Mazzoleni 22_11_16 Strategiaesocieta

I DE E › STRATEG I E › I N NOVAZ ION E
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gennaio/febbraio 2007 n.1/2
ITALIA
Strategia e società
Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo
e la Corporate Social Responsibility
Una nuova visione del rapporto
tra il business e la società basato
sull’idea innovativa della
«integrazione sociale dell’impresa».
di Michael E. Porter e Mark R. Kramer
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
Strategia e società
Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo
e la Corporate Social Responsibility
Una nuova visione del rapporto
tra il business e la società basato
sull’idea innovativa della
«integrazione sociale dell’impresa».
di Michael E. Porter e Mark R. Kramer
© Harvard Business Review
I
governi, gli attivisti e i media sono diventati abilissimi nell’attribuire alle imprese la responsabilità delle
conseguenze sociali delle loro attività. Esiste una
pletora di organizzazioni che classificano le imprese in
base alla loro performance nella Corporate Social
Responsibility (CSR) e, pur basandosi su metodologie
a volte discutibili, queste classifiche fanno molto parlare di sé. Di conseguenza, la CSR è diventata una priorità ineludibile per i leader aziendali di tutto il mondo.
Sono molte le imprese che hanno già fatto molto per
migliorare l’impatto sociale e ambientale delle proprie
attività, eppure tali iniziative sono state molto meno
produttive di quanto non avrebbero potuto essere. I
motivi sono due. In primo luogo, contrappongono il
business alla società mentre sono, chiaramente, realtà
interdipendenti. In secondo luogo, spingono le imprese a fermarsi a una visione generica della CSR, invece
di adottare la visione che meglio si adatta alla loro specifica strategia.
Il fatto è che gli approcci alla CSR oggi prevalenti
sono talmente frammentati e lontani dal business e
dalla strategia che finiscono per celare agli occhi delle
imprese molte delle opportunità più rilevanti che
potrebbero cogliere per giovare alla società. Se invece
le imprese analizzassero le opportunità che hanno a
disposizione nell’ambito della responsabilità sociale,
basandosi sugli stessi schemi che governano le scelte
legate al loro core business, scoprirebbero che la CSR
può essere molto più di un costo, di una costrizione o
di un gesto caritatevole; può essere una fonte di
opportunità, di innovazione e di vantaggio competitivo.
In questo articolo proponiamo una nuova visione del
rapporto tra il business e la società, una visione che non
considera il successo delle aziende e il bene sociale come
un gioco a somma zero. Introduciamo un modello che le
imprese possono utilizzare per identificare tutti gli effetti, positivi e negativi, che hanno sulla società, determinare quelli che meritano un loro intervento e individuare
un modo efficace per intervenire. Vista da una prospettiva strategica, la Corporate Social Responsibility può
diventare la fonte di un fortissimo progresso sociale, a
mano a mano che il business applicherà le notevoli risorse, expertise e conoscenze che ha a disposizione ad attività che arrechino un beneficio alla società.
L’affermazione della Corporate
Social Responsibility
La crescente attenzione che le imprese dedicano alla
CSR non riflette una scelta del tutto volontaria. Molte
di esse ne hanno preso atto solo dopo essere state colte
di sorpresa dalle reazioni dell’opinione pubblica a queGennaio/Febbraio 2007
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STRATEGIA E SOCIETÀ
stioni che mai in precedenza avevano immaginato rientrare nelle loro responsabilità. Nike, ad esempio, subì
un boicottaggio da parte di molti consumatori dopo
che, nei primi anni Novanta, il «New York Times» e
altri media avevano denunciato gli abusi inferti ai lavoratori da alcuni dei suoi fornitori indonesiani. Nel 1995
la decisione da parte di Shell Oil di affondare nel Mare
del Nord la Brent Spar, una piattaforma petrolifera
obsoleta, sollevò le proteste di Greenpeace e fece notizia in tutto il mondo. Le aziende farmaceutiche si sono
rese conto che l’opinione pubblica si aspettava che
contribuissero alla lotta contro la pandemia di AIDS in
Africa, sebbene fosse ben lontana dai loro mercati e
dalle linee di prodotto principali. Oggi la responsabilità dell’obesità e della cattiva alimentazione viene
imputata alle imprese che operano nel settore dei fast
food e dei cibi confezionati.
Le organizzazioni di attivisti di ogni genere, a
destra come a sinistra, fanno pesare con maggiore
aggressività ed efficacia la pressione dell’opinione
pubblica sulle grandi imprese. Può essere che gli attivisti prendano di mira le imprese più visibili o affermate solo per attirare l’attenzione su un determinato
tema, anche se in realtà le aziende in questione hanno
avuto un impatto limitato su quel problema. Ad esem-
Michael E. Porter
è Bishop William Lawrence
University Professor presso
la Harvard University; insegna
presso la Harvard Business
School di Boston. Collabora
di frequente con HBR e il suo
articolo più recente è
«Seven Surprises for New
CEOs» (ottobre 2004).
Mark R. Kramer
([email protected])
è CEO di FSG Social Impact
Advisors, una società di
consulenza internazionale no
profit, e senior fellow della CSR
Initiative presso la Harvard’s
John F. Kennedy School of
Government di Cambridge,
nel Massachusetts. Insieme,
Porter e Kramer hanno fondato
sia FSG Social Impact Advisors
sia il Center for Effective
Philanthropy, un’organizzazione
no profit dedita alla ricerca.
2
pio, la Nestlé, il maggior fornitore mondiale di acqua
in bottiglia, è stata messa sul banco degli imputati nel
dibattito globale sull’accesso all’acqua potabile, malgrado l’acqua in bottiglia che vende corrisponda appena allo 0,0008% della riserva mondiale. L’inefficienza dell’irrigazione agricola, che utilizza ogni anno
il 70% di questa riserva, costituisce un problema molto
più pressante, ma non offre l’opportunità di mirare a
un bersaglio facile come una grande multinazionale.
Il dibattito relativo alla CSR è arrivato fino ai Consigli
di Amministrazione delle aziende. Nel 2005, sono state
presentate 350 diverse risoluzioni di Consiglio su temi
legati alla CSR, dalle condizioni lavorative all’effetto
serra. Le regolamentazioni nazionali obbligano le
imprese a documentare sempre più approfonditamente
le iniziative intraprese nell’ambito della responsabilità
sociale. Le leggi vigenti nel Regno Unito, ad esempio,
richiederebbero a qualunque impresa quotata in Borsa
di annunciare pubblicamente nel proprio report annuale i rischi etici, sociali e ambientali connessi alla propria
attività. Tutte queste pressioni mostrano chiaramente
fino a che punto gli stakeholder esterni alle imprese
stiano cercando di attribuire loro delle responsabilità
sui problemi sociali, ed evidenziano i rischi finanziari,
potenzialmente importanti, in cui incorre qualunque
impresa che attui una condotta inaccettabile agli occhi
dell’opinione pubblica.
Pur avendo preso atto di tali rischi, le imprese vedono con molta meno chiarezza il comportamento più
opportuno da adottare al riguardo. In effetti la risposta
più comune che hanno dato non ha avuto un carattere
strategico né operativo, ma essenzialmente cosmetico:
ci riferiamo a una serie di campagne effettuate tramite le PR e i media, spesso incentrate su eleganti
Rapporti CSR che mettono in mostra le buone azioni
realizzate dall’impresa di turno a livello sociale e
ambientale. Delle 250 multinazionali più grandi del
mondo, il 64% ha pubblicato nel 2005 un Rapporto
CSR all’interno del proprio Rapporto annuale oppure, nella maggior parte dei casi, in un report separato
dedicato alla sostenibilità, un approccio che sta alimentando lo sviluppo di una nuova schiera di autori di
questo tipo di rapporti.
Tali report offrono raramente un inquadramento
coerente delle attività intraprese in ambito CSR, tanto
meno un inquadramento strategico. Di solito si limitano ad accumulare aneddoti vari su una serie di iniziative scoordinate, con l’obiettivo di dimostrare la sensibilità sociale dell’impresa in questione. Spesso le infor-
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
mazioni che vengono omesse da queste pubblicazioni
risultano altrettanto rivelatrici di quelle che vengono
inserite. Può capitare, ad esempio, che la riduzione
degli agenti inquinanti, dei rifiuti o delle emissioni di
carbonio sia documentata per alcune divisioni o zone
specifiche, ma non per l’azienda nel suo complesso. Le
iniziative filantropiche sono di norma descritte in termini di denaro speso o di ore di volontariato, quasi mai
invece in termini di impatto. È ancora più raro che le
imprese si prendano l’impegno di raggiungere in futuro degli obiettivi di performance dichiarati.
Tale proliferazione di rapporti CSR è stata affiancata, in parallelo, dall’aumento dei rating e delle classifiche relativi alla CSR. Sebbene la formulazione di
rating rigorosi e affidabili possa influenzare positivamente il comportamento delle imprese, la cacofonia
che regna attualmente fra coloro che si sono attribuiti
la qualifica di giudici più che altro aggrava la confusione (si veda il riquadro «Il gioco ambiguo dei rating»).
Nel tentativo di farsi strada in tutta questa confusione, i leader aziendali hanno chiesto consiglio a un
numero crescente di organizzazioni no profit, società
di consulenza ed esperti accademici sempre più sofisticati. È comparsa una folta letteratura sulla CSR, benché spesso le indicazioni operative che offre ai leader
d’impresa non siano molto chiare. Un esame delle
principali scuole di pensiero relative alla CSR rappresenta un punto di partenza essenziale per capire per
quale motivo sia necessario adottare un nuovo approccio al fine di incorporare più efficacemente le considerazioni di natura sociale nelle attività operative più
importanti e nella strategia.
