie e magliette in cotone, per permettere agli acquirenti di combinare i maglioni
con altri capi coordinati. La diversificazione del prodotto implicava anche una
differenziazione della clientela, e una moltiplicazione delle tipologie di negozi:
nacquero così “012” per bambini e ragazzi, “Merceria” per “le madri dei clienti
Benetton”, “Jean’s West” per i jeans e “Tomato” per i clienti giovani meno disposti a
spendere. È importante sottolineare che, in questo periodo, il nome della Benetton e il
3
logo, il fiocco di lana stilizzato che diventerà famoso negli anni ‘80, non compariva mai
sull’insegna dei negozi, ma soltanto sull’etichetta dei capi.
Una scarsa visibilità permetteva di non mettere in allarme i concorrenti, e di
prendere le distanze rispetto alle politiche commerciali dei singoli negozianti. Ma
c’erano anche altre motivazioni. Negli anni ’70 la Benetton cercava in tutti i modi di
nascondere il proprio successo, per sfuggire alle tensioni sociali e politiche che
caratterizzavano quel decennio continuando a muoversi come una piccola impresa
artigiana, ed evitando che i sindacati, il fisco e la politica fossero tentati di andare a
mettere il naso nella sua rete informale di subfornitori e di commercianti indipendenti.
Luciano Benetton (Benetton-Lee 1990, 110) sintetizza efficacemente le ragioni
di quella scelta:
Le pressioni esercitate dagli anni Settanta fecero della Benetton un camaleonte. (…) Un’azienda
tanto fortunata da realizzare dei profitti in anni così agitati doveva mantenere deliberatamente una linea di
basso profilo e mimetizzarsi con l’ambiente circostante. Di conseguenza facemmo poche campagne
pubblicitarie, evitammo accuratamente di metterci in mostra e ci sottraemmo a qualsiasi legame con la
politica. (…) Mettevamo gran cura nel rimanere invisibili. Niente interviste, nessuna diffusione – nel
rispetto della legge, naturalmente – di dati finanziari. (…) La nostra effettiva dimensione e diffusione, sia
nel campo industriale che in quello commerciale, non era immediatamente percepibile al pubblico.
3.
Sul finire degli anni ’70, la Benetton incontrò per la prima volta alcune
difficoltà nelle vendite. Questa crisi rese la famiglia cosciente di aver davvero raggiunto
una soglia oltre la quale era possibile continuare a crescere soltanto cambiando
radicalmente atteggiamento. Questa consapevolezza emerse in realtà a poco a poco,
dopo aver tentato diverse strategie commerciali e industriali, in seguito al successo
dell’espansione internazionale delle vendite in Europa, resasi necessaria per ovviare
all’evidente saturazione del mercato italiano.
Questa fase fu importante per meglio definire l’identità dell’impresa e
individuare le risorse specifiche che stavano all’origine del successo degli anni
precedenti. Soltanto nel tentativo di allargare all’estero la rete di vendita, infatti, i
Benetton si resero conto che la peculiare strategia di affiliazione commerciale utilizzata
in Italia e riproposta nei paesi del Mercato Comune Europeo costituiva un potente
4
strumento per introdursi in nuovi mercati e il possibile motore di una nuova fase di
crescita (Belussi 1989; Benetton 1994).
Quel che più colpisce, nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80, è il mutamento
radicale nella politica di immagine. Dall’atteggiamento di basso profilo tenuto del
decennio precedente, la Benetton passò infatti a una esplicita politica di promozione del
marchio e di crescente trasparenza finanziaria, in vista anche della progettata quotazione
in borsa.
L’espansione delle vendite all’estero era giocata in buona parte sul richiamo alla
moda e allo stile italiani contenuto nel marchio di fabbrica; di conseguenza, fu ritenuto
opportuno unificare sotto il nome “Benetton” le diverse insegne esistenti, a eccezione
dei negozi “012” e “Jean’s West” (in seguito convertiti in “Sisley”), che per motivi
diversi mantenevano una loro peculiarità. Un’eccessiva diversificazione minacciava
infatti di vanificare i crescenti investimenti pubblicitari.
L’aumentata visibilità era anche un effetto della scelta di dismettere i panni della
piccola ditta a gestione familiare, per trasformare la Benetton in una azienda
internazionale, gestita da un management competente che godeva della fiducia della
famiglia, e che poteva contare su solidi legami con la politica e con la finanza. Grazie
alla sua capacità di mimetizzarsi, nel corso degli anni ’70 la Benetton era riuscita a
godere delle agevolazioni e degli incentivi offerti dallo Stato senza subire le limitazioni
e i costi sopportati dalle grandi imprese. Nel mutato contesto politico degli anni ’80, si
presentava invece come un rispettabile interlocutore per le istituzioni nazionali, i politici
e le grandi banche.
4.
Nella seconda metà del decennio, peraltro, il crescente successo a livello
continentale costrinse l’azienda a modificare la propria strategia di espansione.
