Lectio doctoralis di John Eliot Gardiner Monteverdi creatore della musica moderna È per me un grandissimo onore ricevere una Laurea ad honorem dall’università della città natale di uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, Claudio Monteverdi. Faccio ora appello alla vostra indulgenza: usatela al massimo nei confronti del mio italiano insufficiente. È un miscuglio di libretti di opera e di quello che ho imparato da mia moglie, che è italiana e con me parla nella sua lingua soprattutto quando guida la nostra macchina. Molto di quello che ho appreso in queste circostanze è purtroppo irripetibile; attingerò dunque al mio magro vocabolario operistico per parlare di uno dei più grandi compositori dell’opera italiana. Il vostro “divino Claudio” ha avuto un impatto enorme sulla mia vita: è stato il catalizzatore dei miei primi passi da musicista, e, 42 anni fa, quando ho fondato il mio coro, gli ho dato il suo nome, come una sorta di ispirazione. Sarebbe quindi impensabile di non porre il suo nome, la sua personalità e la sua musica al centro di quello che sto per dire a riconoscimento dell’onorificenza che mi conferite oggi. Mi ritengo incredibilmente privilegiato di essere cresciuto in una famiglia che considerava il cantare mottetti e madrigali dopo cena perfettamente normale, e di aver quindi conosciuto la musica di Monteverdi sin da bambino. La prima volta che ho ascoltato i suoi Madrigali, diretti dalla mia futura insegnante, Nadia Boulanger, avevo appena otto anni. Ho incontrato il Vespro della Beata Vergine, diretto da Walter Goehr, quando avevo dieci o undici anni, prima di ascoltare Mozart, Beethoven o Verdi. Allora, come oggi, non mi è mai passato per la testa che questa musica fosse, in qualunque modo, antica, o antiquata. Quando poi ho cominciato a conoscere meglio la musica di Monteverdi, mi ha attratto sempre più in profondità: non solo mi è sempre parsa del tutto attuale – nonostante I riferimenti a dei, ninfe e pastori – ma le sue composizioni vocali, anche se in una lingua per me straniera, mi sono sempre sembrati un magnifico esempio di come la musica in generale possa esprimere i sentimenti e le emozioni umane in tutta la loro varietà e complessità, con una sincerità completa e con il potere di toccarci nell’intimità più profonda. E più approfondivo la conoscenza di Monteverdi, più mi stupivo che nel suo Paese, così fiero dei suoi architetti e pittori di un’epoca a lui precedente, e di compositori nati oltre due secoli dopo di lui (Verdi e Puccini, per esempio), si prestasse, almeno in apparenza, così poca attenzione alla sua musica. Soprattutto grazie alla convinzione e al lavoro di Gianfrancesco Malipiero, la musica di Monteverdi venne finalmente pubblicata a partire dalla metà del Ventesimo secolo. Malipiero, ricordo, era convinto che la musica di Monteverdi fosse una manifestazione artistica destinata “a rimanere per sempre moderna”. Nello stesso anno in cui ho ascoltato per la prima volta I madrigali “Ecco mormorar l’onde”, Zefiro torna” ed “Hor che il cielo e la terra”, veniva pubblicato un libro del musicologo americano Leo Schrade, intitolato “Monteverdi- Creator of mondern music”, ossia “Monteverdi, creatore della musica moderna”. Le teorie di Schrade furono presto attaccate da altri musicologi che contestavano la sua interpretazione di Monteverdi come un rivoluzionario: sottolineavano i suoi legami con il passato, le sue vedute moderate, il suo fallimento come teorico di un sistema estetico compositivo completo, e il suo uso persistente di forme tradizionali (per esempio, il madrigale) anche se utilizzate in maniera completamente innovativa. Ciò nonostante, l’argomento principale di Schrade rimane vero oggi come lo era nel 1950: che i principi artistici sviluppati da Monteverdi nella sua opera fossero gli stessi della “nostra musica e della nostra comprensione della musica” , e che avessero “molto di più in comune con la musica di Haydn, Mozart, Beethoven e perfino Brahms, che non con quella di Palestrina, il suo immediate e meglio conosciuto predecessore”. Era quindi Monteverdi un genio isolato, estraneo