Le quattro argomentazioni
prevalenti a sostegno della CSR
A livello generale, finora, i propugnatori della CSR
hanno impiegato quattro argomenti a sostegno della
loro tesi: l’obbligo morale, la sostenibilità, la licenza a
operare e la reputazione. Il richiamo alla moralità –
ovvero l’argomento secondo cui le imprese hanno il
dovere di essere dei buoni cittadini e di «fare le cose
giuste» – emerge con evidenza dalla carta che definisce
la mission di Business for Social Responsibility, la principale associazione statunitense di imprese no profit
che operano nell’ambito della CSR. Essa chiede ai suoi
membri di «raggiungere il successo economico comportandosi in modo da tener fede ai valori etici e
rispettare gli individui, le comunità e l’ambiente». La
IL GIOCO AMBIGUO DEI RATING
>> Misurare e pubblicizzare la performance sociale è un
mezzo potenzialmente efficace per influenzare il comportamento delle imprese, sempre che i rating vengano misurati in modo coerente e che riflettano accuratamente
l’impatto sociale delle aziende. Sfortunatamente, nessuna
delle due condizioni viene soddisfatta nell’attuale profusione di checklist sulla CSR.
I criteri utilizzati nelle classifiche variano ampiamente. Il
Dow Jones Sustainability Index, ad esempio, considera
alcuni aspetti della performance economica ai fini delle
sue valutazioni. Conferisce al servizio al cliente un peso
che supera quasi del 50% quello della corporare citizenship. Per contrasto il FTSE4Good Index, altrettanto
importante, non prevede alcun indicatore né della performance economica né del servizio al cliente. Anche
quando i criteri sembrano essere gli stessi, il peso che
viene loro attribuito è invariabilmente diverso ai fini del
punteggio finale.
Al di là della scelta dei pesi e delle misure c’è una questione ancora più spinosa, ovvero come valutare se i criteri siano stati soddisfatti. La maggioranza dei media, delle organizzazioni no profit e delle società di consulenza
che operano nell’ambito degli investimenti ha troppe poche risorse a disposizione per valutare l’universo delle
complicate attività svolte dalle imprese a livello globale. Di
conseguenza c’è la tendenza a impiegare indicatori basati su dati facilmente disponibili e a buon mercato, malgrado tali indicatori non siano misure affidabili degli effetti
sociali o ambientali che vorrebbero rispecchiare. Il Dow
Jones Sustainability Index, ad esempio, utilizza il numero
dei membri del Consiglio di Amministrazione di un’impresa come indicatore del suo coinvolgimento nella comunità, anche i due indicatori possono essere privi di qualunque correlazione.1
Infine, anche se gli indicatori prescelti riflettono accuratamente l’impatto sociale, i dati sono spesso inaffidabili. La
maggioranza dei rating si basa su indagini caratterizzate
da un tasso di risposta insufficiente a fini statistici, nonché
su dati interni riportati direttamente dalle imprese e non
sottoposti ad alcuna verifica esterna. Le imprese che hanno più cose da nascondere sono quelle che hanno meno
probabilità di rispondere. Il risultato è un’accozzaglia di rating perlopiù senza significato, con la conseguenza che
praticamente ogni impresa può vantarsi di soddisfare
qualche indicatore di responsabilità sociale. Il che è, in effetti, proprio ciò che fa la maggior parte di esse. <
1. Per una trattazione più completa del problema dei rating relativi
alla CSR, vedere Aaron Chatterji e David Levine, Breaking Down
the Wall of Codes: Evaluating Nonfinancial Performance Measurement, («California Management Review»), Inverno 2006.
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STRATEGIA E SOCIETÀ
sostenibilità pone l’enfasi sulla tutela dell’ambiente e
della comunità. Una definizione eccellente è quella
offerta negli anni Ottanta dal primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland e adottata dal World
Business Council for Sustainable Development:
«Garantire i bisogni attuali senza compromettere la
possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri». Il concetto di «licenza a operare» deriva dal fatto che qualunque impresa deve ottenere un
permesso tacito o esplicito dal governo, dalla comunità locale e da diversi altri stakeholder per fare affari.
Infine, molte imprese fanno leva sulla reputazione per
giustificare le iniziative legate alla CSR, sostenendo
che esse miglioreranno la loro immagine, rafforzeranno il brand, solleveranno il morale e faranno addirittura lievitare i loro titoli azionari. Queste giustificazioni
hanno rappresentato un passo avanti nel pensiero sulla
CSR, ma nessuna offre indicazioni sufficienti in vista
delle difficili scelte che i leader aziendali sono costretti a effettuare. Prendiamo in considerazione i limiti
operativi di ciascuno di questi approcci.
Il campo della CSR resta a tutt’oggi fortemente permeato da un imperativo morale. In alcuni casi, come
l’onestà nell’elaborazione di rendiconti finanziari e la
scelta di operare nella legalità, le considerazioni morali connesse sono facili da comprendere e da applicare.
Gli obblighi morali, tuttavia, costituiscono per natura
degli imperativi assoluti, mentre la maggior parte delle
scelte sociali delle imprese implica la ricerca di un
equilibrio tra valori, interessi e costi contrastanti. Il
recente ingresso di Google in Cina, ad esempio, ha sollevato un conflitto irrisolvibile fra l’avversione per la
censura dei suoi clienti statunitensi e i vincoli legali
imposti dal governo cinese. Il calcolo morale che bisogna effettuare per confrontare un beneficio sociale con
un altro, o valutarlo in base ai costi finanziari che comporta, non è ancora stato formalizzato. I principi morali non suggeriscono a un’azienda farmaceutica in quale
proporzione debba destinare i propri ricavi allo scopo
di sovvenzionare le cure per malati indigenti, allo sviluppo di nuove terapie per il futuro e alla distribuzione
dei dividendi agli investitori.
Ora servono appropriati indicatori
di performance sociale
di Umberto Bertelè / Presidente MIP School of Management, Politecnico di Milano
>> La responsabilità sociale non è più un optional. È il
punto di partenza di questo ambizioso articolo di Porter e Kramer. La convenienza dell’impresa a «sfuggire»
ai propri doveri – tipicamente in tema di attenzione ai
diritti degli stakeholder e di rispetto dell’ambiente fisico e dei territori – si scontra con l’aumento della probabilità di essere «colta in fallo» e con la crescente rilevanza delle possibili sanzioni: detenzioni anche
lunghe nei casi (come quello Enron) in cui sia la legge
ad essere infranta, contrazioni anche violente nelle
vendite e nelle quotazioni a fronte di cali di immagine.
La scarsa attenzione verso la responsabilità sociale, in
altre parole, può minare molto più che nel passato la
sostenibilità economico-finanziaria dell’impresa.
Privilegiare le azioni che creano valore condiviso
per l’impresa e la società. L’impresa non deve avere
però, come troppo spesso ha attualmente, un approc-
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cio cosmetico alla responsabilità sociale. Non deve
comportarsi come una istituzione filantropica, disperdendo i suoi interventi in azioni di generico interesse
per la società. Non deve affidare le politiche CSR a
persone diverse da quelle che gestiscono i core business. Essa deve invece – ed è la tesi fondamentale dell’articolo – integrare le politiche CSR nella sua strategia complessiva, privilegiando quelle azioni che
producono benefici strutturali allo stesso tempo per se
stessa e per la società.
Un indirizzo di fondo che, riecheggiando Adam Smith,
vede come situazione ideale per la società e per l’impresa quella in cui ciascuno gioca bene la propria parte: la società generando segnali chiari e coerenti sul
suo sistema di valori, l’impresa perseguendo i suoi
obiettivi di profittabilità e crescita in linea con i valori
sociali e consolidando, di conseguenza, la sua sosteni-
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
Il principio della sostenibilità fa leva sugli interessi
dei più illuminati, spesso invocando la cosiddetta tripla
bottom line della performance economica, sociale e
ambientale: le imprese, cioè, dovrebbero operare in
modo da garantirsi una performance economica di
lungo termine evitando quei comportamenti di breve
termine che arrecherebbero danni alla società o
all’ambiente. Tale principio è valido soprattutto per le
questioni che coincidono con gli interessi economici o
legali dell’impresa. DuPont, ad esempio, ha risparmiato
dal 1990 a oggi oltre 2 miliardi di dollari grazie alla riduzione dei consumi energetici. Il cambiamento dei materiali usati da McDonald’s per confezionare il cibo ha portato a una diminuzione dei suoi rifiuti solidi pari al 30
percento. Sono state delle decisioni di business intelligenti, al di là dei benefici arrecati all’ambiente. In altre
aree, invece, il concetto di sostenibilità può diventare talmente vago da perdere qualunque senso. Si può affermare che la trasparenza sia più «sostenibile» della corruzione. Che condizioni lavorative soddisfacenti siano più
«sostenibili» dei tuguri dove molti sono costretti a lavo-
bilità nel tempo. Un indirizzo di fondo che ritiene eccessiva l’attenzione usualmente posta sui trade-off fra
interessi della società e dell’impresa, e che punta invece a uscire dalla logica del «gioco a somma zero» attraverso lo sfruttamento intelligente delle interrelazioni
fra la società e l’impresa stesse.
Focalizzarsi sui punti di interrelazione. Le attività e i
processi dell’impresa hanno un impatto inside-out più o
meno rilevante, nel bene e nel male, sul contesto socioambientale-territoriale esterno. E il contesto esterno –
con le sue disponibilità locali di risorse umane e naturali, la sua infrastrutturazione, i suoi vincoli e incentivi,
le altre sue peculiarità – ha a sua volta un impatto outside-in più o meno rilevante sull’impresa: condizionandone la competitività e le strategie di lungo termine.