L’Europa Occidentale nel suo complesso era ormai diventata il vero mercato di
riferimento per la Benetton: nella relazione di bilancio del 1987, Gilberto Benetton
sottolineava i vantaggi dell’unificazione economica europea ma affermava anche, per la
prima volta, che solo la “globalità” del prodotto poteva costituire il punto di partenza
per una ulteriore espansione (Benetton Group 1988).
5
L’idea stessa di “globalità” doveva quindi diventare un valore “proprio del
management aziendale e un concetto ispiratore dei comportamenti di tutti i protagonisti
che collaborano con il gruppo Benetton”. In Asia e nelle Americhe, a causa delle
restrizioni doganali e degli alti costi di trasporto, la Benetton non poteva semplicemente
esportare i capi prodotti in Italia continuando a giocare d’anticipo sui colori alla moda
come aveva fatto in Europa. Doveva quindi adottare un nuovo approccio più graduale,
dapprima consentendo a fabbricanti locali l’utilizzo del proprio marchio su licenza,
quindi entrando in joint venture con loro, e stabilendo infine una filiale produttiva in
loco solo nel caso in cui il mercato si fosse mostrato ricettivo (Pinson-Tibrewala 1996).
In questo progetto, gli aspetti promozionali giocavano un ruolo cruciale: le spese
per pubblicità crebbero quindi in maniera esponenziale, puntando su un’immagine
colorata, multietnica e soprattutto globale dell’azienda. Sin dal 1983 la progettazione
delle campagne pubblicitarie era stata affidata all’agenzia parigina Eldorado, per la
quale lavoravano i fotografi Bruno Sutter e Oliviero Toscani. Nella campagna per il
1984, Toscani utilizzò un gruppo di ragazze e ragazzi bianchi e neri che indossavano
vestiti colorati. Sotto la foto campeggiava la scritta “All the Colours of the World”.
Negli anni successivi, venne adottato lo slogan “United Colors of Benetton”, che nel
1989 divenne il nuovo marchio, utilizzato sui capi e sulle insegne dei negozi.
In tal modo, la strategia di globalizzazione dell’azienda veniva identificata con
l’ideale di un mondo pacifico e multietnico, che negli anni della perestrojka e della
caduta del Muro di Berlino sembrava a portata di mano. Ancora nel 1989, Toscani
rompeva il contratto che lo legava a Eldorado e veniva assunto direttamente dalla
Benetton (Falcinelli 1999).
5.
Nelle successive campagne, scomparve rapidamente ogni riferimento ai
capi venduti, che d’altra parte presentavano caratteristiche differenziate per area
geografica: l’attenzione del fotografo si concentrava piuttosto su argomenti di attualità e
di ampio interesse sociale. Le campagne “shock” di Toscani suscitarono sconcerto per il
soggetto dell’immagine, come nel caso del bacio tra un prete e una suora, o della foto di
un neonato ancora attaccato al cordone ombelicale. In altri casi l’operazione era
6
totalmente giocata sui tempi molto stretti degli avvenimenti politici internazionali, come
nel caso della foto di un cimitero di guerra, pubblicata il giorno stesso in cui scoppiò la
Guerra del Golfo.
Toscani e Benetton rivendicavano per la pubblicità e per il fotografo il diritto di
affrontare questioni controverse, in contrapposizione con la “pubblicità dei buoni
sentimenti”, che rappresentava un mondo finto e irreale. Allo stesso tempo, le furiose
polemiche suscitate dalle fotografie di Toscani e dal loro uso pubblicitario avevano
l’effetto di enfatizzare la visibilità dell’impresa e il suo preteso impegno sociale (Barela
2003).
La crescente notorietà del marchio nei primi anni ’90 doveva molto anche ai
successi della scuderia di Formula 1 acquistata nel 1984, che dieci anni dopo vinceva il
Campionato Mondiale costruttori tra le polemiche per sospette irregolarità, mentre
Michael Schumacher trionfava nel campionato piloti 1994 e 1995 con i colori di
Benetton. L’azienda era anche proprietaria di squadre di pallacanestro, pallavolo,
pallanuoto e rugby (Mantle 1998).
Nel 1992, per di più, Luciano Benetton si era candidato ed era stato eletto alla
Camera per il Partito Repubblicano. La discesa nel campo della politica
dell’imprenditore era in questo caso probabilmente motivata dalla necessità di seguire
dall’interno la formazione delle scelte di politica economica e monetaria nel quadro
delle crescenti difficoltà internazionali che portarono nel 1993 la lira a uscire dal
Sistema Monetario Europeo e a svalutarsi notevolmente. In ogni caso, anche questa
mossa contribuì a mettere la Benetton sotto la luce dei riflettori.
6.
Certo la svalutazione contribuì a favorire la competitività di prezzo dei
prodotti Benetton all’estero, in una fase in cui la posizione di mercato dell’azienda
iniziava a essere minacciata dalla presenza sempre più aggressiva delle grandi catene
internazionali di negozi, come Gap e Zara.
