Eugenio Guadagno ELEMENTI DI FISICA Volume I UTE – Cinisello Balsamo Anno Accademico 2007-08 Introduzione Fin dai primordi l’uomo si è posto molte domande su ciò che lo circonda e sui meccanismi che regolano i fenomeni naturali e, dapprima con felici intuizioni poi con metodi sempre più razionali, è riuscito a capire e formulare molte delle leggi che li disciplinano. La scienza che studia in modo ordinato questa materia è la fisica. Com’è facile intuire l’argomento è molto vasto. Esso abbraccia infatti fenomeni meccanici, acustici, termici, ottici, magnetici, elettrici e, in senso più lato, anche fenomeni astronomici, geologici, chimici, nucleari, biologici ecc. perciò la sua trattazione è suddivisa in settori omogenei, anche se collegati e interdipendenti. Lo studio di questi fenomeni, o almeno di alcuni di essi, è iniziato da millenni e certamente già da allora aveva permesso di acquisire conoscenze molto valide, particolarmente nei campi dell’astronomia e della statica, come dimostrano tante imponenti testimonianze che ancora oggi lasciano stupiti. Ma la sistematicità e la razionalità è stata introdotta in questa materia molto più di recente, a partire dal XVI secolo, soprattutto per opera di Galileo Galilei1. Lo studio di un fenomeno normalmente consiste nel cercare la causa che lo determina e nel definire gli effetti che produce. Questo concetto era chiaro fin dagli albori della cultura umana ed era stato oggetto di trattati sistematici da parte dei filosofi greci, soprattutto di Aristotele2. Le relazioni fra cause ed effetti però erano state cercate ed espresse come concetti filosofici e, pertanto, non misurabili. L’innovazione introdotta da Galileo fu che per completare lo studio di un fenomeno, occorre tentare di misurare, in qualche modo, l’entità sia della causa sia degli effetti e vedere se fra loro esiste una correlazione, ovvero una “legge” che li regola. Per poter effettuare più agevolmente queste misure bisogna cercare di riprodurre, o simulare, il fenomeno in laboratorio e verificare innanzi tutto se le stesse cause producono sempre gli stessi effetti e poi come variano gli effetti al variare delle cause. In tal modo le leggi che regolano i fenomeni fisici possono essere espresse da formule matematiche che legano le misure delle cause alle misure degli effetti e permettono quindi di prevedere l’evolversi degli stessi fenomeni anche in condizioni diverse. È questo il cosiddetto “metodo sperimentale” che, da quel momento, ha rivoluzionato lo studio della fisica ed ha creato le premesse per lo sviluppo industriale che è sotto i nostri occhi. Un aspetto importante del metodo sperimentale è che esso lega strettamente la fisica con la matematica, che diventa lo strumento razionale che permette di descrivere in modo univoco i fenomeni naturali. Questa lunga premessa, necessariamente un po’ vaga, non deve spaventare. L’obiettivo che ci proponiamo, infatti, è di rendere il più possibile semplice l’apprendimento dei fenomeni fisici, cercando di interpretarli come fatti piuttosto che come risultati di formule matematiche. Questo non per disconoscere l’importanza che la matematica ha avuto e continua ad avere nella scoperta e, a volte, anche nella previsione delle leggi che regolano i fenomeni fisici, ma solo per rendere la materia accessibile anche a chi non abbia un’approfondita cultura tecnica di base. 1 2 Galileo Galilei (1564-1642), fisico e astronomo italiano Aristotele (384-322 a.C.), filosofo greco i L’ordine secondo cui saranno presentati gli argomenti è quello classico della fisica sperimentale: Meccanica Termologia Acustica Ottica Elettricità Magnetismo. Sarà infine fatto un breve cenno alla struttura fisica della materia. Il primo volume comprende i primi due argomenti, il secondo volume i rimanenti. Le figure contenute sono state, per la maggior parte, appositamente elaborate per questi testi. Solo alcune di esse sono state tratte da varie fonti da cui non risultavano espliciti divieti sul loro uso e riproduzione. Qualora emergessero vincoli di cui, in buona fede, non si sia tenuto conto, si prega di segnalarli. Tali figure saranno eliminate nelle prossime edizioni di questi volumi. Eugenio Guadagno UTE – Cinisello Balsamo Anno Accademico 2007-08 ii Meccanica Generalità La meccanica è quella parte della fisica che studia l’equilibrio ed il moto dei corpi. Questa definizione probabilmente non soddisfa né i teorici della fisica, che la considereranno riduttiva, né i profani perché per loro può risultare poco comprensibile. Poiché questo testo è destinato a chi con la fisica non ha molta dimestichezza ne chiariremo il significato pensando soprattutto a questi ultimi. L’equilibrio è lo stato in cui un corpo si trova quando resta fermo rispetto ad altri corpi. In quali campi questo concetto trovi la sua applicazione è facilmente intuibile se si pensa alle costruzioni civili, a partire dalla caverna dell’uomo primitivo, fatta di pietre che dovevano star ferme l’una sull’altra, alle soluzioni sempre più brillanti man mano che dalla caverna si è passati alla casa, al tempio, al ponte, alla galleria, al grattacielo, ecc. La parte della meccanica che studia i problemi relativi all’equilibrio si chiama “statica”. Lo studio invece del moto dei corpi si divide in due parti. La prima prende il nome di “cinematica” e studia “come” si muovono i corpi, la seconda, la “dinamica, studia invece “cosa” li fa muovere. Non è difficile notare che gli oggetti si possono muovere in modi molto diversi. Si pensi ad esempio al moto di una mela che cade da un albero, al moto di un oggetto trascinato sul terreno, al moto di una ruota, alla traiettoria di un proiettile, al moto dei pianeti. Lo studio sistematico di questa materia, cioè della cinematica, insieme a una serie di ingegnose intuizioni ha prodotto tante utili applicazioni, quali il carro, la carrucola, la macina, gli ingranaggi le macchine complesse. L’altro aspetto che riguarda i corpi in movimento è cosa li fa muovere. Cosa permette ad un’automobile ferma di mettersi in movimento? Cosa permette ad un aereo di volare? Si racconta che Icaro non riuscì a volare perché il calore del sole aveva sciolto le sue ali di cera, ma è solo perché non hanno ali di cera che gli aerei volano? È la dinamica che da una risposta a queste domande. Essa ha contribuito in maniera sostanziale a rendere preciso e prevedibile il moto di un oggetto in terra, in mare, nei cieli (cioè nell’atmosfera) e nell’intero universo. La statica, la cinematica e la dinamica sono appunto gli argomenti che ci accingiamo ora ad esaminare più da vicino. 1 Capitolo 1 – Statica Le forze Immaginiamo di trovarci in una pianura senza nessun essere vivente intorno a noi, in assenza di vento e di qualsiasi altra sollecitazione. Tutto quello che ci circonda è immobile ed ogni oggetto ha una sua forma definita ed immutabile. Perché un oggetto qualsiasi si sposti o cambi forma occorre che intervenga su di esso un’azione che ne modifichi lo stato. A questa azione si dà il nome di “forza”. Ad esempio, se avviciniamo una calamita ad un oggetto metallico fermo questo si muove spostandosi verso la calamita. Se invece l’oggetto è in movimento, esempio una biglia che rotola, la sua traiettoria si modifica. Oppure, se esercitiamo una spinta su un corpo vincolato, ossia che non può spostarsi, ad esempio il ramo di un albero, questo si deforma, cioè la sua forma si modifica fino a quando non cessa l’azione. In entrambi i casi abbiamo applicato a quei corpi una forza. Una forza quindi si definisce come un’azione capace di modificare la posizione di un corpo in quiete o la traiettoria di un corpo in movimento o la forma di un corpo vincolato. Una forza può essere debole, media o forte, ossia, come tutte le grandezze, ha una caratteristica misurabile che ne definisce l’intensità. Nel caso di una forza, però, ciò non è sufficiente a definirla completamente. Bisogna infatti anche precisare in quale direzione essa agisce, ad esempio verticale od orizzontale, ed anche in quale verso, ossia verso l’alto o il basso oppure verso destra o sinistra. Non basta quindi un numero ed un’unità di misura, ma occorre una rappresentazione più completa. Le grandezze che hanno queste caratteristiche si chiamano “grandezze vettoriali” o “vettori” e per indicarle compiutamente si usano delle rappresentazioni grafiche formate da segmenti di cui la lunghezza è rappresentativa dell’intensità, la retta su cui giacciono indica la loro direzione ed un segno di freccia indica il verso. La Figura 1 mostra alcune forze a fianco di ciascuna delle quali è indicata l’intensità e la relativa unità di misura, chiamata Newton3 (N), che sarà definita più compiutamente in seguito. Si noti che, nella rappresentazione, la lunghezza del segmento è proporzionale all’intensità della forza, mentre direzione e verso sono indicati, come detto sopra, dalla retta su cui giace il segmento e dal segno di freccia ad uno dei suoi estremi. Ciò premesso, osserviamo ora che tutti i corpi presenti sulla terra sono soggetti ad un’azione, simile a quella di una potente calamita, esercitata dalla terra stessa. 3 Isaac Newton (1642-1727), scienziato inglese 2 Quest’azione si manifesta come una forza, la “forza di gravità” o “forza peso”, che attrae i corpi verso il centro della terra. L’intensità di questa forza dipende dalla massa del corpo e dalla sua distanza dal centro della terra e, più precisamente, è tanto maggiore quanto maggiore è la “massa” del corpo mentre diminuisce se il corpo si allontana dal centro della terra. È opportuno chiarire meglio questi concetti. La massa è una caratteristica di un corpo che potremmo definire come la quantità di materia che costituisce il corpo. Essa è costante, ossia non cambia se il corpo si trova nell’acqua o su un aereo o su un altro pianeta. Per far cambiare la massa di un corpo occorre aggiungere o togliere materia al corpo. Quando una massa si trova nel campo d’azione della gravità terrestre viene attratta ver- 1.5 N Direzione Verso N Intensità 2 N Figura 1 - Forze so il centro della terra con una forza cui si dà il nome di peso. Come detto, questa forza varia in funzione della distanza del corpo dal centro della terra e quindi il peso di uno stesso corpo è maggiore al polo che all’equatore (a causa della non perfetta sfericità della terra) ed è maggiore a livello del mare che in cima ai monti. Ad una certa distanza dalla terra poi questa forza si annulla quasi completamente e quindi il corpo non ha più peso, la sua massa tuttavia rimane invariata. Si pensi ad esempio ad un astronauta in una navicella spaziale: non ha più peso, infatti lo si vede fluttuare con estrema leggerezza all’interno della navicella, ma il suo corpo ha mantenuto interamente la sua integrità cioè la sua massa. A questo punto sorge spontanea una domanda: se una forza è qualcosa che sposta o deforma un corpo e se tutti i corpi presenti sulla terra sono soggetti alla forza peso, come 3 mai i corpi che si trovano in quella pianura che abbiamo menzionato prima non si muovono e non cambiano forma? A questa domanda risponderemo più avanti, dopo aver approfondito alcune ulteriori caratteristiche relative alle forze ed ai vettori che le rappresentano. Misura di una forza Misurare una grandezza è un’esigenza fondamentale nella fisica. Solo misurandole, infatti, è possibile determinare se due grandezze sono uguali o diverse e, in questo caso, quale sia maggiore o minore. L’unità di misura può essere scelta arbitrariamente, ma se si vuole mantenere una coerenza fra vari esperimenti, si deve avere l’accortezza di usare sempre la stessa unità di misura. Se poi si vogliono confrontare i risultati dei propri esperimenti con quelli degli altri ricercatori bisogna che l’unità di misura sia comune a tutti. In sede internazionale, quindi, è necessario concordare quali unità di misura utilizzare per ogni fenomeno fisico che si voglia esaminare. Una trattazione più completa delle unità di misura delle grandezze fisiche sarà fatta più avanti. Nel frattempo indicheremo di volta in volta le unità di misura che si usano per le varie grandezze che incontreremo nel corso della trattazione, cominciando quindi dalle forze. Per la misura di una forza si farà ricorso alla proprietà che una forza ha di far cambiare forma ad un corpo. Innanzi tutto notiamo (Figura 2) che un corpo elastico, per esempio una molla, sotto l’azione di una forza, per esempio un peso, subisce una deformazione che dipende dal peso che è stato applicato. Possiamo allora cominciare a definire che due pesi sono uguali se provocano deformazioni uguali e che fra due pesi è maggiore quello che provoca deformazioni maggiori. Si nota inoltre che se si applicano contemporaneamente due pesi uguali, quindi un peso doppio, la deformazione è doppia di quella provocata da uno solo di essi e così anche è tripla se se ne applicano tre e così via. Esiste cioè una proporzionalità diretta fra la forza applicata e la deformazione provocata. La semplice apparecchiatura appena descritta, chiamata “dinamometro”, permette quindi di misurare le forze e, più precisamente, scelta una forza come riferimento o unità di misura, le altre misurano 1 oppure 2 oppure 3 ecc. a seconda che producano deformazioni uguali, doppie, triple ecc. 4 L’unità di misura delle forze, come già detto, si chiama Newton. Una definizione corretta di questa unità di misura richiede altre conoscenze che saranno acquisite più avanti. Per ora ci limitiamo ad assumere di avere a disposizione un campione del peso di un Newton rispetto a cui misuriamo per confronto gli altri pesi. È necessario a questo punto riconoscere che il Newton è un’unità di misura che non ci è familiare, mentre il peso ci è molto familiare ma siamo abituati a misurarlo con un’unità di misura diversa, il chilogrammo. Come mai? Purtroppo questo problema ha spesso creato un po’ di confusione in testa ai neofiti che 4 In realtà la proporzionalità fra forza e deformazione esiste soltanto entro certi limiti che dipendono dal materiale con cui è costruita la molla. Al di sopra di un certo livello di forze il materiale subisce uno stiramento non più elastico per cui non solo la deformazione non è più proporzionale alla forza applicata, ma, al cessare della sua azione, la molla non riprende la stessa forma che aveva prima e rimane deformata permanentemente. In questo campo, ovviamente, l’apparecchiatura non è più adatta allo scopo. 4 si avvicinavano allo studio della fisica. Cerchiamo di chiarirlo subito. Il chilogrammo è l’unità di misura di una massa (cioè, come detto sopra, della quantità di materia) mentre il peso è una forza e la sua unità di misura più conosciuta è il chilogrammo-forza. Per anni si è usato lo stesso nome (a parte il suffisso) per misurare due caratteristiche collegate ma diverse. Inoltre il suffisso “forza” è normalmente omesso nella pratica quotidiana col risultato che, anche concettualmente, si è indotti a confondere la massa con il peso. A parte però questa precisazione, il chilogrammo-forza è normalmente usato come unità di misura dei pesi e la relazione che intercorre fra le due unità è: 1 chilogrammo-forza = 9.8 Newton 1N 0 0 0 1 1 1 2 2 2 3 3 3 4 4 2N 4 3N Figura 2 - Misura di una forza Il Newton cioè è circa 10 volte più piccolo del chilogrammo-forza (cioè è circa uguale a quello che normalmente chiamiamo etto) per cui, ad esempio, una persona che pesa 80 chili pesa 784 Newton (80×9.8). Quando definiremo più propriamente il Newton ci renderemo conto anche del perché il coefficiente che lega le due unità è 9.8. Un’applicazione pratica del dinamometro è la bilancia a molla. In Figura 3 sono riportati due esemplari di bilancia a molla. Quella di sinistra è molto simile allo schema riportato sopra ed è una bilancia di laboratorio, mentre quella a destra è (chi non la ricorda?) la vecchia bilancia a molla dei nostri nonni. 5 I vettori Le forze, come si è detto, sono delle grandezze vettoriali. In fisica esistono molte altre grandezze di questo tipo per cui, prima di procedere, è opportuno esaminare alcune caratteristiche dei vettori e alcune operazioni elementari fra grandezze vettoriali. Una prima distinzione che occorre fare è fra vettori “liberi” e vettori “applicati”. I vettori liberi sono quelli rappresentativi di una grandezza per la quale è importante definire l’intensità, la direzione ed il verso, ma non il punto a cui essa è applicata. Per esempio, la velocità del vento in una certa zona può essere indicata da un vettore di cui non è importante conoscere il punto di applicazione. La forza che il vento esercita su una certa superficie, invece, deve essere applicata su un punto di quella superficie. Ne consegue che un vettore libero può essere spostato parallelamente a sé stesso senza perdere il suo significato, mentre il punto di applicazione di un vettore applicato può eventualmente scorrere lungo la retta di direzione del vettore, ma cambia significato se si sposta su un’altra retta anche se parallela. Ciò premesso, vediamo ora come si effettua la somma di due o più vettori liberi che giacciono sullo stesso piano. Esaminiamo dapprima il caso di due vettori che hanno la stessa direzione e lo stesso verso. È questo il caso già illustrato nella Figura 2, dove nel secondo e terzo caso si sono sommati i pesi di due e, rispettivamente, tre oggetti uguali fra loro. Come è subito apparso intuitivo la somma dei vettori è uguale ad un vettore che ha la stessa direzione e 6 lo stesso verso dei vettori addendi e, come intensità, la somma delle intensità. In realtà in questo caso si trattava di vettori applicati, ma il risultato non sarebbe cambiato se si fosse trattato di vettori paralleli liberi; questi ultimi però dovevano essere portati sulla stessa retta prima di essere sommati (diverso è il caso, esaminato più avanti, di vettori paralleli applicati). Se i due vettori hanno la stessa direzione ma verso contrario, la loro somma è un vettore che ha la stessa direzione, il verso del vettore di intensità maggiore e un’intensità uguale alla differenza delle due intensità. Naturalmente la somma di due vettori che hanno la stessa intensità ma di verso opposto è uguale a zero. Se i vettori non hanno la stessa direzione, Figura 4, la somma si effettua in modo diverso. Innanzi tutto, bisogna spostare i due vettori lungo le loro rette d’azione fino a far Figura 4 - Somma di vettori convergenti coincidere i punti di origine 5, poi si costruisce un parallelogrammo portando dagli estremi dei due vettori le parallele alle due direzioni, e infine costruendo la diagonale del parallelogrammo che va dall’origine dei due vettori all’angolo opposto. La somma dei due vettori è il vettore che ha come direzione la retta su cui giace la diagonale, come intensità quella indicata dalla lunghezza della diagonale e come verso quello che va dall’origine comune dei vettori all’angolo opposto. Questa costruzione può apparire come una fantasiosa soluzione teorica. Se però si vuole un’applicazione pratica si pensi ad un barcone trascinato lungo un canale da due trattori, 5 Naturalmente, perché ciò avvenga occorre che i due vettori si trovino sullo stesso piano e non siano paralleli. 7 che avanzano ciascuno su ogni riva del canale (Figura 5). La forza che ognuno di essi esercita sul barcone va dal barcone verso la riva, ma il barcone procede diritto lungo l’asse del canale, ossia sulla diagonale dell’ipotetico parallelogrammo che si potrebbe costruire come detto prima. Ma c’è di più. Senza volersi addentrare nel campo della trigonometria, basti dire che se si conoscono le lunghezze dei due vettori e l’angolo che essi formano, è possibile calcolare con delle formule matematiche la lunghezza della diagonale del parallelogrammo ed un semplice apparecchio di laboratorio, come quello riportato a destra della Figura 4, permette di verificare, nel caso che i vettori rappresentino delle forze peso, che il risultato del calcolo corrisponde esattamente alla realtà, in altre parole, il peso che bisogna applicare per bilanciare i due pesi corrisponde a quello che, nella scala adottata, è rappre- sentato dalla lunghezza della diagonale del parallelogrammo. Se i vettori da sommare sono più di due, si sommano prima due di essi, poi la risultante dei primi due si somma ad un terzo e così via. Non ha importanza quale sia l’ordine che si segue per effettuare le somme perché anche in questo caso, come nelle semplici addizioni fra numeri, vale la proprietà commutativa, ossia cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Vediamo ora come si effettua la somma di vettori paralleli. Ci riferiamo ovviamente a vettori vincolati, perché per i vettori paralleli liberi si è già detto prima. La Figura 6 riporta i due casi di vettori paralleli che hanno lo stesso verso (nella figura a sinistra) o verso opposto (nella figura a destra). Ci limiteremo per ora solo ad enunciare, riservandoci di dimostrarlo più avanti, che: 8 La somma di due vettori paralleli vincolati, aventi lo stesso verso, è un vettore la cui direzione è parallela a quella degli addendi, l’intensità è uguale alla somma della loro intensità ed il verso è lo stesso dei vettori addendi. Il punto di applicazione del vettore risultante è situato all’interno del segmento che congiunge i punti di applicazione dei due vettori addendi. Le distanze di questo punto dalle rette di direzione dei due vettori addendi sono inversamente proporzionali alla loro intensità. Più precisamente, se A e B sono le intensità dei due vettori addendi ed a e b le due distanze del punto di applicazione della risultante dalle loro direzioni, la relazione che lega queste grandezze è la proporzione: A:B=b:a a b b a B B A A+B A-B A A : B= b : a Figura 6 - Somma di vettori paralleli In parole povere, se i due vettori addendi sono diversi fra loro, il vettore risultante è più vicino al vettore maggiore e, più precisamente, se il vettore A è il doppio di B, il segmento a, che è la distanza del punto di applicazione della risultante dalla direzione di A, è la metà di b, che è la distanza del punto di applicazione della risultante dalla direzione di B. La somma di due vettori paralleli vincolati di verso opposto, è un vettore la cui direzione è parallela a quella degli addendi, l’intensità è uguale alla differenza delle loro intensità ed il verso è quello del vettore maggiore. Il punto di applicazione del vettore risultante è situato all’esterno del segmento che congiunge i punti di applicazione dei due vettori addendi e la sua distanza dalle direzioni dei due vettori è 9 inversamente proporzionale all’intensità dei due vettori addendi. Anche in questo caso cioè vale la stessa relazione riportata sopra. Un’altra operazione semplice, ma molto importante, è la scomposizione di un vettore in altri due la cui somma sia uguale al vettore assegnato. La Figura 7 mostra il caso di un vettore A che viene scomposto in due vettori aventi direzioni passanti per il suo punto di applicazione. Il procedimento da seguire è analogo a quello col quale si effettua la somma di due vettori. Occorre cioè costruire un parallelogramma portando, dall’estremità del vettore A, le parallele alle due direzioni secondo cui lo si vuole scomporre. I due lati del parallelogrammo contigui al punto di applicazione di A sono i due vettori cercati. Si noti che l’intensità dei due vettori componenti non è univocamente definita, ma di- A A Figura 7 - Scomposizione di vettori pende dall’inclinazione delle due direzioni rispetto al vettore A. Nella parte destra della figura infatti è mostrato lo stesso vettore che viene scomposto in due vettori che hanno direzioni che formano angoli molto maggiori dei precedenti rispetto alla direzione di A. Il risultato è che i due vettori componenti risultano in questo caso molto maggiori dei precedenti. Si noti inoltre che la loro intensità è addirittura maggiore dell’intensità del vettore A, che ne è la somma. Ancora una volta queste nozioni possono sembrare astratte, ma la loro importanza ed il loro significato pratico diventerà più evidente in seguito. 