I DE E › STRATEG I E › I N NOVAZ ION E www.hbritalia.it gennaio/febbraio 2007 n.1/2 ITALIA Strategia e società Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la Corporate Social Responsibility Una nuova visione del rapporto tra il business e la società basato sull’idea innovativa della «integrazione sociale dell’impresa». di Michael E. Porter e Mark R. Kramer IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA Strategia e società Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la Corporate Social Responsibility Una nuova visione del rapporto tra il business e la società basato sull’idea innovativa della «integrazione sociale dell’impresa». di Michael E. Porter e Mark R. Kramer © Harvard Business Review I governi, gli attivisti e i media sono diventati abilissimi nell’attribuire alle imprese la responsabilità delle conseguenze sociali delle loro attività. Esiste una pletora di organizzazioni che classificano le imprese in base alla loro performance nella Corporate Social Responsibility (CSR) e, pur basandosi su metodologie a volte discutibili, queste classifiche fanno molto parlare di sé. Di conseguenza, la CSR è diventata una priorità ineludibile per i leader aziendali di tutto il mondo. Sono molte le imprese che hanno già fatto molto per migliorare l’impatto sociale e ambientale delle proprie attività, eppure tali iniziative sono state molto meno produttive di quanto non avrebbero potuto essere. I motivi sono due. In primo luogo, contrappongono il business alla società mentre sono, chiaramente, realtà interdipendenti. In secondo luogo, spingono le imprese a fermarsi a una visione generica della CSR, invece di adottare la visione che meglio si adatta alla loro specifica strategia. Il fatto è che gli approcci alla CSR oggi prevalenti sono talmente frammentati e lontani dal business e dalla strategia che finiscono per celare agli occhi delle imprese molte delle opportunità più rilevanti che potrebbero cogliere per giovare alla società. Se invece le imprese analizzassero le opportunità che hanno a disposizione nell’ambito della responsabilità sociale, basandosi sugli stessi schemi che governano le scelte legate al loro core business, scoprirebbero che la CSR può essere molto più di un costo, di una costrizione o di un gesto caritatevole; può essere una fonte di opportunità, di innovazione e di vantaggio competitivo. In questo articolo proponiamo una nuova visione del rapporto tra il business e la società, una visione che non considera il successo delle aziende e il bene sociale come un gioco a somma zero. Introduciamo un modello che le imprese possono utilizzare per identificare tutti gli effetti, positivi e negativi, che hanno sulla società, determinare quelli che meritano un loro intervento e individuare un modo efficace per intervenire. Vista da una prospettiva strategica, la Corporate Social Responsibility può diventare la fonte di un fortissimo progresso sociale, a mano a mano che il business applicherà le notevoli risorse, expertise e conoscenze che ha a disposizione ad attività che arrechino un beneficio alla società. L’affermazione della Corporate Social Responsibility La crescente attenzione che le imprese dedicano alla CSR non riflette una scelta del tutto volontaria. Molte di esse ne hanno preso atto solo dopo essere state colte di sorpresa dalle reazioni dell’opinione pubblica a queGennaio/Febbraio 2007 1 STRATEGIA E SOCIETÀ stioni che mai in precedenza avevano immaginato rientrare nelle loro responsabilità. Nike, ad esempio, subì un boicottaggio da parte di molti consumatori dopo che, nei primi anni Novanta, il «New York Times» e altri media avevano denunciato gli abusi inferti ai lavoratori da alcuni dei suoi fornitori indonesiani. Nel 1995 la decisione da parte di Shell Oil di affondare nel Mare del Nord la Brent Spar, una piattaforma petrolifera obsoleta, sollevò le proteste di Greenpeace e fece notizia in tutto il mondo. Le aziende farmaceutiche si sono rese conto che l’opinione pubblica si aspettava che contribuissero alla lotta contro la pandemia di AIDS in Africa, sebbene fosse ben lontana dai loro mercati e dalle linee di prodotto principali. Oggi la responsabilità dell’obesità e della cattiva alimentazione viene imputata alle imprese che operano nel settore dei fast food e dei cibi confezionati. Le organizzazioni di attivisti di ogni genere, a destra come a sinistra, fanno pesare con maggiore aggressività ed efficacia la pressione dell’opinione pubblica sulle grandi imprese. Può essere che gli attivisti prendano di mira le imprese più visibili o affermate solo per attirare l’attenzione su un determinato tema, anche se in realtà le aziende in questione hanno avuto un impatto limitato su quel problema. Ad esem- Michael E. Porter è Bishop William Lawrence University Professor presso la Harvard University; insegna presso la Harvard Business School di Boston. Collabora di frequente con HBR e il suo articolo più recente è «Seven Surprises for New CEOs» (ottobre 2004). Mark R. Kramer ([email protected]) è CEO di FSG Social Impact Advisors, una società di consulenza internazionale no profit, e senior fellow della CSR Initiative presso la Harvard’s John F. Kennedy School of Government di Cambridge, nel Massachusetts. Insieme, Porter e Kramer hanno fondato sia FSG Social Impact Advisors sia il Center for Effective Philanthropy, un’organizzazione no profit dedita alla ricerca. 2 pio, la Nestlé, il maggior fornitore mondiale di acqua in bottiglia, è stata messa sul banco degli imputati nel dibattito globale sull’accesso all’acqua potabile, malgrado l’acqua in bottiglia che vende corrisponda appena allo 0,0008% della riserva mondiale. L’inefficienza dell’irrigazione agricola, che utilizza ogni anno il 70% di questa riserva, costituisce un problema molto più pressante, ma non offre l’opportunità di mirare a un bersaglio facile come una grande multinazionale. Il dibattito relativo alla CSR è arrivato fino ai Consigli di Amministrazione delle aziende. Nel 2005, sono state presentate 350 diverse risoluzioni di Consiglio su temi legati alla CSR, dalle condizioni lavorative all’effetto serra. Le regolamentazioni nazionali obbligano le imprese a documentare sempre più approfonditamente le iniziative intraprese nell’ambito della responsabilità sociale. Le leggi vigenti nel Regno Unito, ad esempio, richiederebbero a qualunque impresa quotata in Borsa di annunciare pubblicamente nel proprio report annuale i rischi etici, sociali e ambientali connessi alla propria attività. Tutte queste pressioni mostrano chiaramente fino a che punto gli stakeholder esterni alle imprese stiano cercando di attribuire loro delle responsabilità sui problemi sociali, ed evidenziano i rischi finanziari, potenzialmente importanti, in cui incorre qualunque impresa che attui una condotta inaccettabile agli occhi dell’opinione pubblica. Pur avendo preso atto di tali rischi, le imprese vedono con molta meno chiarezza il comportamento più opportuno da adottare al riguardo. In effetti la risposta più comune che hanno dato non ha avuto un carattere strategico né operativo, ma essenzialmente cosmetico: ci riferiamo a una serie di campagne effettuate tramite le PR e i media, spesso incentrate su eleganti Rapporti CSR che mettono in mostra le buone azioni realizzate dall’impresa di turno a livello sociale e ambientale. Delle 250 multinazionali più grandi del mondo, il 64% ha pubblicato nel 2005 un Rapporto CSR all’interno del proprio Rapporto annuale oppure, nella maggior parte dei casi, in un report separato dedicato alla sostenibilità, un approccio che sta alimentando lo sviluppo di una nuova schiera di autori di questo tipo di rapporti. Tali report offrono raramente un inquadramento coerente delle attività intraprese in ambito CSR, tanto meno un inquadramento strategico. Di solito si limitano ad accumulare aneddoti vari su una serie di iniziative scoordinate, con l’obiettivo di dimostrare la sensibilità sociale dell’impresa in questione. Spesso le infor- IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA mazioni che vengono omesse da queste pubblicazioni risultano altrettanto rivelatrici di quelle che vengono inserite. Può capitare, ad esempio, che la riduzione degli agenti inquinanti, dei rifiuti o delle emissioni di carbonio sia documentata per alcune divisioni o zone specifiche, ma non per l’azienda nel suo complesso. Le iniziative filantropiche sono di norma descritte in termini di denaro speso o di ore di volontariato, quasi mai invece in termini di impatto. È ancora più raro che le imprese si prendano l’impegno di raggiungere in futuro degli obiettivi di performance dichiarati. Tale proliferazione di rapporti CSR è stata affiancata, in parallelo, dall’aumento dei rating e delle classifiche relativi alla CSR. Sebbene la formulazione di rating rigorosi e affidabili possa influenzare positivamente il comportamento delle imprese, la cacofonia che regna attualmente fra coloro che si sono attribuiti la qualifica di giudici più che altro aggrava la confusione (si veda il riquadro «Il gioco ambiguo dei rating»). Nel tentativo di farsi strada in tutta questa confusione, i leader aziendali hanno chiesto consiglio a un numero crescente di organizzazioni no profit, società di consulenza ed esperti accademici sempre più sofisticati. È comparsa una folta letteratura sulla CSR, benché spesso le indicazioni operative che offre ai leader d’impresa non siano molto chiare. Un esame delle principali scuole di pensiero relative alla CSR rappresenta un punto di partenza essenziale per capire per quale motivo sia necessario adottare un nuovo approccio al fine di incorporare più efficacemente le considerazioni di natura sociale nelle attività operative più importanti e nella strategia. Le quattro argomentazioni prevalenti a sostegno della CSR A livello generale, finora, i propugnatori della