Di fronte alla nuova minaccia, la Benetton reagì su diversi fronti (CamuffoRomano-Vinelli 2001). La rete di negozi fu radicalmente trasformata nel giro di pochi
anni con l’ampliamento della superficie dei punti vendita e l’apertura dei megastore.
7
Venne avviato il graduale trasferimento di buona parte delle lavorazioni verso paesi
europei e mediterranei che offrivano migliori condizioni fiscali e salariali. In questo
caso, tuttavia, forti resistenze venivano dall’ampia rete di subfornitura locale e dalla
difficoltà di riprodurre altrove il modello.
L’impresa si impegnò contemporaneamente in un tentativo di diversificazione
produttiva nel campo dell’equipaggiamento sportivo, con le acquisizioni di Nordica
(scarponi da sci), Kastle (sci), Killerloop (occhiali da sole e da sci), Asolo (scarpe da
montagna), Rollerblade (pattini in linea), Prince (racchette da tennis), Langert (mazze
da golf). L’operazione tuttavia non diede i risultati sperati in termini di possibili sinergie
tra abbigliamento e attrezzatura sportiva, che di fatto erano mercati molto diversi dal
punto di vista delle caratteristiche della domanda, e nel 2003 il tentativo venne
abbandonato (Brunetti-Bortoluzzi 2004).
Nel settore dell’abbigliamento, la formula dell’affiliazione commerciale
mostrava la corda di fronte alla maggiore efficienza dei concorrenti, che controllavano
direttamente la rete di distribuzione ed erano quindi in grado di reagire in maniera più
veloce
alle
sempre
più
imprevedibili
variazioni
delle
mode
nel
mercato
dell’abbigliamento (Edmonson 2003).
La rete di negozi affiliati consentiva però alla Benetton di scaricare sui
commercianti indipendenti buona parte dei rischi derivanti dalla turbolenza del mercato,
dal momento che costoro non potevano restituire le giacenze di magazzino. L’azienda
continuava così a generare profitti, sia pure a prezzo di un graduale ridimensionamento
della sua quota di mercato.
7.
Il particolare rapporto che legava la Benetton ai suoi partner commerciali
garantiva loro una sia pur minima capacità di resistenza. La strenua difesa da parte dei
negozianti e dei rappresentanti dei margini di autonomia di cui godevano aveva infatti
impedito negli anni ’80 l’introduzione di un nuovo sistema di collegamento telematico
che avrebbe consentito alla casa madre di seguire direttamente l’andamento delle
vendite nei singoli negozi (Rullani-Zanfei 1988). L’impossibilità di conoscere in tempo
reale la risposta del mercato creava ora oggettive difficoltà all’azienda.
8
D’altra parte, l’aggressiva politica promozionale degli anni ’90 non aveva certo
incontrato il favore dei dettaglianti, che attribuivano alle campagne di Toscani la colpa
del calo delle vendite, in alcuni casi arrivando a rifiutarsi di pagare la merce rimasta
invenduta. In tutte le occasioni, i tribunali diedero ragione alla Benetton, dal momento
che i negozianti avevano liberamente accettato le condizioni proposte dall’azienda
(Barela 2003).
È però interessante confrontare l’esito di questo conflitto con gli effetti
completamente diversi della polemica scoppiata nell’inverno 2000 in seguito alla nuova
campagna lanciata negli Stati Uniti, che ritraeva alcuni condannati nel braccio della
morte. In questo caso, l’azienda fu infine condannata per non aver reso noto ai carcerati
lo scopo pubblicitario delle fotografie. Tuttavia, le critiche all’operazione avevano
spinto fin da subito alcune grandi catene di distribuzione americana, con le quali la
Benetton aveva stipulato da poco un accordo, a troncare ogni rapporto con l’impresa di
Treviso.
Toscani se ne andava l’anno dopo. L’episodio aveva messo in luce alcuni aspetti
della politica commerciale e promozionale che gli imprenditori non sembravano aver
compreso. Nella sua relazione con partner commerciali diversi dai negozianti affiliati,
l’azienda non godeva della medesima posizione di forza che le aveva consentito fino ad
allora di imporre loro le proprie scelte pubblicitarie.
Non solo considerazioni legate al mantenimento dei livelli di redditività, ma
anche preoccupazioni per la propria autonomia strategica hanno spinto quindi la
Benetton a non cambiare il proprio approccio alla distribuzione, anche se la “formula
flessibile” si sta rivelando sempre più rigida di fronte alle sfide del mercato. Per di più,
nella gestione dei rapporti con partner indipendenti continuano a giocare un ruolo
centrale le relazioni personali dei Benetton, nonostante la decisione annunciata della
famiglia nel 2003 di fare un “passo indietro” dalla gestione diretta dell’impresa
lasciando maggior spazio ai manager.
Il caso Benetton dimostra quindi quanto possa essere difficile, per una impresa
che ha costruito il proprio successo su una rete di relazioni personali, liberarsi dai
9
condizionamenti legati alla sua stessa natura di impresa famigliare, di distributore in
franchising, di centro di un sistema di subfornitura.
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10
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11
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