10 L’equilibrio dei corpi Torniamo ora alla domanda che ci eravamo posti: come mai i corpi di quella ipotetica pianura sono fermi, anche se su di essi agisce la forza peso? Ora che conosciamo meglio le caratteristiche delle forze possiamo facilmente intuire che deve esistere qualche altra forza che si somma alla forza peso e la annulla. È evidente che deve trattarsi di una forza che ha la stessa direzione, la stessa intensità e verso contrario perché la somma sia nulla. Ebbene è proprio così. Un corpo che poggia su una superficie piana o che è sospeso ad un filo o che è in altro modo trattenuto da qualche impedimento è un corpo soggetto a vincoli e si chiama appunto “corpo vincolato”. Ed è appunto il vincolo che esercita sul Figura 8 - Coppia di forze corpo una forza uguale e contraria al peso che, sommandosi ad esso, l’annulla. Da quanto detto risulta che una delle condizioni necessarie perché un corpo sia fermo o, come si dice, in quiete è che la somma delle forze che agiscono su di esso sia nulla. Ma approfondendo un po’ l’analisi si scopre subito che questa condizione, da sola, non è sufficiente. Per rendercene conto con un semplice esperimento, consideriamo una ruota (Figura 8) libera di muoversi, eventualmente anche solo intorno al suo asse. Se in due punti diametralmente opposti applichiamo due forze di uguale intensità, parallele e di verso opposto la ruota comincia a girare. Eppure sappiamo che la somma di due forze di uguale intensità e di segno opposto è nulla, cioè che sulla ruota non agisce nessuna forza. Cosa è dunque che ha modificato lo stato di quiete della ruota? Evidentemente è stata proprio 11 l’azione combinata delle due forze uguali, parallele e di segno opposto. Un sistema di questo tipo si chiama “coppia di forze” ed ha appunto la proprietà di imprimere ad un corpo soltanto una rotazione, senza nessuna traslazione. La ruota cioè, anche se fosse libera e non incernierata sul suo asse, sotto l’azione di una coppia di forze subirebbe solo una rotazione senza nessuna traslazione. Lo stesso accadrebbe per qualsiasi corpo su cui agisse solo una coppia di forze. Il sistema appena descritto è molto comune in tante applicazioni pratiche e merita quindi un ulteriore approfondimento. Proviamo innanzi tutto a misurare l’entità dell’azione esercitata da una coppia di forze. A tal fine utilizziamo un dispositivo simile a quello usato per misurare l’intensità delle forze (Figura 9), cioè una molla in fondo alla quale è montato un piattello di diametro d. d F 2d 2F F F Figura 9 - Momento di una coppia di forze Applichiamo ora una coppia di forze, di intensità F, orizzontali e tangenziali al piattello. La molla non subisce alcuna estensione ma l’azione della coppia provoca una torsione sulla molla che fa ruotare il piattello di un angolo alfa) in senso antiorario, che è quello in cui si esercita l’azione della coppia (seconda posizione da sinistra nella figura). Applichiamo ora al piattello una coppia di forze di intensità 2F, doppia della precedente. Notiamo che l’angolo di cui ruota il piattello è 2 doppio di quello precedente (terza posizione da sinistra nella figura). Cambiamo ora la dimensione del piattello montandone uno con un diametro 2d, doppio del precedente, ed applichiamo ad esso la coppia di intensità iniziale F. Il piattello ruota anche in questo caso di un angolo 2 Ossia il raddoppio del diametro del piattello, che 12 è poi la distanza fra le due forze che formano la coppia e che prende il nome di “braccio”, ha avuto lo stesso effetto del raddoppio delle forze. Possiamo quindi concludere che l’azione esercitata dalla coppia dipende sia dall’intensità delle forze sia dalla loro distanza. A questa azione si dà il nome di “momento” e l’entità di questa nuova grandezza, M, si misura come il prodotto dell’intensità delle forze F, misurata in Newton, per la loro distanza d, misurata in metri. La semplice formula con cui si calcola è: M=F·d (Newton · metro) Il concetto di “momento” è uno fra i più importanti nella fisica e ne mostreremo fra poco alcune applicazioni pratiche. Prima però ci interessa concludere l’argomento dell’equilibrio dei corpi ricapitolando d F -F Figura 10 - Un corpo vincolato – Porta incernierata quanto già detto. Abbiamo visto che affinché un corpo resti in quiete ossia non subisca una traslazione rispetto alla sua posizione originaria è necessario che la somma delle forze che agiscono su di esso sia nulla. Inoltre perché non subisca una rotazione è necessario che la somma dei momenti che agiscono su di esso sia nulla. Poiché una traslazione o una rotazione sono gli unici modi in cui lo stato di quiete di un corpo può essere alterato possiamo concludere che: -condizione necessaria e sufficiente perché un corpo resti nel suo stato di quiete è che la somma delle forze e la somma dei momenti che agiscono su di esso sia13 no entrambe nulle. Questo enunciato può essere espresso con due semplici equazioni che sono chiamate “equazioni cardinali della statica”: F=0 M=0 in cui il simbolo sommatoria) significa somma, ed F ed M forze e momenti rispettivamente. Un aspetto che è opportuno ribadire è che nel considerare le forze che agiscono su un corpo vincolato bisogna tener conto non solo delle forze esterne che agiscono su di esso, ma anche delle reazioni che il vincolo esercita per contrastare queste forze. Un esempio su un caso molto familiare chiarirà meglio questo aspetto. Consideriamo una porta come quella mostrata in pianta nella Figura 10. Se su un punto qualsiasi della porta applichiamo una forza F, il vincolo costituito dalla cerniera reagisce con una forza di uguale intensità ma di verso contrario –F. La somma di queste due forze è nulla e quindi la porta non subisce nessun movimento di traslazione. Ma le due forze, F e –F, costituiscono una coppia il cui braccio è la distanza d fra la cerniera ed il punto di applicazione della forza F. Si crea quindi un momento il cui valore è: M=F·d Il momento così generato provoca la rotazione della porta che, nel caso illustrato, avviene in senso orario. Aggiungiamo ancora, anticipando qualche concetto che sarà trattato più avanti, che il momento da applicare alla porta serve a vincere l’attrito che si genera nella cerniera e quindi ha un valore definito. Tutti noi però abbiamo sperimentato che la forza necessaria per aprire la porta è tanto più grande quanto più vicino alla cerniera è il punto in cui la applichiamo. Questa sensazione trova la sua spiegazione nel fatto che il braccio della coppia è proprio la distanza dalla cerniera del punto di applicazione della forza e per generare un determinato momento la forza deve essere tanto più grande quanto più piccolo è il braccio. Un’altra frequente esperienza domestica è quella di un infisso che, anche in assenza di vento o di correnti, non resta fermo nella posizione in cui lo disponiamo, ma ruota spontaneamente intorno alla sua cerniera fino a portarsi in una certa posizione dove si ferma e resta in quiete. La causa di questo movimento sarà chiarita nel paragrafo che segue. Stabilità degli equilibri Come si è detto, ogni corpo presente sulla terra è soggetto alla forza di gravità che lo attrae verso il centro della terra. In quale punto del corpo è applicata questa forza? In realtà più che di una sola forza si tratta di un insieme di forze applicate ad ogni piccola particella di cui il corpo è costituito. Tuttavia se si tratta di un corpo rigido si può pensare che tutte queste forze distribuite possano essere sostituite dalla loro somma, cioè da una sola forza applicata in un determinato punto. Si tratta infatti di un insieme di forze parallele 6 di cui sappiamo come effettuare la 6 In realtà tutte queste forze convergono nel centro della terra. Poiché però questo punto è molto distante l’errore che si commette nel considerarle parallele è trascurabile. 14 somma e come trovare il punto di applicazione della forza risultante. Questo punto si chiama “baricentro” ed è unico e caratteristico di ogni corpo. Per quanto si è detto la sua posizione dipende dalla disposizione delle masse che costituiscono il corpo e per alcuni corpi regolari può essere agevolmente determinata con semplici metodi geometrici. Così, senza dilungarci in dimostrazioni, il baricentro di un segmento (ad esempio un filo di ferro) è nel suo punto medio, quello di un triangolo nel punto di incontro delle mediane, di un rettangolo nel punto di incontro delle diagonali, di un cerchio nel suo centro e così via anche per le figure solide. Più complessa risulta invece la determinazione del baricentro per i corpi di forma non regolare o per quelli in cui la distribuzione delle masse non è uniforme, come ad esem- B Stabile P -P -P -P B P B P Instabile Indifferente Figura 11 - Stabilità degli equilibri pio una nave, un’automobile o lo stesso corpo umano. La posizione del baricentro è un elemento molto importante per verificare la stabilità dell’equilibrio di un corpo. Consideriamo infatti (Figura 11 centrale) il caso di un corpo rettangolare vincolato ad una cerniera ad asse orizzontale. Sia B il baricentro del corpo in cui è applicata la forza peso P. Nell’asse della cerniera si genera la reazione uguale e contraria –P. Le due forze, P e –P, sono uguali e di verso contrario, ed hanno quindi somma nulla. Esse inoltre giacciono sulla stessa retta e quindi non formano una coppia. Pertanto le somme delle forze e dei momenti che agiscono sul corpo sono nulle ed il corpo è in equilibrio. Se ora proviamo a far ruotare il corpo intorno alla cerniera, verso destra o verso sinistra, le due forze non giaceranno più sulla stessa retta e formeranno una coppia che tenderà a 15 riportare il corpo nella posizione di equilibrio. In questo caso l’equilibrio si definisce “stabile”. Da notare che questo avviene ogni qualvolta il baricentro del corpo si trova al di sotto del vincolo cui il corpo è collegato. Nella parte sinistra della figura è riportato invece il caso di un corpo il cui baricentro si trova al di sopra del vincolo cui è incernierato. Anche in questo caso il corpo è in equilibrio perché le somme delle forze e dei momenti che agiscono su di esso sono nulle, ma se esso viene spostato dalla sua posizione verticale le due forze agenti, il peso e la reazione vincolare, non si trovano più sulla stessa retta e creano così un momento che amplifica la rotazione del corpo fino a portarlo nella posizione diametralmente opposta, corrispondente a quella del caso precedente. L’equilibrio in questo caso viene definito “instabile”. Una situazione di equilibrio instabile si crea ogni volta che il baricentro del corpo si trova al di sopra del vincolo cui è incernierato. Infine, se il corpo è incernierato proprio nel suo baricentro, a destra nella figura, il punto di applicazione del peso e della reazione vincolare coincidono. È facile vedere che qualunque posizione assuma il corpo intorno alla cerniera non si genera alcuna coppia e la somma delle forze risulta sempre nulla. In questo caso, cioè, qualunque posizione del corpo è una posizione di equilibrio che viene perciò denominato “indifferente”. Torniamo ora alla domanda che ci eravamo posti sul movimento spontaneo che a volte si verifica in un infisso. Nella Figura 12 a sinistra è riportata una finestra con un’anta aperta. L’anta è sottoposta alla forza peso P applicata nel suo baricentro. Poiché il telaio della finestra è infisso nel muro si crea una reazione –P di pari intensità e verso contrario. La somma delle due 16 forze è nulla, ma poiché esse agiscono su due rette parallele, si genera una coppia che tenderebbe a far ruotare l’anta verso l’esterno. Ma il telaio infisso nel muro reagisce ancora una volta con una coppia, F e –F, che agisce in senso contrario e impedisce il movimento. Pertanto, poiché le somme delle forze e dei momenti che agiscono sull’anta sono nulli, l’anta è in equilibrio. L’equilibrio inoltre è indifferente, perché in qualsiasi posizione si trovi l’anta il sistema di forze è sempre lo stesso. Supponiamo ora che l’asse della cerniera sia orizzontale, come mostrato nella figura centrale. Anche in questo caso alla forza peso P si oppone la reazione –P che rende nulla la somma delle forze e quindi impedisce la traslazione dell’anta, ma alla coppia generata da queste forze la presenza della cerniera impedisce che si crei una coppia che l’annulli, come nel caso precedente, quindi l’anta ruota verso il basso fino a disporsi verticalmente sotto la cerniera dove si trova in posizione di equilibrio indifferente perché il braccio della coppia si annulla. Questa situazione si ripete in tutti i casi in cui la cerniera non è perfettamente verticale, ossia quando la finestra non è stata montata a regola d’arte, anche se l’angolo fra la posizione della cerniera e la verticale è molto piccolo. In particolare se (come nella parte destra della figura) l’inclinazione è nel verso dell’apertura la finestra tende spontaneamente ad aprirsi, se è verso la parte opposta tende a chiudersi. Alcune applicazioni pratiche Gli argomenti trattati fin qui trovano la loro pratica applicazione in molti campi, soprattutto in quello dell’ingegneria civile, cioè delle costruzioni edili. Vedremo ora alcune di queste applicazioni con qualcuna delle quali siamo a contatto nella vita di ogni giorno. La leva Una leva è costituita da un’asta in un punto della quale è fissata una cerniera detta “fulcro”. L’asta non può traslare ed è libera solo di ruotare intorno al fulcro, che può trovarsi all’interno o ad un estremo dell’asta (Figura 13). La leva permette di bilanciare una forza con un’altra di intensità anche molto diversa da essa. Generalmente viene indicata come “resistenza”, di intensità R, la forza da bilanciare e come “potenza”, di intensità P, la forza che viene esercitata per bilanciarla. Le leve si distinguono in leve di primo, di secondo o di terzo genere a seconda della posizione del fulcro e delle forze. Nella leva di primo genere il fulcro si trova all’interno della leva in un punto che la divide in due parti, generalmente diverse, dette “bracci”, le cui misure sono indicate nella figura con le lettere “a” e “b”. All’estremità del braccio più corto, in questo caso “a”, è applicata la resistenza R, mentre all’estremità del braccio più lungo è applicata la potenza P. Come detto, il fulcro permette alla leva di ruotare, ma non di traslare, esso cioè genera due reazioni vincolari, -R e –P, uguali ma e di verso contrario alle due forze R e P. Il sistema di forze quindi ha una somma nulla, mentre i due momenti R·a e P·b, che provocano rotazioni della leva di segno opposto, all’equilibrio devono essere uguali, cioè R·a=P·b 17 In parole povere questa eguaglianza significa che se il braccio “a” è, per esempio, la metà del braccio “b”, la potenza P all’equilibrio è la metà della resistenza R, ovvero che con una forza più piccola se ne può bilanciare una più grande, tanto più quanto più grande è la differenza o, meglio, il rapporto fra i due bracci della leva. Così, per esempio, con una leva il cui braccio lungo sia dieci volte quello corto si può sollevare un peso di 100 Kg con una forza di solo 10 Kg. Più avanti vedremo alcuni oggetti di uso comune che si basano sul principio della leva di primo genere. Nella leva di secondo genere (Figura 13) il fulcro si trova ad un’estremità dell’asta. La resistenza, in questo caso, ha il verso contrario ed il braccio più corto di quello della potenza quindi, ancora una volta, basta una forza piccola, P, per vincerne una maggiore, R. Leva di primo genere a Leva di secondo genere b a -P b -P P R R P -R -R Leva di terzo genere -P P b a -R R Figura 13 - La leva Le forze P ed R sono compensate delle corrispondenti reazioni vincolari che si generano nel fulcro e la relazione dell’eguaglianza dei momenti è uguale a quella sopra riportata per la leva di primo genere. La leva di terzo genere ha anch’essa il fulcro in un estremo dell’asta, ma differisce dalla precedente perché la potenza è più vicina al fulcro rispetto alla resistenza. Restano valide tutte le considerazioni sugli equilibri delle forze e dei momenti fatte per la leva di primo e secondo genere, ma questa volta, a causa della minore distanza dal fulcro, la potenza è più grande della resistenza. Questa conclusione potrebbe sembrare strana, ma vedremo fra poco che in alcuni casi ciò può essere utile. Vediamo ora (Figura 14) alcuni oggetti molto comuni che funzionano come leve di primo genere. 18 Il primo oggetto è la stadera, bilancia molto usata tempo fa specialmente dai venditori ambulanti di frutta e verdura. La stadera è una leva di primo genere con i bracci di lunghezza molto diversa fra loro. Al fulcro è collegato il gancio per sorreggere la bilancia, al braccio corto un piatto collegato alla leva con leggere catene. Sul braccio lungo, su cui è incisa una scala graduata, scorre un piccolo peso che può essere sistemato a distanze variabili dal fulcro. Nel piatto viene posta la merce da pesare. Il suo peso costituisce la resistenza applicata alla leva. Il piccolo peso scorrevole, che costituisce la potenza, viene spostato sul braccio lungo quel tanto che basta ad equilibrare la leva. Come sappiamo ciò avviene quando il momento generato dal peso piccolo eguaglia quello generato dal peso grande. Poiché il peso piccolo che costituisce la potenza è costante, il momento che esso genera dipende solo dalla sua distanza do fulcro, ossia dalla sua posizione sull’asta che, quindi, può essere graduata per indicare direttamente il peso che viene posto nel piatto. Un caso particolare di stadera è quella in cui i bracci sono uguali. Si ha in questo caso la classica bilancia con due piatti su uno dei quali viene posta la merce da pesare e sull’altro i pesi campione. Naturalmente in questo caso l’equilibrio si stabilisce quando i due pesi sono uguali. Alcuni oggetti sono formati dall’insieme di due leve, generalmente uguali ma contrapposte, aventi in comune il fulcro. È questo il caso delle forbici e della pinza. Per le forbici, la resistenza è costituita dalla forza necessaria per tagliare un oggetto. La potenza è la forza che si esercita all’altra estremità della leva, normalmente sagomata ad occhiello. È nella percezione comune che 19 la potenza necessaria per vincere la resistenza al taglio è tanto minore quanto più vicino al fulcro viene posto l’oggetto da tagliare e ciò trova la sua spiegazione nelle considerazioni ormai più volte fatte sulla leva di primo genere. La pinza, concettualmente molto simile alle forbici, è un attrezzo utilizzato per creare, con una piccola potenza, una resistenza molto maggiore usata per i molteplici scopi che ci sono ben noti. Anche il martello, utilizzato per estrarre un chiodo da una parete, è un esempio di leva di primo genere. In questo caso il fulcro della leva è quella parte della testa del martello che appoggia sulla parete. La resistenza è costituita dall’attrito del chiodo che viene estratto e la potenza è la forza che viene esercitata sul manico del martello. In realtà la leva è idealmente una retta, r, che passa per il fulcro e le forze agenti sono le proiezioni della potenza e della resistenza perpendicolari a questa retta. C’è un altro aspetto che è presente in tutti i tipi di leva e che è opportuno mettere in evidenza, cioè che nelle leve quello che si acquista in forza si perde in movimento e viceversa. Nei casi in cui la potenza è minore della resistenza, lo spostamento del punto d’applicazione della potenza è maggiore di quello della resistenza. Nel caso in cui invece la potenza è superiore alla resistenza avviene il contrario: il movimento del suo punto d’applicazione è minore di quello della resistenza. Nella Figura 15 sono riportati alcuni esempi di leve di secondo e terzo genere. Lo schiaccianoci è formato da una coppia di leve di secondo genere che hanno il fulcro in comune. La resistenza, costituita dalla resistenza alla rottura del seme da schiacciare, può trovarsi in due diverse posizioni rispetto al fulcro in funzione della durezza del seme. La potenza è applicata all’estremità della leva opposta al fulcro. 20 Per le considerazioni già fatte, a parità di potenza, la resistenza che può essere bilanciata è maggiore per la posizione più vicina al fulcro e, infatti, in questa posizione si collocano normalmente i gusci più duri, nocciole, mandorle, ecc. Leggermente minore è la resistenza nell’altra posizione, generalmente usata per le noci. In modo analogo funziona lo schiacciapatate. Anche in questo caso si tratta di una leva di secondo genere con la resistenza posta più vicina al fulcro rispetto alla potenza. Con una piccola potenza quindi si può bilanciare la resistenza allo schiacciamento ed alla trafilatura della patata. Una leva di secondo genere, un po’ atipica, è il remo. In questa leva il fulcro è idealmente costituito dal punto in cui la pala è immersa nell’acqua, la potenza è la forza che il rematore esercita sull’impugnatura del remo e la resistenza è quella che l’acqua oppone all’avanzamento della barca e viene contrastata dal remo nel punto in cui questo è in- -F -F F -F -F F F F Figura 16 - La puleggia serito nello scalmo. Come nei due casi precedenti la potenza è minore della resistenza perché è applicata ad una maggiore distanza dal fulcro. La peculiarità del remo è che il fulcro cambia continuamente posizione a causa dell’avanzamento della barca, ma in ogni nuova posizione funziona come una leva di secondo genere. Un esempio di leva di terzo genere, infine, è la pinzetta delle ciglia. Anche in questo caso si tratta di una coppia di leve con il fulcro in comune. La potenza è applicata in una posizione più vicina al fulcro rispetto alla resistenza, per cui risulta maggiore della resistenza stessa. Si tratta infatti di un caso un po’ particolare perché si deve effettuare un’operazione che non richiede forza, ma delicatezza e quindi la potenza esercitata dalla stretta delle dita viene ridotta a quella necessaria per la presa del pelo. Un ulteriore ele21 mento che assorbe la forza esercitata è anche l’elasticità delle sottili lamine che formano le leve. Oltre agli esempi fin qui descritti, esistono molte applicazioni basate sul principio della leva. In alcuni casi si utilizzano più leve collegate che, agendo contemporaneamente, permettono di creare delle situazioni di equilibrio a volte anche molto complesse. Non ci dilungheremo però in questo campo che, a questo punto diventa materia per specialisti. La puleggia La puleggia (Figura 16) è una ruota sulla cui circonferenza può scorrere una corda o una cinghia a volte contenuta in una gola ricavata sulla circonferenza stessa. Una puleggia è normalmente fissata ad un albero intorno a cui può ruotare ma che è vincolato in modo da non poter traslare. Due forze uguali e parallele F, applicate a due punti diametralmente opposti della puleggia si bilanciano perché ciascuna di esse è annullata dalla rispettiva reazione vincolare di segno opposto generata dall’albero e le 2 coppie che si creano fra F e –F sono uguali e di segno contrario e quindi si annullano. La puleggia pertanto è in equilibrio perché le somme delle forze e dei momenti agenti su di essa sono nulle. Un aspetto interessante della puleggia è che essa permette di bilanciare una forza anche con un’altra ad essa non parallela. Nella parte destra della figura, infatti, le due forze disposte a 90°, bilanciate ciascuna dalla propria reazione vincolare generata dall’albero, hanno ancora momenti uguali e di segno opposto perché i bracci delle due coppie sono 22 uguali perché raggi della stessa circonferenza. Consideriamo ora due pulegge di diverso raggio, “R” e “r”, fissate ad un albero comune, affiancate o anche distanti fra loro (Figura 17). Una forza “f” applicata tangenzialmente alla puleggia di raggio maggiore può bilanciare una forza, “F”, più grande applicata alla puleggia di raggio minore. Le due forze infatti sono bilanciate dalle reazioni vincolari di uguale intensità e di segno opposto generate dall’albero, supposto vincolato in modo che non possa traslare. Le due coppie, “f” e “-f” e “F” e “-F”, che tendono a far ruotare le pulegge in senso opposto, si bilanciano quando i loro momenti sono uguali, cioè quando: f·R=F·r Ciò significa che se R è maggiore di r l’eguaglianza si verifica quando f è minore di F e, più precisamente, se R è, per esempio, il doppio di r, f sarà la metà di F, cioè le due pulegge sono in equilibrio quando le forze applicate sono inversamente proporzionali ai rispettivi raggi. Le pulegge trovano applicazione in molti campi delle costruzioni meccaniche. Noi ci limiteremo a presentare un esempio molto familiare: la tapparella (Figura 18). Il meccanismo che permette di muovere agevolmente una tapparella è una coppia di pulegge di raggio molto diverso, di cui una è costituita da una ruota con circonferenza a gola in cui può scorrere un nastro, l’altra ha la forma di un albero, che può ruotare e su cui è anche fissata la puleggia maggiore. 