CSR hanno impiegato quattro argomenti a sostegno della loro tesi: l’obbligo morale, la sostenibilità, la licenza a operare e la reputazione. Il richiamo alla moralità – ovvero l’argomento secondo cui le imprese hanno il dovere di essere dei buoni cittadini e di «fare le cose giuste» – emerge con evidenza dalla carta che definisce la mission di Business for Social Responsibility, la principale associazione statunitense di imprese no profit che operano nell’ambito della CSR. Essa chiede ai suoi membri di «raggiungere il successo economico comportandosi in modo da tener fede ai valori etici e rispettare gli individui, le comunità e l’ambiente». La IL GIOCO AMBIGUO DEI RATING >> Misurare e pubblicizzare la performance sociale è un mezzo potenzialmente efficace per influenzare il comportamento delle imprese, sempre che i rating vengano misurati in modo coerente e che riflettano accuratamente l’impatto sociale delle aziende. Sfortunatamente, nessuna delle due condizioni viene soddisfatta nell’attuale profusione di checklist sulla CSR. I criteri utilizzati nelle classifiche variano ampiamente. Il Dow Jones Sustainability Index, ad esempio, considera alcuni aspetti della performance economica ai fini delle sue valutazioni. Conferisce al servizio al cliente un peso che supera quasi del 50% quello della corporare citizenship. Per contrasto il FTSE4Good Index, altrettanto importante, non prevede alcun indicatore né della performance economica né del servizio al cliente. Anche quando i criteri sembrano essere gli stessi, il peso che viene loro attribuito è invariabilmente diverso ai fini del punteggio finale. Al di là della scelta dei pesi e delle misure c’è una questione ancora più spinosa, ovvero come valutare se i criteri siano stati soddisfatti. La maggioranza dei media, delle organizzazioni no profit e delle società di consulenza che operano nell’ambito degli investimenti ha troppe poche risorse a disposizione per valutare l’universo delle complicate attività svolte dalle imprese a livello globale. Di conseguenza c’è la tendenza a impiegare indicatori basati su dati facilmente disponibili e a buon mercato, malgrado tali indicatori non siano misure affidabili degli effetti sociali o ambientali che vorrebbero rispecchiare. Il Dow Jones Sustainability Index, ad esempio, utilizza il numero dei membri del Consiglio di Amministrazione di un’impresa come indicatore del suo coinvolgimento nella comunità, anche i due indicatori possono essere privi di qualunque correlazione.1 Infine, anche se gli indicatori prescelti riflettono accuratamente l’impatto sociale, i dati sono spesso inaffidabili. La maggioranza dei rating si basa su indagini caratterizzate da un tasso di risposta insufficiente a fini statistici, nonché su dati interni riportati direttamente dalle imprese e non sottoposti ad alcuna verifica esterna. Le imprese che hanno più cose da nascondere sono quelle che hanno meno probabilità di rispondere. Il risultato è un’accozzaglia di rating perlopiù senza significato, con la conseguenza che praticamente ogni impresa può vantarsi di soddisfare qualche indicatore di responsabilità sociale. Il che è, in effetti, proprio ciò che fa la maggior parte di esse. < 1. Per una trattazione più completa del problema dei rating relativi alla CSR, vedere Aaron Chatterji e David Levine, Breaking Down the Wall of Codes: Evaluating Nonfinancial Performance Measurement, («California Management Review»), Inverno 2006. Gennaio/Febbraio 2007 3 STRATEGIA E SOCIETÀ sostenibilità pone l’enfasi sulla tutela dell’ambiente e della comunità. Una definizione eccellente è quella offerta negli anni Ottanta dal primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland e adottata dal World Business Council for Sustainable Development: «Garantire i bisogni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri». Il concetto di «licenza a operare» deriva dal fatto che qualunque impresa deve ottenere un permesso tacito o esplicito dal governo, dalla comunità locale e da diversi altri stakeholder per fare affari. Infine, molte imprese fanno leva sulla reputazione per giustificare le iniziative legate alla CSR, sostenendo che esse miglioreranno la loro immagine, rafforzeranno il brand, solleveranno il morale e faranno addirittura lievitare i loro titoli azionari. Queste giustificazioni hanno rappresentato un passo avanti nel pensiero sulla CSR, ma nessuna offre indicazioni sufficienti in vista delle difficili scelte che i leader aziendali sono costretti a effettuare. Prendiamo in considerazione i limiti operativi di ciascuno di questi approcci. Il campo della CSR resta a tutt’oggi fortemente permeato da un imperativo morale. In alcuni casi, come l’onestà nell’elaborazione di rendiconti finanziari e la scelta di operare nella legalità, le considerazioni morali connesse sono facili da comprendere e da applicare. Gli obblighi morali, tuttavia, costituiscono per natura degli imperativi assoluti, mentre la maggior parte delle scelte sociali delle imprese implica la ricerca di un equilibrio tra valori, interessi e costi contrastanti. Il recente ingresso di Google in Cina, ad esempio, ha sollevato un conflitto irrisolvibile fra l’avversione per la censura dei suoi clienti statunitensi e i vincoli legali imposti dal governo cinese. Il calcolo morale che bisogna effettuare per confrontare un beneficio sociale con un altro, o valutarlo in base ai costi finanziari che comporta, non è ancora stato formalizzato. I principi morali non suggeriscono a un’azienda farmaceutica in quale proporzione debba destinare i propri ricavi allo scopo di sovvenzionare le cure per malati indigenti, allo sviluppo di nuove terapie per il futuro e alla distribuzione dei dividendi agli investitori. Ora servono appropriati indicatori di performance sociale di Umberto Bertelè / Presidente MIP School of Management, Politecnico di Milano >> La responsabilità sociale non è più un optional. È il punto di partenza di questo ambizioso articolo di Porter e Kramer. La convenienza dell’impresa a «sfuggire» ai propri doveri – tipicamente in tema di attenzione ai diritti degli stakeholder e di rispetto dell’ambiente fisico e dei territori – si scontra con l’aumento della probabilità di essere «colta in fallo» e con la crescente rilevanza delle possibili sanzioni: detenzioni anche lunghe nei casi (come quello Enron) in cui sia la legge ad essere infranta, contrazioni anche violente nelle vendite e nelle quotazioni a fronte di cali di immagine. La scarsa attenzione verso la responsabilità sociale, in altre parole, può minare molto più che nel passato la sostenibilità economico-finanziaria dell’impresa. Privilegiare le azioni che creano valore condiviso per l’impresa e la società. L’impresa non deve avere però, come troppo spesso ha attualmente, un approc- 4 cio cosmetico alla responsabilità sociale. Non deve comportarsi come una istituzione filantropica, disperdendo i suoi interventi in azioni di generico interesse per la società. Non deve affidare le politiche CSR a persone diverse da quelle che gestiscono i core business. Essa deve invece – ed è la tesi fondamentale dell’articolo – integrare le politiche CSR nella sua strategia complessiva, privilegiando quelle azioni che producono benefici strutturali allo stesso tempo per se stessa e per la società. Un indirizzo di fondo che, riecheggiando Adam Smith, vede come situazione ideale per la società e per l’impresa quella in cui ciascuno gioca bene la propria parte: la società generando segnali chiari e coerenti sul suo sistema di valori, l’impresa perseguendo i suoi obiettivi di profittabilità e crescita in linea con i valori sociali e consolidando, di conseguenza, la sua sosteni- IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA Il principio della sostenibilità fa leva sugli interessi dei più illuminati, spesso invocando la cosiddetta tripla bottom line della performance economica, sociale e ambientale: le imprese, cioè, dovrebbero operare in modo da garantirsi una performance economica di lungo termine evitando quei comportamenti di breve termine che arrecherebbero danni alla società o all’ambiente. Tale principio è valido soprattutto per le questioni che coincidono con gli interessi economici o legali dell’impresa. DuPont, ad esempio, ha risparmiato dal 1990 a oggi oltre 2 miliardi di dollari grazie alla riduzione dei consumi energetici. Il cambiamento dei materiali usati da McDonald’s per confezionare il cibo ha portato a una diminuzione dei suoi rifiuti solidi pari al 30 percento. Sono state delle decisioni di business intelligenti, al di là dei benefici arrecati all’ambiente. In altre aree, invece, il concetto di sostenibilità può diventare talmente vago da perdere qualunque senso. Si può affermare che la trasparenza sia più «sostenibile» della corruzione. Che condizioni lavorative soddisfacenti siano più «sostenibili» dei tuguri dove molti sono costretti a lavo- bilità nel tempo. Un indirizzo di fondo che ritiene eccessiva l’attenzione usualmente posta sui trade-off fra interessi della società e dell’impresa, e che punta invece a uscire dalla logica del «gioco a somma zero» attraverso lo sfruttamento intelligente delle interrelazioni fra la società e l’impresa stesse. Focalizzarsi sui punti di interrelazione. Le attività e i processi dell’impresa hanno un impatto inside-out più o meno rilevante, nel bene e nel male, sul contesto socioambientale-territoriale esterno. E il contesto esterno – con le sue disponibilità locali di risorse umane e naturali, la sua infrastrutturazione, i suoi vincoli e incentivi, le altre sue peculiarità – ha a sua volta un impatto outside-in più o meno rilevante sull’impresa: condizionandone la competitività e le strategie di lungo termine. La tesi di Porter è che proprio su questi punti di interrelazione l’impresa deve focalizzarsi, costruendosi una agenda