La tesi di Porter è che proprio su questi punti di interrelazione l’impresa deve focalizzarsi, costruendosi una
agenda sociale che non si preoccupi solamente di accontentare genericamente gli stakeholder, ma che – al
di là dei doveri minimi – sia selettiva nella scelta delle
iniziative. Una agenda che, in particolare, privilegi le
scelte che offrono opportunità dirette in tema di competitività o che appaiono come sorgenti di idee innovative, potenzialmente trasformabili in differenziali com-
rare. Che la filantropia contribuisca alla «sostenibilità»
della società. Benché veritiere, queste affermazioni non
offrono una base adeguata per valutare gli obiettivi di
lungo periodo o metterli in ordine di priorità in base ai
costi che comportano. La scuola di pensiero che si richiama alla sostenibilità solleva una serie di domande riguardo a questi trade-off, senza offrire un quadro di riferimento in base a cui darvi risposta.
L’approccio basato sulla licenza a operare è, per contro, molto più pragmatico. Offre all’impresa un modo
concreto per identificare le questioni sociali cui i suoi
stakeholder danno più importanza e prendere delle
decisioni al riguardo. Inoltre promuove il dialogo
costruttivo con i legislatori, con la cittadinanza locale e
con gli attivisti. Il che forse rappresenta uno dei motivi
per cui tale approccio prevale soprattutto fra le imprese che fanno affidamento sul consenso del Governo
(come quelle dell’industria mineraria e di altre industrie estrattive ad alto tasso di regolamentazione), e fra
le imprese che si basano sulla tolleranza dei loro vicini
(come quelle che effettuano attività nocive o rischiose
petitivi (ad esempio inducendo il regolatore pubblico
ad adottare come standard l’innovazione in tema di
ambiente, sviluppata nell’ambito dell’impresa stessa).
Una agenda che risponda al principio di trasformare la
«responsabilità sociale» in «opportunità sociale».
La CSR come parte integrante della strategia. Le
esigenze sociali da soddisfare devono diventare parte
integrante della value proposition dell’impresa. Le scelte
in tema di CSR devono essere assunte congiuntamente
a quelle in tema di business, e agli stessi livelli decisionali. Più in generale è tutta l’organizzazione che deve
adeguarsi – nei processi, negli obiettivi, nelle misure di
prestazioni – se si vuole che l’integrazione fra obiettivi
economici e sociali non resti sulla carta.
Un approccio destinato al successo? Ritengo di sì,
soprattutto per la capacità che esso ha di inquadrare
in una logica unitaria concetti spesso presentati in
modo frammentario. Con un disincentivo però, rappresentato – come Porter stesso evidenzia – dalla disomogeneità degli indicatori utilizzati per il «rating sociale»: in assenza di indicatori coerenti e condivisi,
che orientino i comportamenti delle imprese, è probabile che l’approccio cosmetico continui a fare la
parte del leone. <
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STRATEGIA E SOCIETÀ
per l’ambiente, ad esempio nel settore chimico).
Cercando di soddisfare gli stakeholder, tuttavia, l’impresa cede ad attori esterni il controllo principale delle
iniziative che intraprende in ambito CSR. I punti di
vista degli stakeholder ovviamente sono importanti,
ma questi gruppi di persone non sono mai in grado di
capire pienamente le caratteristiche dell’azienda, il suo
posizionamento competitivo o le scelte che deve effettuare. Non si può neppure affermare che la veemenza
di un gruppo di stakeholder denoti necessariamente
l’importanza di una data questione – né per l’impresa, né per il mondo intero. Le aziende che considerano la CSR un modo per placare i gruppi di pressione
spesso vedono il loro approccio ridursi a una serie di
reazioni difensive di breve termine: un palliativo fondato sull’esercizio permanente delle PR, con la crea-
raggiunti sul piano sociale e su quello del business.
Alcune imprese – come Ben & Jerry’s, Newman’s
Own, Patagonia e The Body Shop – si sono distinte
grazie a un fortissimo impegno di lungo termine nella
responsabilità sociale. Anche per queste imprese, tuttavia, l’impatto effettivo sulla società, e ancor più i
benefici sul piano del business, sono difficili da determinare. Gli studi relativi all’effetto della reputazione
sociale di un’impresa sulle preferenze di acquisto dei
consumatori o sulla performance nei mercati azionari non hanno dato conclusioni chiare, per usare un
eufemismo. Come per la visione della CSR in qualità
di polizza assicurativa, il rapporto fra le buone azioni
e gli atteggiamenti dei consumatori è talmente indiretto che risulta impossibile da misurare. Il fatto che
non vi sia alcun modo per quantificare i benefici arre-
Gli approcci alla CSR oggi prevalenti
sono talmente frammentati e sconnessi
dal business che finiscono per celare
agli occhi delle imprese molte delle
opportunità più rilevanti che potrebbero
cogliere per giovare alla società.
zione di un valore assai limitato per la società e senza
alcun beneficio strategico per il business.
Infine, l’approccio basato sulla reputazione persegue quel beneficio strategico, ma raramente lo trova.
Le considerazioni relative alla reputazione, come
alla licenza a operare, si concentrano sull’obiettivo di
soddisfare il pubblico esterno. Nelle imprese orientate al consumatore, ciò conduce spesso all’attuazione di campagne marketing di alto profilo legate a una
buona causa. Nei settori più esposti, come quello chimico e quello energetico, può succedere invece che
le imprese intraprendano una serie di iniziative legate alla Social Responsibility come se rappresentassero una forma di polizza assicurativa, nella speranza che la loro reputazione di attori socialmente
consapevoli possa mitigare le critiche dell’opinione
pubblica in caso di crisi. Ancora una volta, questa
visione rischia di confondere le PR con i risultati
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cati da tali investimenti fa sì che le iniziative legate
alla CSR poggino su fondamenta instabili e che rischino costantemente di essere affossate a causa di un avvicendamento al vertice o di un mutamento nel ciclo di
business.
Tutte e quattro le scuole di pensiero hanno lo stesso
punto debole: pongono l’accento sulla tensione fra il
business e la società, invece che sulla loro interdipendenza. Ciascuna di esse pone un fondamento teorico
generico che non ha alcuna relazione con la strategia e
le attività di un’impresa specifica, né con i diversi luoghi in cui opera. Di conseguenza, nessuna può aiutare
efficacemente le imprese a identificare, mettere in
ordine di priorità e affrontare le questioni sociali più
rilevanti o quelle su cui possono avere il massimo
impatto. Spesso il risultato è un’accozzaglia di attività
scoordinate in ambito CSR o filantropico che risultano
del tutto scollegate dalla strategia aziendale, non
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
hanno alcun impatto significativo sulla società, né rafforzano la competitività di lungo termine dell’impresa.
Internamente, le attività e le iniziative legate alla CSR
spesso rimangono isolate dalle unità operative, e persino separate da quelle filantropiche. Esternamente,
l’impatto sociale dell’impresa si disperde in una sequela di iniziative scollegate, ciascuna delle quali risponde
alle pressioni esercitate da un diverso gruppo di stakeholder o da una lobby differente.
La conseguenza di tale frammentazione è la perdita
di una grandissima opportunità. Il potere di cui godono le imprese, ovvero quello di apportare beneficio
alla società, viene dissipato; e lo stesso accade al loro
potenziale di agire concretamente in modo da supportare sia le comunità a cui fanno riferimento, sia il raggiungimento dei propri obiettivi di business.
L’integrazione tra il business
e la società
Per far progredire la CSR, dobbiamo fare in modo che
poggi su una diffusa consapevolezza della relazione
che intercorre fra un’azienda e la società e allo stesso
tempo trovi un radicamento nelle strategie e nelle attività delle singole imprese. Affermare a livello generale
che il business e la società abbiano bisogno l’uno dell’altra potrebbe suonare come un luogo comune, ma è
anche la verità elementare che può far uscire le imprese dal pantano in cui sono state gettate dal loro attuale approccio alla Corporate Social Responsibility.
Le grandi imprese di successo hanno bisogno di una
società sana. L’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pari
opportunità sono essenziali per una forza lavoro produttiva. Le condizioni lavorative e la sicurezza dei prodotti non solo attraggono clienti, ma riducono i costi
interni dovuti agli incidenti. L’utilizzo efficiente di
suolo, acqua, energia e altre risorse naturali accresce la
produttività delle imprese. Il buongoverno, il principio
di legalità e i diritti di proprietà sono essenziali ai fini
dell’efficienza e dell’innovazione. Severi standard
legislativi proteggono dallo sfruttamento non solo i
consumatori, ma anche le aziende competitive. In definitiva, una società sana dà luogo a una domanda crescente di business, man mano che un maggior numero
di bisogni viene soddisfatto e che le aspirazioni crescono. Qualunque impresa persegua i propri fini a spese
della società in cui opera scoprirà che il successo di cui
gode è illusorio e, in fin dei conti, temporaneo.
Allo stesso tempo, una società sana ha bisogno di
imprese di successo. Nessuna iniziativa sociale può
eguagliare il settore del business quando si tratta di
creare i posti di lavoro, la ricchezza e l’innovazione che
migliorano progressivamente lo standard di vita. Se i
governi, le ONG e gli altri attori della società civile
riducono la capacità delle imprese di operare produttivamente, può essere che vincano qualche battaglia ma
finiranno per perdere la guerra, poiché la competitività delle imprese e di intere aree geografiche svanirà, i
salari ristagneranno, i posti di lavoro spariranno e la
ricchezza che alimenta le tasse e i contributi al settore
no profit evaporerà.
I leader che operano sia nel business, sia nella società civile finora si sono concentrati troppo sulla frizione
esistente fra i due e non abbastanza sui loro punti di
intersezione. La dipendenza reciproca che intercorre
fra le aziende e la società implica che le decisioni di
business e le politiche sociali debbano seguire entrambe il principio del valore condiviso. Ovvero, le scelte
fatte devono arrecare beneficio a entrambe le parti. Se
un’impresa o una società attuano delle politiche che
giovano a una parte a spese dell’altra, scopriranno di
essersi incamminate lungo un sentiero pericoloso.