23 La forza esercitata dalla tapparella è il suo peso, che tende a srotolarla, la forza necessaria a contrastare, o a vincere, il peso è applicata al nastro che fa ruotare la puleggia grande in senso inverso. Poiché la puleggia a ruota ha un raggio molto più grande della puleggia ad albero, la forza ad essa applicata, necessaria per sollevare la tapparella è molto inferiore al suo peso. In realtà man mano che la tapparella sale il peso da sollevare diminuisce, ma poiché essa si arrotola sull’albero, il diametro di quest’ultimo aumenta ed il momento rimane pressoché costante o, addirittura, diminuisce. È questa infatti la sensazione che si ha nel tirar su una tapparella: l’ultimo tratto richiede una forza minore. Esempi di stabilità degli equilibri Abbiamo visto in precedenza che l’equilibrio di un corpo vincolato ad una cerniera può essere stabile, instabile o indifferente a seconda della posizione del baricentro del corpo rispetto al punto in cui è vincolato. Vediamo ora qualche esempio. La Figura 19 riporta la sezione trasversale di una barca a vela. Nell’estremità inferiore della chiglia di queste barche è montato un bulbo molto pesante che ha lo scopo di abbassare il baricentro della barca il più possibile sotto la linea di galleggiamento. La linea di galleggiamento infatti rappresenta la cerniera intorno a cui ruota la barca sotto l’azione della spinta V del vento sulle sue vele. Quando la barca è inclinata, infatti, la forza peso può essere scomposta in due componenti, una lungo l’asse della chiglia, 24 l’altra in direzione orizzontale7. Quest’ultima, se il baricentro è sotto la linea di galleggiamento, crea una coppia con la spinta del vento che tende a raddrizzare la barca; se invece il baricentro fosse sopra la linea di galleggiamento si sommerebbe alla spinta del vento e porterebbe al capovolgimento della barca. Fortunatamente, inoltre, man mano che la barca si inclina diminuisce anche la forza che il vento esplica sulla vela, perché la superficie esposta si riduce. I casi fin qui esaminati riguardano corpi vincolati ad una cerniera. Esaminiamo ora il caso di corpi liberi, cioè non vincolati ma semplicemente appoggiati su una superficie piana. Si consideri, ad esempio, una bottiglia (Figura 20) appoggiata sulla sua base. Il baricentro, è situato in un punto interno, più in alto se la bottiglia è vuota o completamente pie- P P -P A P -P A -P A Figura 20 - Equilibrio dei corpi liberi na, più in basso se è piena solo in parte. Nel baricentro è applicata la forza peso P della bottiglia cui si oppone la reazione del piano d’appoggio, -P, situata sullo stesso asse. La somma delle forze è nulla e non ci sono momenti perché le due forze hanno lo stesso asse. La bottiglia è in equilibrio. Che tipo di equilibrio è questo? Proviamo ora ad inclinare la bottiglia intorno ad un punto della sua base. La forza peso rimane applicata nel baricentro della bottiglia, ma la reazione vincolare è applicata questa volta nel punto di appoggio della bottiglia e quindi non è più sullo stesso asse della forza peso. La somma delle forze è ancora nulla, ma ora forza e reazione generano un 7 Si trascura per semplicità la spinta idrostatica 25 momento che, se l’inclinazione non è eccessiva, tende a raddrizzare la bottiglia (figura centrale), se invece è superiore ad un certo limite tende a rovesciarla (figura a destra). Osserviamo inoltre che il momento che si genera tende a raddrizzare la bottiglia fino a quando la retta d’azione della forza peso resta all’interno della proiezione del fondo della bottiglia sul piano orizzontale, punto A, mentre tende a rovesciarla quando passa all’esterno. Questa regola vale in generale ed è ben presente nel nostro subconscio. Sappiamo bene infatti che un oggetto con una base larga si rovescia meno facilmente di uno che ha una base stretta. Quello a cui forse non si pensa di solito è che anche l’uomo è un “oggetto” con un baricentro alto e con una piccolissima base di appoggio: l’area compresa fra le piante dei piedi. Eppure, superate da bambino le difficoltà per tenere la retta d’azione della forza peso nella limitata area dei suoi piedini, continua mirabilmente a farlo, senza pensarci, durante tutto il resto della sua vita. I quadrupedi in questo sono facilitati dal fatto che la base entro cui devono tenere la forza peso per non rovesciarsi è l’area, molto più grande, racchiusa fra le quattro zampe. Le costruzioni civili Le nozioni fin qui apprese trovano la loro applicazione più importante nel settore delle costruzioni civili. È ovvio che i corpi che costituiscono una costruzione civile devono essere in equilibrio e quindi che le somme delle forze e dei momenti che agiscono su di essi devono essere nulle, ma altrettanto importante è che questi corpi resistano alle sollecitazioni indotte da tali forze e momenti ossia non subiscano deformazioni irreversibili che possono portare alla loro rottura. L’argomento della deformazione elastica di un corpo è stato sfiorato quando si è parlato del dinamometro, ossia dello strumento con cui si misurano le forze. Si è detto allora che se l’intensità della forza da misurare supera certi limiti la molla di cui è costituita lo strumento subisce una deformazione permanente e perde le sue caratteristiche di elasticità. Se poi l’intensità della forza applicata è ancora maggiore viene superata anche la resistenza del materiale di cui è fatta la molla e questa si spezza. In generale un corpo rigido anche non conformato come una molla, sottoposto ad una forza che tende a stirarlo, subisce un allungamento. Se la forza resta entro certi limiti, al cessare della sua azione, il corpo riprende le dimensioni precedenti, se invece supera il limite di resistenza a trazione del materiale di cui è costituito, il corpo si spezza. Lo stesso fenomeno si presenta se sul corpo agisce una forza che provoca una compressione o un momento che provoca una torsione, o sollecitazioni più complesse che provocano contemporaneamente sollecitazioni di questo tipo. Questo comportamento è comune a tutti i materiali, compresi quelli utilizzati per le costruzioni civili: legno, ferro, cemento, ecc. L’ingegnere edile quindi quando progetta una costruzione si trova di fronte a due problemi: 1. deve individuare e valutare tutte la forze ed i momenti che possono sollecitare la costruzione 2. deve dimensionare l’opera in modo tale che, con il materiale utilizzato, riesca a resistere a tutte le sollecitazioni 26 Si pensi, per esempio ad un ponte. Le sollecitazioni che possono agire su un ponte sono molte: innanzi tutto il peso proprio della struttura, il peso delle persone e degli automezzi che vi transitano, il peso eventuale della neve, le sollecitazioni indotte da corpi che si muovono su di esso, le spinte di eventuali venti trasversali, eventuali sollecitazioni telluriche ed infine, poco visibili ma sempre presenti, le reazioni dei vincoli che tengono fermo il ponte. Naturalmente bisogna tener conto del caso peggiore in cui tutte queste sollecitazioni, o almeno molte di esse, agiscano contemporaneamente e sommarne gli effetti. Bisogna poi procedere alla scelta dei materiali più adatti ed alla determinazione delle dimensioni da assegnare a ciascun elemento della costruzione, in modo che resista alle sollecitazioni che agiscono su di esso. Non ci addentriamo però in questo argomento che fa parte della “scienza delle costruzioni”, materia fondamentale di ogni ramo dell’ingegneria. L’accenno che se ne è fatto serve soprattutto a dare un’idea della vastità delle applicazioni dei principi della statica e della loro importanza. L’attrito Un corpo libero, appoggiato su una superficie piana, è soggetto soltanto alla sua forza peso, P, che viene annullata dalla reazione vincolare esercitata dalla superficie. Il corpo quindi è in equilibrio. Se al corpo viene applicata una forza F, parallela al piano (Figura 21), il corpo dovrebbe 27 spostarsi nella direzione di F, perché non esiste nessun vincolo che si contrappone. Tuttavia se la forza è inferiore ad un certo valore A, il corpo non si sposta. Ciò può spiegarsi soltanto se esiste una forza di intensità A che agisce nella stessa direzione di F, ma in verso contrario. Questa forza infatti esiste e si chiama attrito. Ma chi genera questa forza? Se si esaminassero con una potente lente di ingrandimento le superfici dei due corpi si noterebbe che esse, per quanto levigate possano essere, non sono perfettamente lisce, ma presentano degli avvallamenti e delle sporgenze. Quando si cerca di far scorrere le due superfici l’una sull’altra, le sporgenze dell’una sono ostacolate da quelle dell’altra e funzionano come un vincolo che crea una reazione che ostacola il movimento. Se ora si pone sullo stesso piano un corpo come il precedente, ma di dimensioni e quindi di peso minori, si nota che l’attrito che in questo caso si genera è inferiore. Se si ripete l’esperimento con corpi di peso diverso si nota che esiste una proporzionalità diretta fra il peso del corpo e l’attrito che si genera, cioè al crescere del peso del corpo cresce l’attrito. Se poi si ripete l’esperimento cambiando la natura di una (o di entrambe le superfici) si nota che, a parità di peso, con una superficie più liscia l’attrito è minore che con una meno liscia (figura di destra). I risultati ottenuti da una serie numerosa di esperimenti hanno portato a stabilire che la forza di attrito A è sempre inferiore al peso P del corpo libero e che la proporzionalità diretta fra forza di attrito e peso del corpo può essere espressa da una semplice formula: A = ks · P in cui ks si chiama coefficiente di “attrito statico” o di primo distacco ed è un numero inferiore a 1 che dipende esclusivamente dalla natura delle superfici dei due corpi. Quando la forza F supera il valore di A, il corpo comincia a muoversi strisciando sulla superficie di appoggio. L’attrito a questo punto continua ad esistere, ma il suo valore diventa molto più basso e prende il nome di “attrito radente”. Anche in questo caso il risultato sperimentale ha portato a stabilire che esso dipende unicamente dal peso del corpo che striscia e dalla natura delle superfici a contatto e la formula con cui si può calcolarne il valore è simile alla precedente: A = kr · P ma il coefficiente di proporzionalità kr , detto coefficiente di attrito radente, è inferiore al coefficiente di attrito statico ks della formula precedente. L’attrito viene a volte chiamato una forza passiva, con il significato negativo implicito dell’attributo. Ciò perché, essendo una forza che si oppone al movimento, esso richiede un dispendio di energia che, come vedremo in seguito, è da considerare un fatto negativo. C’è però da chiedersi come sarebbe questo mondo se non ci fosse l’attrito. Si pensi, per esempio, che quando l’uomo cammina porta avanti una gamba mentre l’altra sostiene tutto il peso del corpo sul piede che poggia a terra e che non scivola perché è tenuto fermo dall’attrito contro la superficie del terreno. In assenza di attrito il piede scivolerebbe indietro compromettendo disastrosamente l’equilibrio. È quello che di solito succede quando si cammina su una lastra di ghiaccio, dove l’attrito non scompare del tutto, ma è notevolmente ridotto a causa della levigatezza di questa superficie. 28 Ci sono anche altri casi in cui l’attrito è sfruttato in modo positivo. Ad esempio, nella scala a pioli, che non scivola per l’attrito della base inferiore sul pavimento e della parte superiore contro la parete; dell’equilibrio di oggetti su piani non perfettamente orizzontali ecc. Tuttavia la ricerca di soluzioni che portano ad una riduzione dei suoi effetti è sempre prevalsa e la più antica e, probabilmente, la più brillante è stata l’invenzione della ruota. La ruota non è una macchina che annulla l’attrito, ma un sistema che lo riduce di molto. Con essa infatti si sostituisce ad un corpo che striscia su una superficie uno che rotola su di essa. Anche in questo caso esiste un attrito che prende il nome di “attrito volvente”, ma questo è molto inferiore all’attrito radente. Anche l’attrito volvente dipende dal peso del corpo che grava sulla ruota e dalla natura delle superfici, ma dipende anche dal raggio della ruota nel senso che è tanto minore quanto maggiore è il raggio o, più precisamente, è inversamente proporzionale al raggio. La formula che sintetizza questa legge è: in cui Av è l’attrito volvente, P il peso dell’oggetto cui è applicata la ruota, r è il raggio della ruota. 29 Capitolo 2 – Cinematica Come si è già detto, la cinematica studia il movimento dei corpi. Ma cosa è il movimento di un corpo? Verrebbe spontaneo dire che un corpo è in movimento quando non è in quiete, ossia, quando non è nulla la somma delle forze e dei momenti che agiscono sul corpo. Questa risposta è corretta solo in parte, come vedremo in seguito, ma è in ogni caso incompleta. Torniamo, infatti, in quella pianura in cui tutti i corpi sono immobili. Possiamo dire che non sono in movimento? Certamente si per un osservatore che si trovi anch’esso in quella pianura. Ma se quella pianura è sulla terra, che come sappiamo gira intorno a se stessa e intorno al sole, non gira anche la pianura e tutti i corpi che vi si trovano, osservatore compreso? Sarebbe quindi più corretto dire che quei corpi sono in quiete rispetto ad un osservatore che si trovi sulla terra, ma non lo sono rispetto ad un osservatore che si trovi, per esempio, sul sole. Analogamente, si pensi ad una persona che legge il giornale mentre viaggia in treno. Il giornale è fermo rispetto al viaggiatore, ma si muove alla velocità del treno rispetto ad un osservatore che non si trovi sul treno. Si noti inoltre che il giornale può spostarsi anche rispetto al viaggiatore se questi lo allontana da sé o lo avvicina a sé. Questa premessa non ha lo scopo di confondere le idee, ma serve a definire in modo più preciso il concetto di movimento, che è lo spostamento di un corpo rispetto ad altri che servono da riferimento, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano a loro volta in movimento rispetto ad altri riferimenti. In altri termini si può dire che il movimento non è un concetto assoluto, ma relativo e le implicazioni di questa osservazione sono di estrema importanza nel campo della fisica avanzata, ma esulano dagli scopi di questa trattazione, nel corso della quale si assumerà che il sistema di riferimento è un osservatore fermo sulla terra. Gli assi cartesiani Il movimento di un corpo nello spazio può avvenire in qualsiasi direzione e le posizioni che esso assume successivamente formano un percorso che prende il nome di “traiettoria”. Per definire in modo preciso ed univoco la posizione nello spazio che in un determinato momento occupa il corpo si fa normalmente riferimento ad un sistema di assi cartesiani. Ricapitoliamo qui brevemente cosa si intende per sistema di assi cartesiani e come lo si 30 usa per la definizione di punti dello spazio. Un sistema di assi cartesiani è costituito da tre rette perpendicolari fra loro e passanti per uno stesso punto, come per esempio il lato verticale comune di due pareti di una stanza ed i due lati del pavimento adiacenti ad esso (Figura 22). Generalmente, si usa contrassegnare gli assi con le lettere X, Y, e Z e, di solito, l’asse Z è posto verticalmente, nel senso dell’altezza, X e Y orizzontalmente nel senso rispettivamente della larghezza e della profondità. Il punto comune, detto anche origine degli assi, è il punto rispetto a cui si misurano le distanze nelle tre direzioni, altezza, larghezza e profondità. I piani formati dagli assi delimitano una zona dello spazio, così come due pareti ed il pavimento di una stanza, solo che essi possono essere estesi all’infinito e quindi lo spa- A Z x= 0 z=8 Y 5 y= X 3 A(5,3,8) Figura 22 - Sistema di assi cartesiani zio non è limitato dalle altre pareti e dal soffitto8. Con questo sistema un punto qualsiasi dello spazio, A, può essere definito misurando la sua distanza z dal piano orizzontale, cioè la sua altezza rispetto al pavimento (uguale a 8 nella figura), la sua distanza x dalla parete formata dagli assi Y e Z (5 nella figura) e la sua distanza dalla parete formata dagli assi X e Z (3 nella figura). È importante notare che non esiste nello spazio nessun altro punto che abbia queste misure caratteristiche, pertanto esse permettono di individuare in modo univoco il punto A. Sinteticamente quindi la posizione di A si indica con la notazione A(5,3,8) ossia disponendo le misure nella parentesi nell’ordine x,y,z. 8 Per semplicità ci si riferisce solo a quel settore dello spazio delimitato dai piani compresi fra le semirette positive degli assi. Se si considerano anche le semirette negative i settori dello spazio diventano otto. 31 La velocità Lo spazio descritto nel paragrafo precedente, chiamato spazio a tre dimensioni (altezza, larghezza e profondità), permette di individuare in modo univoco la traiettoria di un movimento, ma non di definirlo completamente. Per farlo è necessario aggiungere un’altra dimensione: il tempo. Si è detto infatti che una traiettoria è un insieme di punti che un corpo in movimento occupa successivamente. Questa definizione già implica un concetto di tempo ed è chiaro che se i tempi che due corpi impiegano per percorrere la stessa traiettoria sono diversi i movimenti cui sono soggetti sono diversi fra loro. Nel linguaggio comune diciamo che A A s = 12 m s = 120 Km B t = 2 sec v = 6 m/sec B t=2h v = 60 Km/h v = s/t Figura 23 - La velocità il corpo che la percorre in un tempo minore si muove con una “velocità” maggiore dell’altro. In fisica la grandezza “velocità” trova una sua precisa definizione che è la seguente: “la velocità con cui si muove un corpo è lo spazio percorso nell’unità di tempo”. Se misuriamo lo spazio in metri ed il tempo in secondi, la velocità di un corpo è uguale ai metri che il corpo percorre in un secondo. Nella Figura 23, in alto la traiettoria AB, ovvero lo spazio da percorrere, è lunga 12 metri. Se un corpo la percorre in 2 secondi significa che ha percorso 6 metri ogni secondo, ovvero che la sua velocità è stata di 6 metri al secondo (6 m/sec). Nella parte centrale della figura si sono usate delle unità di misura più familiari: il chilometro e l’ora. Lo spazio è 120 chilometri ed il tempo per percorrerlo è 2 ore: il corpo 32 ha percorso 60 chilometri ogni ora (60 Km/h). È agevole notare che in entrambi i casi per trovare la velocità del corpo abbiamo diviso lo spazio percorso per il tempo impiegato, ed infatti in generale se chiamiamo s lo spazio percorso e t il tempo impiegato a percorrerlo la velocità si ottiene con la formula: s t v in cui, in genere, s è misurato in metri e t in secondi. Naturalmente si può passare da una velocità espressa in m/sec ad una espressa in Km/h tenendo presente che in un’ora ci sono 3600 secondi e che un chilometro è 1000 metri. Quindi un corpo che percorre 1 metro in un secondo ne percorrerà 3600 in un’ora ossia 3,6 km. Quindi, nella figura precedente, la velocità di 6 m/sec è equivalente a 21,6 Km/h (6·3,6) e la velocità di 60 Km/h è equivalente a 16,7 m/sec (60/3,6). Menzioniamo qui, senza per ora addentrarci molto in proposito, che la velocità è una grandezza vettoriale, ossia per una sua completa definizione è necessario non solo definirne l’intensità ma occorre anche indicarne la direzione ed il verso. Il moto rettilineo uniforme Negli esempi del capitolo precedente si è assunta una traiettoria rettilinea per semplicità di esposizione, ma quanto detto è valido anche per una traiettoria curvilinea. Il metodo utilizzato per calcolare la velocità, però, non ci permette di conoscere quale sia stato l’andamento del moto durante il percorso. Infatti un’automobile, che percorre 120 Km in 2 ore, ha viaggiato ad una velocità media di 60 Km/h, ma può aver percorso alcuni tratti a velocità maggiore ed altri a velocità minore. Il moto non può quindi essere considerato come completamente definito. Se vogliamo definire meglio l’andamento del moto, possiamo suddividere il percorso in due metà e misurare il tempo impiegato a percorrere ciascun tratto. Avremo certamente una conoscenza più accurata della precedente, ma ancora insufficiente per conoscere l’andamento del moto in ogni momento. Per fare ciò dovremmo eseguire una serie di misure su tratti sempre più brevi del percorso e potremmo così arrivare ad una determinazione della velocità punto per punto. È un po’ il criterio con cui è costruito il tachimetro installato nelle auto che misura con continuità il tempo impiegato a percorrere un tratto abbastanza piccolo uguale cioè alla circonferenza del pneumatico. Ed è proprio guardando il tachimetro che ci si accorge di quanto spesso vari la velocità della macchina anche su una strada senza ostacoli. Anche senza strumenti, inoltre, ci accorgiamo di quanto diversa da una retta sia il moto di un’automobile. Ciò premesso, definiamo ora un tipo particolare di moto, il “moto rettilineo uniforme”. Si definisce così il movimento di un corpo che si sposta su una traiettoria rettilinea percorrendo spazi uguali in tempi uguali, in qualsiasi istante e su qualsiasi tratto, per quanto grande o piccolo, della traiettoria. Si tratta di un moto talmente perfetto che sembra possibile quasi solo teoricamente. Infatti, non esiste in natura una macchina, per quanto tecnologicamente avanzata, che si muova di moto rettilineo uniforme. Tuttavia, come vedremo meglio più avanti, se non intervenissero alcuni fattori di “disturbo” sarebbe questo l’unico tipo di moto esistente nell’universo. Nel moto rettilineo uniforme vale la formula, già menzionata, che lega spazio, tempo e 33 velocità: v s t cos tan te s vk t che può anche essere scritta come: con cui si può calcolare lo spazio percorso in un dato tempo t alla velocità (costante) vk. Tem po Velocità Spazio sec m/sec m 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 Velocità (m/sec).... 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 4 3 2 1 0 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Tempo (sec) 100 Spazio (m).... 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 6 80 60 40 20 0 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Tempo (sec) Figura 24 - Moto rettilineo uniforme Per aiutare a capire meglio il significato di queste formule, nella Figura 24 sono riportati una tabella e due grafici. La tabella è formata da tre colonne: nella prima colonna è riportato il tempo, ad intervalli di 1 secondo; nella seconda colonna la velocità, che è costante ed uguale a 5 m/sec; nella terza colonna lo spazio che il corpo ha percorso fino a quel momento, calcolato con la formula precedente, cioè moltiplicando la velocità per il tempo. Il grafico superiore mostra l’andamento della velocità nel tempo: sull’asse delle ascisse (orizzontale) è riportato il tempo in secondi, sull’asse delle ordinate (verticale) è riportata la velocità in m/sec. Poiché la velocità è costante la linea che la rappresenta è una parallela all’asse delle ascisse che passa per il punto 5 m/sec. Il grafico inferiore mostra l’andamento dello spazio percorso nel tempo: sull’asse delle 34 ascisse è riportato il tempo, su quello delle ordinate lo spazio misurato in metri, cioè i valori della terza colonna della tabella. È evidente che lo spazio percorso continua a crescere con un andamento regolare, cioè di 5 metri per ogni secondo, per cui la linea che lo rappresenta è una retta. L’accelerazione Il concetto di accelerazione fa parte delle conoscenze subconscie, particolarmente degli automobilisti. Fra le caratteristiche tecniche delle auto viene spesso inclusa anche la capacità, partendo da ferme, di raggiungere 100 Km/h in un certo numero di secondi. In fisica, però, non bastano le percezioni dei fenomeni ma occorrono definizioni precise. va A ta vb tb 3 m/sec 0 sec 11 m/sec 0 Km/h 100 Km/h 0 sec a = B vb – va tb – ta 11 - 3 a= 8 = 2 sec 2-0 2 100 - 0 a= 100 = 20 sec 20 - 0 a = m/sec = 4 v m t sec2 Km/h = 5 20 sec sec Figura 25 - L’accelerazione In un moto non uniforme la velocità varia nel tempo. L’accelerazione è una grandezza che misura appunto la variazione della velocità nell’unità di tempo. Spieghiamo meglio questa definizione con qualche esempio (Figura 25). Un corpo si muove lungo una traiettoria rettilinea. In un certo istante ta il corpo si trova nel punto A e la sua velocità istantanea è va. In un momento successivo tb il corpo si trova in B e la sua velocità istantanea è ora vb. Si chiama accelerazione la differenza fra la velocità istantanea in B e quella in A, divisa per la differenza fra il tempo misurato in B e quello misurato in A. L’esempio numerico riportato nella figura chiarisce ancora meglio il concetto. Quando il corpo si trova in A ha una velocità di 3 m/sec. Si fa scattare il cronometro in questo istante: il tempo è zero. Si fermi poi il cronometro dopo 2 secondi. Il corpo si trova ora 35 in B e la sua velocità è di 11 m/sec: la velocità è aumentata di 8 m/sec in 2 secondi, quindi di 4 m/sec per ogni secondo trascorso. L’accelerazione, che è appunto la variazione di velocità per ogni secondo, è quindi in questo caso 4 m/sec al secondo. La ripetizione della parola “secondo” non deve creare confusione. La prima volta essa fa parte dell’unità di misura della velocità la seconda volta indica la misura del tempo in cui si è verificata la variazione della velocità. Questa distinzione può risultare più chiara se si riprende l’esempio dell’automobile cui si è accennato prima (terza riga della figura). Se si dice che un’auto, partendo da ferma, può raggiungere 100 Km/h in 20 secondi significa che ogni secondo l’auto è in grado di aumentare la sua velocità di 5 Km/h (100:20), ossia che la sua accelerazione è di 5 Km/h al secondo. In questo caso, come si vede, la parola “secondo” compare una sola volta perché la velocità è stata misurata in Km/h. Si tenga presente che se la velocità misurata nel punto B della traiettoria è inferiore a quella misurata nel punto A, la differenza (vb – va) è negativa e quindi anche l’accelerazione risulta negativa. Ciò appare ovvio se si pensa che il corpo ha rallentato nel percorso da A a B. Si noti che nel linguaggio comune in genere non si parla di accelerazione negativa, ma piuttosto di decelerazione o rallentamento. Un altro punto da evidenziare è che anche in questo caso, come prima per la velocità, l’accelerazione calcolata con i metodi esposti è un’accelerazione media che potrebbe essere anche diversa da quelle puntuali verificatesi lungo la traiettoria. Anche qui per arrivare alla valutazione dell’accelerazione in ogni punto i tratti di traiettoria in cui si effettuano le misure dovrebbero essere estremamente corti. La formula riportata in basso nella figura ha un po’ questo significato. In essa è stata usata la lettera greca (delta) per indicare appunto intervalli molto piccoli nelle misure dei tempi e delle velocità. Inoltre seguendo una nota regola matematica 9 si è indicata con m/sec2 la misura con cui si misura l’accelerazione e, anche se il quadrato di un tempo non ha alcun significato pratico, questa indicazione risulta molto utile quando si devono eseguire dei calcoli. Moto rettilineo uniformemente accelerato Si chiama rettilineo e uniformemente accelerato il moto di un corpo che si muove su una traiettoria rettilinea con un’accelerazione costante o, in altre parole ma con lo stesso significato, con una velocità che varia (aumenta o diminuisce) di un valore costante dopo ogni intervallo di tempo, per quanto piccolo questo sia. Per cercare di avere una sensazione di un moto come questo si pensi ad un’automobile che aumenta gradualmente e continuamente la sua velocità. Di solito quest’andamento non dura molto e per questo si è portati a considerarlo uno stadio transitorio del moto. In natura esiste tuttavia un moto rettilineo uniformemente accelerato. È la caduta di un corpo nel vuoto, di cui si dirà fra poco. È opportuno a questo punto introdurre qualche formula per eseguire semplici calcoli che permetteranno di capire meglio le caratteristiche di questo moto. La Figura 26 riporta tali formule che ora saranno dettagliatamente illustrate. La prima formula riguarda la velocità. Nel moto uniformemente accelerato la velocità varia in ogni unità di tempo di un valore costante uguale all’accelerazione “a”. Pertanto 9 Per dividere una frazione (m/sec) per un numero (sec) si moltiplica il denominatore della frazione per quel numero. 