Vienna, martedì 23 marzo 1954, le due di pomeriggio

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Vienna, martedì 23 marzo 1954,
le due di pomeriggio.
Walter Kridl, addetto alla reception dell’hotel viennese Kärntnerhof, fece tintinnare nervosamente le chiavi
mentre osservava con aria sospettosa l’uomo anziano che
si era lasciato cadere su una poltrona nella hall dell’albergo. L’uomo si sventolava col cappello per asciugare il sudore che gli imperlava la fronte in quella calda giornata
primaverile. Kridl non si fidava dei clienti che, con la loro eleganza vistosa, gli anelli con sigillo e i gemelli d’oro,
oppure i capelli incollati alla testa, accuratamente pettinati con la riga in mezzo, gli ricordavano i contrabbandieri,
i gangster, oppure gli agenti dei servizi segreti che avevano fatto fortuna all’incrocio delle zone d’occupazione nella metropoli danubiana. Con le barbe folte e gli occhiali
da sole spessi quegli uomini tentavano di nascondere il proprio passato – non di rado filohitleriano – così come, portandosi in camera prostitute minorenni, cercavano di dissimulare l’impotenza senile. «Ma guarda come se ne sta
stravaccato questo!», pensò Kridl, fissando con malevolenza l’uomo anziano che, di lì a breve, avrebbe cominciato a tamburellare con la sigaretta sul portasigarette, di certo fatto con i denti d’oro degli ebrei. Avvolto in una nube di fumo aromatico, avrebbe poi puntato il dito contro
di lui, esigendo una «signorina dalle forme piene». In
realtà, il comportamento dell’uomo non parve avvalorare
le ipotesi di Kridl: non solo non reclamò un bel nulla, ma
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non stava nemmeno fumando, e la sua barba ispida e gli
enormi occhiali neri non mascheravano un vergognoso passato, bensì cicatrici bianco-rosse da ustioni, o forse – Kridl
non si dava per vinto tanto facilmente – entrambe le cose. Tutto il resto – l’anello con sigillo, il braccialetto d’oro, le scarpe lustre come specchi, quel tedesco strano la cui
cadenza Kridl non aveva mai sentito – era piuttosto inquietante e corrispondeva perfettamente allo stereotipo
del «pesce grosso» del demi-monde viennese che nuotava
nell’acqua torbida delle quattro potenze d’occupazione per
sbrigare i suoi affari poco chiari.
Anche i tipi apparsi ora sulle scale non lo convincevano affatto. Li aveva già visti il giorno prima, quando quattro giovanotti avevano fatto irruzione nella hall insieme a
un ubriaco col cappello calato sugli occhi. Dopo averlo gettato su quella stessa poltrona dove adesso stava il vecchio
dal volto ustionato, avevano ricordato a Kridl la prenotazione fatta qualche giorno prima dalla polizia. Senza fare
domande, lui si era limitato a dare un’occhiata al tesserino intestato a Jörg Hanuschek, consegnandogli la chiave
della camera numero cinque. Aveva nascosto velocemente in tasca la banconota da venti scellini appena ricevuta,
poi si era perso nella contemplazione delle scarpe dell’ubriaco che sbattevano sulle scale, un gradino dopo l’altro,
e delle spalle larghe degli agenti che sembravano sul punto di far esplodere le giacche attillate. Un attimo dopo aveva già attivato l’eccellente sistema di intercettazione installato dalla Gestapo in seguito alla gloriosa annessione
dell’Austria al Terzo Reich. Aveva orientato la manovella sul «5», poi aveva accostato l’orecchio infiammato dalla curiosità alla vecchia cornetta. Ma i suoni provenienti
dalla stanza erano destinati a deluderlo. Per ventiquattro
ore infatti il cavo avrebbe trasmesso unicamente lo scal-
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piccio delle scarpe sul pavimento e il rumore dello sciacquone. Per un’intera giornata, nella camera numero cinque, nessuno aveva proferito parola.
Neanche adesso aprirono bocca due di quei tipi e l’uomo anziano, che alla loro vista si era alzato dalla poltrona.
Il vecchio si tolse per un istante gli occhiali e Kridl scorse
occhi arrossati e sporgenti su un volto increspato da cicatrici. Sugli agenti – a differenza sua – quello spettacolo
non produsse la benché minima impressione. Si limitarono a fare un cenno con la testa, indicando al dandy attempato le scale. Una volta spariti nel corridoio, Kridl girò la
manovella sul «5» e avvicinò l’orecchio alla cornetta. Poi
aumentò il volume e si concentrò. Di colpo sentì di nuovo l’orecchio che gli bruciava. Ma stavolta non era la curiosità, bensì una botta violenta che l’aveva scaraventato
giù dalla sedia. Il mingherlino Kridl volò nello spazio angusto della guardiola e le sue scarpe rimbombarono sulle
pareti di legno.