al suo tempo e ai suoi contemporanei? Niente affatto! Sono convinto che Monteverdi fosse assolutamente un figlio del suo tempo, un esponente di primo livello di quella incredibile generazione di artisti, filosofi, scienziati e scrittori i cui sforzi creativi individuali cambiarono completamente il pensiero e la cultura medievale intorno all’anno 1600, e che, tutti insieme, trasformarono la nostra visione del mondo e del ruolo dell’uomo all’interno di esso. Anche se Monteverdi non può certamente essere considerato un uomo di scienza, sicuramente la sua espressione ed esplorazione in musica dell’intera gamma dei sentimenti ed emozioni umane è il coronamento della sua opera. L’ invenzione dello Stile Concitato, intercalante affetti “guerrieri” ed “amorosi”, pare quasi una celebrazione delle emozioni umane, e al limite una rivendicazione, o come minimo una visione positiva, dell’aggressività. E se questo appare quasi un’ anticipazione dei temi centrali della psicologia moderna, è anche un legame con inventori e scienziati suoi contemporanei, come Galileo. L’interesse di Monteverdi per i sentimenti umani suggerisce inoltre un’affinità con i pittori del suo tempo: Rubens (di cui fu parzialmente contemporaneo alla corte dei Gonzaga a Mantova), Rembrandt (la cui reputazione fu costruita inizialmente sulla sua abilità nel catturare le più violente emozioni sulla tela), e soprattutto il suo compatriota, Caravaggio. Entro le loro rispettive sfere artistiche, sia Monteverdi che Caravaggio hanno tenuto i piedi nelle due staffe del sacro e del profano: in un certo senso, hanno umanizzato la religiosità e santificato il quotidiano. La separazione tra le loro opere sacre e profane è estremamente labile. Soprattutto, entrambi si vantavano della loro abilità nell’imitare la natura in modo quasi scientifico. Un semplice commento di Caravaggio – un pittore competente deve saper “imitare bene le cose naturali” – ha avuto conseguenze enormi per la pittura europea. Il modo in cui Caravaggio dipingeva i suoi modelli, in maniera realistica, non idealizzata, e con la potenza del suo caratteristico uso del chiaroscuro, è stata la grande forza liberatrice della pittura barocca – un esempio per gli artisti delle generazioni successive che li ha aiutati a liberarsi dall’artificiosità del tardo manierismo. Confrontiamo tutto questo con una lettera scritta da Monteverdi a Striggio nel 1616 , dove si legge la sua opinione su un libretto (le Nozze di Tetide) , che rivela alcuni aspetti della sua arte teatrale “ Oltre di ciò ho visto li interlocutori essere Venti .......Come, caro signore potrò io imittare il parlar de’venti se non parlano! Et come potrò io con il mezzo loro movere li affetti! Mosse l’Arianna per esser donna, et mosse parimenti l’Orfeo per esser hom et non vento.....” Questo passaggio è quasi un vero e proprio manifesto per la forma dell’opera - o dramma per musica com’era chiamata all’epoca - un proclama in favore del “parlar cantando” invece del “cantar parlando”. Paradossalmente, questa abilità nel commuovere gli ascoltatori tramite il canto di un solista sulla scena fu paragonato con il potere della musica mistica dell’antichità: un po’ come successe ad Annibale Carracci (un contemporaneo di Caravaggio) a cui fu rinonosciuta la moderna incarnazione dell’arte dell’ antichità classica. Partendo dalla nostra prospettiva di oggi, saremmo tentati di vedere gli sforzi di Monteverdi per ottenere un certo realismo sulla scena come un tentativo di sintetizzare nell’opera i drammi umani alla maniera di Shakespeare, e la realizzazione visuale di Caravaggio, quasi un’espressione del processo scientifico descritto da Francis Bacon nel suo sunto del metodo scientifico sperimentale Nel Novum Organum del 1620 Bacon si esprime con parole che potrebbero quasi essere prese per un manifesto estetico di Monteverdi o di Caravaggio. “Coloro, quindi, che propongono non di teorizzare e indovinare, ma di discutere e di sapere. Che sono decisi a non inventare favole e grottescherie, ma a studiare e sezionare la natura di questo mondo reale, devono studiare unicamente gli