36 se in un punto iniziale, che indichiamo con il suffisso “0”, essa ha un valore v0 in un punto successivo, che indichiamo con il suffisso “1” in cui si trova dopo un tempo t, essa avrà un valore, v1, pari a quello iniziale aumentato del prodotto dell’accelerazione per il tempo. La seconda formula riguarda lo spazio percorso che, in ogni caso, è uguale al prodotto della velocità per il tempo. In questo moto però la velocità non è costante per cui, se ci si riferisce ad intervalli di tempo molto piccoli, si può prendere la media delle velocità nel punto 0 e nel punto 1, cioè (v0 + v1)/2, e moltiplicare questa per il tempo. La terza formula è ancora relativa al calcolo dello spazio e tende a semplificare la formula precedente. Essa infatti si ottiene dalla precedente mettendo al posto di v1 il suo valore (v0 + v1) che si ricava dalla prima formula. v1 = v0 + a t s = ½ (v0 + v1) t s = ½ (v0 + v0 + a t) t s = ½ (2 v0 + a t) t s = v0 t + ½ a t2 s = ½ a t2 Figura 26 - Moto rettilineo uniformemente accelerato Con semplici passaggi matematici poi, attraverso la quarta formula, si arriva alla quinta e definitiva formula che permette di calcolare lo spazio percorso dal corpo nel tempo t. Questa formula si semplifica ancora se all’inizio del conteggio dei tempi il corpo è fermo, cioè se la velocità v0 = 0. Allora il primo termine si annulla e si giunge così all’ultima formula della figura. Come si è già accennato, il moto rettilineo uniformemente accelerato è quello che assume un corpo che cade nel vuoto, cioè in un ambiente senza aria. L’assenza dell’aria è richiesta perché essa, un po’ come l’attrito, tende ad ostacolare il movimento dei corpi. Questo aspetto sarà approfondito in seguito. Per ora diciamo che senza questo “distur- 37 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 9.8 0.0 9.8 19.6 29.4 39.2 49.0 58.8 68.6 78.4 88.2 98.0 107.8 117.6 127.4 137.2 147.0 156.8 166.6 176.4 186.2 196.0 0.0 4.9 19.6 44.1 78.4 122.5 176.4 240.1 313.6 396.9 490.0 592.9 705.6 828.1 960.4 1102.5 1254.4 1416.1 1587.6 1768.9 1960.0 200 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 16 18 20 Tempo (sec) 2000 1800 S p a z io (m )... Tempo Accel. Velocità Spazio 2 sec m/sec m/sec m Velocità (m/sec)...... bo”, un corpo che cade è soggetto ad un’accelerazione costante10 pari a 9.8 m/sec2. Analogamente a quanto fatto prima, la tabella e i due diagrammi della Figura 27 riportano i valori che assumono la velocità e lo spazio nel moto di un corpo che, partendo da fermo, cade da una certa altezza. Nella prima colonna della tabella è riportato il tempo, in secondi; nella seconda colonna l’accelerazione che rimane costante al valore di 9.8 m/sec 2. Nella terza colonna è riportata la velocità. Come si nota, essa cresce di 9.8 m/sec per ogni secondo. Nel grafico in alto sono riportati sull’asse delle ascisse il tempo in secondi e sull’asse delle ordinate i corrispondenti valori assunti dalla velocità. Infine nella quarta colonna è riportato lo spazio percorso. I relativi valori crescono molto rapidamente perché variano con il quadrato del tempo. Il grafico in basso rende visi- 1600 1400 1200 1000 800 600 400 200 0 0 2 4 6 8 10 12 14 T e m p o (s e c ) Figura 27 - Moto di caduta dei corpi vamente percepibile la rapidità della crescita; esso riporta sull’asse delle ordinate gli spazi percorsi in funzione del tempo, che è riportato sull’asse delle ascisse. Si noti in particolare che dopo soli 20 secondi, che è l’intervallo di tempo entro il quale si sono riportati i dati relativi al moto considerato, la velocità è passata da 0 a circa 200 m/sec (circa 720 Km/h) e lo spazio percorso in caduta è di circa 2000 m. Si può facilmente intuire quanto possa essere rovinosa una caduta libera da una certa altezza. Infatti il moto di un corpo che cade, anche in presenza dell’aria, risulta notevolmente accelerato, a meno di usare attrezzature particolari, come il paracadute, che sfrut10 Si tratta dell’accelerazione di gravità, che in realtà cambia con la latitudine e con l’altezza, ma è costante in una determinata latitudine e può ritenersi costante anche per variazioni non molto grandi dell’altezza. 38 tando proprio l’azione frenante dell’aria riescono a cambiare notevolmente le caratteristiche del moto. Ma rimandiamo ad un altro momento l’approfondimento di questo argomento che richiede la conoscenza di nozioni non ancora trattate. Moto circolare uniforme Le traiettorie dei moti finora esaminati erano rettilinee. I moti però possono avvenire anche su traiettorie curve con alcune particolarità che saranno ora evidenziate. Il moto circolare uniforme è quello di un corpo che si muove sulla circonferenza di un cerchio percorrendo archi di lunghezza uguali in tempi uguali. v2 t = 1 sec v1 v2 a -v1 a = (v2 – v1)/t = v2 – v1 Figura 28 - Moto circolare uniforme Si sarebbe portati ad affermare che la velocità di questo moto sia costante. Ciò è vero, ma solo in parte. Infatti la velocità è una grandezza vettoriale e quindi è completamente definita non solo quando ne viene definita l’intensità, ma anche la direzione ed il verso. Nel moto circolare uniforme l’intensità ed il verso della velocità rimangono costanti, ma la direzione cambia continuamente. Facciamo riferimento alla Figura 28 per illustrare meglio questa affermazione e per verificarne le conseguenze. Nella parte sinistra della figura è riportata una circonferenza. In un certo istante un corpo, animato da un moto circolare uniforme si trova in un punto della circonferenza ed in quell’istante la sua velocità è v1. Dopo un certo tempo, per esempio dopo un secondo, il corpo si è spostato in un altro punto della circonferenza. In questo punto la sua velocità 39 è v2 che, essendo il moto uniforme, ha la stessa intensità di v1 ed ha anche lo stesso verso, ma la sua direzione è diversa. Ora noi sappiamo che in un moto la differenza fra le velocità in due punti della traiettoria divisa per il tempo impiegato a percorrerla si chiama accelerazione. In questo caso, avendo preso due punti della circonferenza che, in termini di tempo, distano 1 secondo, l’accelerazione è uguale alla differenza delle velocità v2 - v1. Differenza ovviamente dei due vettori, perché la differenza delle intensità è nulla. Nella figura, a destra, è riportato l’arco di circonferenza interessato, ingrandito per rendere più chiaro il disegno. La velocità v1 è segnata col verso cambiato perché deve essere sottratta da v2, il che è equivalente ad essere sommata col verso contrario. La somma vettoriale, eseguita con la regola del parallelogramma, è un vettore che è rivolto verso l’interno della circonferenza. Si può dimostrare, ma noi lo accetteremo senza farlo, che la direzione del vettore somma passa per il centro della circonferenza. Questo vettore è un’accelerazione perché è la differenza fra due velocità dopo un’unità di tempo e prende il nome di “accelerazione centripeta” appunto perché la sua direzione passa per il centro della circonferenza. Il verso, come si è detto, è rivolto verso l’interno della circonferenze e la sua intensità può essere calcolata con la formula: a v2 r Cioè, l’accelerazione centripeta è tanto maggiore quanto maggiore è la velocità del corpo sulla circonferenza e quanto minore è il raggio del cerchio. Ci si chiede a questo punto a cosa serva questa dimostrazione che ha tutta l’aria di una elucubrazione teorica. Il significato pratico dell’accelerazione centripeta sfugge infatti a prima vista e non è ancora il momento per chiarirlo con esempi pratici. L’accelerazione centripeta però è un concetto molto importante. È essa, infatti, che genera il moto circolare e non viceversa, anche se ciò sembra contrario a quanto finora esposto. Si è già detto, infatti, che se non ci fossero alcuni “disturbi” i corpi si muoverebbero, nell’intero universo, su traiettorie rettilinee e con moto uniforme; l’accelerazione centripeta è uno di questi “disturbi” e vedremo più avanti, come e perché si manifesta. Una caratteristica del moto circolare uniforme è che il corpo, dopo aver percorso un giro si ritrova esattamente nello stesso punto da cui era partito e, da quel momento, il moto si ripete identico giro per giro. I moti che hanno questa caratteristica si chiamano “moti periodici” ed il tempo necessario a percorrere lo spazio, in questo caso la circonferenza, che riporta il corpo nella stessa posizione si chiama “periodo” ed è, ovviamente, espresso in secondi. Il reciproco del periodo è la “frequenza”, che è il numero di cicli, in questo caso giri, che il corpo compie in un secondo. La frequenza si misura in Hertz 11 (Hz) che è la frequenza di un corpo che compie 1 ciclo al secondo. Moti composti Esistono, oltre a quelli considerati, molti altri moti più complessi che si prestano però ad essere analizzati con modalità analoghe a quelle fin qui esposte. In alcuni casi essi possono essere considerati come moti composti da alcuni dei moti 11 Heinrich R. Hertz (1857-94), fisico tedesco 40 semplici illustrati e le leggi che li regolano risultano così di più agevole formulazione. Si pensi, ad esempio, al moto di un getto d’acqua che esce da un tubo orizzontale. Ogni gocciolina d’acqua si muove contemporaneamente con un moto rettilineo orizzontale, che può considerarsi uniforme, provocato dalla pressione dell’acqua, e con un moto uniformemente accelerato su una traiettoria verticale, provocato dalla gravità. Il moto risultante è la classica curva parabolica di un getto d’acqua che procede simultaneamente in orizzontale ed in verticale. Analogamente si possono considerare il moto di un proiettile di cannone, di un sasso che viene lanciato in aria, di una freccia scoccata da un arco ecc. I moti dei corpi celesti, in particolare dei pianeti e dei satelliti naturali, sono poi oggetto di un particolare settore della fisica la cui conoscenza ha raggiunto livelli di notevole perfezione. Si pensi, ad esempio, alla precisione necessaria nei calcoli di supporto per il lancio di un satellite artificiale o di una navicella spaziale destinata a raggiungere corpi celesti particolarmente lontani. Noi ovviamente non possiamo addentrarci in questa materia, un po’ troppo lontana dalle nozioni elementari che formano l’oggetto di questo lavoro, ma questo semplice accenno può servire a dare un’idea dell’importanza che riveste lo studio di questa materia. 41 Capitolo 3 – Dinamica Dopo aver visto, nella statica, quali sono le condizioni perché un corpo sia in equilibrio e, nella cinematica, le caratteristiche principali che caratterizzano il moto, si esaminerà ora, nella dinamica quali sono le cause del moto o meglio cosa provoca il moto. Già nella statica, quando si è definito il concetto di forza, si è detto che la forza è un’azione che sposta un corpo dalla sua situazione di quiete o, se il corpo è già in moto, che ne modifica il movimento. Viene quindi spontaneo pensare che la causa del movimento sia la forza. Del resto è proprio questa la percezione comune del movimento: per muovere un corpo bisogna spingerlo e quando termina la spinta il corpo si ferma. Alcuni corpi, in verità, si muovono anche senza essere spinti; quando per esempio rotolano giù da una china. Ma sappiamo che in quel caso è la forza peso che li fa rotolare e che essi si fermano quando questa forza viene annullata da un vincolo o dal ritorno su un terreno piano. L’affermazione precedente sembra dunque confermata. Con queste ed altre osservazioni dello stesso tipo, per secoli si è creduto che la causa del moto fosse una forza e che al cessare della forza che lo provoca cessasse anche il moto. Restava solo un dubbio: quale è la forza che provoca il movimento dei pianeti e degli altri corpi celesti? Anche se si pensava che fosse il sole a muoversi intorno alla terra, cosa lo spingeva? E la luna? E gli altri pianeti? Anche se gli studi astronomici erano già molto avanzati e precisi fin dall’antichità l’unica risposta che per secoli fu data a queste domande fu che le leggi fisiche valide sulla terra non lo sono per il resto dell’universo. Ma perché? Che differenza c’è fra il moto dei corpi sulla terra e nell’universo? Le differenze sono tante, ma quali sono quelle che hanno importanza a questi fini? Ci volle il genio di Galileo per trovarle: le differenze importanti sono che sulla terra i corpi in movimento si muovono in un fluido, l’aria o l’acqua, e strisciano o rotolano su qualche altro corpo. I corpi celesti si muovono nel vuoto e non strisciano né rotolano su alcun altro corpo. Il primo principio della dinamica Quale è la conseguenza dell’osservazione di Galileo? Cosa farebbe un corpo sulla terra se non ci fosse l’attrito e l’aria? Abbiamo già visto che l’attrito è una forza che si oppone al movimento e abbiamo accennato che anche la presenza dell’aria ha un effetto analogo. Cosa avverrebbe se non ci fosse né l’uno né l’altro di questi “disturbi”? Proviamo ad immaginare un percorso come quello illustrato nella Figura 29, costituito 42 da un tratto piano, seguito da uno discendente, uno successivo in salita ed infine da un tratto ancora piano, situato in un ambiente ideale in cui siano nulli l’attrito e la resistenza dell’aria. Poniamo all’inizio del percorso, nella posizione 1, una sfera ed imprimiamo ad essa un piccolo impulso istantaneo. La sfera si mette in movimento ed il moto continua perché, anche al cessare dell’impulso, non esiste nessuna azione frenante che faccia cessare il movimento. La sfera giunge così nel punto 2, inizio del tratto in discesa. In questo punto comincia ad agire l’accelerazione di gravità, e l’azione di questa accelerazione, che ha la stessa direzione del moto, provoca un aumento della velocità: il moto diventa uniformemente ac- celerato perché l’accelerazione cui è soggetto è costante. Nel punto 3, finisce il tratto in discesa e nel successivo tratto in salita l’accelerazione di gravità continua ad agire, ma la sua direzione adesso è opposta a quella del moto: il moto diventa uniformemente ritardato. Alla fine della salita, nel punto 4, che potrebbe trovarsi fino all’altezza del punto 2, la sfera è dotata ancora di una certa velocità12. Da questo punto in poi il percorso resta piano. L’accelerazione di gravità non fa più sentire i sui effetti perché il movimento in direzione verticale verso il basso è impedito, quindi sulla sfera non esiste alcuna 12 Il corpo riuscirebbe a risalire fino ad un’altezza uguale a quella del punto 2, perché solo a questa altezza l’accelerazione di gravità annullerebbe la velocità verso l’alto del corpo, ma rimarrebbe comunque la componente orizzontale di velocità causata dall’impulso iniziale. 43 azione che possa accelerare o ritardare il suo moto: ricordiamo infatti che si è supposto che attrito e resistenza dell’aria non esistono. La velocità della sfera quindi non cambia più né in intensità né in direzione né in verso e rimane costantemente uguale al valore che aveva nel punto 4. Da quel momento cioè il moto diventa rettilineo uniforme. Fino a quando? Per sempre! A meno che non intervenga un’azione esterna che lo modifichi. È appunto quello che succede ai corpi celesti che si muovono in un ambiente senza attrito e senza altre resistenze. Ma, si può obiettare, alcuni corpi celesti si muovono di moto uniforme, ma non rettilineo. È vero. Ciò però significa che esiste un’azione, e la vedremo in seguito, che trasforma il moto di questi corpi da rettilineo in circolare. Da considerazioni di questo tipo, che sembrano semplici ora che sono note, ma difficili da immaginare la prima volta, scaturisce il primo principio della termodinamica enunciato da Galileo: “un corpo, in assenza di azioni esterne, rimane in uno stato di quiete o di moto rettilineo uniforme”. La parte più difficile di questo enunciato è la seconda. Mentre infatti può sembrare abbastanza ovvio che in assenza di sollecitazioni esterne un corpo rimanga fermo, non si riesce a immaginare che possa invece anche trovarsi e perseverare in un movimento regolare come il moto rettilineo uniforme. Le resistenze cosiddette passive, attrito e resistenza dell’aria, sono sensazioni innate e così profondamente radicate nel nostro subcosciente da rendere arduo immaginare un mondo in cui possano non esistere. Ma proprio questa seconda parte, potremmo dire, ha avvicinato la terra al cielo e, unificando le leggi dell’universo con quelle della terra, ha creato le premesse per una conoscenza sempre più profonda delle leggi fisiche. La capacità che hanno i corpi di stare in quiete o di perseverare in un moto rettilineo uniforme se non ci sono azioni esterne perturbatrici, si chiama “inerzia” . Molto spesso, quando diciamo che un corpo si muove per inerzia enunciamo proprio, magari inconsciamente, il primo principio della dinamica. Per esempio, quando siamo in macchina e chi guida frena bruscamente il nostro corpo continua ad andare avanti “per inerzia” e, in mancanza di forze riequilibratici, continuerebbe a muoversi in avanti con moto rettilineo uniforme. Analogamente quando la macchina accelera bruscamente, sembra che il nostro corpo vada indietro; in realtà, “per inerzia” tende a perseverare nel suo stato di moto (pressoché) uniforme in cui si trovava, dando la sensazione di andare indietro. Il secondo principio della dinamica Quando, iniziando lo studio della statica, si è introdotta la definizione di forza si è detto che essa è un’azione capace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo. Osserviamo ora che in entrambi i casi ciò significa che una forza fa variare la velocità di un corpo: infatti un corpo fermo ha una velocità uguale a zero che diventa ovviamente diversa da zero se il corpo non è più in quiete, mentre la modifica dello stato di moto di un corpo già in movimento corrisponde sempre ad una variazione della velocità, anche se a volte solo della sua direzione o del verso. In cinematica abbiamo appreso che una variazione13 della velocità è un’accelerazione, quindi della forza possiamo dare ora una definizione dinamica dicendo che: “la forza è un’azione che, applicata ad un corpo, imprime ad esso un’accelerazione”. 13 Misurata in un’unità di tempo 44 Viene spontaneo chiedersi allora se esiste una relazione fra l’entità della forza applicata ad un corpo e l’accelerazione impressa ad esso. Com’è intuitivo pensare, gli esperimenti di vario tipo che si possono effettuare per accertarlo, confermano che quanto maggiore è la forza applicata, tanto maggiore è l’accelerazione impressa 14. In altri termini che l’accelerazione impressa ad un corpo da una forza è direttamente proporzionale ad essa (Figura 30). Altrettanto agevole inoltre è pensare che anche le dimensioni del corpo giocano un loro F m a F=ma Figura 30 - Il secondo principio della dinamica ruolo in questa relazione: infatti una stessa forza ha evidentemente un effetto maggiore su un corpo più piccolo che su uno più grande. Anche questa intuitiva deduzione trova conferma negli esperimenti che evidenziano che l’accelerazione impressa a vari corpi da una stessa forza è inversamente proporzionale alla massa del corpo. Si noti che la grandezza usata per definire la dimensione del corpo è la massa, non il peso. La massa infatti, come si è detto, è una grandezza invariabile caratteristica di ogni corpo, mentre il peso varia con la latitudine e l’altezza in cui il corpo si trova. La relazione così trovata può essere espressa da una semplice espressione matematica: F m a in cui F è la forza che agisce sul corpo, m la sua massa, a l’accelerazione impressa. Una 14 Non si descrivono qui gli esperimenti che si possono fare per verificare l’esistenza ed il tipo delle relazioni di cui si tratta. Si noti soltanto che le difficoltà da superare consistono nel creare in laboratorio condizioni di assenza di attrito e resistenza dell’aria, che sono quelle in cui tali relazioni sono valide. 45 forma diversa in cui questa stessa relazione può essere espressa è: a F m che esprime in maniera più diretta il secondo principio della dinamica, cioè: una forza applicata ad un corpo gli imprime un’accelerazione che è direttamente proporzionale alla forza ed inversamente proporzionale alla massa del corpo. Quali numeri inserire nella formula quando se ne vuol fare un uso pratico? Le grandezze in gioco sono state già incontrate prima e quindi sappiamo che la massa è misurata in Kg (massa), l’accelerazione in metri/sec2, e la forza in Newton. Sono dunque queste le unità di misura che si utilizzano nella formula. Si vuole solo aggiungere che del Newton, quando lo abbiamo introdotto, avevamo rinviato ad un tempo successivo la definizione. Esso viene infatti definito proprio sulla base del secondo principio della dinamica come quella forza che applicata ad un corpo di 1 Kgmassa, gli imprime un’accelerazione di 1 m/sec 2. Il terzo principio della dinamica L’enunciato del terzo principio della dinamica è: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Gli aspetti statici di questo principio sono stati già incontrati più volte, soprattutto come reazioni di vincoli. Essi però rappresentano solo un caso particolare del principio stesso che è valido anche in condizioni dinamiche. Si cercherà, con qualche esempio, di illustrarne gli aspetti (Figura 31). Una forza che agisce su un corpo non può nascere dal nulla, essa deve necessariamente avere origine da un altro corpo. Il secondo principio della dinamica afferma che questo a sua volta subisce una reazione uguale e contraria che origina dall’altro. L’effetto sui due corpi, ossia l’accelerazione impressa a ciascuno di essi, può essere diverso, tanto più quanto maggiore è la differenza delle masse dei due corpi. Per il secondo principio della dinamica infatti l’accelerazione impressa è inversamente proporzionale alla massa. Si prenda, per esempio un ventilatore montato su una base munita di rotelle. Le pale del ventilatore, per la loro particolare conformazione, esercitano una forza sulle particelle dell’aria circostante che vengono accelerate in una certa direzione. A loro volta le particelle d’aria generano una reazione uguale e contraria sulle pale del ventilatore che si trasmette all’intero apparecchio. L’accelerazione impressa alle particelle d’aria è molto più elevata di quella impressa al ventilatore a causa della massa delle particelle molto più piccola della massa del ventilatore. L’aria quindi si muoverà in una certa direzione molto più velocemente di quanto il ventilatore si muoverà nella stessa direzione ma in verso opposto. C’è un caso però in cui le cose si verificano in modo un po’ diverso. Se il ventilatore è grande e potente, come nel caso dell’elica di un aereo, la massa d’aria e la forza ad essa impressa (verso il retro dell’aereo) è molto maggiore e così pure la reazione sull’aereo. Questo quindi subisce un’accelerazione tale da fargli raggiungere in poco tempo una velocità che gli permette di staccarsi dal suolo e volare. La stessa origine ha la forza che tende a far muovere in verso opposto al getto d’acqua una canna di gomma utilizzata per innaffiare un giardino, oppure lo spruzzatore girevole 46 usato per lo stesso scopo, il motore dell’aereo a reazione, i razzi per mettere in orbita i satelliti ecc. In tutti questi casi, infatti, un fluido riceve un’accelerazione in una certa direzione da una forza che origina dall’interno di un corpo, il tubo dell’acqua, il reattore dell’aereo o la camera di combustione del razzo. Il fluido, a sua volta, genera una forza uguale e contraria che agisce sul corpo imprimendogli un’accelerazione in senso contrario. Le due forze hanno la stessa intensità, mentre le accelerazioni sono inversamente proporzionali alle masse del fluido o del corpo. Il moto dei corpi celesti Cerchiamo ora di dare una risposta alla domanda che ci siamo posti in precedenza: se il primo principio della dinamica è valido per tutto l’universo, perché i pianeti, fra cui la stessa terra, si muovono su traiettorie che non sono rettilinee? E inoltre se, come si è visto nel moto circolare uniforme, per costringere un corpo a percorrere una traiettoria non rettilinea occorre un’accelerazione (centripeta) che lo costringa a curvare, cosa genera questa accelerazione nel caso dei corpi celesti? Sono domande che per secoli hanno trovato solo risposte di tipo filosofico, ma ci sono volute menti eccelse come quella di Copernico 15, Galileo, Keplero 16, Newton e altri per inquadrare invece questo problema esclusivamente nel campo delle leggi fisiche, senza comunque togliere alla filosofia la ricerca di chi abbia imposto queste leggi all’intero 15 16 Niccolò Copernico, nome italianizzato di Nikolaj Kopernik (1473-1543), astronomo polacco Johannes Kepler (1571-1630), astronomo tedesco 47 universo. Limitiamo le nostre osservazioni a quella parte dell’universo che ci è più vicina: il sole ed i suoi pianeti e poniamo il nostro sistema di riferimento nel sole. Non potendo addentrarci nel campo dell’astronomia, assumiamo per dato che i pianeti si muovono intorno al sole, con periodi costanti, su orbite ellittiche poco schiacciate, molto vicine a delle circonferenze. Si tratta, quindi, di moti periodici assimilabili al moto circolare uniforme. Abbiamo visto che nel moto circolare uniforme è l’accelerazione centripeta che impedisce al corpo di proseguire in un moto rettilineo e lo costringe a curvare. Ma poiché l’accelerazione centripeta agisce su un corpo dotato di una massa, per il secondo principio della dinamica, vuol dire che c’è una forza che costringe il corpo a curvare. Chi e- sercita questa forza? L’esempio della Figura 32 può aiutare a capirlo. La fionda è un’arma molto semplice nota fin dall’antichità; la usò Davide per abbattere il gigante Golia. Si tratta di una guaina di pelle legata a due lunghe corde. Nella guaina viene sistemato un sasso e si fa roteare l’attrezzo sopra la testa trattenendo le due corde in una mano. La forza centripeta, Fp, che costringe il sasso a restare sulla traiettoria circolare, nasce dal braccio dell’uomo e si trasmette al sasso attraverso le corde e la guaina. A questa azione corrisponde una reazione uguale e contraria Ff, forza centrifuga, che la bilancia. Ad un certo punto, lasciando sfuggire una delle due corde della fionda, il sasso, non più trattenuto dalla forza centripeta, continua a muoversi ma assume una traiettoria rettilinea. In modo analogo avviene il lancio del martello nell’esercizio di atletica leggera che ha 48 questo nome. Il martello rotea perché è trattenuto dalla forza centripeta esercitata attraverso una catena dall’atleta, ma procede con moto rettilineo quando la forza cessa perché l’atleta lascia la catena. Ma i pianeti non sono forniti di corde o catene. Da dove origina e come si trasmette dunque la forza che li costringe al moto rotatorio? Fu Newton a trovare una risposta a questa domanda. Per quanto strano possa sembrare, egli stesso scrive che l’idea gli venne quando gli capitò di vedere una mela che cadeva da un albero. Forse non è vero, ma è un modo elegante e discreto per dire che, a volte, anche l’osservazione attenta di fenomeni semplici può portare a scoprire delle grandi cose. È capitato più di una volta nella storia della scienza, ma è necessario perché ciò avvenga che chi osserva i fenomeni sia dotato non solo di una grande intuizione, ma anche e soprattutto di una profonda cultura scientifica e di un assillante desiderio di conoscere. Newton era certamente uno di questi. Il suo più grande merito fu di estendere il fenomeno della gravitazione terrestre a tutto l’universo. Perché la mela si muove dall’albero e cade sulla terra? Perché è attratta dalla terra. E fin dove si estende l’attrazione terrestre? Teoricamente all’infinito, ma diventa sempre più debole al crescere della distanza. Arriva fino alla luna? E, in questo caso, perché la luna non cade sulla terra come la mela? Perché la luna si muoverebbe di moto rettilineo uniforme (primo principio della dinamica), e l’attrazione della terra è la forza centripeta che trasforma il suo moto in circolare. E, infine, questo fenomeno è caratteristico solo della terra o vale per tutto l’universo? Vale per tutto l’universo. È il fenomeno della “gravitazione universale”. Abbiamo semplificato di molto la spiegazione di un fenomeno molto complesso che Newton studiò a fondo ricavandone la legge che regola l’attrazione dei corpi nell’intero universo. Essa dice che i corpi presenti nell’universo si attraggono fra loro e, più precisamente, fra ogni coppia di corpi si crea una forza che tende ad attrarli con un’intensità direttamente proporzionale alle rispettive masse ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. La formula matematica che esprime questa legge è molto semplice; la forza F, espressa in Newton, è: F G m1 m2 r2 in cui m1 ed m2 sono le masse dei due corpi ed r la loro distanza. G è una costante di proporzionalità che prende il nome di “costante di gravitazione universale”. Il valore di G è molto piccolo: infatti, se le masse sono espresse in Kg e la distanza in metri, G è un numero decimale con 10 zeri dopo la virgola prima della prima cifra significativa 17. Questo, ad esempio, spiega perché i corpi presenti sulla terra, pur essendo soggetti a queste forze di attrazione, rimangono fermi e non si appiccicano gli uni sugli altri: l’intensità delle forze è talmente piccola da non riuscire a spostarli 18. 