sociale che non si preoccupi solamente di accontentare genericamente gli stakeholder, ma che – al di là dei doveri minimi – sia selettiva nella scelta delle iniziative. Una agenda che, in particolare, privilegi le scelte che offrono opportunità dirette in tema di competitività o che appaiono come sorgenti di idee innovative, potenzialmente trasformabili in differenziali com- rare. Che la filantropia contribuisca alla «sostenibilità» della società. Benché veritiere, queste affermazioni non offrono una base adeguata per valutare gli obiettivi di lungo periodo o metterli in ordine di priorità in base ai costi che comportano. La scuola di pensiero che si richiama alla sostenibilità solleva una serie di domande riguardo a questi trade-off, senza offrire un quadro di riferimento in base a cui darvi risposta. L’approccio basato sulla licenza a operare è, per contro, molto più pragmatico. Offre all’impresa un modo concreto per identificare le questioni sociali cui i suoi stakeholder danno più importanza e prendere delle decisioni al riguardo. Inoltre promuove il dialogo costruttivo con i legislatori, con la cittadinanza locale e con gli attivisti. Il che forse rappresenta uno dei motivi per cui tale approccio prevale soprattutto fra le imprese che fanno affidamento sul consenso del Governo (come quelle dell’industria mineraria e di altre industrie estrattive ad alto tasso di regolamentazione), e fra le imprese che si basano sulla tolleranza dei loro vicini (come quelle che effettuano attività nocive o rischiose petitivi (ad esempio inducendo il regolatore pubblico ad adottare come standard l’innovazione in tema di ambiente, sviluppata nell’ambito dell’impresa stessa). Una agenda che risponda al principio di trasformare la «responsabilità sociale» in «opportunità sociale». La CSR come parte integrante della strategia. Le esigenze sociali da soddisfare devono diventare parte integrante della value proposition dell’impresa. Le scelte in tema di CSR devono essere assunte congiuntamente a quelle in tema di business, e agli stessi livelli decisionali. Più in generale è tutta l’organizzazione che deve adeguarsi – nei processi, negli obiettivi, nelle misure di prestazioni – se si vuole che l’integrazione fra obiettivi economici e sociali non resti sulla carta. Un approccio destinato al successo? Ritengo di sì, soprattutto per la capacità che esso ha di inquadrare in una logica unitaria concetti spesso presentati in modo frammentario. Con un disincentivo però, rappresentato – come Porter stesso evidenzia – dalla disomogeneità degli indicatori utilizzati per il «rating sociale»: in assenza di indicatori coerenti e condivisi, che orientino i comportamenti delle imprese, è probabile che l’approccio cosmetico continui a fare la parte del leone. < Gennaio/Febbraio 2007 5 STRATEGIA E SOCIETÀ per l’ambiente, ad esempio nel settore chimico). Cercando di soddisfare gli stakeholder, tuttavia, l’impresa cede ad attori esterni il controllo principale delle iniziative che intraprende in ambito CSR. I punti di vista degli stakeholder ovviamente sono importanti, ma questi gruppi di persone non sono mai in grado di capire pienamente le caratteristiche dell’azienda, il suo posizionamento competitivo o le scelte che deve effettuare. Non si può neppure affermare che la veemenza di un gruppo di stakeholder denoti necessariamente l’importanza di una data questione – né per l’impresa, né per il mondo intero. Le aziende che considerano la CSR un modo per placare i gruppi di pressione spesso vedono il loro approccio ridursi a una serie di reazioni difensive di breve termine: un palliativo fondato sull’esercizio permanente delle PR, con la crea- raggiunti sul piano sociale e su quello del business. Alcune imprese – come Ben & Jerry’s, Newman’s Own, Patagonia e The Body Shop – si sono distinte grazie a un fortissimo impegno di lungo termine nella responsabilità sociale. Anche per queste imprese, tuttavia, l’impatto effettivo sulla società, e ancor più i benefici sul piano del business, sono difficili da determinare. Gli studi relativi all’effetto della reputazione sociale di un’impresa sulle preferenze di acquisto dei consumatori o sulla performance nei mercati azionari non hanno dato conclusioni chiare, per usare un eufemismo. Come per la visione della CSR in qualità di polizza assicurativa, il rapporto fra le buone azioni e gli atteggiamenti dei consumatori è talmente indiretto che risulta impossibile da misurare. Il fatto che non vi sia alcun modo per quantificare i benefici arre- Gli approcci alla CSR oggi prevalenti sono talmente frammentati e sconnessi dal business che finiscono per celare agli occhi delle imprese molte delle opportunità più rilevanti che potrebbero cogliere per giovare alla società. zione di un valore assai limitato per la società e senza alcun beneficio strategico per il business. Infine, l’approccio basato sulla reputazione persegue quel beneficio strategico, ma raramente lo trova. Le considerazioni relative alla reputazione, come alla licenza a operare, si concentrano sull’obiettivo di soddisfare il pubblico esterno. Nelle imprese orientate al consumatore, ciò conduce spesso all’attuazione di campagne marketing di alto profilo legate a una buona causa. Nei settori più esposti, come quello chimico e quello energetico, può succedere invece che le imprese intraprendano una serie di iniziative legate alla Social Responsibility come se rappresentassero una forma di polizza assicurativa, nella speranza che la loro reputazione di attori socialmente consapevoli possa mitigare le critiche dell’opinione pubblica in caso di crisi. Ancora una volta, questa visione rischia di confondere le PR con i risultati 6 cati da tali investimenti fa sì che le iniziative legate alla CSR poggino su fondamenta instabili e che rischino costantemente di essere affossate a causa di un avvicendamento al vertice o di un mutamento nel ciclo di business. Tutte e quattro le scuole di pensiero hanno lo stesso punto debole: pongono l’accento sulla tensione fra il business e la società, invece che sulla loro interdipendenza. Ciascuna di esse pone un fondamento teorico generico che non ha alcuna relazione con la strategia e le attività di un’impresa specifica, né con i diversi luoghi in cui opera. Di conseguenza, nessuna può aiutare efficacemente le imprese a identificare, mettere in ordine di priorità e affrontare le questioni sociali più rilevanti o quelle su cui possono avere il massimo impatto. Spesso il risultato è un’accozzaglia di attività scoordinate in ambito CSR o filantropico che risultano del tutto scollegate dalla strategia aziendale, non IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA hanno alcun impatto significativo sulla società, né rafforzano la competitività di lungo termine dell’impresa. Internamente, le attività e le iniziative legate alla CSR spesso rimangono isolate dalle unità operative, e persino separate da quelle filantropiche. Esternamente, l’impatto sociale dell’impresa si disperde in una sequela di iniziative scollegate, ciascuna delle quali risponde alle pressioni esercitate da un diverso gruppo di stakeholder o da una lobby differente. La conseguenza di tale frammentazione è la perdita di una grandissima opportunità. Il potere di cui godono le imprese, ovvero quello di apportare beneficio alla società, viene dissipato; e lo stesso accade al loro potenziale di agire concretamente in modo da supportare sia le comunità a cui fanno riferimento, sia il raggiungimento dei propri obiettivi di business. L’integrazione tra il business e la società Per far progredire la CSR, dobbiamo fare in modo che poggi su una diffusa consapevolezza della relazione che intercorre fra un’azienda e la società e allo stesso tempo trovi un radicamento nelle strategie e nelle attività delle singole imprese. Affermare a livello generale che il business e la società abbiano bisogno l’uno dell’altra potrebbe suonare come un luogo comune, ma è anche la verità elementare che può far uscire le imprese dal pantano in cui sono state gettate dal loro attuale approccio alla Corporate Social Responsibility. Le grandi imprese di successo hanno bisogno di una società sana. L’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pari opportunità sono essenziali per una forza lavoro produttiva. Le condizioni lavorative e la sicurezza dei prodotti non solo attraggono clienti, ma riducono i costi interni dovuti agli incidenti. L’utilizzo efficiente di suolo, acqua, energia e altre risorse naturali accresce la produttività delle imprese. Il buongoverno, il principio di legalità e i diritti di proprietà sono essenziali ai fini dell’efficienza e dell’innovazione. Severi standard legislativi proteggono dallo sfruttamento non solo i consumatori, ma anche le aziende competitive. In definitiva, una società sana dà luogo a una domanda crescente di business, man mano che un maggior numero di bisogni viene soddisfatto e che le aspirazioni crescono. Qualunque impresa persegua i propri fini a spese della società in cui opera scoprirà che il successo di cui gode è illusorio e, in fin dei conti, temporaneo. Allo stesso tempo, una società sana ha bisogno di imprese di successo. Nessuna iniziativa sociale può eguagliare il settore del business quando si tratta di creare i posti di lavoro, la ricchezza e l’innovazione che migliorano progressivamente lo standard di vita. Se i governi, le ONG e gli altri attori della società civile riducono la capacità delle imprese di operare produttivamente, può essere che vincano qualche battaglia ma finiranno per perdere la guerra, poiché la competitività delle imprese e di intere aree geografiche svanirà, i salari ristagneranno, i posti di lavoro spariranno e la ricchezza che alimenta le tasse e i contributi al settore no profit evaporerà. I leader che operano sia nel business, sia nella società