Sapere morale e insecuritas. Per un’etica come “scienza del conflitto”. Alcune domande a Marco Ivaldo a cura si Bachisio Meloni D.: L’epoca alla quale ci sentiamo assegnati (e qui intendo riferirmi alla difficile situazione spirituale che ereditiamo dal Novecento), forse più particolarmente sensibile a raccogliere il lascito di un pensiero filosofico che ha posto a dura prova la riflessione sulla ricerca costitutiva di un fondamento morale – penso ai forti legami teoretici fra il pensiero di Nietzsche e quello di Heidegger –, per quanto caratterizzata nel dopo Husserl a rimettere al centro delle questioni il punto di vista etico, tende a persistere mantenendo un orientamento di volta in volta pratico, individuale, legato magari all’immediatezza dei bisogni concreti, ben al di qua di un ordine complessivo generale. Emerge così il disegno di una struttura sociale livellata, aperta alle più disparate sollecitazioni ma come vincolata ad una serie di coordinate ideali o mentali volte più in prossimità alle mire o agli “istinti di conservazione” propri dell’“individualità precaria”. Qual è la Sua opionione in proposito? R.: Vorrei muovere da un’osservazione che guarda anzitutto al nostro tempo. Assistiamo oggi a un sovraccarico di attese nei confronti dell’etica. Non soltanto nell’ambito della medicina e della biologia, ma anche nell’ambito della politica, dell’economia, del diritto, ci troviamo confrontati con questioni e dilemmi di natura morale, rispetto ai quali i costumi e le regole di comportamento esistenti non riescono, o non sempre riescono, a offrire soluzioni soddisfacenti. Da qui nasce un bisogno di etica, che va oltre i confini della comunità scientifica, ma abbraccia il più vasto pubblico, e si esprime con toni e in modi diversi sui mezzi di comunicazione sociale, oppure spinge alla creazione dei comitati di etica o di strutture di consulenza etica nell’ambito delle istituzioni politiche, della salute, delle imprese. Questo sovraccarico di attese non resta senza ripercussioni sulla ricerca dei filosofi, già con la sollecitazione che questi ricevono a chiarificare che cosa sia etica, quale sia la competenza dell’etica, e perciò quali siano il suo scopo e significato, il suo statuto epistemologico, i suoi strumenti teorici, i suoi limiti. L’etica contemporanea si trova a questo proposito in una situazione paradossale: la cosiddetta “epoca della scienza e della tecnica” ha accresciuto enormemente il potere dispositivo sulla vita e perciò la responsabilità dell’uomo, e ha così fatto emergere un bisogno di etica in forme nuove; tuttavia all’accrescimento del potere non si è accompagnato un corrispondente e proporzionato accrescimento nella competenza morale, e questo anche perché i filosofi morali stessi – che dovrebbero lavorare al dispiegamento di un’etica consistente – hanno talora rinunciato al loro compito, in quanto si sono ripiegati sulla sola ricerca storico-filologica (che è soltanto una parte del loro compito) oppure si dimostrano scettici sulla possibilità di elaborare un’etica capace di sostenersi di fronte alla ragione e perciò in grado di offrire un contributo ragionevole alla chiarificazione dei problemi e dei dilemmi morali. D.: Pertanto, se di etica si può ancora parlare, la intenderemmo al pari di un’insonne ricerca, o come un risveglio di inesauribili tentativi di aperture e ricerche tramite la significazione ed il dialogo, in vista di un orientamento comune, o per dirla con Apel, di una “bussola”, o di una norma etica generale, per l’intera umanità. Ciò a dimostrazione del fatto che l’etica è concepibile non diversamente che come la pratica di un movimento di indagine volto alla rimessa in questione di un “fondamento nascosto”, di un principio universale assoluto rintracciabile attraverso una profonda, e non mai determinabile, ricostruzione “genealogica dell’umano”. Siamo in prossimità di ciò che articola e glorifica la possibilità autentica del senso. R.: L’etica si trova in una condizione di ricerca anche perché deve apprendere a considerarsi come “scienza del conflitto”, come un sapere filosofico cioè che, in vista della possibilità effettuale del bene, o della “buona vita”, contribuisce alla soluzione dei conflitti che emergono quando la “nor- malità dei costumi” non costituisce più una realtà a-problematica, un sostrato ‘naturale’ del vivere collettivo, o non sembra più in grado di orientare adeguatamente il giudizio morale di fronte alle nuove sfide. In particolare si possono mettere a fuoco tre tipi di conflitto: 1) il “conflitto morale”, che nasce quando in una situazione determinata vale più di una sola regola o obbligazione, ma può esserne