17 G = 0,00000000006673 = 6,673 · 10-11 N·m2 / Kg2 Si considerino due corpi aventi ciascuno la massa di 1 Kg, posti alla distanza di 1 metro, la forza agente su ciascuno di essi è di 0.00000000006673 Newton, ovvero 0.0000000000068 Kg-forza. 18 49 Ma la portata di questa legge va ben oltre questa banale constatazione. La legge della gravitazione universale ha permesso di capire come si muove l’universo e, più recentemente, ne ha reso possibile l’esplorazione. E, anche se gli studi più recenti ne hanno individuato alcuni limiti di validità, essa è stata e rimane uno dei capisaldi della fisica classica. Vediamone ora un’applicazione molto importante che ci riguarda più da vicino, la legge di gravità sulla terra. La gravitazione terrestre è evidentemente un caso particolare della gravitazione universale. Si è detto infatti che proprio partendo da una mela che cadeva da un albero Newton era arrivato a concepirla. Alla gravità terrestre è dunque applicabile la formula generale della gravitazione universale, in cui una delle due masse è quella della terra, mt, l’altra è quella del corpo che si considera, m, e la distanza fra i due corpi, che va misurata fra i loro centri, è praticamente il raggio terrestre rt: G mt m rt 2 F Poiché G, mt e, in uno stesso punto della terra, anche rt sono costanti, ad essi può sostituirsi una sola costante, g, per cui la formula diventa: F g m che è la formula del secondo principio della dinamica, in cui g è “l’accelerazione di gravità”. Naturalmente una forza uguale e di verso contrario agisce anche sulla terra, che viene attratta verso il corpo, ma poiché la massa della terra è enormemente più grande l’accelerazione che agisce su di essa è impercettibile. L’accelerazione di gravità, come si è gia detto, è diversa a seconda della latitudine perché la terra non è una sfera perfetta ed il suo raggio all’equatore è maggiore che ai poli. Essa è pertanto minore all’equatore rispetto ai poli 19. In media si assume un valore di 9.8 m/sec2. È opportuno sottolineare ora che, come si ricava dalle formule, l’accelerazione di gravità anche se varia da punto a punto della terra è uguale però per tutti i corpi, qualunque sia la loro massa. È la forza di gravità, cioè il peso del corpo, che dipende dalla massa, non l’accelerazione. Ciò significa che corpi di massa diversa, lasciati cadere da una certa altezza, dovrebbero muoversi con la stessa velocità, ossia arrivare al suolo contemporaneamente. L’esperienza quotidiana ci dice però che una piuma cade ad una velocità diversa da un pezzo di piombo, ma questo dipende dalla resistenza dell’aria che agisce diversamente sui due corpi. Infatti si può facilmente dimostrare in laboratorio che, in una colonna di vetro in cui sia fatto il vuoto, piuma e piombo cadono con la stessa velocità. Ricordiamo infine che si era rinviata a suo tempo la spiegazione della relazione che intercorre fra le due unità di misura delle forze, il Newton ed il Kg forza, cioè: 1 Kgforza = 9.8 Newton 19 Il valore all’equatore è di 9.78 m/sec2 mentre ai poli è di 9.83 m/sec2. 50 Possiamo ora chiarire che essa dipende dalla definizione delle due unità di misura: il Kgforza è la forza che imprime ad un corpo di 1 Kg massa un’accelerazione uguale all’accelerazione di gravità, cioè 9.8 m/sec2 il Newton è la forza che imprime ad un corpo di 1 Kg massa un’accelerazione uguale a 1 m/sec2 La relazione diventa ora evidente. 51 Capitolo 4 – Lavoro ed Energia Nel capitolo precedente abbiamo appreso che il movimento di un corpo non vincolato è generato da una forza che gli imprime un’accelerazione. Ma chi genera la forza? La gravitazione universale o, in particolare, la gravitazione terrestre è un’origine della forza, ma è l’unica possibile? Da dove trae origine, per esempio, la forza che fa volare un aereo o che fa muovere un’automobile o un treno? Sappiamo che per realizzare questi movimenti si deve utilizzare qualcosa che chiamiamo energia: l’energia dei carburanti nel caso dell’aereo e dell’automobile, l’energia elettrica nel caso del treno. Ma perché? E, soprattutto, cosa è l’energia? Cominciamo dalla prima domanda: perché occorre qualcosa che chiamiamo energia. Il primo principio della dinamica afferma che un corpo su cui non agisce alcuna forza è fermo o si muove con un moto rettilineo uniforme. Sulla terra però, un corpo che si muovesse con un moto rettilineo uniforme si troverebbe subito soggetto a delle forze tendenti ad ostacolarne il movimento principalmente per tre ragioni: 1. l’attrito, che nel caso in cui il corpo strisci o rotoli su una superficie, ossia su un altro corpo, si presenta come una forza di verso opposto al movimento 2. la resistenza del fluido in cui si muove, l’aria, l’acqua o qualsiasi altro fluido, che si manifesta anch’essa come una forza di verso opposto al movimento 3. la forza di gravità che, nel caso in cui il corpo si muove verso l’alto rispetto alla superficie terrestre, ha anch’essa verso opposto al movimento Fa parte del nostro subconscio che per vincere queste resistenze bisogna compiere un lavoro ovvero impiegare dell’energia, che una volta era soltanto lavoro ed energia umana ma, col passare del tempo e con la scarsa propensione alla fatica, che è caratteristica del genere umano, è diventata sempre più energia fornita in altro modo. A queste percezioni qualitative la fisica ha dato, come il solito, un inquadramento quantitativo, definendo per esse delle grandezze misurabili. Il lavoro Ci serviremo ora di un esempio per ciascuna delle forze resistenti elencate sopra per introdurre la nozione fisica di lavoro (Figura 33). Consideriamo per prima una slitta che striscia su un manto nevoso. Sugli scivoli della slitta agisce l’attrito come una forza rivolta in senso contrario al movimento indicata nella figura con la lettera –F, in cui il segno “meno“ indica appunto il verso contrario al movimento. Questa forza imprime alla slitta un’accelerazione, anch’essa rivolta in senso 52 contrario al moto, che ne riduce la velocità fino a fermarla. Per mantenere la slitta in movimento occorre applicare una forza uguale e contraria, indicata con F nella figura, che bilancia ed annulla la forza di attrito per cui la slitta, su cui non agisce più alcuna forza, persevera in un moto rettilineo uniforme. Si noti che perché ciò avvenga la forza F deve continuare ad agire per tutto il tempo e deve mantenersi uguale in intensità a –F. Infatti se essa diventa maggiore la slitta accelera, se diventa minore la slitta rallenta; nel primo caso infatti la somma delle forze è rivolta nella direzione del moto, nel secondo invece è rivolta nella direzione opposta. La forza F applicata alla slitta è generata da una fonte di energia esterna che compie il lavoro di traino della slitta, energia cioè fornita da animali o da combustibili o altro. Il lavoro è tanto maggiore quanto maggiore è la forza F e quanto più lungo è il percorso “s” da compiere, per cui una grandezza che può misurare il lavoro fatto è il prodotto di F ed s. Si definisce infatti lavoro di una forza F che si sposta lungo la sua retta d’azione per un tratto s il prodotto della forza per lo spostamento: L F s in cui la forza è misurata in Newton e lo spostamento in metri. L’unità di misura del lavoro si chiama “Joule” 20 ed è definito come il lavoro che compie una forza di 1 Newton che si sposta di 1 metro, lungo la sua direzione. In realtà esistono 20 James P. Joule (1818-89), fisico inglese 53 anche altre unità di misura del lavoro usate nella pratica comune, ad esempio la caloria, le tep ecc. ma non è il caso di introdurle ora. Torniamo invece alla Figura 33 ed analizziamo gli altri due casi di resistenza passiva al moto che richiedono lavoro per essere annullate. Un aereo in volo non è soggetto ad attrito, perché il moto avviene senza contatto con altri corpi. Esso però si muove in un fluido, l’aria, che esercita un’azione frenante molto simile all’attrito, che si può considerare come una forza che ha la direzione del moto ma è diretta nel verso opposto. Lo stesso fenomeno si manifesta nel caso di un corpo immerso in un liquido. Anche in questo caso la forza frenante genera un’accelerazione diretta nel verso contrario al moto per cui il corpo rallenta fino a fermarsi. Per evitare che ciò avvenga e far sì che il moto perseveri, occorre applicare una forza, generata da un’energia esterna, di intensità uguale ma di segno contrario all’azione frenante. Anche in questo caso il lavoro che si compie è dato dal prodotto della forza per lo spostamento. Il terzo caso riguarda il sollevamento di un corpo. Ogni corpo sulla terra è soggetto alla forza di gravità, ossia ad una forza rivolta verso il centro della terra, che per noi si identifica con “verso il basso”. Sollevare un corpo significa muovere il corpo nel verso contrario, “verso l’alto”, bisogna quindi applicare una forza uguale e contraria a quella di gravità. Quando il corpo si sposta verso l’alto, la forza compie un lavoro, dato ancora una volta dal prodotto della forza per lo spostamento. In conclusione per la presenza di queste forze frenanti, a volte chiamate anche resistenze passive o forze parassite, il moto dei corpi sulla terra risulta impossibile senza un intervento di forze esterne che le equilibrino. Il lavoro che queste forze compiono restando applicate lungo tutto lo spostamento del corpo è l’equivalente di un’energia proveniente da una fonte esterna. Ma cosa è l’energia e quali sono le fonti esterne capaci di fornirla? L’energia Il concetto di energia è insito in quello che si è detto finora: l’energia è la capacità di un sistema di compiere lavoro. La definizione è logica e coerente, ma ancora oscura. Per cercare di chiarirla facciamo alcuni esempi di casi semplici e familiari. 1. Sappiamo tutti che l’acqua di un fiume scorre da monte verso il mare e che la massa d’acqua corrente è capace di far girare una ruota fornita di pale e posizionata opportunamente nel corso d’acqua. Per far girare la ruota occorre una forza che serve a vincere l’attrito dell’asse della ruota nel mozzo, ossia occorre fare un lavoro. La corrente del fiume è un sistema capace di compiere questo lavoro, è cioè una fonte di energia. 2. Per andare in bicicletta bisogna applicare una forza ai pedali, che con una serie di meccanismi si trasmette alla ruota e serve a vincere l’attrito di questa sul terreno, la resistenza dell’aria che il corpo del ciclista incontra avanzando e, quando si deve superare una salita, il sollevamento del suo peso da una posizione meno elevata ad una più elevata. Si tratta di tutte e tre le forme di resistenze passive. Il lavoro viene fornito dall’uomo che, in questo caso, è la fonte di energia. 54 3. Le resistenze passive che agiscono su una carrozza trainata da cavalli sono molto simili a quelle di una bicicletta. In questo caso però la fonte di energia è il cavallo. 4. L’automobile, a sua volta, è molto simile ad una carrozza, ma la fonte di energia è il carburante. Cosa hanno in comune l’energia idraulica di una corrente d’acqua, l’energia umana, l’energia animale, l’energia chimica del carburante e tutte le altre fonti di energia? E quale è la loro origine? Quasi tutta l’energia che interessa la terra ha origine nel sole. All’interno di questa stella avvengono continuamente delle reazioni nucleari che producono un’enorme quantità di Figura 34 - Origine dell’energia energia, sotto forma di calore, e ne mantengono la superficie ad una temperatura molto elevata. L’energia così prodotta è irradiata in tutto lo spazio circostante e investe i corpi celesti che vi incontra, fra cui la terra (Figura 34). La terra, così come ogni altro corpo investito da quella frazione d’energia che lo colpisce, si scalda, cominciando a sua volta ad irradiare energia intorno a sé, e la sua temperatura sale fino a quando l’energia che riceve eguaglia quella che a sua volta irradia. A questo punto si crea un equilibrio che, a meno di grandi sconvolgimenti cosmici, si mantiene nel tempo. Una piccola parte dell’energia che la terra riceve dal sole non viene però irradiata immediatamente nello spazio, ma rimane, per così dire, intrappolata e trattenuta per il veri55 ficarsi di una particolare reazione chimica: la fotosintesi o sintesi clorofilliana. La terra, come è noto, è circondata da uno strato di diversi gas che formano l’atmosfera fra cui due, l’anidride carbonica e l’acqua (vapore), sotto l’azione dell’energia solare, reagiscono per formare la materia organica vegetale di cui sono fatte le piante (Figura 35). La materia organica, così formata, trattiene e conserva l’energia che ha assorbito durante la sua formazione e la può rilasciare successivamente in due modi diversi: trasformandosi in materia organica animale quando è usata come cibo dagli animali oppure trasformandosi in calore quando viene bruciata. Ma c’è di più. L’energia contenuta nella materia organica animale o vegetale può essere rilasciata anche molto tempo dopo che si è formata. Ciò avviene in particolare quando gli organismi animali e vegetali subiscono, dopo la loro morte, un processo naturale par- Figura 35 - L’energia catturata dalla terra ticolare, la fossilizzazione, che consente la loro conservazione nel tempo. Grazie proprio a questi processi, l’energia del sole, catturata sulla terra durante milioni di anni, è giunta fino a noi conservata nei combustibili fossili, che oggi ce la rendono sotto forma di calore quando sono bruciati. Ci sono poi altri due processi naturali che catturano l’energia che arriva dal sole: la pioggia e il vento. Il calore del sole fa evaporare l’acqua del mare, dei laghi e dei fiumi. Il vapore d’acqua, più leggero dell’aria, s’innalza spontaneamente nell’atmosfera e vi rimane, sotto forma di nubi, mantenendo e conservando l’energia che lo ha generato. Quando poi un abbassamento di temperatura lo fa condensare si forma la pioggia che, durante la condensazione e la ricaduta, rilascia l’energia che aveva catturato. Se però la pioggia cade su zo56 ne elevate, e rimane imbrigliata in laghi montani naturali o artificiali, una parte dell’energia che possedeva rimane ancora intrappolata in essa e sarà rilasciata quando l’acqua, attraverso i fiumi o canali artificiali, defluirà fino a ritornare al mare. In tal modo una parte dell’energia del sole può essere catturata, conservata e successivamente recuperata sotto forma di energia cinetica (ossia di movimento) dell’acqua e trasformata in energia elettrica o meccanica. Anche il vento è una forma indiretta dell’energia solare che si manifesta come energia cinetica di masse d’aria in movimento. I fenomeni che generano i venti sono abbastanza complessi ma, semplificando al massimo, si può dire che essi si formano quando, per varie ragioni, si stabiliscono delle temperature diverse fra due zone adiacenti della superficie terrestre. Nella zona dove la temperatura è più alta l’aria calda tende a portarsi Nucleare (endogena, artificiale) Gravitazionale (maree) Figura 36 - Altre origini dell’energia in alto ed al suo posto arriva l’aria che si trova nella zona più fredda: questo movimento d’aria è il vento. Quando il vento soffia sulla superficie del mare, parte della sua energia si trasmette all’acqua creando i moti ondosi, che diventano anch’essi trasportatori e potenziali trasmettitori d’energia cinetica. Abbiamo detto che “quasi” tutta l’energia che interessa la terra ha origine nel sole. C’è dunque dell’energia che ha un’origine diversa? Si, ci sono due altre fonti originarie di energia: l’energia gravitazionale (che abbiamo già incontrato parlando della gravitazione universale) e l’energia nucleare (Figura 36). L’energia gravitazionale deriva dall’attrazione reciproca della terra e della luna e si manifesta, principalmente, con il fenomeno delle maree. La sua importanza come fonte 57 d’energia è abbastanza modesta. L’energia nucleare è quella che si sprigiona durante la trasformazione degli atomi di alcune sostanze radioattive presenti sulla terra fin dai primordi. Questa trasformazione, spontanea o provocata artificialmente, avviene con la contemporanea produzione di un’enorme quantità di energia sotto forma di calore. Qualcosa di simile a quello che avviene nel sole. La trasformazione spontanea avviene per il decadimento naturale delle sostanze radioattive presenti nel nucleo della terra e la relativa energia si manifesta come energia geotermica (sorgenti d’acqua calda o vapore) o, più violentemente, come energia vulcanica o tellurica. La trasformazione provocata artificialmente dall’uomo avviene nei reattori nucleari e Originarie Indirette Biomasse (animali e vegetali) Fossili (carbone, petrolio, gas) Energia Solare Idraulica Eolica e onde marine Solare (tal quale) Geotermica Energia nucleare Atomica Energia gravitazionale Maree Figura 37 - Le fonti primarie di energia produce anch’essa calore, trasformato poi in energia elettrica. Un uso violento e perverso di questa forma di energia sono le bombe atomiche. Nella rapida esposizione fin qui fatta abbiamo usato attributi diversi con la parola energia. È bene quindi riassumere per chiarire alcuni concetti ed evitare possibili confusioni (Figura 37). Abbiamo innanzi tutto utilizzato il termine “fonti originarie” d’energia per indicare i tre sistemi da cui proviene tutta l’energia che interessa la terra: l’energia solare, l’energia nucleare e l’energia gravitazionale. Abbiamo poi parlato di “fonti indirette” per indicare quei sistemi capaci di catturare, conservare e successivamente rilasciare una parte dell’energia emessa dalle fonti originarie: l’energia degli organismi vegetali o animali (detti anche biomasse), l’energia del58 le fonti fossili (petrolio, gas, carbone), l’energia dell’acqua (idraulica), l’energia del vento (eolica), l’energia delle onde (marina), l’energia geotermica (derivata dalla radioattività interna della terra), l’energia delle maree (derivata dall’energia gravitazionale). Aggiungiamo qui che sia le fonti originarie che le fonti indirette si chiamano anche “fonti primarie” di energia per indicare che si tratta di risorse esistenti in natura da cui si può attingere per ottenere energia. Abbiamo infine parlato di forme d’energia: calore, energia elettrica, energia meccanica, senza tuttavia spiegare il significato di questi termini. L’energia infatti può avere forme diverse e può essere trasformata da una nell’altra sia con processi spontanei, sia con apparecchiature o metodi diversi. Le diverse “forme” o “specie” d’energia sono: chimica, elettrica, elettromagnetica, meccanica, nucleare, termica. Per chiarire meglio questo concetto torniamo a quanto già detto sull’energia che si origina nel sole (Figura 38). Essa è inizialmente energia nucleare, perché è generata da reazioni nucleari (esplosioni atomiche) che avvengono nell’interno del sole. Si trasforma poi in calore, ossia in energia termica che porta la temperatura della stella a livelli molto elevati. Essa poi s’irradia nello spazio sotto forma di luce, ossia di energia elettromagnetica e quando arriva sulla terra viene trasformata in energia termica (calore, che riscalda la terra), in energia chimica con la sintesi clorofilliana, in energia meccanica con i fenomeni meteorologici della pioggia, del vento e delle onde marine. L’energia è sempre la stessa, ma è cambiata la sua forma. A queste trasformazioni naturali bisogna aggiungere poi quelle che l’uomo produce allo 59 scopo di immagazzinare, trasportare ed utilizzare l’energia. La forma d’energia oggi maggiormente utilizzata è l’energia elettrica perché può essere facilmente trasportata per lunghe distanze e distribuita in maniera pulita e silenziosa in tutte le case. Ma l’energia elettrica non esiste tal quale in natura, cioè non è una fonte primaria di energia e deve essere prodotta da altre forme di energia con opportuni macchinari e processi. Un’altra forma d’energia molto utilizzata è l’energia meccanica per i trasporti. Anche questa è ottenuta artificialmente trasformando, nel motore del veicolo, l’energia chimica contenuta nel carburante, a sua volta derivata dai combustibili fossili. Su questi argomenti ed in particolare sulle apparecchiature (motori, turbine, alternatori ecc.) utilizzate per la trasformazione dell’energia nelle sue diverse forme torneremo più diffusamente in seguito. Energia cinetica ed energia potenziale Nell’introdurre il concetto di energia e, in particolare, nell’individuarne l’origine si è detto che essa irradia dal sole, investe i corpi celesti e viene da questi immediatamente e integralmente riflessa nello spazio. Sulla terra, in particolare, una parte dell’energia viene trattenuta ma è successivamente anch’essa riflessa nello spazio. Da ciò e dalla descrizione dei meccanismi con cui viene temporaneamente trattenuta sulla terra si capisce che l’energia è qualcosa che fluisce, eventualmente cambia forma, si immagazzina ma non si consuma. Essa viene integralmente restituita allo spazio da cui è arrivata. Approfondiremo questi argomenti più avanti, ma vogliamo ora metterne in evidenza un aspetto particolare che permette di individuare due stati in cui l’energia può trovarsi. Supponiamo di essere in un ambiente privo di resistenze passive (Figura 39). Se, utilizzando una fonte esterna di energia, solleviamo un corpo di massa m, ad un’altezza h, facciamo un lavoro, e cioè impieghiamo una quantità di energia, pari al prodotto della forza peso P (= g · m) per lo spostamento h: L=P·h Se ora lasciamo cadere il corpo, esso si muove verso il basso per effetto della gravità e la forza peso P, percorrendo il tratto h compie un lavoro pari a L =P · h Esattamente uguale a quello necessario per sollevarlo all’altezza h. Si noti però che, mentre nel sollevare il corpo si era dovuto impiegare energia proveniente da una fonte esterna, nella sua ricaduta non solo non occorre impiegarne ma addirittura il corpo restituisce integralmente l’energia che era stata impiegata per sollevarlo. Infatti se il corpo, alla fine della sua caduta, ricade sul piattello di una molla, l’energia posseduta si manifesta come una forza che comprime la molla per un certo tratto. La molla cioè assorbe l’energia del corpo accumulandola in sé come energia elastica. Alla fine della compressione la molla ritorna nella sua posizione precedente restituendo l’energia al corpo e rimandandolo in alto fino all’altezza h. E questo processo può continuare per sempre. Ricordiamo però che abbiamo supposto che esso si svolga in un 60 ambiente privo di resistenze passive. Nella realtà infatti queste assorbirebbero parte dell’energia trasformandola in calore e ciò porterebbe al suo esaurimento progressivo e quindi alla fine del processo. L’aspetto che vogliamo evidenziare adesso però è che nel processo descritto l’energia si trasmette da un sistema all’altro, ma non si consuma 21. I corpi o i sistemi che prendono parte al processo si possono trovare in due situazioni diverse che ora esamineremo. Per sollevare il corpo all’altezza h è stato necessario fornire energia al sistema. Sappiamo anche che il corpo, finché si trova in quella posizione, essendo soggetto alla gravità terrestre, ha la possibilità (ossia la potenzialità) di restituire l’energia che è stato necessario impiegare per portarlo in quella posizione. Si può quindi dire che il corpo ha una ”energia potenziale” di tipo gravitazionale perché è in grado di compiere lavoro. La formula che permette di calcolare questa energia è quella già vista: L=P·h=m·g·h Questa formula, con semplici passaggi matematici 22, si può anche scrivere: L 1 m v2 2 e può essere usata per calcolare quella parte di energia che possiede il corpo quando, lasciato libero di cadere, raggiunge la velocità v. Questa energia di movimento prende il nome di “energia cinetica”. All’inizio del processo il corpo è fermo, cioè la velocità è uguale a zero e tutta l’energia è di tipo potenziale Quando il corpo viene lasciato libero di cadere l’altezza h diminuisce mentre la velocità v aumenta: la parte di energia potenziale calcolata con la prima formula diminuisce, mentre l’energia cinetica aumenta. Alla fine della caduta h è uguale a zero e tutta l’energia si è trasformata da potenziale in cinetica. Quando il corpo colpisce la molla trasmette ad essa la sua energia cinetica e si ferma (la sua velocità diventa zero). L’energia viene assorbita dalla molla sotto forma di energia elastica. Immaginiamo di bloccare la molla nel momento in cui è interamente compressa. In quell’istante la molla ha assorbito tutta l’energia cinetica del corpo e la possiede come energia potenziale elastica. Se rilasciamo la molla essa si estende e restituisce al corpo tutta l’energia cinetica che aveva in precedenza assorbito. Quest’energia riporta il corpo alla stessa altezza da cui era partito e…così via. Il concetto di energia potenziale è molto importante ed è molto più vasto di quanto si sia detto finora. Esso rappresenta infatti il processo con cui la terra trattiene e, soprattutto, 21 Ciò è vero anche nel processo reale in cui parte dell’energia si trasforma in calore. Il calore infatti è anch’esso una forma di energia. Si vedrà in seguito l’intero ciclo dell’energia che comprende anche il calore e l’argomento risulterà più chiaro. 