oggetti stessi” Questo cri de coeur di Bacon in favore di una stretta osservazione scientifica (un’attitudine peraltro anticipata da Leonardo da Vinci un secolo prima) è parallelo all’insistenza di Galileo sull’osservazione della realtà pura e semplice: di come i vari fenomeni si manifestano, della relazione tra causa ed effetto – una completa rottura insomma con l’ossessione dei suoi oppositori al perchè del manifestarsi di tali fenomeni. Lo sviluppo del pensiero scientifico che capovolge il concetto dell’universo e al suo interno dell’uomo stesso, avviene esattamente nel corso di due generazioni all’inizio del diciassettesimo secolo: inizia con Galileo e termina con I Principia di Newton. Newton, ricordiamo, nasce nello stesso anno della morte di Galileo. Questi due geni, con il contributo di Cartesio, Keplero e Huyghens fra gli altri, hanno espresso una nuova concezione dell’universo. Galileo ha fatto il primo passo concentrandosi non sul concetto del moto dei corpi ma sui suoi cambiamenti. Newton, poi, ha fissato questo concetto nella sua prima legge del moto: “un corpo mantiene stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché una forza esterna viene a modificare tale stato”. Questa formula demoliva un credo che aveva ostacolato il progresso della fisica per duemila anni, postulando l’esistenza di sistemi dinamicamente isolati all’interno dell’universo, governati da leggi pertinenti a se stessi e non contingenti al resto dell’universo. Sarebbe eccessivo sostenere che la rivoluzione – o forse la crisi – del pensiero e dello sviluppo musicale della prima metà del Seicento, così legata al nome di Monteverdi, abbia avuto uguale importanza nella storia dell’evoluzione del pensiero umano quanto la rivoluzione scientifica a cui ho accennato. Nonostante ciò, ci sono dei paralleli e delle coincidenze stimolanti. Galileo Galilei e Christian Huygens erano entrambi figli di musicisti. L’astronomo Keplero, fece riferimento alla musica moderna nel tentativo di illustrare la struttura dell’universo: l’armonia celeste, insisteva, non è metafisica, ma reale, anche se silenziosa. Invece di rifiutare ciò come un’assurdità, bisogna forse ammirare l’audacia del concetto di Keplero. Per lui l’armonia celeste era polifonica, formata dall’interazione di consonanze e intervalli moderni (le terze e seste che la tradizione pitagorea considerava imperfetti) geometricamente determinati e centrati e udibili sul sole (ma non sulla terra). Per Keplero quindi, la musica polifonica moderna non solo imitava, ma in effetti rivelava la struttura dell’universo celeste (impossibile per la musica monodica dell’antichità) ed era quindi intrinsecamente più bella di quella degli antichi. Questo fermento di idee, che influì su ogni aspetto della vita europea nei primi anni del Seicento è il contesto in cui possiamo meglio porre le esplorazioni musicali di Monteverdi. La Camerata Fiorentina aveva già postulato la concezione della musica come una forma esaltata della lingua parlata. Ma una totale rivoluzione musicale che portasse alla creazione di una nuova forma artistica chiamata opera, non poteva essere compiuta solo in base alla teoria. Lo stile monodico di Peri e Caccini, pur con la bellezza dei suoi passaggi più espressivi, è fondamentalmente monocromo e non drammatico. Le caratterizzazioni dei personaggi è debole e la loro gamma espressiva molto limitata. Soprattutto, le loro opere mancano di una chiara e coerente struttura musicale. Lo stesso si può dire della Dafne di Marco da Gagliano, pur con le sue armonie più ricche e la più elaborata successione di arie, duetti e brevi interludi strumentali scritti per interrompere lunghi passaggi di recitazione monodica. Per passare dalla teoria a una forma artistica vitale, ma sostenuta da una forma strutturale portante, era necessario un ingegno superiore. E fu proprio Monteverdi che compì il passaggio: nella Favola d’Orfeo (dove per favola si intende naturalmente “azione scenica”) ci presenta il paradigma della fusione di musica e poesia , in cui “tutti li interlocutori parleranno musicalmente”. Tra le numerose caratteristiche