seguita una soltanto, ad esempio per la scarsità di mezzi a disposizione; 2) il “dissenso morale”, che compare allorché la comprensione dei fattori morali e la modalità di interpretazione e applicazione dei principi morali in una situazione determinata sono diverse fra differenti gruppi di una società (o fra diverse società) a causa delle diverse visioni del mondo e della vita che sono proprie degli agenti; 3) “l’eccesso di richiesta normativa”, che si presenta allorché una persona non riesce a soddisfare tutte e allo stesso tempo le obbligazioni che risultano dai diversi ruoli (familiari, sociali, professionali) in cui ella è contemporaneamente impegnata. Certamente la competenza dell’etica come “scienza del conflitto” deve ammettere una limitazione: l’etica non può abolire immediatamente i mali ampiamente diffusi nella realtà del mondo, ma può cooperare ad arginarli, a impedirli, o a eliminarli, in quanto essa cerca di chiarire il modo in cui il bene, nella figura della buona vita comune, è possibile. Se risponde a questo compito l’etica può offrire all’agire umano un orientamento che serve allo scopo di migliorare le condizioni di vita e di rendere possibile ciò che non soltanto astrattamente, ma in concreto, può venir chiamato ‘buona vita’. Ogni etica è poi in certo modo un’etica “situativa”, dato che essa contiene aspetti ed elementi che caratterizzano il contesto individuale e collettivo dell’agente. Ogni situazione richiede l’esercizio di una specifica virtù: l’esercizio della fortezza, ad esempio, presuppone una situazione in cui è richiesto coraggio, e qualcosa di analogo vale per le altre virtù. Tuttavia, e insieme, l’etica è situativa e universalistica; tra i due aspetti non c’è opposizione, se si tiene fermo che esiste un complesso di regole e di imperativi che vengono via via applicati a situazione mutevoli. Di tali regole alcune sono invariabili (analogamente a quanto avviene per le regole del calcolo); altre variano in corrispondenza del mutare delle situazioni (come ad es. le regole stradali), senza però che necessariamente vari il loro significato o la loro pretesa di validità (ad es.: le regole del traffico possono mutare, ma non cambia il carattere normativo della regola del traffico via via stabilita). D.: A proposito di tale dualismo fra etica situativa e universalistica vorrei esplicitare con Lei la possibilità di sfatare una fin troppo evidente, tal volta sgradevole, genericità e retoricità di fondo riscontrabile nell’insistente appello ad un fondamento assoluto. L’impressione è che il vivere secondo un orientamento fisso e categorico tenda ad esulare dai bisogni pratici, di volta in volta relativi, immediati, mutevoli, per l’appunto, dando vita così al dispiegarsi dell’idea di un “mondo dietro al mondo”, di un “fuori” impraticabile proprio in quanto disposizione indeterminata al di là dello spazio e del tempo comune (è Kant stesso ad offrire l’esempio di un presupposto, se non di un contrappunto ineludibile: quell’idea di resistenza che l’aria produce quale condizione essenziale al volo della colomba). Uno scenario assoluto che cela l’invito al disconoscimento della “problematicità” della realtà e l’incapacità di situarsi empiricamente nella turbolenta “irrequietudine” della Storia. Non è da sottovalutare quanto il vivere all’insegna di un ideale etico assoluto sia di per sé ansia di “follia”, contrapposizione peraltro a quel principio ideale di ricerca, sclerosi o esaurimento cioè di quella spinta inestinguibile ed infinita verso il fondamento stesso. Movimento di ricerca che è piuttosto protrarsi infinito, seppur in grado di svilupparsi proprio in quanto legato ad una temporalità determinata, pur sempre delimitata nella sua “insecuritas”, relativa nella sua finitezza. R.: Vorrei affrontare la domanda a partire dalla relazione fra l’etica e il costume. L’etica non può non riferirsi al “costume”, alle forme della eticità vissuta, che stanno abitualmente alla base così dei giudizi morali sul giusto e sull’ingiusto come della prassi di vita degli uomini in una determinata cultura e società. Tuttavia, il costume non è affatto al di sopra di ogni dubbio, non tutti i costumi hanno un influsso positivo sul comportamento. Inoltre, il sentimento morale e il costume non sono affatto esenti dalla possibilità di divenire insicuri. Ciò che è abituale e ‘naturale’, posto di fronte a nuove questioni, può cessare di essere tale. Può avvenire – e avviene – che riguardo a domande sulla vita, sul nascere, il morire, o sui limiti della responsabilità individuale e sociale, il costume abituale non metta più a disposizione degli uomini risposte convincenti riguardo