22 Dalla formula del moto uniformemente accelerato, con accelerazione uguale a g, si ha che lo spazio h percorso da un corpo che parte da fermo è h = v2 / 2·g. Sostituendo questa espressione nella formula del lavoro si ha L = m · g · v2 / 2·g = ½ · m · v2 61 ha trattenuto nel passato una parte dell’energia che arriva dal sole. La fotosintesi infatti è quel meraviglioso processo naturale che cattura l’energia solare e la trattiene, sotto forma di energia potenziale chimica, nella materia vegetale, permettendole così, come primo anello della catena alimentare, di passare nella materia organica animale. L’accumulo poi di questo materiale organico formatosi nel corso di centinaia di milioni di anni, ha conservato fino ai giorni nostri l’energia, giunta dal sole, sotto forma di energia potenziale chimica nei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale). Anche nel ciclo delle acque si presenta un fenomeno di accumulo dell’energia solare come energia potenziale gravitazionale. Il calore del sole infatti fa evaporare l’acqua del mare ed il vapore, più leggero dell’aria, L=m•g•h = L = ½ • m • v2 m h h v Figura 39 - Energia cinetica ed energia potenziale viene così portato in alto. Quando condensa e ricade sotto forma di pioggia o di neve in zone geografiche elevate, trattiene in sé una parte dell’energia solare sotto forma di energia potenziale gravitazionale, dovuta alla sua posizione elevata rispetto al livello del mare. L’energia potenziale poi diventa energia cinetica quando l’acqua, attraverso i fiumi o i canali artificiali, rifluisce verso il mare. Ricapitolando, si potrebbe dire che l’energia potenziale è come un fluido conservato in un serbatoio per essere utilizzato in futuro, mentre l’energia cinetica è questo stesso fluido mentre lo si sta utilizzando. Si tratta quindi, come si è detto, di stati diversi in cui l’energia può trovarsi, ma non forme diverse di energia. 62 Gli stati fisici della materia Senza menzionarlo esplicitamente abbiamo finora considerato i corpi come solidi. Ma in natura i corpi, anche della stessa sostanza, possono esistere anche allo stato liquido o aeriforme e ciò proprio in funzione del loro livello energetico. Più precisamente, se si riscalda una sostanza solida si raggiunge normalmente una temperatura23 alla quale essa diventa liquida e, se si continua a riscaldare, si raggiunge una temperatura più alta in cui il liquido diventa vapore. Il vapore è uno stato fisico simile a quello gassoso ma se ne differenzia perché da esso si può tornare al liquido non solo abbassando nuovamente la temperatura, ma anche, e solo, aumentando la pressione. Se si Gas TC Vapore TE Liquido TF Solido 0 °K Figura 40 - Stati fisici della materia riscalda ulteriormente si raggiunge una certa temperatura in cui il vapore passa allo stato fisico di gas, caratterizzato dal fatto che qualsiasi aumento di pressione non è in grado di riportarlo allo stato liquido Le temperature in cui avvengono i cambiamenti di stato si chiamano (Figura 40): Temperatura di fusione (TF), quella in cui avviene il passaggio da solido a liquido, o di solidificazione (che è la stessa) nel passaggio inverso da liquido a solido Temperatura di ebollizione (T E), quella in cui avviene il passaggio da liquido a vapore, o di condensazione nel passaggio inverso 23 Temperatura e pressione sono grandezze che non abbiamo ancora definito. Le usiamo qui contando sulla conoscenza che normalmente si ha di tali grandezze. 63 Temperatura critica (TC), quella in cui avviene il passaggio da vapore a gas o vi- ceversa. Le variazioni di temperatura di una sostanza sono provocate da un apporto o da una sottrazione di calore, ossia di energia, perciò lo stato fisico della sostanza è anche rappresentativo del suo livello energetico relativo. Infatti, l’energia fornita ad una sostanza mette in agitazione le sue molecole. Quando il livello energetico è basso, l’agitazione delle molecole è molto debole ed esse mantengono una posizione relativamente fissa facendo assumere alla sostanza una forma ed un volume propri, che sono appunto le caratteristiche dello stato solido. Quando poi l’energia aumenta, l’agitazione delle molecole cresce. Esse perdono la caratteristica di posizione fissa e la sostanza passa in uno stato in cui non ha più una forma propria, ma mantiene un volume definito. Queste sono appunto le caratteristiche di un liquido che ha un proprio volume ma assume la forma del recipiente che lo contiene. L’ulteriore aumento del livello energetico e, quindi, dell’agitazione delle molecole fa perdere alla sostanza anche il suo volume caratteristico e perciò essa assume lo stato di un aeriforme. Inizialmente la pressione è ancora in grado, da sola, di ridare coesione alle molecole per riportarle allo stato liquido ed allora si dice che la sostanza è nello stato di vapore. Successivamente, se l’agitazione è molto elevata, anche un forte aumento di pressione non riesce più ad aggregare le molecole e si dice che la sostanza si trova nello stato gassoso. Di ogni sostanza noi normalmente conosciamo lo stato fisico che ha alla temperatura ambiente, ma non mancano casi in cui i cambiamenti di stato avvengono a temperature non molto diverse da quella ambientale e, in questo caso, di una stessa sostanza conosciamo più di uno stato fisico. L’esempio più noto è l’acqua, normalmente liquida, ma di cui conosciamo anche lo stato solido (ghiaccio), in cui si trasforma a 0 °C, e quello di vapore che assume alla temperatura di 100 °C. Non ci è altrettanto familiare invece lo stato gassoso che l’acqua assume alla temperatura di 374 °C. Proprietà fisiche dei corpi solidi e fluidi I corpi allo stato fluido, liquido o gassoso, hanno una loro massa ma, per così dire, non hanno consistenza, per cui se si applica ad essi una forza come normalmente si fa con i solidi, si rischia di fare … un buco nell’acqua. Prima di procedere, è opportuno definire due nuove grandezze, la densità ed il peso specifico, che misurano due caratteristiche dei corpi solidi, liquidi o gassosi, che in un certo senso rappresentano la loro consistenza. Per rendere più chiaro il concetto, facciamo riferimento alla Figura 41. Se prendiamo un cubo di un metro di lato, quindi con un volume di 1 m3, e lo riempiamo con tre sostanze diverse, di cui una solida 24, per esempio il ferro, una liquida, per esempio l’acqua ed una gassosa, per esempio l’aria, le masse di ciascuna sostanza che riempiono il cubo sono diverse. La massa del ferro è di 7800 Kg, quella dell’acqua 1000 Kg e quella dell’aria 1,29 Kg. Ciò dipende dalla diversa consistenza che hanno le tre sostanze considerate che in fisica si chiama più propriamente densità. Si chiama infatti densità di una sostanza la massa contenuta in un’unità di volume, 24 Per la sostanza solida, che ha un volume proprio, prendiamo in effetti un cubo di quella sostanza. 64 quindi in generale, per un volume qualsiasi V, la densità d è data dalla formula: d m V e, se la massa è misurata in Kgmassa ed il volume in m3 l’unità di misura della densità è il Kg/m3. Analogamente si chiama peso specifico di una sostanza il peso P della massa di sostanza contenuto nell’unità di volume. La relativa formula è: P V ps Ferro Acqua Aria d = 7800 Kg/m3 d = 1000 Kg/m3 d = 1,29 Kg/m3 ps = 76000 N/m3 ps = 9800 N/m3 ps = 12,6 N/m3 Figura 41 - Densità e peso specifico e, se il peso è misurato in N ed il volume in m3, l’unità di misura del peso specifico è il N/m3. Nella pratica si usano anche altre unità di misura. In particolare, per la densità si usa il g/l (grammo/litro) ed in questo caso il numero che esprime la densità è lo stesso del Kg/m3 perché sia il grammo che il litro sono la millesima parte del Kg e del m3 rispettivamente. Per il peso specifico si usa anche il Kgforza/m3, o il gforza/l (grammo forza/litro). In entrambi questi casi i numeri sono gli stessi di quelli della densità, misurata in Kg massa/m3, ma profondamente diversi concettualmente: la densità infatti si riferisce ad una massa mentre il peso ad una forza che dipende dalla gravità terrestre. 65 La densità è quindi una caratteristica che non varia da punto a punto della terra o nello spazio, mentre il peso specifico varia in funzione della distanza del corpo rispetto al centro della terra, si riduce molto, per esempio, in una navicella spaziale e praticamente si annulla nelle zone dello spazio in cui la gravità terrestre è quasi nulla. Meccanica dei liquidi Se si tenta di applicare una forza ad un liquido, nello stesso modo usato per un solido, non si ottiene lo stesso effetto, cioè il liquido non si sposta nella direzione e nel verso della forza. Un liquido però, se è contenuto in un recipiente da cui non può fuoriuscire, è capace di assorbire e trasmettere delle forze. Per far questo però è necessario che le forze siano trasmesse al liquido attraverso una superficie abbastanza vasta che ne impedisca la penetrazione. Ci spieghiamo meglio con un esempio (Figura 42). Si abbia una tubazione orizzontale, delimitata in due punti da due stantuffi fra i quali è contenuto un liquido. Gli stantuffi, a tenuta, possono scorrere lungo l’asse del tubo senza far trafilare il liquido. Se su uno dei due stantuffi si applica una forza F, essa si trasmette, attraverso il liquido sull’altro stantuffo. In realtà attraverso il liquido più che una forza si trasmette un’altra grandezze che si chiama pressione. La pressione, P, si definisce come il rapporto fra una forza ed una superficie perpendicolare alla forza, ossia, in questo caso il rapporto fra la forza F e la superficie dello stantuffo A, cioè: 66 F A P e, se P è espressa in Newton e A in m2 la pressione25 è espressa in N/m2. Così come la pressione è il rapporto fra una forza ed una superficie, quando la pressione è esercitata su una superficie genera a sua volta una forza che è il prodotto della pressione per la superficie. Nel nostro caso quindi, la pressione si trasmette lungo il liquido ed esercita sull’altro stantuffo, nella figura in alto, una forza data da: F P A che è uguale alla forza applicata sul primo stantuffo. Se invece ci riferiamo alla figura in basso, in cui il diametro del tubo raddoppia e quindi l’area dello stantuffo diventa quattro volte più grande, la pressione P generata dalla forza F rimane la stessa del caso precedente perché l’area del primo stantuffo non è cambiata, ma la forza che essa genera sul secondo stantuffo è quattro volte più grande perché l’area del secondo stantuffo è quadruplicata: P 4 A 4F Si noti però che se sotto l’azione della forza F il primo stantuffo si muove di un tratto s nel verso della forza, il movimento del secondo stantuffo è ancora s nel caso della figura in alto, ma diventa un quarto di s nel caso della figura in basso. Ciò è evidente perché il lavoro, o l’energia, che si trasmette attraverso il liquido non può cambiare per cui il prodotto della forza per lo spostamento deve essere uguale per entrambi gli stantuffi: L F s 4F 1 s 4 Come si è visto per la leva, anche in questo caso, quello che si guadagna in forza si perde in movimento. Su questo principio è basato il torchio idraulico, che usa generalmente un olio come fluido e che trova applicazione in tutti quei casi in cui si vuole trasformare una piccola forza in un’altra molto più grande, come ad esempio nei pistoni di sollevamento dei camion ribaltabili, o nei ponti di sollevamento per la manutenzione delle automobili ecc. Un altro aspetto da mettere in evidenza è che la pressione si trasmette non solo da un estremo all’altro del liquido ma in qualsiasi parte del liquido stesso. Più in generale questa affermazione, che è valida anche per i gas, è il cosiddetto principio di Pascal 26, dal nome dello scienziato che per primo lo espresse. Ciò significa che se in alcuni punti del recipiente che contiene il liquido (Figura 43) si applicano dei manometri, che sono apparecchi che misurano la pressione, e con l’applicazione di una forza F sullo stantuffo si esercita una pressione sul liquido, ognuno dei manometri segna una variazione della pressione uguale a quella di tutti gli altri manometri. Come si è detto sopra, lo stesso fenomeno si avrebbe anche se l’apparecchio fosse pieno 25 26 Altra unità di misura della pressione è il Kgforza/cm2 ed altre ancora saranno definite più avanti. Blaise Pascal (1623-62), fisico francese 67 di gas anziché di liquido. In tutti i casi fin qui esaminati abbiamo considerato che l’apparecchio usato fosse costituito da un tubo orizzontale o, in ogni caso, che la dimensione verticale fosse poco rilevante rispetto a quella orizzontale. Se però l’altezza del liquido rispetto al fondo del recipiente non è trascurabile bisogna tener conto, fra le forze che entrano in gioco, anche del peso del liquido. Consideriamo infatti (Figura 44) un recipiente cilindrico contenente del liquido. Il liquido ha un peso che è uguale al volume occupato moltiplicato per il suo peso specifico ps. Se indichiamo con A la superficie di base del cilindro e con h l’altezza del liquido, il volume occupato dal liquido è dato ovviamente dal prodotto A · h. Pertanto il peso del liquido è: Fp = A · h · ps Il peso è una forza verticale che può considerarsi applicata nel baricentro del volume di liquido. Essa è pertanto perpendicolare alla superficie del fondo del recipiente e quindi esercita su di esso una pressione P data dal rapporto fra la forza Fp e la superficie A: P Fp A A h ps A 68 h ps Cioè la pressione, che in questo caso prende il nome di “pressione idrostatica”, dipende dall’altezza o, meglio, dalla profondità del liquido. Infatti se lungo la parete cilindrica del recipiente disponiamo una serie di manometri vediamo che quello posto a livello della superficie superiore del liquido segna una pressione nulla, mentre gli altri segnano pressioni crescenti man mano che la profondità aumenta. Se poi esaminiamo attentamente la formula della pressione idrostatica, notiamo che non c’è nessun termine che fa riferimento alla superficie del fondo del recipiente, né al volume di liquido contenuto, né alla forma del recipiente, ma compare solo l’altezza ed il peso specifico. Quindi anche nei liquidi non contenuti in alcun recipiente, come ad esempio il mare, si creano delle pressioni idrostatiche che sono funzione solo della profondità. Infatti noi stessi sperimentiamo che, quando ci immergiamo in mare, man mano che scendiamo in profondità sentiamo aumentare la pressione, prima sulle membrane più sensibili delle orecchie, poi anche su tutto il resto del corpo. Dal fatto che la pressione si propaga in qualsiasi punto di un liquido discende la proprietà dei vasi comunicanti illustrata nella Figura 45. Se in due recipienti, collegati fra loro, si mette uno stesso liquido, per esempio acqua, il liquido raggiunge la stessa altezza, nonostante la quantità palesemente diversa presente nei due recipienti. Se consideriamo, infatti, una sezione A del liquido notiamo che è ferma. Ciò significa che le forze contrapposte create a destra e a sinistra di essa dalla pressione idrostatica devono avere la stessa intensità. L’intensità delle due forze è data dal prodotto della pressione idrostatica ps·h, presente su ciascuna faccia della sezione, 69 moltiplicata per l’area della sezione, A. Poiché l’area della sezione è la stessa sia a destra che a sinistra, ed il peso specifico è lo stesso perché si tratta dello stesso liquido, l’altezza del liquido nei due recipienti deve essere la stessa. Se ora poniamo nei due recipienti due liquidi diversi, non miscibili ed aventi pesi specifici diversi p1s e p2s, per esempio acqua e olio, le forze agenti ai due lati della superficie A sono diverse a parità di altezza dei liquidi nei due recipienti e, precisamente, la forza esercitata dal liquido a peso specifico maggiore è maggiore della forza esercitata dall’altro liquido. Pertanto la superficie A si sposta fino a portarsi in una posizione in cui le altezze dei due liquidi, h1 e h2, sono tali da compensare la differenza dei pesi specifici (parte destra della figura). Come si è visto, tutti i fluidi, liquidi e gas, hanno un peso specifico, quindi quanto si è detto per i liquidi dovrebbe valere anche per i gas. Ciò è vero, ma solo in parte. La differenza sostanziale fra liquidi e gas è la diversa comprimibilità, ossia la variazione di volume che subiscono per una variazione della pressione. I liquidi infatti non subiscono quasi alcuna variazione di volume se sono sottoposti a pressione, mentre il volume dei gas varia sensibilmente al variare della pressione. Queste caratteristiche dei gas saranno approfondite in seguito, mentre ora ci limiteremo ad osservare che poiché anche i gas hanno un loro peso specifico, una colonna di gas esercita, come un liquido, una certa pressione su una superficie che si trovi immersa in esso. In particolare ci interessa osservare che noi ci troviamo sommersi in un mare di gas che è l’atmosfera che circonda la terra. L’altezza di questo mare è di circa 200 Km e noi ci troviamo sul fondo. Non possiamo però calcolare la pressione che grava sui nostri corpi 70 con la formula dei liquidi (P = ps · h), perché il peso specifico di un gas varia con la pressione e questa varia con l’altezza. Naturalmente non mancano formule più complesse che tengono conto della variabilità del peso specifico e permettono di calcolare la pressione atmosferica, ma noi vogliamo limitarci a ricordare come Evangelista Torricelli27, con un brillante esperimento, la misurò per la prima volta nel 1643. Nella Figura 46 è riportato il semplice apparecchio utilizzato per questa misura: una bacinella ed un tubo di vetro. Naturalmente Torricelli sapeva che l’atmosfera esercita una pressione sui corpi e anche che nei liquidi la pressione si propaga in ogni punto del liquido stesso ed infatti proprio sulla base di questa conoscenza, già ai suoi tempi, si costruivano le pompe per il sollevamento dell’acqua dai pozzi. Le pompe servivano ad aspirare l’aria dalla parte superiore di un tubo che aveva l’altra estremità immersa nell’acqua del pozzo. La pressione dell’aria in cima al tubo veniva così ridotta ma quella agente sulla superficie dell’acqua nel pozzo restava inalterata e poteva quindi spingere l’acqua lungo la tubazione fino alla sommità del pozzo. È lo stesso principio con cui si aspira con una cannuccia una bibita da una bottiglietta. Questo sistema di sollevamento, però, non funzionava più se il pozzo era profondo più di 10 metri. La ragione doveva essere, pensò Torricelli, che la pressione atmosferica era pressappoco uguale a quella di una colonna d’acqua di 10 metri di altezza. Ma come fare in laboratorio un esperimento con un tubo alto 10 metri? Se al posto dell’acqua si usa un liquido con un peso specifico maggiore, basta una minore altezza di liquido per bilanciare la pressione atmosferica. Ma dove trovare un liquido tanto pesante da ridurre a dimensioni gestibili l’altezza richiesta? Ed ecco l’intuizione di Torricelli: il mercurio! Il mercurio è un elemento che ci è familiare perché è contenuto nei tubicini di vetro dei termometri usati per misurare la temperatura corporea. Forse però meno note sono le sue proprietà fisiche: è un metallo, è l’unico metallo liquido a temperatura ambiente ed ha un peso specifico di circa 13 volte maggiore di quello dell’acqua. Ciò significa che se si usa il mercurio la colonna di liquido bilanciata dalla pressione atmosferica deve essere inferiore ad un metro. E infatti se si prende un tubo di vetro, lungo un metro e chiuso ad un’estremità, lo si riempie di mercurio e lo si capovolge immergendo la sua estremità aperta in un una bacinella, contenente anch’essa del mercurio, curando che non entri aria, il tubo si svuota in parte ed il mercurio che rimane raggiunge un’altezza di 760 millimetri (0.76 metri). Riferendoci alla Figura 46 e, in particolare, alla sezione A del tubo di vetro che si trova all’altezza del pelo del liquido della bacinella, si può dire che su questa sezione si trasmette, attraverso il liquido, la pressione atmosferica Pa che agisce sulla superficie del liquido della bacinella. La forza che così si crea, dal basso verso l’alto, su tale sezione Pa·A viene bilanciata dalla forza, di segno contrario, derivante dalla pressione idrostatica del mercurio su quella stessa sezione, 0.76·pHg·A, ovvero anche che la pressione atmosferica è: Pa = 0,76 · pHg E, poiché pHg= 133300 N/m3 e l’altezza 0,76 è espressa in m, 27 Evangelista Torricelli (1608-47), fisico italiano 71 Pa = 101300 N/m2 L’unità di misura N/m2 si chiama Pascal. Nella pratica quotidiana si usa il suo multiplo cento volte più grande che si chiama etto-Pascal, che è l’unità che sentiamo citare in televisione nelle previsioni del tempo quando si parla di pressione atmosferica. Espressa con questa unità la pressione atmosferica risulta quindi pari a 1013 etto-Pascal, in condizioni normali, al livello del mare ed alle nostre latitudini. Per la pressione si usano però anche altre unità di misura, che qui accenniamo senza approfondire: i mm di Hg stessi (detti anche Torr, in onore di Torricelli), il Kg/cm2, i metri di colonna d’acqua,ecc. Il principio di Archimede Archimede28, vissuto nel terzo secolo a.C., oltre ad essere un valente studioso, doveva essere una persona molto ordinata e pulita. Probabilmente passava molte ore nella vasca da bagno dove però, invece di poltrire, meditava. La sensazione che si prova quando si è immersi nell’acqua di una vasca da bagno e ci si rilassa è di essere sorretti e spinti verso l’alto da una forza misteriosa. Sembra quasi che l’acqua si rifiuti di accogliere quel corpo estraneo e tenda ad espellerlo. 28 Archimede (287-212 a.C.), matematico e fisico greco 72 Archimede pensò che quella forza misteriosa, che egli chiamò “spinta”, era sempre presente e, prima che lui si infilasse nella vasca, serviva a sostenere quella massa d’acqua che il suo corpo andava a sostituire e, con considerazioni meno semplicistiche di quelle che abbiamo ora indicato, enunciò il principio che “un corpo immerso in un liquido riceve una spinta, dal basso verso l’alto, uguale al peso del liquido spostato”. Proviamo ora a chiarire questo enunciato in modo più preciso. Si prenda un recipiente contenente un liquido (Figura 47) e si isoli “idealmente” al suo interno un cubetto di liquido. Idealmente significa che non c’è nessun effettivo elemento di separazione, membrana o altro, fra il cubetto ed il liquido circostante. Il cubetto di liquido ha un suo peso P e, se non avesse intorno, o meglio, sotto di sé, dell’altro liquido cadrebbe verso il basso come ogni corpo soggetto al proprio peso e non appoggiato su -P P Figura 47 - Il principio di Archimede un piano. Il liquido sottostante quindi si comporta come un piano che esercita una reazione uguale al peso del cubetto e di verso contrario, -P, che bilancia la forza peso del cubetto. In realtà sulle facce laterali del cubetto agiscono anche altre forze generate dalla pressione idrostatica, ma esse sono uguali e contrarie e si annullano a vicenda. Se ora sostituiamo il cubetto d’acqua con uno di forma e volume uguale ma di materiale diverso cosa succede? Archimede dice che la spinta dal basso verso l’alto rimane uguale a quella di prima, cioè uguale al peso del cubetto d’acqua, per cui il cubetto di materiale diverso viene spinto in alto se pesa meno del cubetto d’acqua o cade sul fondo se pesa di più. Ma come si fa a verificare che la spinta rimane uguale a quella del cubetto d’acqua? Con un semplice esperimento di laboratorio illustrato nella Figura 48. 73 Si prenda una bilancia a bracci uguali. Su uno dei bracci è montato un normale piattello A, per il contenimento dei pesi. L’altro braccio, invece, al posto del piattello, ha un secchiello S ed un corpo C, sospesi uno sotto l’altro. Il secchiello S ha un volume uguale a quello del corpo C, che infatti potrebbe essere esattamente infilato in esso. Il corpo C infine è sospeso dentro un vaso V sottostante. Inizialmente il secchiello S ed il vaso V sono vuoti. Poniamo ora dei pesi nel piatto A della bilancia fino a creare l’equilibrio fra i due bracci, che si dispongono quindi in orizzontale. Versiamo ora nel vaso V del liquido, per esempio dell’acqua, fino a sommergere completamente il corpo C. Notiamo che man mano che il corpo C viene sommerso, il braccio della bilancia su cui è montato si alza e la bilancia pende verso il piattello S che con- tiene i pesi. È evidentemente la spinta dal basso verso l’alto che l’acqua esercita sul corpo C. Se ora versiamo dell’acqua nel secchiello S, fino a riempirlo, vediamo che la bilancia torna in equilibrio. Il volume di acqua che abbiamo versato è uguale al volume del corpo C, e quindi il suo peso è uguale al peso dell’acqua di cui il corpo C ha preso il posto. Pertanto, la spinta verso l’alto generata dall’acqua è proprio uguale al peso del liquido spostato. A riprova di ciò, se al posto dell’acqua versiamo un altro liquido nel vaso V, l’equilibrio si ristabilisce solo se il secchiello S si riempie dello stesso liquido. Quanto detto spiega come funziona il galleggiamento dei corpi. Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l’alto uguale al peso del volume 74 di liquido spostato. Se il corpo pesa meno del volume di liquido spostato, ossia se il suo peso specifico, pS, è minore di quello del liquido, pL, (in alto a destra nella figura) la spinta verso l’alto è maggiore del peso ed il corpo si muove verso la superficie ed in parte emerge. La parte emersa è tale da lasciare nel liquido un volume minore e quindi ridurre la spinta fino a quando diventa uguale al peso: il corpo galleggia. È il caso dei corpi notoriamente leggeri, per esempio il legno o il sughero nell’acqua, ma anche dei corpi che sembrano pesanti, come ad esempio una nave d’acciaio, ma che avendo grandi spazi vuoti all’interno hanno nell’insieme un peso specifico medio inferiore a quello dell’acqua del mare e quindi galleggia. Se il peso specifico del corpo è uguale a quello del liquido (parte centrale a destra nella figura) peso e spinta si bilanciano. In questo caso il corpo si trova in uno stato di equilibrio indifferente e può rimanere sommerso in qualsiasi punto del liquido. È il caso del sommergibile che è una nave dotata di grossi serbatoi che, con opportune pompe, possono essere riempiti o svuotati di acqua di mare. Se si riempiono i serbatoi fino ad ottenere un peso specifico medio uguale all’acqua del mare il sommergibile può restare sommerso a qualsiasi profondità. Espellendo l’acqua dai serbatoi fino a quando il peso specifico medio diventa inferiore all’acqua del mare, il sommergibile riaffiora e galleggia. Infine se il corpo ha un peso specifico superiore a quello del liquido il peso supera la spinta ed il corpo affonda. Evidentemente il peso specifico del corpo di Archimede, come quello di tutti noi, era inferiore a quello dell’acqua . Perciò, a meno di lasciarci prendere dal panico e compiere 75 gesti inconsulti, possiamo facilmente galleggiare e muoverci sia in acqua dolce che nell’acqua di mare. A maggior ragione in quella di mare che, avendo un peso specifico superiore all’acqua dolce, esercita sul nostro corpo una maggiore spinta verso l’alto. Abbiamo finora parlato di liquidi, ma avremmo più correttamente dovuto parlare di fluidi. Infatti anche per i corpi immersi in fluidi aeriformi, gas o vapori, il principio di Archimede è valido. È evidente che, in questo caso, la spinta è più bassa, perché è più basso il peso specifico dell’aeriforme, ma certamente esiste e non è nulla. Essa si esercita, per esempio, su tutti noi che viviamo immersi nell’aria ma se si pensa che il peso specifico dell’aria è di circa 600 volte inferiore29 a quello del corpo umano la differenza fra peso e spinta è enorme e, fortunatamente, non ci fa galleggiare sopra l’atmosfera. Esistono però dei gas che, a parità di condizioni, hanno un peso specifico inferiore a quello dell’aria, per esempio l’idrogeno e l’elio 30, per cui un pallone di 1000 m3 di volume, ossia con un diametro di circa 12 m, (Figura 49) pieno di uno di questi gas riesce ad avere una spinta verso l’alto superiore a 1000 Kg forza più che sufficiente a vincere il peso del suo involucro ed a portare in alto il pallone ed eventuali altri carichi ad esso collegati. È il caso dei palloni sonda, dei dirigibili e anche dei palloncini usati come giocattolo dei bambini, nei quali oggi è utilizzato come gas soprattutto l’elio perché l’idrogeno, essendo infiammabile, può creare qualche problema di sicurezza. Le mongolfiere usano sistemi un po’ più complessi, ma basati sostanzialmente sugli stessi principi. All’interno del pallone infatti c’è dell’aria, mantenuta calda da appositi bruciatori. Poiché l’aria calda ha un peso specifico inferiore di quella fredda (spostata dal volume della mongolfiera) si crea una spinta verso l’alto sufficiente a sollevare la mongolfiera ed eventuali altri corpi in essa contenuti. 29 30 Pesi specifici medi: aria = 1.29 Kgforza/m3 ; corpo umano 850 Kgforza/m3 Pesi specifici medi:idrogeno = 0.09 Kgforza/m3 ; Elio = 0,14 Kgforza/m3 76 Termologia Generalità La termologia è quella parte della fisica che studia il calore ed i suoi effetti sui corpi. Che cosa è il calore? È qualcosa che non si vede se non attraverso gli effetti che produce, ma proprio per questa ragione per secoli ci si è chiesti cosa fosse. I nostri sensi percepiscono molto facilmente se un corpo è “caldo” o “freddo” e la sensazioni che si provano, in condizioni normali, sono abbastanza oggettive: se un corpo è considerato caldo da qualcuno, generalmente lo è per tutti e così anche per il freddo. Cosa è dunque che rende un corpo più caldo o più freddo? Si è pensato per lungo tempo che questo dipendesse dalla maggiore o minore presenza di un fluido misterioso chiamato “calorico”, che poteva fluire fra i corpi influenzando le sensazioni tattili che essi provocavano. Oggi sappiamo che il calorico o, come in seguito è stato chiamato, il calore è una forma di energia e, come abbiamo già avuto modo di accennare, il suo effetto è di far cambiare lo stato di eccitazione molecolare dei corpi provocando vari effetti, fra cui il cambiamento del loro stato fisico. Il calore dunque è energia e, più precisamente, una delle molteplici forme in cui l’energia ci si presenta e fluisce attraverso i corpi. Vedremo più avanti che, fra tutte le forme di energia, il calore è la forma più “modesta” in cui può trasformarsi l’energia, ma non per questo la meno importante. Anzi, per lo più, proprio trasformando in calore le altre forme di energia riusciamo ad utilizzarle per i nostri scopi. 78 Capitolo 1 – Calorimetria Calore e temperatura Nel linguaggio comune a volte si fa confusione fra i significati di questi due termini che rappresentano, invece, due concetti distinti, anche se collegati, che ora illustreremo. Per rendere più chiara l’esposizione può risultare utile paragonare il calore ad un liquido perché alcuni comportamenti sono molto simili e la comprensione risulta semplificata. La temperatura di un corpo misura il “livello termico” di quel corpo, così come nel caso di un liquido contenuto in un recipiente l’altezza a cui giunge il liquido è la misura del livello del liquido in quel recipiente. In entrambi i casi non si tratta di una misura di quantità. Nel caso del liquido, infatti, il livello non dipende solo dalla quantità di liquido presente nel recipiente, ma anche, e soprattutto, dalla forma del recipiente. Infatti una stessa quantità di liquido raggiunge un’altezza minore in un recipiente panciuto che in uno di piccolo diametro. Analogamente, la temperatura non dipende solo dalla quantità di calore presente in un corpo ma dal livello energetico (o termico) che il corpo raggiunge con il calore che contiene e cioè dalla natura del corpo. In altri termini, la stessa quantità di calore fornita a due corpi diversi può portare tali corpi a temperature diverse. A che serve quindi conoscere la temperatura? La temperatura è il parametro più importante nello studio dei fenomeni termici perché è da essa, più che dalla quantità di calore, che dipendono la maggior parte dei fenomeni termici. Uno dei principi più importanti è che in natura il calore passa spontaneamente dai corpi a temperatura più alta a quelli a temperatura più bassa e non, si badi bene, da quelli che contengono una quantità di calore maggiore a quelli che ne contengono una quantità minore. Anche in questo caso, l’analogia con i liquidi è strettissima. Se si mettono in comunicazione due recipienti contenenti quantità diverse di liquidi, il liquido si muove dal recipiente con il livello più alto a quello con livello più basso e non da quello che contiene più liquido a quello che ne contiene meno. È quindi molto importante definire un modo per misurare la temperatura. Come già detto la definizione di un’unità di misura è arbitraria. È solo necessario che essa sia basata su fenomeni possibilmente semplici e, soprattutto, riproducibili. Due fenomeni che hanno queste caratteristiche sono la dilatazione termica dei corpi e i cambiamenti di stato fisico, o cambiamenti di fase, delle sostanze pure. La dilatazione termica dei corpi, che sarà approfondita più avanti, consiste nella varia- 79 zione delle dimensioni di un corpo al variare della temperatura. Più in particolare, si osserva che il volume di ogni corpo aumenta col crescere della temperatura in modo regolare e, ovviamente, diminuisce altrettanto regolarmente quando la temperatura decresce. L’altro fenomeno, il cambiamento di fase, si manifesta per ogni sostanza pura, sempre alla stessa temperatura e, inoltre, durante il cambiamento di fase di una sostanza la temperatura si mantiene costante. Sulla base di questi due fenomeni si è definito il modo e lo strumento con cui misurare il livello termico, ossia la temperatura, di un corpo 31. Si consideri un’ampolla con un corpo largo ed un collo stretto e lungo (Figura 50), contenente un liquido, per esempio mercurio. Si immerga l’ampolla in un recipiente contenente anch’esso un liquido, non necessariamente uguale all’altro, per esempio acqua. Il livello del mercurio nell’ampolla, alle condizioni ambientali, sia h1. Riscaldiamo ora l’acqua del recipiente, fornendo calore con un beccuccio a gas, e osserviamo che il livello del mercurio nell’ampolla, h2, h3 ecc., aumenta perché il suo volume aumenta man mano che cresce il livello termico del sistema. Se poi, spegnendo il gas, si lascia raffreddare l’acqua, il livello del mercurio diminuisce fino a riportarsi nella stessa posizione di partenza quando il sistema ritorna nelle condizioni ambientali di partenza. (31) Le semplici considerazioni qui riportate si riferiscono a intervalli di temperatura limitati che possono far parte delle normali esperienze di vita quotidiana. La misura di temperature molto basse o molto elevate si effettua con altri sistemi e sulla base di principi che esulano dagli scopi di questa trattazione. 80 Abbiamo quindi uno strumento che mostra visivamente il livello termico di un sistema e che prende appunto il nome di “termoscopio”. È da questo strumento che nasce il termometro, ossia uno strumento che non solo mostra, ma permette anche di misurare tale livello termico che, d’ora in avanti, chiameremo senz’altro temperatura (Figura 51). È necessario solo definire i punti di riferimento affidabili e riproducibili cui abbiamo accennato prima, cioè le temperature a cui avvengono i cambiamenti di fase di una sostanza pura adottata come campione. La sostanza adottata è l’acqua distillata ossia privata dei sali che normalmente quella naturale contiene in varia misura e che influenzano le temperature a cui avvengono i cambiamenti di fase. I cambiamenti di fase cui si fa riferimento sono il punto di fusione del ghiaccio (acqua in fase solida) ed il punto di ebollizione dell’acqua ossia di formazione del vapore (acqua in fase gassosa). Questi due punti sono anche caratterizzati dal fatto che durante il cambiamento di fase, pur continuando a fornire o sottrarre calore, la temperatura non cambia, cioè il termoscopio non mostra variazioni di livello del mercurio nell’ampolla. La differenza fra i livelli del mercurio nei due casi può essere poi divisa in un certo numero di parti ciascuna delle quali costituisce l’unità di misura della temperatura. Data l’arbitrarietà con cui si può scegliere il numero in cui dividere la differenza dei livelli, si hanno le varie scale termometriche utilizzate. 81 Quelle attualmente ancora in uso sono tre: la scala Celsius 32, la scala Kelvin33 e la scala Fahrenheit 34. Nella Celsius l’intervallo è diviso in 100 parti o gradi Celsius o centigradi (°C) e alla temperatura del ghiaccio fondente è assegnato il valore 0 mentre a quella dell’acqua bollente è assegnato il valore 100. Nella scala Kelvin, detta anche scala delle temperature assolute, l’intervallo è ancora diviso in 100 parti o gradi Kelvin (°K), ed alla temperatura del ghiaccio fondente è assegnato il valore 273,16 mentre a quella dell’acqua bollente è assegnato il valore 373,16. Nella scala Fahrenheit l’intervallo è diviso in 180 parti o gradi Fahrenheit (°F) e alla temperatura del ghiaccio fondente è assegnato il valore 32 mentre a quella dell’acqua bollente è assegnato il valore 212. È agevole notare, anche se non semplice da calcolare mentalmente, che per passare da °C a °F bisogna moltiplicare per 1.8 e aggiungere 32, mentre per passare da °F a °C si deve sottrarre 32 e dividere per 1.8. Per passare invece da °C a °K basta sommare 273,15, mentre per passare da °K a °C si deve sottrarre 273,15. Tutte le scale possono essere poi estrapolate per la misura di temperature superiori o inferiori a quelle del ghiaccio fondente o dell’acqua bollente ma, come già detto, per la misura di temperature molto diverse da queste si devono usare metodi e strumenti diversi sui quali non ci addentreremo. La scala a noi più familiare è la Celsius. Quella più usata in fisica è la Kelvin. La scala Fahrenheit è ancora utilizzata nei paesi anglosassoni che stanno però passando anch’essi alla Celsius. Dilatazione termica Nel paragrafo precedente abbiamo già detto che il volume di un corpo varia al variare della temperatura e che a questo fenomeno si dà il nome di dilatazione termica. Abbiamo anche visto che proprio su questa caratteristica è basato l’apparecchio per la misura della temperatura, perché la relazione fra dilatazione e temperatura è regolare e ripetibile. Infatti ognuna delle tre dimensioni di un corpo, larghezza, altezza e profondità, varia al variare della temperatura in modo proporzionale al salto termico e alla sua dimensione iniziale. La variazione inoltre è diversa da corpo a corpo e dipende dalla natura del materiale di cui il corpo è costituito. Questa relazione si può esprimere con una semplice espressione matematica. Se indichiamo con l1 la larghezza di un corpo ad una certa temperatura t1, ed l2 la larghezza che assume ad una temperatura t2, si ha: l2 – l1 = l1 · λ·(t2 – t1) o anche: Δl = l1 · λ · Δt in cui λ è un coefficiente che dipende dal materiale di cui è costituito il corpo e che 32 Anders Celsius (1701-44), astronomo svedese William T. Kelvin (1824-1907), fisico irlandese 34 Gabriel D. Fahrenheit (1686-1736), fisico tedesco 33 82 prende il nome di “coefficiente di dilatazione lineare”. Come detto sopra, la dilatazione di un corpo avviene lungo tutte le sue dimensioni, cioè è il volume del corpo che varia al variare della temperatura non una sola delle sue dimensioni. La variazione di volume si chiama “dilatazione cubica” e avviene con la stessa legge della dilatazione lineare, ossia, la variazione di volume dipende dal volume iniziale, dalla variazione di temperatura e da un coefficiente di dilatazione cubica che è circa il triplo di quello di dilatazione lineare di quella sostanza. Pertanto: ΔV = V1 · 3λ · Δt Il valore del coefficiente di dilatazione λ è, in genere, molto basso 35, tuttavia le differenze fra i coefficienti di materiali diversi possono essere anche molto grandi. Per esempio, il coefficiente di dilatazione lineare dell’alluminio è doppio di quello del ferro e più che triplo di quello del legno. Una particolare attenzione è richiesta pertanto nella costruzione di oggetti o strutture composti da materiali diversi. Ma anche nella costruzione di strutture costruite con un solo materiale la dilatazione (o la contrazione) termica deve essere accuratamente tenuta in considerazione perché si tratta di un fenomeno di inesorabile potenza che può provocare la rottura di materiali anche molto resistenti se non è lasciata loro la possibilità di espandersi o contrarsi. L’ambiente in cui viviamo, infatti, non ha sempre la stessa temperatura: le variazioni fra periodi caldi e freddi e fra ombra ed esposizione al sole sono dell’ordine di parecchie decine di gradi e le conseguenti variazioni dimensionali delle strutture possono essere considerevoli. Sono numerosi gli esempi che cadono sotto i nostri occhi ogni giorno, anche se spesso rimangono inosservati: le travi che sorreggono un ponte sono fissate ad una delle estremità, ma sono appoggiate su supporti scorrevoli all’estremità opposta proprio per permetterne la dilatazione; i binari del treno sono costituiti da travi lineari contigue, fra cui viene lasciato un piccolo spazio per permetterne la dilatazione; le lamiere di un guardrail sono imbullonate ai supporti attraverso fori asolati per permettere alle lamiere di scorrere quando si dilatano o si contraggono. A titolo di curiosità ricordiamo anche che il coefficiente di dilatazione del vino (acqua e alcool) è molto maggiore di quello del vetro 36. Chi ha comprato del vino in damigiana ha certamente sperimentato che con l’arrivo della stagione calda il vino trabocca dalla damigiana. L’aumento di volume della damigiana (dipendente da quello del vetro) causato dall’aumento della temperatura è inferiore all’aumento di volume del vino. Anche se può apparire superfluo vale la pena di precisare che la dilatazione termica non va variare la massa di un corpo, ma solo il suo volume. In altri termini questo significa che al crescere della temperatura la massa di un corpo occupa un volume maggiore, ossia la sua densità (rapporto fra massa e volume) diminuisce. L’unica sostanza che presenta un’anomalia nel campo della dilatazione termica e, quindi, della densità è l’acqua. Il volume dell’acqua diminuisce, come per tutti i fluidi, al diminuire della temperatura ma solo fino a 4°C. Raffreddando l’acqua al di sotto di questa temperatura il suo volume aumenta anziché diminuire e questo comportamento continua fino a 0°C quando l’acqua diventa ghiaccio e anche a temperature minori per il ghiaccio stesso. La densità 35 Alcuni coefficienti di dilatazione lineare (per temperature fra 0 e 100 °C): Alluminio 0.000024; Rame 0,000017; Ferro 0.000012; Marmo 0.000012; Vetro 0.000009; Legno 0.000007; 36 In generale i coefficienti di dilatazione dei liquidi sono molto maggiori di quelli dei solidi. 83 ovviamente segue anch’essa questo andamento anomalo, per cui al di sotto di 4°C la densità diminuisce con la temperatura anziché aumentare. È questa la ragione per cui il ghiaccio galleggia sull’acqua. Il comportamento dei gas Le considerazioni sul comportamento dei corpi al variare della temperatura sono valide per i corpi che hanno un volume proprio, come i solidi ed i liquidi. Un comportamento particolare presentano invece i gas che non hanno una forma ed un volume definito e quindi le trasformazioni conseguenti alle variazioni di temperatura, anche se concettualmente analoghe, si manifestano in modo diverso. Come detto a suo tempo, un gas contenuto in un recipiente chiuso, esercita una pressione uniforme in tutti i suoi punti (principio di Pascal). Le tre grandezze in gioco però, volume V, pressione P e temperatura T del sistema sono interdipendenti, ossia la variazione di una di esse fa variare anche le altre due. Esaminiamo dapprima come sono collegate queste variabili prese due a due, ossia come variano due di esse quando la terza rimane costante. Le trasformazioni in cui una delle variabili resta costante prendono il nome di: isotermiche, nel caso che resti costante la temperatura isobare, nel caso che resti costante la pressione isocore, nel caso che resti costante il volume Le leggi che regolano le variazioni di queste grandezze sono state ricavate sperimentalmente in laboratorio con apparecchiature molto sensibili per poter rilevare variazioni anche di piccola entità e raggiungere elevati gradi di precisione nelle misure. La definizione di tali leggi è costata anni di paziente lavoro di scienziati e ricercatori dedicati e, giustamente, esse portano il nome di chi per primo è riuscito a trovare relazioni valide ed accettate da tutta la comunità scientifica. Le apparecchiature illustrate in Figura 52 sono ben diverse da quelle di laboratorio ed hanno solo lo scopo di rendere più chiara l’esposizione. Trasformazioni isotermiche Una trasformazione si chiama isotermica quando la temperatura del sistema rimane costante mentre si fa variare una delle altre grandezze, ad esempio la pressione, e si osserva come varia l’altra, il volume. La Figura 52 riporta, a sinistra, un’ipotetica apparecchiatura che permetterebbe di eseguire l’esperimento. Si tratta di un cilindro delimitato superiormente da uno stantuffo a tenuta che può scorrere verticalmente lungo le pareti del cilindro. Il gas è contenuto nel volume del cilindro sottostante lo stantuffo. Per ogni posizione dello stantuffo il volume occupato dal gas si può calcolare moltiplicando l’area di base del cilindro per l’altezza h della posizione dello stantuffo. Sulla parete del cilindro è installato un manometro per misurare la pressione del gas. Se sullo stantuffo non è applicata alcuna forza, la pressione interna al cilindro è uguale a quella esterna, cioè alla pressione atmosferica. Applicando una forza, ad esempio dei pesi, sullo stantuffo si fa aumentare la pressione all’interno del cilindro 37, e cioè la pres37 È appena il caso di ricordare che la pressione così generata è uguale al rapporto fra la forza applicata e la superficie dello stantuffo. 84 sione del gas e si nota che lo stantuffo si abbassa facendo così variare il volume occupato dal gas. Ripetendo l’esperimento a pressioni diverse, per esempio sempre crescenti, si osserva che lo stantuffo si abbassa sempre più, ovvero il volume continua a decrescere. Più in particolare se alla pressione atmosferica il volume aveva un certo valore, se portiamo la pressione ad un valore doppio di quello atmosferico il volume diventa la metà, se la pressione diventa tripla il volume diventa un terzo e così via. Ossia in ogni situazione se moltiplichiamo la pressione per il volume otteniamo sempre lo stesso valore 38. Questa legge, che prende il nome di “legge di Boyle 39 e Mariotte40” dal nome dei due ricercatori che contemporaneamente e indipendentemente la scoprirono, può quindi così enunciarsi: “in una trasformazione isotermica di un gas il prodotto della sua pressione per il volume che occupa rimane costante” e può essere espressa da: p · v = costante a condizione ovviamente che la temperatura sia costante. 38 Da quanto esposto risulta chiaro che per pressione si intende qui la pressione assoluta, cioè quella misurata a partire dal vuoto assoluto, non dalla pressione atmosferica. 39 Robert Boyle (1627-91), fisico e chimico inglese 40 Edme Mariotte (1620-84), fisico francese 85 Trasformazioni isobare Le trasformazioni isobare sono quelle in cui la pressione resta costante mentre variano temperatura e volume. Un’apparecchiatura per studiare le variazioni di volume al variare della temperatura potrebbe essere fatta come quella centrale nella Figura 52. Un cilindro munito di stantuffo, come quello usato nell’esperienza precedente, è immerso in un recipiente contenente un liquido, es. acqua, in cui è inserito un termometro per misurarne la temperatura. Non occorre questa volta un manometro perché la pressione resta costante o al valore della pressione atmosferica, come è il caso mostrato in figura, o a pressione più alta se si aggiungono dei pesi sullo stantuffo. In realtà si possono anche eseguire esperimenti a pressioni inferiori a quella atmosferica, ma in questo caso l’apparecchiatura diventa un po’ più complessa. L’acqua contenuta nel recipiente serve a rendere più omogeneo l’aumento della temperatura, che va in ogni caso effettuato molto lentamente. All’inizio, l’acqua nel recipiente è ad una certa temperatura ed il gas occupa un volume calcolabile moltiplicando l’altezza h dello stantuffo per la superficie di base del cilindro. Man mano che la temperatura aumenta, lo stantuffo sale nel cilindro e cioè il volume del gas aumenta. Analogamente, man mano che la temperatura diminuisce lo stantuffo scende nel cilindro, ossia il volume del gas diminuisce. L’esperimento mostra che “la variazione di volume di un gas sottoposto ad una variazione di temperatura, a pressione costante, è direttamente proporzionale al volumeV0 che il gas occuperebbe alla temperatura di 0°C e alla variazione di temperatura cui il gas è sottoposto”. Questa legge, chiamata legge di Charles 41, può essere espressa da: ΔV = V0 ·α ·Δt in cui V0 è il volume che il gas occuperebbe a 0°C. La formula ricorda quella della dilatazione (o contrazione) termica, in cui α (alfa) rappresenta il coefficiente di dilatazione. Non c’è da stupirsi per questo: anche in questo caso siamo di fronte ad una dilatazione termica, cioè una variazione di volume conseguente ad una variazione di temperatura. Quello che invece stupisce è che mentre per i solidi e per i liquidi il coefficiente di dilatazione (indicato in quel caso con λ) è molto diverso fra una sostanza e l’altra, nel caso dei gas α è praticamente uguale per tutti i gas e pari a 1/273,16. Il denominatore di questa frazione suona un po’ familiare: 273,16 è stato assunto come temperatura del ghiaccio fondente nella scala Kelvin. Vedremo meglio più avanti il significato di questo numero che spiegherà anche il perché della scelta. Le trasformazioni isocore Si chiama isocora una trasformazione che avviene a volume costante, ossia una trasformazione in cui variano pressione e temperatura. L’apparecchiatura utilizzabile per studiare le variazioni di pressione provocate da variazioni di temperatura, è simile a quella usata nell’esperimento precedente. Questa volta però il cilindro contenente il gas non ha bisogno di uno stantuffo perché il volume non cambia. Occorre invece un manometro collegato al cilindro per misurarne le variazioni di pressione. 