civile finora si sono concentrati troppo sulla frizione esistente fra i due e non abbastanza sui loro punti di intersezione. La dipendenza reciproca che intercorre fra le aziende e la società implica che le decisioni di business e le politiche sociali debbano seguire entrambe il principio del valore condiviso. Ovvero, le scelte fatte devono arrecare beneficio a entrambe le parti. Se un’impresa o una società attuano delle politiche che giovano a una parte a spese dell’altra, scopriranno di essersi incamminate lungo un sentiero pericoloso. L’utile temporaneo di cui gode quella parte compro1 metterà la prosperità di lungo termine di entrambe. Per mettere in pratica questi principi generali, un’impresa deve integrare in base a una prospettiva sociale gli schemi fondamentali che già impiega per analizzare la concorrenza e governare la propria strategia di business. Solo impiegando gli stessi metodi analitici potrà integrare la CSR nella propria strategia competitiva in modo da arricchire entrambe. Identificazione dei punti di intersezione. L’interdipendenza tra un’impresa e la società assume due forme. In primo luogo, un’impresa impatta sulla società con le proprie attività nel normale andamento del business. Si tratta in questo caso di legami interno-esterno: praticamente tutte le attività previste dalla catena del valore di un’impresa toccano le comunità locali in cui l’azienda opera, arrecando conseguenze sociali positive o negative. (Per un esempio di questo processo si veda il riquadro «Dall’interno all’esterno: la mappatura dell’impatto sociale della catena del valore».) Sebbene le imprese siano sempre più consapevoli dell’impatto sociale delle loro attività di tutti i giorni (come le pratiche di assunzione, le emissioni e lo smaltimento dei rifiuti), tali impatti sono più sottili e mutevoli di quanto molti manager non percepiscano. Tanto per cominciare, dipendono dall’ubicazione. La stessa Gennaio/Febbraio 2007 7 STRATEGIA E SOCIETÀ attività manifatturiera avrà delle conseguenze sociali molto diverse in Cina e negli Stati Uniti. Inoltre, l’impatto di un’impresa sulla società cambia nel tempo, man mano che gli standard sociali si evolvono e la scienza progredisce. L’amianto, oggi considerato assai rischioso per la salute, era ritenuto sicuro nei primi del Novecento, sulla base delle prove scientifiche disponibili all’epoca. Le prove dei gravi rischi che comporta per la salute si sono accumulate gradualmente per oltre cinquant’anni prima che qualunque impresa sia stata chiamata a rispondere dei danni che questo materiale può causare. Molte delle aziende che non hanno saputo prevedere le conseguenze future di questo filone di ricerche sono finite in bancarotta a causa dei risultati che ne sono emersi. Le imprese non possono più accontentarsi di monitorare unicamente gli impatti sociali evidenti che esercitano sul presente. La loro stessa sopravvivenza può essere a rischio se non si dotano di un processo accurato di identificazione dei loro effetti sociali, in corso o in via di evoluzione, sul futuro. Non è solo l’attività delle imprese a interessare la società, tuttavia, ma sono anche le condizioni sociali esterne a influenzare le aziende, nel bene e nel male. Questi legami esterno-interno possono minare notevolmente la capacità di un’azienda di attuare la propria strategia, specie nel lungo periodo. Questa seconda forma di interdipendenza, che chiamiamo contesto competitivo, riscuote molte meno attenzioni, ma è probabile che abbia un’importanza strategica assai maggiore sia per le imprese, sia per la società. Garantire il buono stato di salute del contesto competitivo apporta benefici tanto all’impresa quanto alla comunità. LE PRIORITÀ NELLE QUESTIONI SOCIALI 8 Questioni sociali generiche Impatti sociali della catena del valore Dimensioni sociali del contesto competitivo Problemi sociali che non sono significativamente influenzati dalle attività aziendali e che non incidono direttamente sulla competitività di lungo termine. Problemi sociali che sono influenzati in modo significativo dalle attività ordinarie dell’azienda. Problemi sociali presenti nell’ambiente esterno che influiscono significativamente sui driver fondamentali della competitività dell’azienda là dove essa opera. Il contesto competitivo può essere diviso in quattro grandi aree. Una di esse include la quantità e la qualità degli input che le aziende hanno a disposizione: le risorse umane e naturali, ad esempio, o l’infrastruttura dei trasporti. Il contesto comprende inoltre le regole e gli incentivi che governano la concorrenza, come le norme che proteggono la proprietà intellettuale, garantiscono la trasparenza, salvaguardano dalla corruzione e incoraggiano gli investimenti. Un terzo aspetto è rappresentato dalla domanda locale – ovvero le sue dimensioni e il suo grado di sofisticatezza – unitamente agli standard relativi alla qualità e la sicurezza dei prodotti, i diritti dei consumatori e l’imparzialità degli appalti governativi. L’ultima area è legata alla disponibilità locale dei settori di supporto, come i produttori di macchinari e i fornitori di servizi.2 Presi singolarmente o nel loro complesso, questi aspetti del contesto possono rappresentare delle opportunità per l’attuazione di iniziative legate alla CSR (vedi l’inserto «Dall’esterno all’interno: l’influenza del contesto sociale sulla competitività»). La capacità di reclutare le risorse umane più appropriate dipende, ad esempio, da una serie di fattori che in genere non si considerano legati al business ma che le imprese possono influenzare, come il sistema educativo e formativo locale, la disponibilità di alloggi, l’assenza di discriminazioni (che limitano il bacino dei lavoratori) e l’adeguatezza dell’infrastruttura sanitaria pubblica. Scelta delle questioni sociali di cui occuparsi. Nessuna impresa è in grado di risolvere tutti i problemi della società, né di sostenere i costi necessari per farlo. Piuttosto, ciascuna deve selezionare i temi che si intersecano con la propria area di business specifica. È meglio lasciare gli altri temi sociali alle imprese che operano in settori diversi, alle ONG o alle istituzioni governative che si trovano in una posizione migliore per affrontarle. Il banco di prova essenziale che dovrebbe determinare l’indirizzo della CSR non è il fatto che una causa sia meritevole, ma che offra l’opportunità di creare un valore condiviso, ovvero un beneficio rilevante per la società, che rivesta un valore anche per l’impresa. Il nostro modello suggerisce che l’impresa debba dividere i temi sociali in tre categorie per effettuare una distinzione fra le molte cause meritevoli e il sottoinsieme più ristretto delle cause che sono allo stesso tempo importanti e strategiche per l’impresa: - le questioni sociali generiche, che possono essere importanti per la società ma non sono influenzate in IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA misura significativa dalle attività dell’azienda, né influenzano la sua competitività di lungo termine; - gli impatti sociali della catena del valore, che sono influenzati in misura significativa dalle attività svolte dall’impresa nel normale andamento del business; - le dimensioni sociali del contesto competitivo, che equivalgono ai fattori dell’ambiente esterno che incidono sui driver fondamentali della competitività nei luoghi in cui l’impresa opera (vedi il riquadro «Le priorità nelle questioni sociali»). Ogni impresa deve dividere le questioni sociali in queste tre categorie per ciascuna delle proprie unità di business e delle aree principali in cui opera, e classificarle in base al loro impatto potenziale. La categoria in assunzioni o il risparmio energetico, che riguardano la maggioranza delle imprese possono avere un’importanza maggiore per alcuni settori che per altri. I contributi sanitari, ad esempio, sollevano meno problemi nell’ambito dello sviluppo software o della biotecnologia, dove tendenzialmente la forza lavoro è limitata e ben retribuita, che in un campo come il retail, che dipende pesantemente da un alto numero di lavoratori poco retribuiti. All’interno di un settore, una data questione sociale può intersecarsi in modo diverso con le diverse imprese, in base al loro diverso posizionamento competitivo e alle diverse attività che rientrano, conseguentemente, nella loro catena del valore. Nel settore automobi- La veemenza di un gruppo di stakeholder non denota necessariamente l’importanza di una data questione né per l’impresa, né per il mondo intero. cui ricade una data questione varierà a seconda delle diverse unità di business, le diverse imprese, i diversi settori e i diversi luoghi. Dare appoggio a una compagnia di ballo può rappresentare una causa sociale generica per una società di pubblici servizi come Southern California Edison, ma rientrare nel contesto competitivo per una corporation come American Express, che dipende dal cluster che riunisce l’intrattenimento, l’ospitalità e il turismo di fascia alta. Le emissioni di carbonio possono rappresentare un problema sociale generico per una società di servizi finanziari come Bank of America, una conseguenza negativa della catena del valore per una società basata sui trasporti come UPS, oppure una questione legata alla catena del valore e allo stesso tempo al contesto competitivo per una casa automobilistica come Toyota. La pandemia di AIDS in Africa può rappresentare un problema sociale generico per un retailer statunitense come Home Depot, un impatto della catena del valore per un’azienda farmaceutica come GlaxoSmithKline, o una questione legata al contesto competitivo per un’impresa mineraria come Anglo American, che dipende dalla manodopera locale per garantire le proprie attività. Anche questioni come le pari opportunità nelle listico, ad esempio, Volvo ha scelto di mettere la sicurezza al centro