innovative dell’Orfeo, la più notevole è questa: i momenti più salienti della narrazione – la discesa di Orfeo agli inferi, la sua conversazione con Caronte, il suo ritorno con Euridice, e la sua perdita – non vengono riferiti, come nella Euridice di Peri/Rinuccini, ma si compiono sulla scena, davanti agli occhi degli spettatori. Bisogna però diffidare delle lodi dei contemporanei di Monteverdi che hanno visto in Orfeo il matrimonio perfetto tra poesia e musica. In realtà, attraverso tutta l’opera, si avverte sempre nell’aria la sensazione di un imminente divorzio tra le due, dato il contrasto fra le rispettive necessità, e cioè la solidità strutturale e l’espressione dei sentimenti. E questa tensione tra i due elementi, presente sin dai primi esempi, è una caratteristica intrinseca dell’opera come forma artistica. E per Monteverdi, questi due elementi, e la tensione tra la dimensione poetica, musicale e teatrale, rimasero il fondamento dei suoi molteplici e disparati esperimenti di tutta la sua vita di musicista. Per inciso, come musicista trovo altamente significativo che Orfeo, un’opera apparentemente celebrativa del potere della musica sembri finire con il suo fallimento – ammorbidito solo da un lieto fine che appare un po’ forzato. Mentre molti dei suoi contemporanei sprecarono tempo ed energie teorizzando sulla raison d’etre dell’opera, talora con polemiche accesissime, l’approccio di Monteverdi alla composizione operistica – da Orfeo a Poppea, e includendo opere minori in stile rappresentativo e anche la dozzina di opere perdute – fu sempre intrinsecamente pragmatico. Le sue lettere dimostrano come Monteverdi si preoccupasse molto più delle qualità individuali, delle pretese dei suoi interpreti e dei problemi di messa in scena in luoghi diversi, che non di fondamenti assoluti artistici o esistenziali. Ciò nonostante, e anche senza conoscere le sue composizioni andate perdute (i punti chiave mancanti nello sviluppo della sua opera come l’Arianna del 1608 – forse la perdita più grave – e le due opere scritte in collaborazione con Giulio Strozzi , La finta pazza Licori e Proserpina rapita), abbiamo abbastanza materiale che ci rivela i suoi straordinari poteri di immaginazione e come Monteverdi sia riuscito a coniugare la musica con la struttura e il significato di un testo poetico, superando I limiti intriseci di ciascuna componente, in un’ esplorazione di come un tale spettacolo di dramma per musica potesse toccare I sentimenti degli ascoltatori. E proprio in questo risiede il genio di Monteverdi: nella sua capacità di comporre musica in un’enorme varietà di generi – per rappresentazioni teatrali, da chiesa e da camera – e con il potere di commuovere gli ascoltatori . In un’epoca in cui la vita emotiva degli esseri umani era diventata un soggetto di estremo fascino, in cui i filosofi cercarono di definire il ruolo delle passioni del destino dell’umanità, e dove alcuni pittori – da Caravaggio e Rembrandt sino a Velasquez e Poussin – aspiravano a ritrarre la vita interiore dei loro soggetti, Monteverdi si distinse dai compositori contemporanei proprio per aver dedicato la sua intera carriera all’esplorazione musicale degli ideali di “imitazione” e “rappresentazione”. Con Orfeo, Monteverdi ha creato il passaggio da un testo cantato a una rappresentazione di un dramma per musica, con emozioni e sentimenti accentuati dalla musica. E anche in questo possiamo metterlo a confronto con gli astronomi o matematici suoi contemporanei, che non hanno inventato nuovi fenomeni, ma osservato fenomeni esistenti con una prospettiva diversa dando loro un significato diverso. E questa simbiosi tra parole e musica in Monteverdi non avviene solo nella sua musica profana, ma permea anche le sue composizioni sacre. Come ho già detto, Orfeo è il suo primo proclama musicale, il risultato di una pianificazione meticolosa di organizzazione tonale, dell’alternarsi di cori, arie e recitativi pieni di energia drammatica grazie anche all’uso imprevedibile delle dissonanze. La magnifica sequenza di musiche per il Vespro della Beata Vergine è, in questo, sua