L’utile temporaneo di cui gode quella parte compro1
metterà la prosperità di lungo termine di entrambe.
Per mettere in pratica questi principi generali, un’impresa deve integrare in base a una prospettiva sociale
gli schemi fondamentali che già impiega per analizzare
la concorrenza e governare la propria strategia di business. Solo impiegando gli stessi metodi analitici potrà
integrare la CSR nella propria strategia competitiva in
modo da arricchire entrambe.
Identificazione dei punti di intersezione. L’interdipendenza tra un’impresa e la società assume due forme. In primo luogo, un’impresa impatta sulla società
con le proprie attività nel normale andamento del business. Si tratta in questo caso di legami interno-esterno:
praticamente tutte le attività previste dalla catena del
valore di un’impresa toccano le comunità locali in cui
l’azienda opera, arrecando conseguenze sociali positive o negative. (Per un esempio di questo processo si
veda il riquadro «Dall’interno all’esterno: la mappatura dell’impatto sociale della catena del valore».)
Sebbene le imprese siano sempre più consapevoli dell’impatto sociale delle loro attività di tutti i giorni
(come le pratiche di assunzione, le emissioni e lo smaltimento dei rifiuti), tali impatti sono più sottili e mutevoli di quanto molti manager non percepiscano. Tanto
per cominciare, dipendono dall’ubicazione. La stessa
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STRATEGIA E SOCIETÀ
attività manifatturiera avrà delle conseguenze sociali
molto diverse in Cina e negli Stati Uniti.
Inoltre, l’impatto di un’impresa sulla società cambia
nel tempo, man mano che gli standard sociali si evolvono e la scienza progredisce. L’amianto, oggi considerato
assai rischioso per la salute, era ritenuto sicuro nei
primi del Novecento, sulla base delle prove scientifiche
disponibili all’epoca. Le prove dei gravi rischi che comporta per la salute si sono accumulate gradualmente
per oltre cinquant’anni prima che qualunque impresa
sia stata chiamata a rispondere dei danni che questo
materiale può causare. Molte delle aziende che non
hanno saputo prevedere le conseguenze future di questo
filone di ricerche sono finite in bancarotta a causa dei
risultati che ne sono emersi. Le imprese non possono
più accontentarsi di monitorare unicamente gli impatti
sociali evidenti che esercitano sul presente. La loro stessa sopravvivenza può essere a rischio se non si dotano di
un processo accurato di identificazione dei loro effetti
sociali, in corso o in via di evoluzione, sul futuro.
Non è solo l’attività delle imprese a interessare la
società, tuttavia, ma sono anche le condizioni sociali
esterne a influenzare le aziende, nel bene e nel male.
Questi legami esterno-interno possono minare notevolmente la capacità di un’azienda di attuare la propria
strategia, specie nel lungo periodo. Questa seconda
forma di interdipendenza, che chiamiamo contesto
competitivo, riscuote molte meno attenzioni, ma è probabile che abbia un’importanza strategica assai maggiore sia per le imprese, sia per la società. Garantire il
buono stato di salute del contesto competitivo apporta
benefici tanto all’impresa quanto alla comunità.
LE PRIORITÀ NELLE QUESTIONI
SOCIALI
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Questioni
sociali
generiche
Impatti sociali
della catena
del valore
Dimensioni
sociali del contesto
competitivo
Problemi sociali
che non sono
significativamente
influenzati dalle
attività aziendali
e che non incidono
direttamente sulla
competitività di
lungo termine.
Problemi sociali
che sono
influenzati in modo
significativo dalle
attività ordinarie
dell’azienda.
Problemi sociali
presenti nell’ambiente esterno che
influiscono
significativamente
sui driver
fondamentali
della competitività
dell’azienda là
dove essa opera.
Il contesto competitivo può essere diviso in quattro
grandi aree. Una di esse include la quantità e la qualità degli input che le aziende hanno a disposizione: le
risorse umane e naturali, ad esempio, o l’infrastruttura
dei trasporti. Il contesto comprende inoltre le regole e
gli incentivi che governano la concorrenza, come le
norme che proteggono la proprietà intellettuale,
garantiscono la trasparenza, salvaguardano dalla corruzione e incoraggiano gli investimenti. Un terzo
aspetto è rappresentato dalla domanda locale – ovvero
le sue dimensioni e il suo grado di sofisticatezza – unitamente agli standard relativi alla qualità e la sicurezza
dei prodotti, i diritti dei consumatori e l’imparzialità
degli appalti governativi. L’ultima area è legata alla disponibilità locale dei settori di supporto, come i produttori di macchinari e i fornitori di servizi.2
Presi singolarmente o nel loro complesso, questi
aspetti del contesto possono rappresentare delle
opportunità per l’attuazione di iniziative legate alla
CSR (vedi l’inserto «Dall’esterno all’interno: l’influenza del contesto sociale sulla competitività»). La capacità di reclutare le risorse umane più appropriate dipende, ad esempio, da una serie di fattori che in genere
non si considerano legati al business ma che le imprese possono influenzare, come il sistema educativo e
formativo locale, la disponibilità di alloggi, l’assenza di
discriminazioni (che limitano il bacino dei lavoratori) e
l’adeguatezza dell’infrastruttura sanitaria pubblica.
Scelta delle questioni sociali di cui occuparsi. Nessuna
impresa è in grado di risolvere tutti i problemi della
società, né di sostenere i costi necessari per farlo.
Piuttosto, ciascuna deve selezionare i temi che si
intersecano con la propria area di business specifica.
È meglio lasciare gli altri temi sociali alle imprese che
operano in settori diversi, alle ONG o alle istituzioni
governative che si trovano in una posizione migliore
per affrontarle. Il banco di prova essenziale che dovrebbe determinare l’indirizzo della CSR non è il
fatto che una causa sia meritevole, ma che offra l’opportunità di creare un valore condiviso, ovvero un
beneficio rilevante per la società, che rivesta un valore anche per l’impresa.
Il nostro modello suggerisce che l’impresa debba
dividere i temi sociali in tre categorie per effettuare
una distinzione fra le molte cause meritevoli e il sottoinsieme più ristretto delle cause che sono allo stesso
tempo importanti e strategiche per l’impresa:
- le questioni sociali generiche, che possono essere
importanti per la società ma non sono influenzate in
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
misura significativa dalle attività dell’azienda, né influenzano la sua competitività di lungo termine;
- gli impatti sociali della catena del valore, che sono
influenzati in misura significativa dalle attività svolte
dall’impresa nel normale andamento del business;
- le dimensioni sociali del contesto competitivo, che equivalgono ai fattori dell’ambiente esterno che incidono
sui driver fondamentali della competitività nei luoghi
in cui l’impresa opera (vedi il riquadro «Le priorità
nelle questioni sociali»).
Ogni impresa deve dividere le questioni sociali in
queste tre categorie per ciascuna delle proprie unità di
business e delle aree principali in cui opera, e classificarle in base al loro impatto potenziale. La categoria in
assunzioni o il risparmio energetico, che riguardano la
maggioranza delle imprese possono avere un’importanza maggiore per alcuni settori che per altri. I contributi sanitari, ad esempio, sollevano meno problemi
nell’ambito dello sviluppo software o della biotecnologia, dove tendenzialmente la forza lavoro è limitata e
ben retribuita, che in un campo come il retail, che
dipende pesantemente da un alto numero di lavoratori poco retribuiti.
All’interno di un settore, una data questione sociale
può intersecarsi in modo diverso con le diverse imprese, in base al loro diverso posizionamento competitivo
e alle diverse attività che rientrano, conseguentemente, nella loro catena del valore. Nel settore automobi-
La veemenza di un gruppo di
stakeholder non denota necessariamente
l’importanza di una data questione
né per l’impresa, né per il mondo intero.
cui ricade una data questione varierà a seconda delle
diverse unità di business, le diverse imprese, i diversi
settori e i diversi luoghi. Dare appoggio a una compagnia di ballo può rappresentare una causa sociale generica per una società di pubblici servizi come Southern
California Edison, ma rientrare nel contesto competitivo per una corporation come American Express, che
dipende dal cluster che riunisce l’intrattenimento, l’ospitalità e il turismo di fascia alta. Le emissioni di carbonio possono rappresentare un problema sociale
generico per una società di servizi finanziari come
Bank of America, una conseguenza negativa della
catena del valore per una società basata sui trasporti
come UPS, oppure una questione legata alla catena del
valore e allo stesso tempo al contesto competitivo per
una casa automobilistica come Toyota. La pandemia di
AIDS in Africa può rappresentare un problema sociale generico per un retailer statunitense come Home
Depot, un impatto della catena del valore per un’azienda farmaceutica come GlaxoSmithKline, o una
questione legata al contesto competitivo per un’impresa mineraria come Anglo American, che dipende dalla
manodopera locale per garantire le proprie attività.
Anche questioni come le pari opportunità nelle
listico, ad esempio, Volvo ha scelto di mettere la sicurezza al centro del suo posizionamento competitivo,
mentre Toyota ha sviluppato un vantaggio competitivo
grazie ai benefici ambientali della sua tecnologia a
motore ibrido. Alcune questioni si dimostrano rilevanti per molte delle unità di business e delle località servite dall’impresa; il suggerimento da seguire, in tal caso,
è quello di effettuare delle scelte strategiche riguardo
alle aree verso cui incanalare gli sforzi legati alla CSR.