del suo posizionamento competitivo, mentre Toyota ha sviluppato un vantaggio competitivo grazie ai benefici ambientali della sua tecnologia a motore ibrido. Alcune questioni si dimostrano rilevanti per molte delle unità di business e delle località servite dall’impresa; il suggerimento da seguire, in tal caso, è quello di effettuare delle scelte strategiche riguardo alle aree verso cui incanalare gli sforzi legati alla CSR. L’applicabilità generale di una questione sociale a più settori e alle imprese che vi operano influenza necessariamente il modo in cui verrà affrontata e l’urgenza con cui questo avverrà. È probabile che la via più efficace per affrontare le questioni sociali dotate di una rilevanza generale passi attraverso i modelli cooperativi. La Extractive Industries Transparency Initiative, ad esempio, comprende 19 grandi imprese dei settori del petrolio, del gas e dell’estrazione mineraria, che hanno concordato di scoraggiare la corruzione adottando un’assoluta trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e verificando tutti i pagamenti effettuati dalle imprese ai governi degli Stati in cui operano. In assenza di un’azione collettiva da parte di tutte le principali imprese di questi settori, i governi Gennaio/Febbraio 2007 9 STRATEGIA E SOCIETÀ LA MAPPA DELLE OPPORTUNITÀ SOCIALI > L’interdipendenza fra un’impresa e la società dovrebbe essere analizzata attraverso gli stessi strumenti utilizzati per analizzarne la posizione competitiva e svilupparne la strategia. In questo modo, l’impresa può mettere a fuoco le attività specifiche che svolge in ambito CSR per ottenere il miglior effetto possibile. Invece di limitarsi ad agire in base a impulsi benintenzionati o a reagire alle pressioni esterne, l’organizza- zione può pianificare una strategia CSR che apporti il massimo beneficio alla società esterna nonché una serie di vantaggi al business. Questi due strumenti dovrebbero essere impiegati in modo diverso. Quando un’impresa inserisce nella propria catena del valore tutte le conseguenze sociali delle sue attività, essa in effetti ha definito una checklist di problemi – perlopiù di natu- Dall’interno all’esterno: la mappatura dell’impatto sociale della catena del valore La catena del valore raffigura tutte le operazioni che un’impresa effettua per portare avanti il suo business. Essa può essere utilizzata come uno schema che permette di identificare l’impatto sociale – positivo o negativo – delle attività aziendali. Questi legami internoesterno possono variare, come si può notare dalla parziale lista di esempi riportati, dalle politiche di assunzione e licenziamento alle emissioni di gas serra. - Rapporti con le università - Reporting finanziario - Pratiche etiche nell’ambito della ricerca (ad es. test condotti sugli animali, OGM) - Pratiche di governance - Trasparenza - Utilizzo del lobbying - Sicurezza dei prodotti - Conservazione delle materie prime - Riciclaggio - Esternalità legate ai trasporti (ad es. gas serra, traffico, strade pericolose) - Emissioni e rifiuti - Impatto ecologico e biodiversità - Utilizzo dell’energia e dell’aria - Sicurezza dei lavoratori e rapporti sindacali - Materiali pericolosi - Istruzione e formazione dei dipendenti - Condizioni di lavoro sicure - Diversità e discriminazione - Assistenza sanitaria e altri benefit - Politiche retributive - Politiche relative ai licenziamenti - Utilizzo e smaltimento del packaging (ad es. contenitori McDonald’s) - Impatto dei trasporti - Pratiche relative all’approvvigionamento e alla supply chain (ad es. corruzione, lavoro minorile, politiche di prezzo per gli agricoltori) - Utilizzo di input particolari (ad es. pellicce di animali) - Impiego delle risorse naturali - Marketing & pubblicità (ad es. pubblicità veritiere, pubblicità rivolte ai bambini) - Smaltimento dei prodotti obsoleti - Pratiche relative al pricing - Gestione dei beni di consumo (ad es. olio motore, inchiostri per stampa) (ad es. discriminazione di prezzo fra diversi clienti e zone geografiche, pratiche di pricing anticompetitive, agevolazioni per gli indigenti) - Informazioni ai consumatori - Privacy Fonte: Michael E. Porter, Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, 1985 (ed. it. Il vantaggio competitivo, Edizioni Einaudi, 2002). 10 - Privacy dei clienti IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA ra operativa – che devono essere investigati, divisi per ordine di priorità, e quindi risolti o attenuati. In generale, le imprese dovrebbero cercare di eliminare il maggior numero possibile degli effetti negativi presenti nella catena del valore. Le attività dell’impresa presenteranno anche delle opportunità per la creazione di un valore condiviso, specie qualora tocchino dei temi significativi per il contesto competitivo. Le imprese non possono, tuttavia, impegnarsi in tutte le aree considerate nel «diamante». Di conseguenza lo scopo sarà quello di identificare soltanto quelle che presentano il maggior valore strategico. Ogni impresa dovrebbe scegliere, all’interno di questo ventaglio di opportunità, una o più iniziative che possano apportare il massimo beneficio tanto alla società quanto alla sua capacità di competere. < Dall’esterno all’interno: l’impatto sociale sulla competitività Oltre a comprendere le ramificazioni sociali della catena del valore, la CSR richiede anche di comprendere le dimensioni sociali del contesto competitivo in cui l’impresa opera – ovvero i legami esterno-interno che incidono sulla sua capacità di accrescere la produttività e mettere in atto la strategia. Tali aspetti possono essere rilevati tramite il modello del diamante, che mostra in che modo le imprese dipendono dalle condizioni territoriali in cui si trovano, ad esempio per quanto riguarda l’infrastruttura dei trasporti e l’applicazione effettiva delle leggi. - Disponibilità di risorse umane (es. formazione all’impiego di Marriott) - Accesso a università e istituti di ricerca (es. Working Connections di Microsoft) - Infrastruttura fisica efficiente - Infrastruttura amministrativa efficiente - Disponibilità di una infrastruttura scientifica e tecnologica (es. trasferimento di informazioni da Nestlé ai produttori di latte) - Risorse naturali sostenibili (es. risparmio di acqua da parte di Grupo Nuevo) - Accesso efficiente al capitale Contesto strategico e competitivo dell’impresa Le regole e gli incentivi che guidano la concorrenza Condizioni legate ai fattori (input) Condizioni della domanda territoriale Presenza di input specializzati e di alta qualità a disposizione delle aziende - Disponibilità di fornitori locali (ad es. derrate di Sysco coltivate localmente; raccolta quotidiana Nestlé di prodotti del latte) - Accesso alle aziende che operano in campi correlati - Presenza di distretti industriali anziché di imprese isolate - Concorrenza locale corretta e aperta (es. assenza di barriere allo scambio, regolamentazioni eque) - Protezione della proprietà intellettuale - Trasparenza (es. reporting finanziario, corruzione, industrie estrattive, iniziative di trasparenza) - Applicazione della legge (es. sicurezza, protezione della proprietà, sistema legale) - Sistema di incentivazione meritocratico (es. assenza di discriminazioni) Natura e sofisticatezza de bisogni dei consumatori locali Settori correlati e di supporto - Sofisticatezza della domanda locale (condivisione della value proposition, es. clienti di Whole Foods) Disponibilità locale di attività di supporto - Standard legislativi severi (es. standard su emissioni e consumi delle automobili in California) - Bisogni particolari locali che possono essere soddisfatti su scala nazionale e globale (ad es. finanziamenti di Urbi per la costruzione di case; strategia della «base della piramide» di Unilever) Fonte: Michael E. Porter, The Competitive Advantage of Nations, 1990 (ed.it. Strategia e competizione. Come creare, sostenere e difendere il vantaggio di imprese e nazioni, Ed. Il Sole 24 Ore, 2001). Gennaio/Febbraio 2007 11 STRATEGIA E SOCIETÀ corrotti si limiterebbero a scegliere di non avere rapporti con quelle che hanno dichiarato pubblicamente i pagamenti effettuati, e la società ne trarrebbe ben pochi benefici. Definizione di un’agenda sociale d’impresa. La categorizzazione e la classificazione delle questioni sociali costituisce soltanto un mezzo, il cui fine è quello di dotare l’impresa di un esplicito piano d’azione sociale di supporto. Un piano d’azione sociale non si accontenta di soddisfare le aspettative della comunità, ma cerca di individuare le opportunità che possano apportare allo stesso tempo dei benefici sociali ed economici. Non si limita a ridurre i danni, ma trova un modo per rafforzare la strategia d’impresa attraverso il progresso sociale. Il piano di supporto deve rispondere alle aspettative degli stakeholder, ma non può limitarsi a questo. Una parte cospicua delle risorse e dell’attenzione dell’impresa deve essere indirizzata a una CSR che abbia una reale valenza strategica (vedi il riquadro «Il coinvolgimento sociale dell’impresa: un approccio strategico»). È attraverso una CSR strategica che l’impresa avrà il assegno: esse definiscono degli obiettivi chiari e misurabili e monitorano i risultati nel tempo. Un buon esempio è l’iniziativa in base a cui GE «adotta» delle scuole secondarie pubbliche in difficoltà nelle vicinanze di molte delle principali strutture che gestisce negli Stati Uniti. L’azienda dona a ogni scuola una somma che va da 250.000 a 1 milione di dollari nell’arco di cinque anni, oltre a beni in natura. I manager e i dipendenti di GE assumono un ruolo attivo, collaborando con i dirigenti scolastici per valutare i bisogni e offrire servizi di mentoring o tutoring agli studenti. In base a uno studio indipendente su dieci scuole coinvolte nell’iniziativa fra il 1989 e il 1999, quasi tutte hanno evidenziato un