41 Jacques A. Charles (1746-1823), fisico francese 86 Riscaldando lentamente il sistema si nota che al variare della temperatura la pressione del gas varia in conformità, aumenta cioè all’aumentare della temperatura e diminuisce se la temperatura scende. Ancora una volta la serie di esperimenti fatti ha portato a stabilire che “la variazione di pressione di un gas conseguente a una variazione di temperatura, effettuata a volume costante, è direttamente proporzionali alla pressione P0 che il gas avrebbe alla temperatura di 0°C ed alla variazione di temperatura”. Questa legge può essere espressa con: ΔP = P1 · α · Δt Anche questa formula è simile a quella della dilatazione termica, ma come ulteriore sorpresa, contiene il coefficiente α che, come per le trasformazioni isobare, è per tutti i gas uguale a 1/273,16. Lo zero assoluto Cerchiamo ora di capire l’importanza della costanza del coefficiente α ed il significato del suo valore di 1/273,16. A tal fine consideriamo una trasformazione isobara in cui, partendo dalla temperatura di 0°C, si raffreddi il gas portandolo a temperature inferiori. La formula della variazione di volume è quella gia vista sopra che può ora essere scritta: V V0 1 t 273,16 V0 0 e, con semplici passaggi: V V0 1 1 t 273 ,16 Analogamente, la formula della variazione di pressione è: P P0 1 1 t 273 ,16 Poiché stiamo eseguendo delle operazioni nel campo delle temperature inferiori a 0°C, in queste formule il valore di t è sempre negativo e quindi l’espressione in parentesi è sempre inferiore ad 1. Ciò significa, come peraltro ci aspettavamo, che man mano che la temperatura diminuisce, diminuiscono anche il volume nella trasformazione isobara e la pressione nella trasformazione isocora. Si osserva anche che quando la temperatura diventa –273,16, l’espressione in parentesi diventa uguale a zero e cioè a questa temperatura sia il volume che la pressione del gas dovrebbero annullarsi. Questo evento però non ha un significato fisico. Che senso ha infatti un corpo, ancorché gassoso, che non ha più un volume o non esercita più alcuna pressione? Nella pratica infatti la temperatura di –273,16 è irraggiungibile ed appunto per questo prende il nome di “zero assoluto”. Diventa ora molto più comprensibile il significato 87 della scala Kelvin, che si chiama appunto scala delle temperature assolute e, secondo la quale, la temperatura del ghiaccio fondente (ossia lo 0 della scala Celsius) assume il valore di 273,16. Nella prassi comune nelle formule scientifiche si usa la T maiuscola quando si vuole indicare che la temperatura deve essere espressa nella scala Kelvin. Il gas perfetto Nelle trasformazioni delle sostanze gassose esistenti in natura le formule sopra viste permettono di calcolare una delle tre variabili in gioco, volume pressione e temperatura, quando sono note le altre due. I valori calcolati, però, sono solo approssimativamente uguali a quelli reali. Il grado di approssimazione è tanto maggiore quanto più bassa è la pressione e quanto più alta è la temperatura. L’approssimazione inoltre è migliore se le condizioni operative sono lontane da quelle che possono provocare la liquefazione del gas. Nello studio di questi fenomeni si fa quindi riferimento ad un gas ideale, “il gas perfetto”, che in qualsiasi stato di rarefazione e di temperatura rispetti esattamente le leggi enunciate. Le leggi che così si ottengono sono in molti casi utilizzabili nelle applicazioni pratiche in cui non è richiesto un elevato grado di precisione, mentre vanno corrette con opportuni coefficienti correttivi di carattere sperimentale per le applicazioni più precise. Facendo riferimento ad un gas ideale, appunto, le formule che regolano le tre trasformazioni viste sopra, possono combinarsi per descrivere il caso in cui si modificano tutte e tre le variabili. Senza addentrarci in molti passaggi matematici, per quanto semplici siano, diciamo subito che l’equazione risultante, che prende il nome di “equazione di stato” del gas perfetto, è: P ·V = n · R · T in cui P e V sono la pressione ed il volume, T la temperatura assoluta, n il numero di moli42, ed R una costante, chiamata “costante universale dei gas”, il cui valore dipende solo dalle unità di misura che si usano per la pressione ed il volume. La misura del calore Abbiamo visto che la temperatura non misura la quantità di calore, ma solo il livello del calore contenuto nel corpo. Quale è quindi e come si misura la quantità di calore presente nel corpo? Torniamo all’analogia fra il contenuto di calore in un corpo e di liquido in un recipiente. Per conoscere la quantità, ossia la massa, di liquido contenuto in un recipiente basta moltiplicare l’altezza del liquido per la sezione del recipiente, ottenendo così il volume di liquido, e moltiplicare poi questo per la densità del liquido. Ma nel caso del calore contenuto in un corpo, se la temperatura è la misura del suo livello, quale è il fondo del recipiente rispetto a cui è misurato e a cosa corrispondono la sezione del recipiente e la densità del liquido? 42 Il concetto di mole non è stato ancora introdotto. Diciamo soltanto, per ora, che è una grandezza rappresentativa della massa di gas che subisce la trasformazione. 88 Cerchiamo di dare una risposta ordinata a queste domande. Si è visto che un corpo cede calore ad un altro corpo soltanto se questo ha una temperatura più bassa. Questo processo non è più possibile se non può esistere un altro corpo che sia ad una temperatura più bassa, o in altri termini, se il corpo si trova alla temperatura di zero assoluto. Si può quindi assumere che alla temperatura di zero assoluto un corpo non contenga più calore, ovvero che lo zero assoluto corrisponda al fondo del recipiente rispetto a cui si deve calcolare l’altezza. La temperatura da considerare, quindi, è la temperatura assoluta T. La sezione del recipiente rappresenta la sua estensione. L’estensione del corpo è rappresentata dalla sua massa m. È abbastanza intuitivo, e i dati sperimentali lo confermano, che per una data sostanza, una massa maggiore contiene una quantità di calore maggiore. Infine la densità, che è una caratteristica specifica della sostanza di cui è costituito il liquido, trova riscontro in una grandezza che è caratteristica della sostanza di cui è costituito il corpo, che prende il nome di calore specifico c. Più precisamente il calore specifico di una sostanza è la quantità di calore che bisogna fornire ad un corpo di massa unitaria per far aumentare di un grado la sua temperatura. Nella pratica comune non è molto importante conoscere la quantità di calore che un corpo possiede, ma piuttosto la quantità di calore che bisogna fornire ad un corpo per far aumentare la sua temperatura di un certo numero di gradi o, anche, la quantità di calore che bisogna sottrarre ad un corpo per far diminuire la sua temperatura di un certo numero di gradi. Da quanto detto e dalla definizione stessa di calore specifico risulta evidente che questa quantità è uguale al calore specifico moltiplicato per la massa del corpo e per i gradi di cui varia la temperatura. Ossia la quantità di calore Q risulta da: Q = c ·m ·Δt Ma quali numeri inseriamo in questa formula? Non abbiamo ancora definito l’unità di misura del calore né del calore specifico. L’unità di misura del calore attualmente in uso, il joule, sarà definita più avanti, quando sarà meglio chiarito in cosa consiste il calore. La vecchia unità di misura, usata da molti anni e che continua ad essere usata anche da molti addetti ai lavori, è la caloria (cal). Una caloria è definita come la quantità di calore necessaria a far variare di 1 °C la temperatura di una massa d’acqua di 1 grammo 43. Nella pratica si usa la chilocaloria (Kcal) uguale a 1000 cal o, anche, uguale alla quantità di calore necessaria per far variare di 1 °C la temperatura di una massa d’acqua di 1 Kgmassa. Da ciò e dalla definizione del calore specifico data sopra si ricava subito che l’unità di misura del calore specifico è Kcal/Kg·°C. 43 Più precisamente da 14,5 a 15,5 °C. 89 Capitolo 2 – Termodinamica La termodinamica è quella parte della fisica che studia gli effetti meccanici del calore e fornisce della natura di quest’ultimo un’interpretazione migliore di quella del fluido calorico. In realtà negli esempi finora illustrati si è visto che l’analogia fra il calore e un fluido permette di interpretare abbastanza bene molti fenomeni termici, ma ce ne sono alcuni che non trovano corrispondenza nell’analogia. È il caso, per esempio, del calore che si genera per attrito, ossia quando due superfici scorrono l’una sull’altra; non esiste una corrispondenza di questo fenomeno nel caso dei fluidi. Gli studi e le ricerche intrapresi in questo campo da molti scienziati culminarono nell’enunciato che il calore è una forma di energia. Fu merito di Joule dimostrare sperimentalmente questo enunciato, grazie ad un dispositivo da lui ideato, illustrato schematicamente nella Figura 53. In un vaso, termicamente ben isolato, contenente acqua è inserito un albero rotante munito di alette. Sulle pareti del vaso sono pure montate delle alette che però rimangono fisse. Quando l’albero gira la presenza delle alette crea una forte agitazione nell’acqua contenuta nel vaso. La rotazione dell’albero è provocata dalla caduta di due pesi attraverso un sistema di pulegge, come mostrato nella figura. Inizialmente i due pesi sono tenuti fermi alla stessa altezza poi vengono lasciati liberi e cadono per un tratto di altezza h. Se indichiamo con P la somma dei due pesi, sappiamo che il loro spostamento per una distanza h produce un lavoro L uguale al prodotto del peso per lo spostamento: L=P·h Il lavoro prodotto è speso per vincere la resistenza che l’acqua oppone al moto delle palette rotanti e alla resistenza che l’acqua stessa, messa in movimento da esse, incontra contro le palette fisse. Entrambe queste resistenze, così come l’attrito, producono calore e Joule era convinto che il calore prodotto Q dovesse essere uguale al lavoro speso L, ossia all’energia impiegata. L’apparecchio da lui ideato doveva permettere appunto di misurare la quantità di calore Q prodotta attraverso un’accurata misura della differenza di temperatura ∆t dell’acqua del vaso fra l’inizio e la fine dell’esperimento. Come sappiamo infatti, conoscendo la massa d’acqua m contenuta nel recipiente, ed il calore specifico dell’acqua (che è uguale a 1), la quantità di calore si calcola moltipli90 cando la massa m per la differenza di temperatura ∆t, per il calore specifico, ossia: Q = m · Δt L’esperimento, confermò in pieno l’ipotesi di Joule, ossia l’eguaglianza fra Q e L, ma la sua importanza andava ben oltre: dimostrava infatti l’equivalenza del lavoro e del calore o, in altri termini, che il calore è una forma di energia. Le accurate misure di Joule inoltre portarono a stabilire che la caloria è equivalente a 4,186 joule o, anche, che la Kcal è equivalente a 4186 joule. L’unità di misura più appropriata per il calore è dunque l’unità di misura dell’energia che, come si è detto, è il joule 44, ma la sostituzione della Kcal col joule è avvenuta solo in tempi molto recenti e non ancora in modo molto diffuso. Se dunque il calore è una forma di energia, così come il lavoro si trasforma in calore anche il calore deve potersi trasformare in lavoro. Ciò è vero ed è proprio su questo principio che è iniziato lo sviluppo industriale che negli ultimi due secoli ha trasformato la storia del mondo. Lo strumento che permette di ottenere la trasformazione del calore in lavoro o, il che è lo stesso, in energia meccanica è il motore. Del motore daremo ora una descrizione semplificata senza addentrarci nella spiegazione delle trasformazioni termodinamiche che sono alla base del suo funzionamento. Come vedremo, tuttavia, le considerazioni svolte permetteranno di chiarire e completare il concetto di energia già introdotto, a suo tempo, nello studio della meccanica. Il motore Il motore, come si è detto, è un’apparecchiatura con la quale si trasforma energia termica in energia meccanica. Esso è costituito (Figura 54) da un cilindro, all’interno del quale scorre un pistone che lo divide in due parti, di cui in una agisce il fluido che fornisce l’energia termica. Dalla parte opposta una biella, collegata al pistone e, in modo eccentrico, ad una ruota, trasforma il movimento rettilineo alternato del pistone nel moto rotatorio della ruota. L’energia termica posseduta dal fluido è ottenuta per trasformazione dell’energia chimica di un combustibile fossile (carbone o idrocarburi) o da un’altra fonte energetica primaria (nucleare, solare, geotermica). Il riscaldamento del fluido può essere effettuato all’esterno o all’interno del cilindro. Nel primo caso, il fluido è generalmente vapor d’acqua e l’applicazione più familiare è il motore del treno a vapore. Il vapore è ottenuto riscaldando acqua in una caldaia a pressione ed è immesso nella camera del cilindro motore delimitata dal pistone. Poiché dall’altro lato del pistone c’è la pressione atmosferica, il vapore si espande e spinge il pistone, che trasmette il moto alla ruota. Giunto a fine corsa, il pistone è riportato indietro dalla forza d’inerzia della ruota e comincia a muoversi nell’altro verso. A questo punto si chiude la valvola, attraverso cui era stato immesso il vapore, e si apre l’altra valvola che mette in comunicazione il cilindro con l’esterno. Il vapore, a bassa pressione e raffreddatosi per l’espansione, viene così scaricato. Una parte dell’energia termica, che possedeva all’ingresso nel motore, si è 44 Ricordiamo che il joule, come già definito in precedenza, è il lavoro compiuto dalla forza di 1 newton per lo spostamento di 1 metro. 91 trasformata nell’energia meccanica che è stata trasmessa alla ruota, ma una parte si è dovuta scaricare all’esterno, nell’ambiente, per permettere di svuotare il cilindro e ripetere il ciclo. Quanto descritto ha due implicazioni molto importanti: non tutta l’energia posseduta dalla sorgente energetica può essere utilizzata ovvero il rendimento energetico è inferiore a 1 ogni trasformazione o utilizzazione di energia è accompagnata, necessariamente, da un impatto sull’ambiente. Come si è detto, il riscaldamento del fluido energetico può anche avvenire all’interno del cilindro motore e, in tal caso, si parla di motore a combustione interna o a scoppio. Gli esempi più noti sono i motori delle auto, a benzina o a gasolio. Il motore a benzina differisce dagli altri principalmente perché sul fondo fisso del cilindro è inserito un dispositivo, la candela, che produce una scintilla a intervalli regolari. Il suo funzionamento avviene, normalmente, in quattro tempi o fasi: all’inizio della prima fase, il pistone si trova nella posizione più vicina alla testa del cilindro per cui il volume della camera del fluido è minimo. Esso si muove verso la parte opposta45 mentre, contemporaneamente, si apre la valvola di immissione del fluido, costituito da una miscela di aria e vapori di benzina, che 45 Quando si comincia da motore fermo, i primi due movimenti del pistone devono essere effettuati utilizzando un apparato esterno, manuale (come la manovella di un tempo) o automatico (come il motorino elettrico di avviamento). Successivamente, a motore avviato, essi avvengono per inerzia. 92 viene così aspirato nella camera nella seconda fase, il pistone, giunto a fine corsa, torna indietro mentre la valvola di immissione si chiude. Il fluido viene così compresso e la sua temperatura aumenta. Quando il pistone giunge a fine corsa la candela produce una scintilla, i vapori di benzina prendono violentemente fuoco (scoppio) e producono un ulteriore aumento di temperatura e pressione dei prodotti della combustione e dell’aria ad essi miscelata. In questa fase l’energia chimica della benzina si trasforma in energia termica. Lo scoppio spinge indietro il pistone trasformando così, solo in questa fase, l’energia termica in energia meccanica, che attraverso la biella si trasferisce alla ruota quando il pistone giunge a fine corsa viene sospinto indietro per inerzia. Durante questa fase si apre la valvola di scarico ed i prodotti della combustione sono scaricati nell’ambiente. In modo analogo funziona il motore a gasolio che però presenta rispetto a quello a benzina alcune differenze sostanziali. Esso non è dotato di candela e nella prima fase non aspira una miscela d’aria e vapori di carburante ma soltanto aria. Durante la seconda fase, la compressione fa aumentare grandemente la temperatura dell’aria e, alla fine di questa fase, il gasolio viene iniettato nella camera di combustione. A contatto con l’aria rovente il gasolio prende fuoco e produce lo scoppio che per la benzina è invece provocato dalla scintilla della candela. Le fasi di espansione e di scarico sono uguali a quelle del motore a benzina. Come si è visto, una parte del calore del fluido che aziona il motore deve essere scaricato nell’ambiente per permettere al motore di continuare a funzionare. Si tratta di calore a bassa temperatura, da cui non è più possibile ricavare energia meccanica, che produce nell’ambiente (infinito) un impercettibile aumento di temperatura. Seguiamo ora l’altra parte del calore che nel motore si è trasformata in energia meccanica ed ha permesso, per esempio, ad un’auto di muoversi. Essa è servita per compiere un lavoro, cioè per vincere la resistenza dell’aria che l’auto incontra nel suo avanzare e l’attrito delle ruote sul terreno. L’energia utilizzata in entrambe queste funzioni si trasforma in calore (a bassa temperatura) che si riversa ancora nell’ambiente. La quantità di calore che si genera è equivalente a tutta l’energia meccanica impiegata. Nel suo insieme, quindi, tutta l’energia inizialmente presente nella fonte energetica di partenza, qualunque essa fosse, si è trasformata totalmente in calore e si è riversata nell’ambiente. C’è un’altra grandezza che è entrata in gioco con un ruolo molto importante in tutto questo processo: la temperatura. Quando il calore è a temperatura ambiente, così come quando l’acqua è arrivata al livello del mare, non è più possibile trasformare in lavoro la loro energia che diventa quindi inutilizzabile. Si badi bene l’energia non scompare, ma diventa solo non utilizzabile per altre trasformazioni o per compiere lavoro perché non è più possibile far defluire l’acqua o il calore verso livelli più bassi. Mentre, però, l’acqua del mare è nuovamente disponibile per essere vaporizzata dall’energia del sole, il calore a bassa temperatura, che prende il nome di entropia, va a riempire l’immenso recipiente che è l’ambiente senza confini. Tutti i processi energetici hanno questo destino comune e, così, indipendentemente dal fatto che una parte dell’energia sia o non sia utilizzata per produrre lavoro, l’energia generata dalla trasformazione continua della materia nel sole e nelle miriadi di stelle, con93 tinuerà ad accrescere l’entropia e, quindi, la temperatura dell’universo. Nessun processo energetico potrà più avvenire se la temperatura dell’universo diventerà tanto alta da eguagliare quella delle sorgenti. Il tempo necessario perché ciò avvenga pone però quest’evento fuori di qualsiasi proiezione ragionevole. È invece importante osservare che qualsiasi attività umana in campo energetico non influenza assolutamente le sorti dell’ambiente nella sua accezione più estesa. Una massa d’acqua che fluisce dal monte al piano trasforma in calore, lungo il percorso, l’energia cinetica di cui è dotata. Se si inserisce un’apparecchiatura (turbina e alternatore) per catturare e trasportare altrove parte di questa energia, non si fa altro che spostarne altrove la trasformazione in calore che si riversa poi nello stesso ambiente infinito. In entrambi i casi senza alcun effetto apprezzabile su di esso. Non è così invece per quella parte dell’ambiente che si chiama biosfera, cioè quella parte dell’ambiente più vicina a noi dove esiste e si rinnova la vita animale e vegetale. Ma questo è un argomento che esula dalla trattazione che stiamo facendo. 94 Citazioni Si riportano qui di seguito, in ordine cronologico di nascita, i nomi degli scienziati menzionati in questo testo, con l’avvertenza che si tratta di pochi, anche se fra i più eccelsi, personaggi che hanno contribuito alla conoscenza di questa materia. La schiera delle persone che hanno dedicato la loro vita allo studio, alla ricerca ed alla sperimentazione dei fenomeni fisici non può essere meglio ricordata che citando ciò che di loro ha scritto Harry W. Kroto, premio Nobel 1996 per la chimica, nella prefazione alla 88ma edizione del CRC Handbook of Chemistry and Physics: “I cannot do anything other than think that behind each and every entry in this book is a woman or a man who has painstakingly extracted that information from the fabric of the Universe”46. Aristotele (384-322 a.C.), filosofo greco Archimede (287-212 a.C.), matematico e fisico greco Niccolò Copernico (Nikolaj Kopernik) (1473-1543), astronomo polacco Galileo Galilei (1564-1642), fisico e astronomo italiano Johannes Kepler (1571-1630), astronomo tedesco Evangelista Torricelli (1608-47), fisico italiano Edme Mariotte (1620-84), fisico francese Blaise Pascal (1623-62), fisico francese Robert Boyle (1627-91), fisico e chimico inglese Isaac Newton (1642-1727), scienziato inglese Gabriel D. Fahrenheit (1686-1736), fisico tedesco Anders Celsius (1701-44), astronomo svedese Jacques A. Charles (1746-1823), fisico francese James P. Joule (1818-89), fisico inglese William T. Kelvin (1824-1907), fisico irlandese Heinrich R. Hertz (1857-94), fisico tedesco 46 “Non posso fare a meno di pensare che dietro ad ogni singolo valore presente in questo libro ci sia una donna o un uomo che ha diligentemente estratto quell’informazione dalla fabbrica dell’Universo” 95 Referenze I dati contenuti in questo documento, riportati tal quale o utilizzati per l’elaborazione dei grafici, sono stati ricavati da una pluralità di fonti, fra cui principalmente: Enciclopedia della scienza e della tecnica – Mondadori Enciclopedia per i ragazzi – Rizzoli Enciclopedia universale – Garzanti M. Davoli – Fisica per i licei scientifici Autori vari – La fisica di Berkeley E. Guadagno – Ambiente ed Energia Le immagini sono state scaricate da diversi siti Internet, dopo aver ragionevolmente verificato che fossero libere da vincoli che ne impedissero la riproduzione. Eventuali involontarie violazioni saranno tempestivamente corrette, se richiesto, con l’eliminazione delle relative immagini nelle edizioni successive del documento. Profilo dell’autore Eugenio Guadagno si è laureato in Ingegneria Chimica nel 1958 presso il Politecnico di Napoli e, nello stesso anno, ha incominciato a lavorare con il Gruppo Montedison (allora ancora Edison) nel settore della progettazione, costruzione ed avviamento di impianti petrolchimici e petroliferi ricoprendo nell’arco di 12 anni posizioni di responsabilità crescenti. Molti degli impianti realizzati in tale periodo sono tuttora in esercizio e fra questi di particolare importanza è la raffineria di Priolo, con una capacità produttiva di circa 10 milioni di Ton/anno di petrolio. Dopo questa fase prettamente tecnica è passato, sempre nell’ambito dello stesso Gruppo, ad incarichi di tipo gestionale nel settore petrolifero, ricoprendo ruoli sempre più impegnativi fino a diventare nel 1977 Direttore Generale del Settore Petrolifero, carica che ha poi ricoperto per circa 11 anni. Nel 1989 è stato nominato Presidente ed Amministratore Delegato della Monteshell SpA, joint venture fra Montedison e Shell, operante in Italia nel campo della produzione e commercializzazione di prodotti petroliferi. Nel 1992 è passato al Gruppo Oilinvest dove ha ricoperto, per quattro anni, la carica di Direttore Generale della Tamoil Italia SpA, e successivamente varie altre cariche all’interno del Gruppo, fra cui quelle di Amministratore Delegato della Tamoil Shipping Ltd e della Tamoil Marketing Ltd, le due società inglesi del Gruppo Oilinvest con sede a Londra, operanti rispettivamente nel campo del brokeraggio marittimo la prima e della commercializzazione di prodotti petroliferi la seconda. 96 Sommario Introduzione ........................................................................ i Meccanica Generalità ........................................................................... 1 Capitolo 1 – Statica .......................................................... 2 Le forze .............................................................................. 2 Misura di una forza ............................................................. 4 I vettori ............................................................................... 6 L’equilibrio dei corpi ........................................................ 11 Stabilità degli equilibri .......................................................... 14 Alcune applicazioni pratiche ............................................. 17 La leva .................................................................................. 17 La puleggia ........................................................................... 22 Esempi di stabilità degli equilibri .......................................... 24 Le costruzioni civili .............................................................. 26 L’attrito ............................................................................ 27 Capitolo 2 – Cinematica ................................................. 30 Gli assi cartesiani .............................................................. 30 La velocità ........................................................................ 32 Il moto rettilineo uniforme ................................................ 33 L’accelerazione ................................................................ 35 Moto rettilineo uniformemente accelerato ........................ 36 Moto circolare uniforme ................................................... 39 Moti composti .................................................................. 40 97 Capitolo 3 – Dinamica ................................................... 42 Il primo principio della dinamica ...................................... 42 Il secondo principio della dinamica .................................. 44 Il terzo principio della dinamica ....................................... 46 Il moto dei corpi celesti .................................................... 47 Capitolo 4 – Lavoro ed Energia ..................................... 52 Il lavoro ............................................................................ 52 L’energia .......................................................................... 54 Energia cinetica ed energia potenziale .............................. 60 Gli stati fisici della materia ............................................... 63 Proprietà fisiche dei corpi solidi e fluidi ........................... 64 Meccanica dei liquidi........................................................ 66 Il principio di Archimede .................................................. 72 Termologia Generalità ......................................................................... 78 Capitolo 1 – Calorimetria ............................................... 79 Calore e temperatura ......................................................... 79 Dilatazione termica ........................................................... 82 Il comportamento dei gas .................................................. 84 Trasformazioni isotermiche ................................................... 84 98 Trasformazioni isobare ......................................................... 86 Trasformazioni isocore ......................................................... 86 Lo zero assoluto .................................................................... 87 Il gas perfetto ........................................................................ 88 La misura del calore ......................................................... 88 Capitolo 2 – Termodinamica .......................................... 90 Il motore ........................................................................... 91 Citazioni ..................................................................................... 95 Referenze ................................................................................... 96 Profilo dell’autore ...................................................................... 96 99