L’applicabilità generale di una questione sociale a
più settori e alle imprese che vi operano influenza
necessariamente il modo in cui verrà affrontata e l’urgenza con cui questo avverrà. È probabile che la via più
efficace per affrontare le questioni sociali dotate di
una rilevanza generale passi attraverso i modelli
cooperativi. La Extractive Industries Transparency
Initiative, ad esempio, comprende 19 grandi imprese
dei settori del petrolio, del gas e dell’estrazione mineraria, che hanno concordato di scoraggiare la corruzione adottando un’assoluta trasparenza nei confronti
dell’opinione pubblica e verificando tutti i pagamenti
effettuati dalle imprese ai governi degli Stati in cui
operano. In assenza di un’azione collettiva da parte di
tutte le principali imprese di questi settori, i governi
Gennaio/Febbraio 2007
9
STRATEGIA E SOCIETÀ
LA MAPPA DELLE OPPORTUNITÀ SOCIALI
> L’interdipendenza fra un’impresa e la società dovrebbe essere analizzata attraverso gli stessi strumenti utilizzati per
analizzarne la posizione competitiva e svilupparne la strategia. In questo modo, l’impresa può mettere a fuoco le attività
specifiche che svolge in ambito CSR per ottenere il miglior effetto possibile. Invece di limitarsi ad agire in base a impulsi
benintenzionati o a reagire alle pressioni esterne, l’organizza-
zione può pianificare una strategia CSR che apporti il massimo beneficio alla società esterna nonché una serie di vantaggi al business.
Questi due strumenti dovrebbero essere impiegati in modo
diverso. Quando un’impresa inserisce nella propria catena del
valore tutte le conseguenze sociali delle sue attività, essa in
effetti ha definito una checklist di problemi – perlopiù di natu-
Dall’interno all’esterno: la mappatura dell’impatto sociale della catena del valore
La catena del valore raffigura tutte le operazioni che un’impresa effettua per portare avanti il suo business. Essa può essere utilizzata
come uno schema che permette di identificare l’impatto sociale – positivo o negativo – delle attività aziendali. Questi legami internoesterno possono variare, come si può notare dalla parziale lista di esempi riportati, dalle politiche di assunzione e licenziamento alle
emissioni di gas serra.
- Rapporti con le università
- Reporting finanziario
- Pratiche etiche nell’ambito della
ricerca (ad es. test condotti sugli
animali, OGM)
- Pratiche di governance
- Trasparenza
- Utilizzo del lobbying
- Sicurezza dei prodotti
- Conservazione delle materie prime
- Riciclaggio
- Esternalità legate
ai trasporti (ad es.
gas serra, traffico,
strade pericolose)
- Emissioni e rifiuti
- Impatto ecologico
e biodiversità
- Utilizzo dell’energia
e dell’aria
- Sicurezza dei lavoratori
e rapporti sindacali
- Materiali pericolosi
- Istruzione e formazione
dei dipendenti
- Condizioni di lavoro sicure
- Diversità e discriminazione
- Assistenza sanitaria e altri benefit
- Politiche retributive
- Politiche relative ai licenziamenti
- Utilizzo
e smaltimento
del packaging
(ad es. contenitori
McDonald’s)
- Impatto
dei trasporti
- Pratiche relative
all’approvvigionamento e alla
supply chain (ad es. corruzione,
lavoro minorile, politiche
di prezzo per gli agricoltori)
- Utilizzo di input particolari
(ad es. pellicce di animali)
- Impiego delle risorse naturali
- Marketing & pubblicità (ad es.
pubblicità veritiere, pubblicità
rivolte ai bambini)
- Smaltimento
dei prodotti
obsoleti
- Pratiche relative al pricing
- Gestione dei
beni di consumo
(ad es. olio
motore, inchiostri
per stampa)
(ad es. discriminazione di prezzo
fra diversi clienti e zone geografiche, pratiche di pricing anticompetitive, agevolazioni per gli indigenti)
- Informazioni ai consumatori
- Privacy
Fonte: Michael E. Porter, Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, 1985 (ed. it. Il vantaggio competitivo, Edizioni Einaudi, 2002).
10
- Privacy dei
clienti
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
ra operativa – che devono essere investigati, divisi per ordine
di priorità, e quindi risolti o attenuati. In generale, le imprese
dovrebbero cercare di eliminare il maggior numero possibile
degli effetti negativi presenti nella catena del valore. Le attività dell’impresa presenteranno anche delle opportunità per la
creazione di un valore condiviso, specie qualora tocchino dei
temi significativi per il contesto competitivo.
Le imprese non possono, tuttavia, impegnarsi in tutte le aree
considerate nel «diamante». Di conseguenza lo scopo sarà
quello di identificare soltanto quelle che presentano il maggior valore strategico. Ogni impresa dovrebbe scegliere, all’interno di questo ventaglio di opportunità, una o più iniziative che possano apportare il massimo beneficio tanto alla
società quanto alla sua capacità di competere. <
Dall’esterno all’interno: l’impatto sociale sulla competitività
Oltre a comprendere le ramificazioni sociali della catena del valore, la CSR richiede anche di comprendere le dimensioni sociali del
contesto competitivo in cui l’impresa opera – ovvero i legami esterno-interno che incidono sulla sua capacità di accrescere la produttività e mettere in atto la strategia. Tali aspetti possono essere rilevati tramite il modello del diamante, che mostra in che modo le imprese dipendono dalle condizioni territoriali in cui si trovano, ad esempio per quanto riguarda l’infrastruttura dei trasporti e l’applicazione
effettiva delle leggi.
- Disponibilità di risorse umane
(es. formazione all’impiego di Marriott)
- Accesso a università e istituti di ricerca
(es. Working Connections di Microsoft)
- Infrastruttura fisica efficiente
- Infrastruttura amministrativa efficiente
- Disponibilità di una infrastruttura scientifica
e tecnologica (es. trasferimento di informazioni
da Nestlé ai produttori di latte)
- Risorse naturali sostenibili
(es. risparmio di acqua da parte di Grupo Nuevo)
- Accesso efficiente al capitale
Contesto strategico
e competitivo
dell’impresa
Le regole e gli incentivi
che guidano
la concorrenza
Condizioni legate
ai fattori (input)
Condizioni della
domanda territoriale
Presenza di input
specializzati e di alta
qualità a disposizione
delle aziende
- Disponibilità di fornitori locali
(ad es. derrate di Sysco coltivate localmente;
raccolta quotidiana Nestlé di prodotti del latte)
- Accesso alle aziende che operano in campi correlati
- Presenza di distretti industriali anziché
di imprese isolate
- Concorrenza locale corretta e aperta
(es. assenza di barriere allo scambio,
regolamentazioni eque)
- Protezione della proprietà intellettuale
- Trasparenza (es. reporting finanziario,
corruzione, industrie estrattive, iniziative
di trasparenza)
- Applicazione della legge (es. sicurezza,
protezione della proprietà, sistema legale)
- Sistema di incentivazione meritocratico
(es. assenza di discriminazioni)
Natura e sofisticatezza
de bisogni dei
consumatori locali
Settori correlati
e di supporto
- Sofisticatezza della domanda locale
(condivisione della value proposition,
es. clienti di Whole Foods)
Disponibilità locale di
attività di supporto
- Standard legislativi severi
(es. standard su emissioni e consumi
delle automobili in California)
- Bisogni particolari locali che possono
essere soddisfatti su scala nazionale
e globale (ad es. finanziamenti di Urbi
per la costruzione di case; strategia della
«base della piramide» di Unilever)
Fonte: Michael E. Porter, The Competitive Advantage of Nations, 1990 (ed.it. Strategia e competizione. Come creare, sostenere e difendere il vantaggio di imprese e nazioni, Ed. Il Sole 24 Ore, 2001).
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11
STRATEGIA E SOCIETÀ
corrotti si limiterebbero a scegliere di non avere rapporti con quelle che hanno dichiarato pubblicamente i
pagamenti effettuati, e la società ne trarrebbe ben
pochi benefici.
Definizione di un’agenda sociale d’impresa. La categorizzazione e la classificazione delle questioni sociali
costituisce soltanto un mezzo, il cui fine è quello di
dotare l’impresa di un esplicito piano d’azione sociale
di supporto. Un piano d’azione sociale non si accontenta di soddisfare le aspettative della comunità, ma
cerca di individuare le opportunità che possano apportare allo stesso tempo dei benefici sociali ed economici. Non si limita a ridurre i danni, ma trova un modo
per rafforzare la strategia d’impresa attraverso il progresso sociale.
Il piano di supporto deve rispondere alle aspettative
degli stakeholder, ma non può limitarsi a questo. Una
parte cospicua delle risorse e dell’attenzione dell’impresa deve essere indirizzata a una CSR che abbia una
reale valenza strategica (vedi il riquadro «Il coinvolgimento sociale dell’impresa: un approccio strategico»).
È attraverso una CSR strategica che l’impresa avrà il
assegno: esse definiscono degli obiettivi chiari e misurabili e monitorano i risultati nel tempo. Un buon
esempio è l’iniziativa in base a cui GE «adotta» delle
scuole secondarie pubbliche in difficoltà nelle vicinanze di molte delle principali strutture che gestisce negli
Stati Uniti. L’azienda dona a ogni scuola una somma
che va da 250.000 a 1 milione di dollari nell’arco di cinque anni, oltre a beni in natura. I manager e i dipendenti di GE assumono un ruolo attivo, collaborando
con i dirigenti scolastici per valutare i bisogni e offrire
servizi di mentoring o tutoring agli studenti. In base a
uno studio indipendente su dieci scuole coinvolte nell’iniziativa fra il 1989 e il 1999, quasi tutte hanno evidenziato un miglioramento significativo; in quattro su
cinque delle scuole che in precedenza avevano la performance più bassa, il tasso dei diplomati è raddoppiato, passando dal 30 al 60 percento.