miglioramento significativo; in quattro su cinque delle scuole che in precedenza avevano la performance più bassa, il tasso dei diplomati è raddoppiato, passando dal 30 al 60 percento. Iniziative efficaci di corporate citizenship come questa suscitano benevolenza nei confronti dell’impresa e migliorano i suoi rapporti con le amministrazioni locali e altre istituzioni importanti, ma il loro effetto è inevitabilmente ridotto. I dipendenti di GE sono molto Un piano d’azione sociale di supporto non si limita a ridurre i danni, ma trova un modo per rafforzare la strategia d’impresa attraverso il progresso sociale. massimo impatto sociale e raccoglierà i frutti migliori sul piano del business. CSR reattiva. La CSR reattiva prevede due aspetti: praticare una buona corporate citizenship, mostrandosi in sintonia con le preoccupazioni sociali degli stakeholder, e mitigare gli effetti presenti o futuri delle proprie attività di business. Una buona corporate citizenship costituisce una conditio sine qua non della CSR e le imprese devono attuarla adeguatamente. Molte organizzazioni locali degne di nota fanno affidamento sulle donazioni delle imprese, e allo stesso tempo i dipendenti sono comprensibilmente orgogliosi se la loro azienda è attivamente coinvolta nella comunità. Le iniziative migliori sul piano della corporate citizenship vanno ben al di là dell’apporre la firma a un 12 orgogliosi della loro partecipazione attiva, ma per quanto l’iniziativa sia utile, rimane marginale rispetto al business dell’azienda e il suo effetto diretto sulle assunzioni e la retention è limitato. Il secondo aspetto della CSR reattiva – mitigare i danni derivanti dalle attività che rientrano nella catena del valore di un’impresa – costituisce essenzialmente una sfida operativa. Dato che gli impatti legati alla catena del valore sono innumerevoli per ogni business, e per ognuno dei luoghi in cui opera, molte imprese hanno adottato un approccio alla CSR basato su checklist, che prevede l’utilizzo di set standardizzati di fattori di rischio sociali e ambientali. La Global Reporting Iniziative, che sta rapidamente diventando uno standard diffuso per la reportistica relativa alla CSR, ha definito un elenco di 141 temi afferenti a quest’am- IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA bito, integrato da una serie di elenchi ausiliari relativi ai diversi settori. Essi rappresentano un ottimo punto di partenza, ma le imprese hanno bisogno di dotarsi di un processo interno maggiormente proattivo e ad hoc. I manager di ciascuna unità di business possono impiegare la catena del valore come uno strumento per identificare sistematicamente le ramificazioni sociali delle attività della propria unità in ogni luogo. Più complicato è prevedere le conseguenze, per le quali si ha ancora poca chiarezza. Da questo punto di vista può essere particolarmente d’aiuto il management operativo, che si trova più vicino all’effettivo svolgimento del lavoro. Prendiamo l’esempio di B&Q, una catena internazionale nata in Inghilterra che vende articoli per la casa. L’azienda ha iniziato ad analizzare sistematicamente decine di migliaia di prodotti nelle sue centinaia di negozi in base a un elenco di una dozzina di temi sociali – dal cambiamento climatico alle condizioni lavorative che vigono negli stabilimenti dei suoi fornitori – per individuare i prodotti che potenzialmente comportano dei rischi sociali e per determinare le soluzioni più opportune da adottare prima che le pressioni esterne si facciano sentire. Riguardo alla maggior parte degli effetti della catena del valore, non c’è bisogno di riscoprire l’acqua calda. L’impresa dovrebbe identificare le best practice tramite cui affrontare ciascuno di essi, ponendo attenzione all’evoluzione che tali pratiche stanno subendo. Alcune aziende riusciranno ad attenuare più efficacemente e proattivamente un’ampia gamma di problemi sociali creati dalla propria catena del valore. Esse conseguiranno un vantaggio rispetto alle altre, tuttavia – come nelle attività legate agli acquisti e ad altre aree operative – è probabile che si tratti solo di un vantaggio temporaneo. CSR strategica. Fare strategia non significa solo raggiungere l’eccellenza, ma arrivare ad assumere una posizione unica rispetto alle altre, ossia svolgere le proprie attività in modo diverso dai concorrenti, così da ridurre i costi o soddisfare più adeguatamente bisogni specifici della clientela. Questi principi riguardano tanto il rapporto di un’impresa con la società, quanto quello con le rivali e i clienti. La CSR strategica non si limita a un supporto di ampio respiro alle cause sociali e una gestione sistematica degli effetti della catena del valore, ma prevede l’attuazione di un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici ampi e significativi alla società e al business. In questo modo, i problemi sociali diventano una fonte di opportunità e innovazione invece che un costo o un vincolo. La CSR strategica comprende allo stesso tempo aspetti che vanno dall’interno all’esterno e altri che vanno dall’esterno all’interno. È in quest’ambito che risiedono le vere opportunità di creare un valore condiviso. Le imprese possono sperimentare una serie di innovazioni della catena del valore a beneficio sia della società sia della propria competitività, e possono investire nelle comunità di cui fanno parte in modo tale da rafforzare il proprio contesto competitivo e, allo stesso tempo, accrescere la propria produttività. Molti aspetti dell’offerta di prodotti o della catena del valore possono costituire la base di una CSR strategica. La risposta di Toyota alle preoccupazioni legate alle emissioni inquinanti delle automobili rappresenta un esempio in tal senso. La Toyota Prius, il veicolo ibrido a elettricità e benzina, è il primo di una serie di modelli innovativi che hanno creato un vantaggio competitivo e, allo stesso tempo, una serie di benefici ambientali. I motori ibridi emettono appena il 10 per cento degli agenti inquinanti nocivi prodotti dai veicoli tradizionali e consumano solo la metà del carburante. Nominata Auto dell’anno 2004 da «Motor Trend Magazine», la Prius ha creato per Toyota un vantaggio talmente forte che Ford e altre case automobilistiche stanno acquistando la licenza necessaria per sfruttare la sua tecnologia. Toyota è molto vicina ad affermare la propria tecnologia come standard globale. Urbi, una impresa edile messicana, ha avuto ottimi risultati dalla costruzione di case per acquirenti in condizioni disagiate impiegando nuove forme di finanziamento come il pagamento delle rate di un mutuo a IL COINVOLGIMENTO SOCIALE DELL’IMPRESA: UN APPROCCIO STRATEGICO Questioni Impatti sociali sociali generiche della catena del valore Buon livello di corporate citizenship CSR reattiva Riduzione dei danni causati dalle attività presenti nella catena del valore Trasformare a beneficio della società, rinforzando simultaneamente la strategia, le attività presenti nella catena del valore Dimensioni sociali del contesto competitivo Filantropia strategica che faccia leva sul miglioramento delle aree cruciali del contesto competitivo CSR strategica Gennaio/Febbraio 2007 13 STRATEGIA E SOCIETÀ tasso variabile con trattenuta diretta in busta paga. Crédit Agricole, la più grande banca francese, si è differenziata grazie all’offerta di prodotti finanziari specializzati in aree legate all’ambiente, come il finanziamento di pacchetti per ristrutturare la propria casa in modo da consentire un risparmio energetico e per con- seguire la certificazione biologica di un’impresa agricola. La CSR strategica prevede anche l’investimento sugli aspetti sociali del contesto che accentuano la competitività dell’impresa. In questo modo si sviluppa un rapporto simbiotico: il successo dell’impresa e il successo della comunità si rafforzano a vicenda. L’INTEGRAZIONE TRA BUSINESS E SOCIETÀ: IL DISTRETTO DEL LATTE DI NESTLÉ >> L’approccio di Nestlé alla collaborazione con i piccoli agricoltori esemplifica il rapporto simbiotico fra il progresso sociale e il vantaggio competitivo. Ironicamente, sebbene la reputazione dell’azienda sia ancora macchiata da una controversia nata trent’anni fa in relazione alle vendite di latte per neonati in Africa, il suo impatto sui Paesi in via di sviluppo spesso ha avuto un carattere profondamente positivo. Consideriamo l’evoluzione storica della vendita di latte in India da parte di Nestlé. Nel 1962 l’azienda voleva entrare nel mercato indiano e ricevette dal governo l’autorizzazione a costruire un caseificio nel distretto settentrionale di Moga. Nel distretto il livello di povertà era elevato: la gente non aveva energia elettrica, mezzi di trasporto, telefoni né assistenza sanitaria. Tipicamente un agricoltore possedeva meno di cinque acri di terreno scarsamente irrigato e infecondo. Molti possedevano un’unica bufala, che produceva appena il latte necessario per il loro consumo privato. Il 60% dei vitelli moriva appena nato. Dal momento che gli agricoltori non avevano modo di refrigerarlo, trasportarlo o testarne la qualità, il latte non aveva modo di viaggiare lontano e spesso era contaminato o diluito. Nestlé arrivò a Moga per sviluppare un business, non per praticare la CSR. Tuttavia la sua catena del valore, derivata dalle origini svizzere dell’azienda, dipendeva dall’approvvigionamento del latte su base locale, tramite un bacino ampio e diversificato di agricoltori. L’istituzione di tale catena del valore a Moga richiese a Nestlé di trasformare il contesto competitivo, e questo creò un enorme valore condiviso a favore sia dell’azienda, sia dell’intera zona. Nestlé costruì in ogni cittadina dei caseifici, dotati di sistemi di refrigerazione perché fungessero da punti di raccolta del latte e iniziò a inviare i suoi autocarri nelle fattorie per prelevare le scorte. Sui camion viaggiavano