gemella. Il Vespro fu la prima pubblicazione di questo genere ad alternare salmi con mottetti extra-liturgici e a comprendere una versione musical dell’inno mariano corrispondente. Garantendo l’osservanza dei requisiti liturgici (il sacerdote poteva recitare sottovoce il testo dell’antifona prescritta durante il canto del mottetto) egli costruì una sequenza unitaria e simmetrica di musica “publica” e “privata” che consentiva una drammatica giustapposizione di sonorità e un’impressionante varietà di tessitura e atmosfere espressive. Nel Vespro Monteverdi dimostra ugualmente la sua abilità nel lavorare su vasta scala, nell’organizzare il materiale musicale in maniera strutturalmente coerente, ottenendo dei contrasti fra le dimensioni, lo stile e la temperatura emotiva. Sin dalla prima volta in cui ho diretto, ancora da studente, il Vespro a Cambridge, ho avuto la sensazione che il Vespro avesse molto in comune con la vitalità di un tableau rubensiano. Per una strana coincidenza, il mio College (il King’s) aveva appena ricevuto una donazione della magnifica “Adorazione dei Magi”, dipinta da Rubens a Mantova circa nello stesso periodo in cui Monteverdi componeva il Vespro della Beata Vergine. La presenza di questo splendido dipinto è stata una fonte d’ispirazione per i musicisti, e allora mi aveva incoraggiato a dirigere il capolavoro di Monteverdi per la prima volta nella cappella gotica del King’s College – un luogo che in realtà non si prestava né architettonicamente né in termini di tradizione musicale alla calda sonorità che cercavo di ottenere dalla musica di Monteverdi. Praticamente ogni aspetto del primo libro di musica sacra di Monteverdi ha incuriosito i musicologi per decenni. In effetti è inusuale in ogni suo aspetto, anche tralasciando il fatto che fosse a tutti gli effetti un insieme disparato di musiche. Alcuni accettano l’ipotesi che fosse stato concepito, almeno in parte, come un biglietto da visita a due facce: da un lato per ottenere un impiego a Roma (la Messa a cappella a sei parti in “stilo antico” che dimostrava le sue impeccabili credenziali controriformiste), dall’altro a Venezia (per il resto delle composizioni, un mosaico di salmi per il Vespro, cantici a due, mottetti vari e la famosa Sonata sopra Sancta Maria). Numerosi studiosi e direttori di coro hanno dato diverse interpretazioni di quale esattamente sia la musica che costituisce il Vespro della Beata Vergine – ossia quali delle composizioni comprese nel volume vadano incluse, quali omesse, in quale tonalità vadano suonate, eccetera. Come interprete, ho invece preso la decisione di includere tutta la musica – e nella sua esatta sequenza – pubblicata da Monteverdi nel 1610. La mia teoria è stata messa alla prova pratica in numerose esecuzioni in chiese e cattedrali di tutta Europa, specialmente in Italia; quella nel magnifico Duomo di Cremona, nel dicembre del 1993, resterà negli annali della mia storia di interprete come una delle più fredde: ogni suono usciva dalla bocca dei cantanti accompagnato da una nuvoletta di vapore. Questi concerti hanno rafforzato due mie convinzioni. La prima è che Monteverdi non ha mescolato mottetti e duetti con i salmi del Vespro a caso, o seguendo i suggerimenti del suo editore veneziano, Amadino, ma che proprio questa alternanza di stili e forme musicali sia la chiave del successo del Vespro: una dimostrazione della sua audacia stilistica e della solidità della sua strutturazione del pezzo (alla pari di Orfeo), ma con il Cantus Firmus Gregoriano come colonna portante dell’intero edificio musicale. La presenza di questo Cantus Firmus dona al Vespro l’apparenza di una successione di anelli a catena, dove il contrasto tra gli aspetti più opulenti (i salmi) e quelli più intimi (i mottetti solistici), ovvero tra il “pubblico” e il “privato”, crea un effetto di chiaroscuro sonoro. Considerati nel loro insieme e nella stessa sequenza della pubblicazione del 1610, questi novanta minuti di musica meticolosamente calibrati formano il più impressionante esempio di musica da chiesa mai scritta prima delle Passioni e della Messa in Si minore