Iniziative efficaci di corporate citizenship come questa
suscitano benevolenza nei confronti dell’impresa e
migliorano i suoi rapporti con le amministrazioni locali e altre istituzioni importanti, ma il loro effetto è inevitabilmente ridotto. I dipendenti di GE sono molto
Un piano d’azione sociale di supporto
non si limita a ridurre i danni, ma trova
un modo per rafforzare la strategia
d’impresa attraverso il progresso sociale.
massimo impatto sociale e raccoglierà i frutti migliori
sul piano del business.
CSR reattiva. La CSR reattiva prevede due aspetti:
praticare una buona corporate citizenship, mostrandosi
in sintonia con le preoccupazioni sociali degli stakeholder, e mitigare gli effetti presenti o futuri delle proprie attività di business.
Una buona corporate citizenship costituisce una conditio sine qua non della CSR e le imprese devono attuarla
adeguatamente. Molte organizzazioni locali degne di
nota fanno affidamento sulle donazioni delle imprese,
e allo stesso tempo i dipendenti sono comprensibilmente orgogliosi se la loro azienda è attivamente coinvolta nella comunità.
Le iniziative migliori sul piano della corporate citizenship vanno ben al di là dell’apporre la firma a un
12
orgogliosi della loro partecipazione attiva, ma per
quanto l’iniziativa sia utile, rimane marginale rispetto
al business dell’azienda e il suo effetto diretto sulle
assunzioni e la retention è limitato.
Il secondo aspetto della CSR reattiva – mitigare i
danni derivanti dalle attività che rientrano nella catena
del valore di un’impresa – costituisce essenzialmente
una sfida operativa. Dato che gli impatti legati alla
catena del valore sono innumerevoli per ogni business,
e per ognuno dei luoghi in cui opera, molte imprese
hanno adottato un approccio alla CSR basato su checklist, che prevede l’utilizzo di set standardizzati di fattori di rischio sociali e ambientali. La Global Reporting Iniziative, che sta rapidamente diventando uno
standard diffuso per la reportistica relativa alla CSR,
ha definito un elenco di 141 temi afferenti a quest’am-
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
bito, integrato da una serie di elenchi ausiliari relativi
ai diversi settori. Essi rappresentano un ottimo punto
di partenza, ma le imprese hanno bisogno di dotarsi di
un processo interno maggiormente proattivo e ad hoc.
I manager di ciascuna unità di business possono impiegare la catena del valore come uno strumento per identificare sistematicamente le ramificazioni sociali delle
attività della propria unità in ogni luogo. Più complicato è prevedere le conseguenze, per le quali si ha ancora poca chiarezza. Da questo punto di vista può essere
particolarmente d’aiuto il management operativo, che
si trova più vicino all’effettivo svolgimento del lavoro.
Prendiamo l’esempio di B&Q, una catena internazionale nata in Inghilterra che vende articoli per la casa.
L’azienda ha iniziato ad analizzare sistematicamente
decine di migliaia di prodotti nelle sue centinaia di
negozi in base a un elenco di una dozzina di temi sociali – dal cambiamento climatico alle condizioni lavorative che vigono negli stabilimenti dei suoi fornitori – per
individuare i prodotti che potenzialmente comportano
dei rischi sociali e per determinare le soluzioni più opportune da adottare prima che le pressioni esterne si
facciano sentire.
Riguardo alla maggior parte degli effetti della catena
del valore, non c’è bisogno di riscoprire l’acqua calda.
L’impresa dovrebbe identificare le best practice tramite
cui affrontare ciascuno di essi, ponendo attenzione all’evoluzione che tali pratiche stanno subendo. Alcune
aziende riusciranno ad attenuare più efficacemente e
proattivamente un’ampia gamma di problemi sociali
creati dalla propria catena del valore. Esse conseguiranno un vantaggio rispetto alle altre, tuttavia – come nelle
attività legate agli acquisti e ad altre aree operative – è
probabile che si tratti solo di un vantaggio temporaneo.
CSR strategica. Fare strategia non significa solo raggiungere l’eccellenza, ma arrivare ad assumere una
posizione unica rispetto alle altre, ossia svolgere le proprie attività in modo diverso dai concorrenti, così da
ridurre i costi o soddisfare più adeguatamente bisogni
specifici della clientela. Questi principi riguardano
tanto il rapporto di un’impresa con la società, quanto
quello con le rivali e i clienti. La CSR strategica non si
limita a un supporto di ampio respiro alle cause sociali e una gestione sistematica degli effetti della catena
del valore, ma prevede l’attuazione di un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici
ampi e significativi alla società e al business. In questo
modo, i problemi sociali diventano una fonte di opportunità e innovazione invece che un costo o un vincolo.
La CSR strategica comprende allo stesso tempo
aspetti che vanno dall’interno all’esterno e altri che
vanno dall’esterno all’interno. È in quest’ambito che
risiedono le vere opportunità di creare un valore condiviso. Le imprese possono sperimentare una serie di
innovazioni della catena del valore a beneficio sia della
società sia della propria competitività, e possono investire nelle comunità di cui fanno parte in modo tale da
rafforzare il proprio contesto competitivo e, allo stesso
tempo, accrescere la propria produttività.
Molti aspetti dell’offerta di prodotti o della catena
del valore possono costituire la base di una CSR strategica. La risposta di Toyota alle preoccupazioni legate
alle emissioni inquinanti delle automobili rappresenta
un esempio in tal senso. La Toyota Prius, il veicolo ibrido a elettricità e benzina, è il primo di una serie di
modelli innovativi che hanno creato un vantaggio competitivo e, allo stesso tempo, una serie di benefici
ambientali. I motori ibridi emettono appena il 10 per
cento degli agenti inquinanti nocivi prodotti dai veicoli tradizionali e consumano solo la metà del carburante. Nominata Auto dell’anno 2004 da «Motor Trend
Magazine», la Prius ha creato per Toyota un vantaggio
talmente forte che Ford e altre case automobilistiche
stanno acquistando la licenza necessaria per sfruttare
la sua tecnologia. Toyota è molto vicina ad affermare la
propria tecnologia come standard globale.
Urbi, una impresa edile messicana, ha avuto ottimi
risultati dalla costruzione di case per acquirenti in condizioni disagiate impiegando nuove forme di finanziamento come il pagamento delle rate di un mutuo a
IL COINVOLGIMENTO SOCIALE
DELL’IMPRESA: UN APPROCCIO
STRATEGICO
Questioni
Impatti sociali
sociali generiche della catena del valore
Buon livello
di corporate
citizenship
CSR
reattiva
Riduzione dei danni
causati dalle attività
presenti nella catena
del valore
Trasformare a
beneficio della società,
rinforzando simultaneamente la strategia,
le attività presenti nella
catena del valore
Dimensioni sociali del
contesto competitivo
Filantropia strategica
che faccia leva sul
miglioramento delle
aree cruciali del
contesto competitivo
CSR
strategica
Gennaio/Febbraio 2007
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STRATEGIA E SOCIETÀ
tasso variabile con trattenuta diretta in busta paga.
Crédit Agricole, la più grande banca francese, si è differenziata grazie all’offerta di prodotti finanziari specializzati in aree legate all’ambiente, come il finanziamento di pacchetti per ristrutturare la propria casa in
modo da consentire un risparmio energetico e per con-
seguire la certificazione biologica di un’impresa agricola.
La CSR strategica prevede anche l’investimento
sugli aspetti sociali del contesto che accentuano la
competitività dell’impresa. In questo modo si sviluppa
un rapporto simbiotico: il successo dell’impresa e il
successo della comunità si rafforzano a vicenda.
L’INTEGRAZIONE TRA BUSINESS E SOCIETÀ:
IL DISTRETTO DEL LATTE DI NESTLÉ
>> L’approccio di Nestlé alla collaborazione con i piccoli agricoltori esemplifica il rapporto simbiotico fra il progresso sociale e il vantaggio competitivo. Ironicamente, sebbene la reputazione dell’azienda sia ancora macchiata da una controversia
nata trent’anni fa in relazione alle vendite di latte per neonati in
Africa, il suo impatto sui Paesi in via di sviluppo spesso ha avuto un carattere profondamente positivo.
Consideriamo l’evoluzione storica della vendita di latte in India
da parte di Nestlé. Nel 1962 l’azienda voleva entrare nel mercato indiano e ricevette dal governo l’autorizzazione a costruire un caseificio nel distretto settentrionale di Moga. Nel distretto il livello di povertà era elevato: la gente non aveva
energia elettrica, mezzi di trasporto, telefoni né assistenza sanitaria. Tipicamente un agricoltore possedeva meno di cinque
acri di terreno scarsamente irrigato e infecondo. Molti possedevano un’unica bufala, che produceva appena il latte necessario per il loro consumo privato. Il 60% dei vitelli moriva appena nato. Dal momento che gli agricoltori non avevano modo
di refrigerarlo, trasportarlo o testarne la qualità, il latte non
aveva modo di viaggiare lontano e spesso era contaminato o
diluito.
Nestlé arrivò a Moga per sviluppare un business, non per praticare la CSR. Tuttavia la sua catena del valore, derivata dalle
origini svizzere dell’azienda, dipendeva dall’approvvigionamento del latte su base locale, tramite un bacino ampio e diversificato di agricoltori. L’istituzione di tale catena del valore a
Moga richiese a Nestlé di trasformare il contesto competitivo,
e questo creò un enorme valore condiviso a favore sia dell’azienda, sia dell’intera zona.