veterinari, nutrizionisti, agronomi ed esperti del controllo qualità. Venivano forniti farmaci e integratori alimentari per gli animali malati, e ogni mese si tenevano delle sessioni di formazione per gli agricoltori locali. Questi appresero che la qualità del latte dipendeva dal regime alimentare a cui erano sottoposte le mucche, il quale a sua volta dipendeva da un’irrigazione adeguata delle messi con 14 cui venivano foraggiate. Grazie ai finanziamenti e l’assistenza tecnica offerti da Nestlé gli agricoltori iniziarono a scavare pozzi profondi, che in precedenza non erano alla loro portata. Il miglioramento dei sistemi di irrigazione non consentì solo di nutrire le mucche ma accrebbe il raccolto, producendo un surplus di frumento e riso e innalzando lo standard di vita. Quando aprì il primo stabilimento Nestlé per la lavorazione del latte, solo 180 agricoltori locali fornivano la materia prima. Oggi Nestlé compra il latte da più di 75.000 agricoltori della zona, raccogliendolo due volte al giorno da oltre 650 caseifici sparsi nei diversi villaggi. Il tasso di mortalità dei vitelli è diminuito del 75 percento. La produzione di latte è cresciuta di cinquanta volte. Man mano che la qualità è migliorata, Nestlé è riuscita a pagare agli agricoltori prezzi più alti di quelli fissati dal Governo, e i suoi pagamenti fissi bisettimanali hanno consentito agli agricoltori di ottenere dei crediti. Sono stati aperti dei caseifici e degli stabilimenti concorrenti e attualmente sta iniziando a svilupparsi un vero e proprio distretto industriale. Oggi, Moga ha uno standard di vita notevolmente più alto delle altre zone vicine. Il 90% delle case è dotato di energia elettrica e la maggior parte di una linea telefonica; tutti i villaggi hanno una scuola primaria e molti hanno scuole medie e superiori. Moga ha il quintuplo dei medici delle zone circostanti. Inoltre il maggior potere d’acquisto degli agricoltori locali ha ampliato notevolmente il mercato dei prodotti Nestlé, favorendo ulteriormente il successo economico dell’azienda. L’impegno di Nestlé nella collaborazione con i piccoli agricoltori ha un ruolo centrale nella sua catena del valore. Le consente di ottenere una fornitura costante di beni di largo consumo di alta qualità senza pagare alcun intermediario. Gli altri prodotti di riferimento dell’azienda – il caffè e il cacao – spesso vengono coltivati da piccoli agricoltori nei Paesi in via di sviluppo in condizioni simili. L’esperienza accumulata da Nestlé con l’istituzione di punti di raccolta, la formazione degli agricoltori e l’introduzione di tecnologie migliori a Moga è stata replicata in Brasile, Thailandia e una dozzina di altri Paesi fra cui, in tempi molto recenti, la Cina. In ognuno di questi casi, quando l’azienda ha prosperato, così ha fatto la comunità locale. < IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA Tipicamente, quanto più una causa sociale è legata al business dell’impresa, tanto maggiore è l’opportunità di far leva sul commitment e sulle capacità dell’azienda e altrettanto grande è, di conseguenza, l’opportunità di portare un beneficio alla società. Working Connections, la partnership fra Microsoft e la American Association of Community Colleges (AACC), rappresenta un buon esempio di opportunità di creazione di un valore condiviso emersa dagli investimenti sul contesto. La carenza di lavoratori qualificati in information technology costituisce un vincolo significativo alla crescita di Microsoft; attualmente, vi sono più di 450.000 posizioni IT vacanti nei soli Stati Uniti. I community college – grazie agli 11,6 milioni di studenti iscritti, che rappresentano il 45% degli universitari statunitensi – potrebbero rappresentare un’ottima soluzione a questo problema. Microsoft è consapevole, tuttavia, che tali istituti sono alle prese con alcune difficoltà specifiche: i programmi di studio nell’IT non sono standardizzati, le attrezzature tecnologiche presenti in aula sono spesso datate e non esiste alcun piano sistematico per l’aggiornamento dei docenti. L’iniziativa di Microsoft, che l’ha portata a donare 50 milioni di dollari nell’arco di cinque anni, si è proposta di risolvere tutti e tre questi problemi. Oltre a offrire denaro e prodotti gratuiti, Microsoft ha inviato nei college dei dipendenti, coinvolti su base volontaria, con l’obiettivo di valutare i bisogni, contribuire allo sviluppo dei programmi di studio e attivare dei corsi di aggiornamento rivolti ai docenti. Si noti che in questo caso, il personale volontario assegnato all’iniziativa ha potuto impiegare le proprie competenze professionali per soddisfare un bisogno sociale, molto diversamente dalle tipiche attività di volontariato. Microsoft ha ottenuto dei risultati che hanno arrecato un beneficio a molte comunità locali e allo stesso tempo hanno avuto un impatto diretto e potenzialmente significativo sull’azienda. Integrazione fra interno ed esterno. Sperimentare delle innovazioni nella catena del valore e investire nell’allentamento dei vincoli sociali che limitano la competitività rappresentano, singolarmente presi, due strumenti efficaci per creare un valore economico e sociale. Come mostrano gli esempi che abbiamo proposto, tuttavia, l’impatto è ancora più forte se i due aspetti funzionano in tandem. Le attività che rientrano nella catena del valore possono essere svolte in modo da rafforzare i cambiamenti di contesto. Allo stesso tempo, gli investimenti indirizzati al contesto competi- tivo hanno il potenziale per ridurre i vincoli che limitano le attività che rientrano nella catena del valore di un’impresa. Entrambi gli aspetti, inoltre, possono accrescere notevolmente l’efficacia delle attività benefiche dell’impresa. Marriott, ad esempio, offre un sostegno filantropico alle associazioni di servizio delle comunità locali, ma ha creato un ponte fra questi investimenti e il programma di formazione interna di cui è dotata al fine di ridurre sostanzialmente i costi legati all’assunzione di dipendenti che si trovano al loro primo impiego. Le associazioni locali propongono i candidati che sono «disoccupati cronici» a Marriott, che offre loro 180 ore di formazione retribuita in aula e in azienda. Il 90% delle persone che partecipano al programma di formazione ottiene un posto di lavoro da Marriott. Un anno dopo più del 65% è ancora in servizio, un tasso di retention molto più alto della norma. Quando le attività che rientrano nella catena del valore e gli investimenti indirizzati al contesto competitivo sono pienamente integrati, diventa difficile distinguere la CSR dalle attività quotidiane dell’impresa. Nestlé, ad esempio, collabora direttamente con i piccoli agricoltori che vivono nei paesi in via di sviluppo per garantirsi l’approvvigionamento di quei beni elementari di largo consumo – come il latte, il caffè e il cacao – da cui dipende gran parte del suo business globale. L’investimento operato dall’azienda nelle infrastrutture locali e la diffusione delle sue conoscenze e tecnologie di livello internazionale, in atto da decenni, hanno arrecato enormi benefici sociali attraverso lo sviluppo economico, il miglioramento dell’assistenza sanitaria e la maggior qualità della formazione; allo stesso tempo hanno offerto a Nestlè un accesso diretto e costante ai beni di largo consumo di cui ha bisogno per preservare un business globale redditizio. L’originale strategia di Nestlé non può essere disgiunta dal suo impatto sociale (si veda il riquadro «L’integrazione tra business e società: il distretto del latte di Nestlé»). La dimensione sociale nella value proposition. Al cuore di ogni strategia c’è una value proposition unica: un set di bisogni che l’azienda è in grado di soddisfare per conto dei clienti che ha scelto di servire, mentre le altre non possono farlo. Per offrire una value proposition diversa da tutte le altre bisogna che l’impresa abbia una catena del valore diversa da tutte le altre, che la porti a svolgere le proprie attività in modo diverso dalle rivali. La CSR raggiunge la massima valenza strategica quando un’impresa immette una dimensione Gennaio/Febbraio 2007 15 STRATEGIA E SOCIETÀ sociale nella sua value proposition per amplificare il proprio vantaggio competitivo. A quel punto l’impatto sociale diventa parte integrante della stessa strategia d’impresa. Prendiamo l’esempio di Whole Foods Market, la cui value proposition consiste nel vendere cibi biologici, naturali e salutari a clienti che danno grande valore a una alimentazione sana e all’ambiente. Le questioni sociali hanno un ruolo fondamentale nel garantire l’unicità di Whole Foods nel settore della vendita al dettaglio di generi alimentari, nonché la sua capacità di essere trasformati in compost. L’azienda sta convertendo il suo parco veicoli affinché venga alimentato tramite biocarburante. Persino i prodotti per la pulizia impiegati nei suoi negozi sono ecologici. Attraverso le sue attività filantropiche, poi, l’azienda ha istituito la Animal Compassion Foundation con l’obiettivo di sviluppare soluzioni più naturali e rispettose nell’allevamento di animali. In breve, quasi tutti gli aspetti della catena del valore di quest’impresa incorporano una dimensione sociale, il che distingue Whole Foods da tutti i suoi concorrenti. Accade di solito che quanto più uno scopo sociale è connesso al business di un’azienda, tanto più grande risulta essere la possibilità di fare leva sulle risorse aziendali per farne beneficiare tutta la società. imporre dei prezzi premium. Le politiche di approvvigionamento dell’azienda mettono in primo piano l’acquisto dei prodotti dagli agricoltori locali attraverso il processo di acquisto di ogni negozio. I buyer scartano gli alimenti che contengono uno o più dei quasi 100 ingredienti comunemente diffusi che l’azienda considera nocivi o dannosi per l’ambiente. I prodotti da