di Bach. E dobbiamo ricordare che i contemporanei di Monteverdi, e anche parecchi dei suoi successori, difficilmente componevano brani più lunghi di un madrigale di cinque minuti, o un salmo concertato di otto. La mia seconda osservazione è che questo lavoro – da un lato totalmente estroverso nella sua grandiosità, dall’altro intimamente devozionale – fosse stato formulato da Monteverdi come un paradigma di un possibile amalgama di elementi teatrali nella musica da chiesa, e dell’utilizzo degli spazi architettonici come dimensioni musicali. In sintesi, sono fondamentalmente convinto che proprio così lo abbia concepito Monteverdi, anche se lui stesso aveva pianificato esecuzioni indipendenti delle varie parti del Vespro. In particolare, sono convinto che fosse particolarmente mirato alla struttura architettonica e alle varie postazioni disponibili nella Basilica di San Marco a Venezia (il doppio pulpito e, sul lato opposto, la pergola esagonale dei Musici popolarmente chiamata il Bigonzo, le gallerie degli organi e le nicchie) e anche alla sua acustica magica, caratterizzata da una estrema chiarezza del suono pur con dei tempi di riverbero molto lunghi. Come la mano di Cristo sembra estendersi fuori dalla tela nella Cena di Emmaus di Caravaggio, così nel Vespro gli invisibili solisti echeggiano da ogni superficie della Basilica verso l’ascoltatore. Rappresentare il Vespro della Beata Vergine in San Marco – come ho fatto in più occasioni – significa ricreare la musica in un luogo per essa ideale, e dove ci si sente immersi in un’opera sacra, o se vogliamo in un dramma per musica spirituale, in cui musica e architettura entrano in simbiosi perfetta creando un banchetto visivo e auditivo. Sappiamo tutti come la musica del Vespro ottenne il risultato desiderato da Monteverdi, guadagnandogli, nel 1613, l’impiego italiano più prestigioso nell’ambito della musica da chiesa. Dopo vent’anni passati nel clima malarico di Mantova – alla spesso solforosa corte dei Gonzaga dove si trovò il più delle volte a lavorare troppo per un magro salario e scarso riconoscimento – Monteverdi ebbe a dire del suo impiego a Venezia “il servizio è più dolce”. Ma non si può certo sostenere che i suoi ultimi trent’anni di vita siano stati vissuti di rendita sul capitale musicale ammassato durante i suoi anni cremonesi e mantovani. Grazie a Nino Pirrotta, Lorenzo Bianconi e Paolo Fabbri tra i musicologi italiani, e Thomas Walker, Iainn Fenlon e Tim Carter tra gli stranieri, abbiamo un panorama più dettagliato della evoluzione personale e professionale di Monteverdi durante i suoi anni veneziani. E abbiamo così avuto modo di valutare la sua influenza come compositore di musica sacra anche nel portare a San Marco dei talenti quali Grandi, Cavalli, Rovetta e Rigatti: grazie alla loro comprensione dei principi della “prima” e “seconda Prattica” hanno aderito, e in certi casi portato avanti la ricerca di un’espressione musicale adeguata ai testi da musicare iniziata da Monteverdi negli anni precedenti. È curioso osservare come nel momento in cui la musica sacra concertata di Monteverdi tende più verso un’eufonia diatonica (almeno in confronto all’audacia e alla forza espressiva del Vespro), quella dei suoi successori (Cavalli e Rigatti in particolare) si muove verso una teatralità più estrema (penso, per esempio, all’adozione di Rigatti dello stilo concitato nei suoi vespri del 1640) e una sensualità più pronunciata, come nel Salve Regina a quattro voci di Rigatti. Qui sentiamo veramente un passaggio di idee musicali (e non solo di musicisti) tra il teatro e la chiesa. La musica del famosissimo duetto “Pur ti miro, pur ti adoro” che conclude l’Incoronazione di Poppea (che sia stato composto da Monteverdi oppure da Cavallo, Ferrari o Sacrati poco importa) la si poteva ascoltare una sera nel teatro Grimani a S. Giovanni e Paolo, e il giorno dopo durante la Messa in San Marco, con le parole “Sicut erat in principio” alla fine del Dixit Dominus di Rigatti. E questo non deve stupirci più di quanto ci stupisca che Caravaggio abbia dipinto una donna di strada nella sua Madonna dei