Nestlé costruì in ogni cittadina dei caseifici, dotati di sistemi di
refrigerazione perché fungessero da punti di raccolta del latte
e iniziò a inviare i suoi autocarri nelle fattorie per prelevare le
scorte. Sui camion viaggiavano veterinari, nutrizionisti, agronomi ed esperti del controllo qualità. Venivano forniti farmaci e
integratori alimentari per gli animali malati, e ogni mese si tenevano delle sessioni di formazione per gli agricoltori locali.
Questi appresero che la qualità del latte dipendeva dal regime
alimentare a cui erano sottoposte le mucche, il quale a sua
volta dipendeva da un’irrigazione adeguata delle messi con
14
cui venivano foraggiate. Grazie ai finanziamenti e l’assistenza
tecnica offerti da Nestlé gli agricoltori iniziarono a scavare
pozzi profondi, che in precedenza non erano alla loro portata.
Il miglioramento dei sistemi di irrigazione non consentì solo di
nutrire le mucche ma accrebbe il raccolto, producendo un
surplus di frumento e riso e innalzando lo standard di vita.
Quando aprì il primo stabilimento Nestlé per la lavorazione del
latte, solo 180 agricoltori locali fornivano la materia prima. Oggi Nestlé compra il latte da più di 75.000 agricoltori della zona,
raccogliendolo due volte al giorno da oltre 650 caseifici sparsi
nei diversi villaggi. Il tasso di mortalità dei vitelli è diminuito del
75 percento. La produzione di latte è cresciuta di cinquanta
volte. Man mano che la qualità è migliorata, Nestlé è riuscita a
pagare agli agricoltori prezzi più alti di quelli fissati dal Governo, e i suoi pagamenti fissi bisettimanali hanno consentito agli
agricoltori di ottenere dei crediti. Sono stati aperti dei caseifici
e degli stabilimenti concorrenti e attualmente sta iniziando a
svilupparsi un vero e proprio distretto industriale.
Oggi, Moga ha uno standard di vita notevolmente più alto
delle altre zone vicine. Il 90% delle case è dotato di energia
elettrica e la maggior parte di una linea telefonica; tutti i villaggi hanno una scuola primaria e molti hanno scuole medie
e superiori. Moga ha il quintuplo dei medici delle zone circostanti. Inoltre il maggior potere d’acquisto degli agricoltori locali ha ampliato notevolmente il mercato dei prodotti Nestlé,
favorendo ulteriormente il successo economico dell’azienda.
L’impegno di Nestlé nella collaborazione con i piccoli agricoltori ha un ruolo centrale nella sua catena del valore. Le
consente di ottenere una fornitura costante di beni di largo
consumo di alta qualità senza pagare alcun intermediario. Gli
altri prodotti di riferimento dell’azienda – il caffè e il cacao –
spesso vengono coltivati da piccoli agricoltori nei Paesi in via
di sviluppo in condizioni simili. L’esperienza accumulata da
Nestlé con l’istituzione di punti di raccolta, la formazione degli agricoltori e l’introduzione di tecnologie migliori a Moga è
stata replicata in Brasile, Thailandia e una dozzina di altri
Paesi fra cui, in tempi molto recenti, la Cina. In ognuno di
questi casi, quando l’azienda ha prosperato, così ha fatto la
comunità locale. <
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
Tipicamente, quanto più una causa sociale è legata al
business dell’impresa, tanto maggiore è l’opportunità
di far leva sul commitment e sulle capacità dell’azienda e altrettanto grande è, di conseguenza, l’opportunità di portare un beneficio alla società. Working
Connections, la partnership fra Microsoft e la
American Association of Community Colleges
(AACC), rappresenta un buon esempio di opportunità
di creazione di un valore condiviso emersa dagli investimenti sul contesto. La carenza di lavoratori qualificati in information technology costituisce un vincolo
significativo alla crescita di Microsoft; attualmente, vi
sono più di 450.000 posizioni IT vacanti nei soli Stati
Uniti. I community college – grazie agli 11,6 milioni di
studenti iscritti, che rappresentano il 45% degli universitari statunitensi – potrebbero rappresentare un’ottima soluzione a questo problema. Microsoft è consapevole, tuttavia, che tali istituti sono alle prese con alcune difficoltà specifiche: i programmi di studio nell’IT
non sono standardizzati, le attrezzature tecnologiche
presenti in aula sono spesso datate e non esiste alcun
piano sistematico per l’aggiornamento dei docenti.
L’iniziativa di Microsoft, che l’ha portata a donare 50
milioni di dollari nell’arco di cinque anni, si è proposta
di risolvere tutti e tre questi problemi. Oltre a offrire
denaro e prodotti gratuiti, Microsoft ha inviato nei college dei dipendenti, coinvolti su base volontaria, con
l’obiettivo di valutare i bisogni, contribuire allo sviluppo dei programmi di studio e attivare dei corsi di
aggiornamento rivolti ai docenti. Si noti che in questo
caso, il personale volontario assegnato all’iniziativa ha
potuto impiegare le proprie competenze professionali
per soddisfare un bisogno sociale, molto diversamente
dalle tipiche attività di volontariato. Microsoft ha ottenuto dei risultati che hanno arrecato un beneficio a
molte comunità locali e allo stesso tempo hanno avuto
un impatto diretto e potenzialmente significativo sull’azienda.
Integrazione fra interno ed esterno. Sperimentare
delle innovazioni nella catena del valore e investire
nell’allentamento dei vincoli sociali che limitano la
competitività rappresentano, singolarmente presi, due
strumenti efficaci per creare un valore economico e
sociale. Come mostrano gli esempi che abbiamo proposto, tuttavia, l’impatto è ancora più forte se i due
aspetti funzionano in tandem. Le attività che rientrano
nella catena del valore possono essere svolte in modo
da rafforzare i cambiamenti di contesto. Allo stesso
tempo, gli investimenti indirizzati al contesto competi-
tivo hanno il potenziale per ridurre i vincoli che limitano le attività che rientrano nella catena del valore di
un’impresa. Entrambi gli aspetti, inoltre, possono
accrescere notevolmente l’efficacia delle attività benefiche dell’impresa. Marriott, ad esempio, offre un
sostegno filantropico alle associazioni di servizio delle
comunità locali, ma ha creato un ponte fra questi investimenti e il programma di formazione interna di cui è
dotata al fine di ridurre sostanzialmente i costi legati
all’assunzione di dipendenti che si trovano al loro
primo impiego. Le associazioni locali propongono i
candidati che sono «disoccupati cronici» a Marriott,
che offre loro 180 ore di formazione retribuita in aula
e in azienda. Il 90% delle persone che partecipano al
programma di formazione ottiene un posto di lavoro
da Marriott. Un anno dopo più del 65% è ancora in
servizio, un tasso di retention molto più alto della
norma.
Quando le attività che rientrano nella catena del
valore e gli investimenti indirizzati al contesto competitivo sono pienamente integrati, diventa difficile
distinguere la CSR dalle attività quotidiane dell’impresa. Nestlé, ad esempio, collabora direttamente con i
piccoli agricoltori che vivono nei paesi in via di sviluppo per garantirsi l’approvvigionamento di quei beni
elementari di largo consumo – come il latte, il caffè e il
cacao – da cui dipende gran parte del suo business globale. L’investimento operato dall’azienda nelle infrastrutture locali e la diffusione delle sue conoscenze e
tecnologie di livello internazionale, in atto da decenni,
hanno arrecato enormi benefici sociali attraverso lo
sviluppo economico, il miglioramento dell’assistenza
sanitaria e la maggior qualità della formazione; allo
stesso tempo hanno offerto a Nestlè un accesso diretto
e costante ai beni di largo consumo di cui ha bisogno
per preservare un business globale redditizio. L’originale strategia di Nestlé non può essere disgiunta dal
suo impatto sociale (si veda il riquadro «L’integrazione
tra business e società: il distretto del latte di Nestlé»).
La dimensione sociale nella value proposition. Al cuore
di ogni strategia c’è una value proposition unica: un set
di bisogni che l’azienda è in grado di soddisfare per
conto dei clienti che ha scelto di servire, mentre le altre
non possono farlo. Per offrire una value proposition
diversa da tutte le altre bisogna che l’impresa abbia
una catena del valore diversa da tutte le altre, che la
porti a svolgere le proprie attività in modo diverso
dalle rivali. La CSR raggiunge la massima valenza strategica quando un’impresa immette una dimensione
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STRATEGIA E SOCIETÀ
sociale nella sua value proposition per amplificare il
proprio vantaggio competitivo. A quel punto l’impatto
sociale diventa parte integrante della stessa strategia
d’impresa.
Prendiamo l’esempio di Whole Foods Market, la cui
value proposition consiste nel vendere cibi biologici,
naturali e salutari a clienti che danno grande valore a
una alimentazione sana e all’ambiente. Le questioni
sociali hanno un ruolo fondamentale nel garantire l’unicità di Whole Foods nel settore della vendita al dettaglio di generi alimentari, nonché la sua capacità di
essere trasformati in compost. L’azienda sta convertendo il suo parco veicoli affinché venga alimentato tramite biocarburante. Persino i prodotti per la pulizia
impiegati nei suoi negozi sono ecologici. Attraverso le
sue attività filantropiche, poi, l’azienda ha istituito la
Animal Compassion Foundation con l’obiettivo di sviluppare soluzioni più naturali e rispettose nell’allevamento di animali. In breve, quasi tutti gli aspetti della
catena del valore di quest’impresa incorporano una
dimensione sociale, il che distingue Whole Foods da
tutti i suoi concorrenti.
Accade di solito che quanto più uno
scopo sociale è connesso al business
di un’azienda, tanto più grande
risulta essere la possibilità di fare leva
sulle risorse aziendali per farne
beneficiare tutta la società.
imporre dei prezzi premium. Le politiche di approvvigionamento dell’azienda mettono in primo piano l’acquisto dei prodotti dagli agricoltori locali attraverso il
processo di acquisto di ogni negozio. I buyer scartano
gli alimenti che contengono uno o più dei quasi 100
ingredienti comunemente diffusi che l’azienda considera nocivi o dannosi per l’ambiente. I prodotti da
forno, che vengono cotti e venduti freschi ogni giorno,
contengono unicamente farine non sottoposte a sbiancamento o bramatura.