a ciò che è bene o male, giusto o ingiusto. Ora, l’etica inizia propriamente nel punto, o nel momento, in cui il sentimento morale smarrisce la sua sicurezza e la distinzione fra buono e cattivo, mediata dal costume, non risulta più evidente. L’etica è il sapere morale nella condizione dell’insicurezza. In questo senso l’etica è la ricerca dei “fondamenti” per giustificare (criticamente e auto-criticamente) la distinzione di ciò che, secondo il sentimento morale, è buono o cattivo. L’etica ha a che fare perciò con il momento della “fondazione” o della “giustificazione” del dover-essere, e possiamo pensare questo lavoro come un processo sempre aperto della riflessione e della argomentazione. Occorre distinguere fra “validità” e “giustificazione”. Avere validità significa “essere in vigore”, “essere in atto”, oppure “venir riconosciuto”. Giustificare significa invece “ben fondare”, o anche conferire legittimità. Ad esempio: “valgono” disposizioni, decisioni, pratiche di vita, norme o regole di procedura, in quanto esse vengono riconosciute e abitualmente seguite entro determinati contesti o ordinamenti. Al fatto che tali pratiche valgano, ovvero vengano riconosciute e seguite, non è necessaria la circostanza che i loro fondamenti siano saputi in maniera riflessa dagli agenti, ovvero che tali pratiche siano poste in atto con l’esplicita consapevolezza dalla loro giustificazione (o giustificazioni) in coloro che le seguono. Tra validità e giustificazioni esiste perciò una relazione asimmetrica: le validità (cioè le forme di vita o le norme riconosciute) sono precedenti alle giustificazioni che se ne possono dare e sono indipendenti da esse. Invece, le giustificazioni sono tali in quanto si riferiscono a validità, ne ricercano cioè i fondamenti, e perciò le presuppongono. Le validità sono (normalmente) irriflesse, le giustificazioni riflesse. Tuttavia è vero che le validità – le norme riconosciute come valide – sono, almeno potenzialmente, sempre sotto “pressione di giustificazione”. Le validità richiedono infatti riconoscimento, e il riconoscimento è una prima forma di giustificazione, che però non è immune da errore. Nella richiesta di riconoscimento si annuncia perciò un bisogno di giustificazione effettiva e consistente; se la soddisfazione di questo bisogno viene in linea di principio esclusa, la validità, ad es. di una norma, perde di legittimità. D.: Viene naturale a questo punto del nostro dialogo affermare che l’etica, nella sua condizione di insicurezza, non possa far a meno della volontà privata, di matrice “utilitarista”, che essa cioè non sia possibile se non a partire da un egoismo di fondo, pratico ed essenziale – eppure critico ed auto- critico, come Lei osserva – il quale, sia ben chiaro, dovrà pur sempre essere distinguibile non tanto come fine a se stesso, quanto come punto iniziale da cui poter ripartire. Parliamo di un Io disposto quindi a perdere la propria “ipseità”, il cui egoismo – in grado di affermarsi in qualità di riconoscimento del proprio infinito valore personale – non possa essere praticato se non alla stessa stregua di un circuito esiziale suscettibile però al contempo di evocare l’invito ad essere spezzato e scongiurato; ambito dell’autonomia personale che è pur sempre rifiuto dell’indistinzione dell’en masse (così tanto denunciata da Kierkegaard), rifiuto della totalità compiuta e della pianificazione sociale, manto di dominio costrittivo da cui poter liberamente prendere le distanze; insomma, siamo dell’avviso che l’alterità dell’universale non possa fare a meno del per sé dell’esistenza individuale. R.: Vorrei riferirmi qui a Rousseau. Questi mette in luce che energie fondamentali dell’uomo sono l’amore di sé (amour de soi) e la compassione (commisération) per la sofferenza dei propri simili. Nel passare dallo stato di natura alla società, nella quale regna la lotta degli uni con gli altri, l’amore naturale di sé diviene l’amor proprio (amour propre). Il rimedio a questa degenerazione è una superiore evoluzione in virtù della componente spirituale dell’uomo, cioè lo sviluppo dell’amore di sé in un amore dell’ordine totale della realtà (amour de l’ordre), sicché l’amore di sé si estende agli altri uomini, nei quali il singolo si ritrova e si riconosce. Questa evoluzione spirituale resta ancora sempre il nostro compito etico. La moralità non è soltanto osservanza della regola indispensabile che rende possibile un rapporto tra liberi ed eguali, tanto da dover dire che la libertà a questo livello è riconoscere una regola. La moralità è anche azione creativa, incarnazione di idee o valori che promuovano la vita dell’uomo e degli uomini, una