Pellegrini, illuminata dal retro della tela da una luce spirituale. È inoltre interessante vedere come i due poli creativi di Monteverdi trovino nuove forme espressive negli anni Venti, Trenta e Quaranta del XVII secolo. Prima di allora, i Madrigali contenuti nel suo terzo, quarto, quinto e sesto libro si erano distinti da quelli dei suoi contemporanei (come Marenzio, Pallavicino, D’India e Gesualdo) per la loro particolare tensione armonica e per l’uso singolare delle dissonanze, sia nella dimensione orizzontale che verticale. Monteverdi solamente fece uso della tensione tra un’armonia tradizionale essenzialmente “modale” e il linguaggio armonico tonale del futuro (e tra i compositori delle generazioni seguenti solo Bach ha utilizzato la medesima tensione – compositiva e allegorica – nei suoi corali). L’invenzione dello stile concitato diede un’iniezione di energia alla musica proprio nel momento in cui l’impeto degli inizi del secolo sembrava esaurirsi: l’esempio migliore è quello del Combattimento di Tancredi e Clorinda. Heinrich Schutz conobbe bene questo lavoro estremamente provocatorio e polemico. Nell’ultima delle sue Sinfoniae Sacrae del 1647, Schutz accompagna le parole “Singet den Herrn ein neues Lied” con un tremolo dei violini ed una declamazione concitata del testo. Al tumulto dei guerrieri del Tasso si sostituisce l’ impressionante esaltazione e il terrore biblico del Salmo in lingua tedesca. Da qui passiamo facilmente all’uso che fa Bach dello stilo concitato in molte delle sue cantate di argomento più guerresco, e nella sezione centrale di “Es ist vollbracht” nella Passione secondo San Giovanni. Monteverdi stesso usò lo stilo concitato con più sottigliezza e impatto nel suo ottavo libro di madrigali: in modo più commovente e per esprimere il senso di appassionato conflitto e turbolenza emotiva, nel suo meraviglioso adattamento del sonetto “Hor che il cielo e la terra” del Petrarca. È giusto sottolineare, anche con una certa enfasi, il fatto che il musicista Monteverdi abbia preceduto di quasi venticinque anni il filosofo Cartesio nel tentativo di codificare e analizzare le passioni umane nel suo trattato “Le Passioni dell’anima” del 1649. E sarebbero dovuti trascorrere ancora cinquant’anni prima che il pittore Charles Le Brun trasferisse il sistema cartesiano dei principi opposti (come ad esempio Timore e Speranza) nel mondo della pittura. In ultima analisi, però, non sono né le teorie né gli esperimenti musicali di Monteverdi che lo rendono moderno. Ciò che lo rende contemporaneo è la sua umanità essenziale, che traspare chiaramente dalle sue lettere. Dei pochissimi compositori capaci di esprimere la propria personalità anche attraverso le lettere, Monteverdi è stato il primo (Berlioz e Janacek lo hanno seguito): leggendolo, rivela se stesso come un personaggio essenzialmente simpatico, orgoglioso, vanitoso, vulnerabile, fallibile ma soprattutto di grande umanità. Il suo carattere si manifesta con forza nelle sue descrizioni di come fu costretto ad aspettare davanti alla porta del tesoriere ducale a Mantova prima di ricevere la paga. O del suo ritorno a Cremona nel 1612 dopo il suo licenziamento improvviso dalla corte dei Gonzaga. O di come fu derubato durante il viaggio verso il nuovo impiego a Venezia e costretto ad arrivare nella sua nuova città senza un soldo e vestito solo di un mantello. E mi diverto ad immaginarlo aggirarsi nel Teatro Farnese a Parma meditando su come disporre gli strumentisti sulla scena per una naumachia senza che venissero anche loro sommersi, o per lo meno bagnati. Me lo immagino anche come un “omo che li piace il ragionare largamente in compagnia” dei suoi poeti-collaboratori come Striggio, Strozzi, Busanello e Baodaro o con il circolo dei suoi assistenti musicali come Cavalli e Ferrari, l’ultimo dei quali lo descrisse come un Oracolo della Musica. E mi dispiace molto di esser nato trecento anni dopo: troppo tardi per poter essere presente a uno di questi “ragionamenti”: tra tutti i compositori della storia, quello che avrei più voluto incontrare è proprio, e sempre, il divino Claudio. Grazie.