L’impegno di Whole Foods verso le pratiche operative naturali ed ecologiche va ben al di là dell’approvvigionamento. I negozi vengono costruiti utilizzando la
minima quantità possibile di materie prime «vergini».
Recentemente, l’azienda ha acquistato crediti energetici per l’utilizzo di una quantità di energia eolica pari
al 100 per cento dell’energia elettrica che consuma in
tutti i suoi negozi e le sue strutture; è l’unica delle
imprese inserite nella «Fortune 500» che ha controbilanciato interamente il suo consumo di energia elettrica. Gli alimenti scaduti e i rifiuti biodegradabili vengono trasportati via camion nei vari centri regionali per
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Non tutte le imprese possono basare l’intera value
proposition sui temi sociali come fa Whole Foods, ma
le value proposition di stampo sociale aprono una
nuova frontiera nel posizionamento competitivo. I
regolamenti pubblici, il rischio di critiche o di cause di
responsabilità e l’attenzione dei consumatori alle questioni sociali sono in costante crescita. Di conseguenza,
il numero dei settori e delle imprese che possono sviluppare un vantaggio competitivo in base a una value
proposition di stampo sociale è in continuo aumento.
Ad esempio Sysco, il più grande distributore di prodotti alimentari ai ristoranti e alle istituzioni in Nord
America, ha avviato un’iniziativa per la tutela delle piccole aziende agricole a conduzione familiare e fornisce
ai suoi clienti derrate di produzione locale come veicolo di differenziazione competitiva. Anche le grandi
multinazionali globali – come General Electric, tramite l’iniziativa chiamata «Ecoimagination», che si concentra sullo sviluppo di aree di business «verdi» come
la tecnologia di depurazione delle acque, e Unilever,
che sta sperimentando nuovi sistemi di imballaggio e
distribuzione per soddisfare le necessità delle popola-
IDEE CHE FANNO LA DIFFERENZA
zioni più indigenti – sono giunte alla conclusione che le
opportunità di business più significative risiedono nell’integrazione fra il business stesso e la società.
Organizzarsi per la CSR
L’integrazione fra le necessità del business e quelle
della società richiede qualcosa in più delle buone
intenzione e di una leadership forte. Richiede adattamenti nell’organizzazione, nelle relazioni e negli incentivi. Poche imprese hanno attivato un processo che prevede di attribuire priorità alle questioni sociali in base
all’importanza che rivestono ai fini del contesto competitivo, nonché del ruolo che svolgono sul piano operativo e strategico. Sono ancora meno quelle che
hanno unificato le proprie attività filantropiche con la
gestione dell’impatto sociale delle attività che rientrano nella loro catena del valore, o cercato di infondere
una dimensione sociale nella loro value proposition
fondamentale. Per ottenere un simile risultato bisogna
adottare un approccio diverso – sia rispetto alla CSR,
sia rispetto alle attività filantropiche – da quello oggi
prevalente. Le imprese devono passare da un atteggiamento frammentario e difensivo a un approccio integrato e assertivo, e dall’enfasi sull’immagine all’enfasi
sulla sostanza.
Attualmente il focus viene mantenuto sulla misurazione della soddisfazione degli stakeholder, ovvero
tutto il contrario di come dovrebbe essere. Gli investimenti sulla catena del valore e sul contesto competitivo in ambito CSR dovrebbero essere incorporati nelle
misurazioni della performance operate dai manager
che hanno la responsabilità dei conti economici. Il
valore condiviso non può essere creato in assenza di un
processo condiviso, obiettivi condivisi e misurazioni
condivise. I manager operativi devono interessarsi al
mondo del contesto competitivo, caratterizzato da
legami esterno-interno, e chi ha la responsabilità delle
iniziative legate alla CSR deve avere una consapevolezza articolata di ogni attività che rientra nella catena
del valore. Queste trasformazioni non richiedono solo
un cambiamento a livello di job description; richiedono il superamento di una serie di pregiudizi fortemente consolidati. Molti manager operativi hanno sviluppato una mentalità profondamente radicata, basata
sulla contrapposizione tra «noi e loro», che rappresenta una risposta di stampo difensivo al dibattito su ogni
questione sociale, proprio come molte ONG vedono di
cattivo occhio il tentativo di creare un valore sociale in
vista di un profitto. Sono atteggiamenti che devono
cambiare se le imprese vogliono far leva sulla dimensione sociale della strategia aziendale.
Fare strategia equivale sempre a fare delle scelte e la
Corporate Social Responsibility non fa eccezione.
Equivale a scegliere su quali cause sociali concentrarsi.
Le pressioni a cui le imprese sono sottoposte in vista
della performance di breve termine escludono la possibilità di attuare investimenti indiscriminati per creare
un valore sociale. Suggeriscono, piuttosto, che la creazione di un valore condiviso debba essere considerata
come la ricerca e sviluppo, ovvero un investimento di
lungo termine sulla competitività futura dell’impresa. I
miliardi di dollari che le imprese stanno spendendo per
la CSR e la filantropia d’impresa arrecherebbero molti
più benefici sia al business, sia alla società se fossero
investiti costantemente in base ai principi che abbiamo
delineato. Mentre la CSR reattiva dipende dalla pratica di una buona corporate citizenship e dalla capacità di
prevedere e mitigare qualunque danno inferto dal
business alla società, la CSR strategica è molto più
selettiva. Le imprese sono invitate a occuparsi di centinaia di cause sociali, ma solo alcune di esse rappresentano un’opportunità per avere un impatto realmente significativo sulla società o per conseguire un
vantaggio competitivo. Le organizzazioni che fanno le
scelte giuste e attivano delle iniziative sociali ben definite, proattive e integrate in linea con le proprie strategie fondamentali si discosteranno sempre più da
tutte le altre.
Lo scopo etico del business
Le imprese hanno un’influenza profonda e positiva
sulla società attraverso gli investimenti che effettuano
e la loro attività quotidiana. La cosa più importante
che una grande impresa può fare per la società, e per
qualunque comunità, è contribuire allo sviluppo di
un’economia prospera. Molti Paesi in via di sviluppo
hanno falsato le regole e hanno incentivato il business
nei modi sbagliati. Di conseguenza, non ricevono
abbastanza input di qualità da parte del business e non
hanno una base adeguata di fornitori locali capaci.
Questi punti di debolezza condannano questi Paesi
alla povertà, costringendoli a offrire salari bassi o a
svendere le proprie risorse naturali. Le aziende hanno
il know-how e le risorse necessarie per cambiare questo stato di cose.
Tutto questo non può giustificare le imprese che
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inseguono i profitti di breve termine in maniera truffaldina o eludono le conseguenze sociali e ambientali
delle proprie azioni. La CSR, però, non dovrebbe
occuparsi solo degli errori che le imprese hanno commesso finora, anche se questo resta importante. Né
dovrebbe significare solo offrire dei contributi filantropici agli enti benefici locali, dare una mano in occasione di una calamità o prestare soccorso ai più bisognosi, per quanto i contributi di questo tipo siano
meritevoli. Ogni sforzo fatto per individuare un valore condiviso nelle pratiche operative e nella dimensione sociale del contesto competitivo possiede il potenziale non solo per promuovere lo sviluppo economico
e sociale, ma anche per cambiare la visione che le
imprese hanno della società, e viceversa. Le ONG, i
governi e le imprese devono smettere di pensare in
termini di «responsabilità sociale d’impresa» e iniziare a pensare in termini di «integrazione sociale dell’impresa».
Percepire la responsabilità sociale come un modo
per costruire dei valori condivisi anziché come una
politica di controllo dei danni o una campagna di PR
richiede alle imprese una visione radicalmente diversa. Noi siamo convinti, tuttavia, che la CSR assumerà
un ruolo sempre più importante per il successo competitivo.
Le aziende non hanno la responsabilità di tutti i problemi del mondo, né le risorse necessarie per risolverli tutti. Ogni impresa può identificare il set specifico di
problemi sociali rispetto ai quali è in grado di dare il
contributo più risolutivo, e dai quali può trarre il maggior vantaggio competitivo. La risoluzione dei problemi sociali tramite la creazione di un valore condiviso
produrrà soluzioni autofinanziate che non dipenderanno dalle sovvenzioni private o pubbliche. Quando
un’impresa ben gestita mette in opera le ingenti risorse, l’expertise e le conoscenze di cui è dotata al fine di
risolvere i problemi che capisce a fondo e nei confronti dei quali nutre degli interessi, finirà per avere
un impatto duraturo sulla vita delle persone e, forse,
per incidere sul bene sociale più di qualunque altra
istituzione od organizzazione filantropica. <
1 - Una discussione pionieristica dell’idea di CSR come opportunità anziché come costo può essere ritrovata in David Grayson and Adrian Hodges, Corporate Social Opportunity (Greenleaf, 2004).
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2 - Per una trattazione più completa dell’importanza del contesto competitivo e del modello del diamante, vedi Michael E.
Porter e Mark R. Kramer, «The Competitive Advantage of
Corporate Philanthropy», HBR, dicembre 2002. Vedi anche il
volume di Michael Porter The Competitive Advantage of Nations
(The Free Press, 1990) e il suo articolo «Locations, Clusters,
and Company Strategy», apparso sull’Oxford Handbook of
Economic Geography, a cura di Gordon L. Clark, Maryann P.
Feldman e Meric S. Gertler (Oxford University Press, 2000).
Ristampa n. 06057