– Non è bello, non è bello origliare così, – grugnì un tizio alto col cappello, chinandosi su di lui. Il secondo e ultimo pugno, assestato all’altro orecchio, lo privò del senso dell’udito. Riverso sul pavimento Kridl boccheggiava,
con gli occhi fuori dalle orbite.
L’uomo col cappello appoggiò vicino all’apparecchio un
congegno simile a una piccola radio a transistor. Dopo
averlo acceso, sollevò l’asse del banco che separava la reception dalla hall e si ritrovò al posto di lavoro di Kridl.
Lo rimise seduto sulla sedia, calcandogli il berretto di servizio sulla fronte con una manata, poi scrisse su un cartoncino: «Non toccarlo, altrimenti le prendi. Ti tengo d’occhio». Scostò la tenda pesante che divideva la reception
dal retro e tirò fuori un oggetto identico a quello che aveva messo accanto all’apparecchio, ma con un microfono
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che collegò a un piccolo magnetofono a bobina estratto
dalla tasca del cappotto. Connesse con un cavo l’altra presa del magnetofono a una cornetta che accostò all’orecchio, sostituendo Kridl nell’ascolto:
«… un’attestazione che siamo del Mossad? O magari
ha bisogno di un timbro? Lei in compenso potrebbe… come agente della Cia…»
«Veda un po’ di non fare dell’ironia… se nell’uomo che
volete mostrarmi dovessi riconoscere un criminale di guerra e voi non… dite di essere, ma di Odessa, allora come la
mettiamo?»
«Le sembro forse un tedesco? Un SS? Buon per lei che
è una persona anziana e un nostro ospite, altrimenti non
le lascerei passare quest’indelicatezza… Le basta il mio
numero del campo di concentramento o le devo far vedere altro?»
«Sì, certo. Quell’uomo, ad esempio». (Porta sbattuta).
«È qui, seduto sul cesso. Togligli la maschera, Avram!»
(Fruscio di stoffa).
«Riconosce quest’uomo?»
(Attimo di silenzio). «No, non lo riconosco… Mi dica
la sua presunta identità attuale. Questo mi aiuterà…»
«E perché mai? Se lei non lo riconosce, allora noi la
ringraziamo e liberiamo questo tizio».
«Ma non lo sa che, di fronte a criminali di guerra, la
vittima spesso rimuove tutto dalla memoria…»
«E lei sarebbe stato una vittima? Da quanto ne so, era
piuttosto quello che dava gli ordini (in tono rabbioso). Ma
che diavolo! Lo guardi ancora una volta!»
«Gli ordini li puoi dare soltanto ai tuoi mocciosi nel deserto della Giudea, capito?» (Porta sbattuta).
«Aspetti, capitano Mock! Mi sono lasciato trasportare… Si chiama Helmut Crestati ed è un commerciante di
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Salisburgo. È sospettato di essere in realtà l’Obergruppenführer delle SS Hans Gnerlich, vicecomandante a GroßRosen, in seguito comandante del campo di lavoro di Breslavia…»
«No, Hans Gnerlich non è».
«Ne è certo?»
«Sì, sono sicurissimo, non è lui».
(Dopo un lungo istante di silenzio). «La ringrazio, signor
capitano. Arrivederci!»
«Arrivederci».
(Porta sbattuta). «Avram, fallo bere, poi senza farti notare riportalo al suo albergo!»
Tutto arzillo, l’anziano signore ridiscese le scale. Walter
Kridl, che sentiva nelle orecchie le campane di bronzo della cattedrale, non lo guardò neppure – né quando si avvicinò alla reception né quando ne varcò la soglia. Non sollevò lo sguardo neanche mentre l’uomo anziano con gli
occhiali e il tizio alto col cappello lasciavano insieme l’albergo. Ma nel frastuono di tutto quel bronzo si insinuò un
suono penetrante: il campanello alla porta. A farsi largo
nella sua mente fu anche una frase pronunciata dall’uomo
col volto ustionato. Kridl non era sicuro di aver sentito
bene e quando, a distanza di settimane, la polizia lo interrogò, si giustificò una decina di volte con lo scampanio nelle orecchie, prima di ripetere quel che gli era parso di udire dalle labbra dell’uomo sfigurato. Ripensò a lungo al tono
sollevato della sua voce felice, e solo quando gli inquirenti furono sul punto di perdere la pazienza, ammise titubante che il vecchio aveva gridato:
«Ce l’abbiamo in pugno!»