forno, che vengono cotti e venduti freschi ogni giorno, contengono unicamente farine non sottoposte a sbiancamento o bramatura. L’impegno di Whole Foods verso le pratiche operative naturali ed ecologiche va ben al di là dell’approvvigionamento. I negozi vengono costruiti utilizzando la minima quantità possibile di materie prime «vergini». Recentemente, l’azienda ha acquistato crediti energetici per l’utilizzo di una quantità di energia eolica pari al 100 per cento dell’energia elettrica che consuma in tutti i suoi negozi e le sue strutture; è l’unica delle imprese inserite nella «Fortune 500» che ha controbilanciato interamente il suo consumo di energia elettrica. Gli alimenti scaduti e i rifiuti biodegradabili vengono trasportati via camion nei vari centri regionali per 16 Non tutte le imprese possono basare l’intera value proposition sui temi sociali come fa Whole Foods, ma le value proposition di stampo sociale aprono una nuova frontiera nel posizionamento competitivo. I regolamenti pubblici, il rischio di critiche o di cause di responsabilità e l’attenzione dei consumatori alle questioni sociali sono in costante crescita. Di conseguenza, il numero dei settori e delle imprese che possono sviluppare un vantaggio competitivo in base a una value proposition di stampo sociale è in continuo aumento. Ad esempio Sysco, il più grande distributore di prodotti alimentari ai ristoranti e alle istituzioni in Nord America, ha avviato un’iniziativa per la tutela delle piccole aziende agricole a conduzione familiare e fornisce ai suoi clienti derrate di produzione locale come veicolo di differenziazione competitiva. Anche le grandi multinazionali globali – come General Electric, tramite l’iniziativa chiamata «Ecoimagination», che si concentra sullo sviluppo di aree di business «verdi» come la tecnologia di depurazione delle acque, e Unilever, che sta sperimentando nuovi sistemi di imballaggio e distribuzione per soddisfare le necessità delle popola- IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA zioni più indigenti – sono giunte alla conclusione che le opportunità di business più significative risiedono nell’integrazione fra il business stesso e la società. Organizzarsi per la CSR L’integrazione fra le necessità del business e quelle della società richiede qualcosa in più delle buone intenzione e di una leadership forte. Richiede adattamenti nell’organizzazione, nelle relazioni e negli incentivi. Poche imprese hanno attivato un processo che prevede di attribuire priorità alle questioni sociali in base all’importanza che rivestono ai fini del contesto competitivo, nonché del ruolo che svolgono sul piano operativo e strategico. Sono ancora meno quelle che hanno unificato le proprie attività filantropiche con la gestione dell’impatto sociale delle attività che rientrano nella loro catena del valore, o cercato di infondere una dimensione sociale nella loro value proposition fondamentale. Per ottenere un simile risultato bisogna adottare un approccio diverso – sia rispetto alla CSR, sia rispetto alle attività filantropiche – da quello oggi prevalente. Le imprese devono passare da un atteggiamento frammentario e difensivo a un approccio integrato e assertivo, e dall’enfasi sull’immagine all’enfasi sulla sostanza. Attualmente il focus viene mantenuto sulla misurazione della soddisfazione degli stakeholder, ovvero tutto il contrario di come dovrebbe essere. Gli investimenti sulla catena del valore e sul contesto competitivo in ambito CSR dovrebbero essere incorporati nelle misurazioni della performance operate dai manager che hanno la responsabilità dei conti economici. Il valore condiviso non può essere creato in assenza di un processo condiviso, obiettivi condivisi e misurazioni condivise. I manager operativi devono interessarsi al mondo del contesto competitivo, caratterizzato da legami esterno-interno, e chi ha la responsabilità delle iniziative legate alla CSR deve avere una consapevolezza articolata di ogni attività che rientra nella catena del valore. Queste trasformazioni non richiedono solo un cambiamento a livello di job description; richiedono il superamento di una serie di pregiudizi fortemente consolidati. Molti manager operativi hanno sviluppato una mentalità profondamente radicata, basata sulla contrapposizione tra «noi e loro», che rappresenta una risposta di stampo difensivo al dibattito su ogni questione sociale, proprio come molte ONG vedono di cattivo occhio il tentativo di creare un valore sociale in vista di un profitto. Sono atteggiamenti che devono cambiare se le imprese vogliono far leva sulla dimensione sociale della strategia aziendale. Fare strategia equivale sempre a fare delle scelte e la Corporate Social Responsibility non fa eccezione. Equivale a scegliere su quali cause sociali concentrarsi. Le pressioni a cui le imprese sono sottoposte in vista della performance di breve termine escludono la possibilità di attuare investimenti indiscriminati per creare un valore sociale. Suggeriscono, piuttosto, che la creazione di un valore condiviso debba essere considerata come la ricerca e sviluppo, ovvero un investimento di lungo termine sulla competitività futura dell’impresa. I miliardi di dollari che le imprese stanno spendendo per la CSR e la filantropia d’impresa arrecherebbero molti più benefici sia al business, sia alla società se fossero investiti costantemente in base ai principi che abbiamo delineato. Mentre la CSR reattiva dipende dalla pratica di una buona corporate citizenship e dalla capacità di prevedere e mitigare qualunque danno inferto dal business alla società, la CSR strategica è molto più selettiva. Le imprese sono invitate a occuparsi di centinaia di cause sociali, ma solo alcune di esse rappresentano un’opportunità per avere un impatto realmente significativo sulla società o per conseguire un vantaggio competitivo. Le organizzazioni che fanno le scelte giuste e attivano delle iniziative sociali ben definite, proattive e integrate in linea con le proprie strategie fondamentali si discosteranno sempre più da tutte le altre. Lo scopo etico del business Le imprese hanno un’influenza profonda e positiva sulla società attraverso gli investimenti che effettuano e la loro attività quotidiana. La cosa più importante che una grande impresa può fare per la società, e per qualunque comunità, è contribuire allo sviluppo di un’economia prospera. Molti Paesi in via di sviluppo hanno falsato le regole e hanno incentivato il business nei modi sbagliati. Di conseguenza, non ricevono abbastanza input di qualità da parte del business e non hanno una base adeguata di fornitori locali capaci. Questi punti di debolezza condannano questi Paesi alla povertà, costringendoli a offrire salari bassi o a svendere le proprie risorse naturali. Le aziende hanno il know-how e le risorse necessarie per cambiare questo stato di cose. Tutto questo non può giustificare le imprese che Gennaio/Febbraio 2007 17 STRATEGIA E SOCIETÀ inseguono i profitti di breve termine in maniera truffaldina o eludono le conseguenze sociali e ambientali delle proprie azioni. La CSR, però, non dovrebbe occuparsi solo degli errori che le imprese hanno commesso finora, anche se questo resta importante. Né dovrebbe significare solo offrire dei contributi filantropici agli enti benefici locali, dare una mano in occasione di una calamità o prestare soccorso ai più bisognosi, per quanto i contributi di questo tipo siano meritevoli. Ogni sforzo fatto per individuare un valore condiviso nelle pratiche operative e nella dimensione sociale del contesto competitivo possiede il potenziale non solo per promuovere lo sviluppo economico e sociale, ma anche per cambiare la visione che le imprese hanno della società, e viceversa. Le ONG, i governi e le imprese devono smettere di pensare in termini di «responsabilità sociale d’impresa» e iniziare a pensare in termini di «integrazione sociale dell’impresa». Percepire la responsabilità sociale come un modo per costruire dei valori condivisi anziché come una politica di controllo dei danni o una campagna di PR richiede alle imprese una visione radicalmente diversa. Noi siamo convinti, tuttavia, che la CSR assumerà un ruolo sempre più importante per il successo competitivo. Le aziende non hanno la responsabilità di tutti i problemi del mondo, né le risorse necessarie per risolverli tutti. Ogni impresa può identificare il set specifico di problemi sociali rispetto ai quali è in grado di dare il contributo più risolutivo, e dai quali può trarre il maggior vantaggio competitivo. La risoluzione dei problemi sociali tramite la creazione di un valore condiviso produrrà soluzioni autofinanziate che non dipenderanno dalle sovvenzioni private o pubbliche. Quando un’impresa ben gestita mette in opera le ingenti risorse, l’expertise e le conoscenze di cui è dotata al fine di risolvere i problemi che capisce a fondo e nei confronti dei quali nutre degli interessi, finirà per avere un impatto duraturo sulla vita delle persone e, forse, per incidere sul bene sociale più di qualunque altra istituzione od organizzazione filantropica. < 1 - Una discussione pionieristica dell’idea di CSR come opportunità anziché come costo può essere ritrovata in David Grayson and Adrian Hodges, Corporate Social Opportunity (Greenleaf, 2004). 18 2 - Per una trattazione più completa dell’importanza del contesto competitivo e del modello del diamante, vedi Michael E. Porter e Mark R. Kramer, «The Competitive Advantage of Corporate Philanthropy», HBR, dicembre 2002. Vedi anche il volume di Michael Porter The Competitive Advantage of Nations (The Free Press, 1990) e il suo articolo «Locations, Clusters, and Company Strategy», apparso sull’Oxford Handbook of Economic Geography, a cura di Gordon L. Clark, Maryann P. Feldman e Meric S. Gertler (Oxford University Press, 2000). Ristampa n. 06057