ricerca nella quale gioca un ruolo essenziale la fantasia creativa. Bergson con la sua distinzione fra la morale della pressione sociale e l’etica dell’ispirazione ha messo a fuoco questa essenziale articolazione dell’ordine morale: non abbiamo soltanto l’imperativo del non-devi, ma anche quelli del “devi”, o anche del “Sii”! In questo senso l’io trova se stesso – la propria ipseità, da non confondersi con una statica medesimezza – (ri)trovandosi con l’altro, già con quell’altro che egli ospita in se stesso (l’estraneità interiore, della quale parla Armando Rigobello). D.: Che l’etica permanga fondamentalmente in qualità o modalità di ricerca di questo principio costitutivo dell’umano (come trascendimento della singolarità chiusa ed apertura nel segno della relazione), che l’atteggiamento etico sia per sua essenza tensione dialettica e movimento spirituale verso ciò che costituisce e determina tale movimento stesso: di ciò stiamo discutendo; di ciò che, in termini hegeliani, determina il generativo del senso. Ossia, ma è convinzione o sfumatura del tutto personale, del riconoscimento dell’impossibilità di ottenere una norma e finanche una modalità di trascendenza comune, fine o impossibilità del dialogo – che è impossibilità dell’etica stessa in termini assoluti, della sua negazione. O quantomeno: ispirazione o tentativo di risalita al fondamento dell’etica, a patto di vivere però tale senso genealogico di ricerca non altrimenti che come movimento inarrestabile, infinito, di volta in volta principio da recuperare e da riaffermare nella sua essenza assoluta, e perciò stesso inattingibile. Etica e metafisica, Le chiedo, si incontrano, peraltro dicendosi e dis-dicendosi in questa comune e forse disarmante, perché in fondo per sempre tragica, tensione? R.: Penso che l’‘etico’ sia una struttura originaria della coscienza umana, che si impone a partire da se stesso nella presentazione della legge morale, in ciò che Kant ha designato come il fatto della ragione pratica. La legge morale dal canto suo non dipende dall’uomo, ma lo sovrasta, ed esige assoluta obbedienza, anche se in questa richiesta è implicata la possibilità della trasgressione, ossia è implicata la libertà umana come capacità di bene e di male. Se l’esperienza morale non fosse accompagnata dall’esperienza di trascendenza, e di alterità, della legge morale, scomparirebbe, come ha messo in luce Kant, qualsiasi distinzione fra bene e male, che sono gli oggetti della ragione pratica dischiusi dalla coscienza del dovere-essere, che potremmo anche esprimere come la coscienza, o l’appello, della persona che devo/voglio essere (coscienza che si manifesta, ad esempio, in quelle che Taylor chiama le “valutazioni forti”). In questo senso l’etica è autonoma rispetto alla metafisica. Al tempo stesso tra metafisica e morale esiste un nesso di inseparabile articolazione, variamente declinato nella tradizione della filosofia: se la legge morale comanda incondizionatamente, questa incondizionatezza non può avere nell’uomo la sua origine, ma ha a che fare con la dimensione originaria dell’essere. Certamente, di questa dimensione dell’originario possiamo dare soltanto predicazioni indirette, e avanzare affermazioni simboliche, o asserzioni “al limite”, dato che ogni nostro sapere e parlare si relaziona in via diretta alla sfera dell’apparire. Si tratta di un dire che insieme deve concomitantemente dis-dire se stesso, come Fichte ha mostrato nella sua filosofia trascendentale. D.: Un’ultima domanda, Professor Ivaldo, spero in grado di condurre il nostro discorso a riflettere degnamente sul caso specifico della situazione politica attuale (non solo italiana e non solo europea). Penso però, in parallelo al nostro discorso, più che alla ricerca di un fondamento assoluto (semmai realizzabile in una società in grado di riconoscersi nei termini di una comunità civile), alla compossibilità di uno scardinamento (avveduto, sensato) dell’orientamento comune, chiedendomi se la ricerca di nuove prospettive di pensiero, per quanto forse più attinente a quell’ibrida assunzione del “politeismo dei valori” (di cui paventiamo tuttavia esiti puramente emotivi, se non persino irrazionalistici, dove l’“altro” si rivela l’assolutamente “superfluo”), possa giungere a determinare in modo più proficuo il rovesciamento della tradizionale genealogia dei riferimenti ideali, dei modelli teorici di ispirazione. Mi riferisco in tal caso – ma non saprei dire quanto pertinente sia il mio richiamo – alla presente predisposizione di un vero e proprio nuovo firmamento culturale e intellettuale, specie in seno alla componente militante della nuova destra (per cui Hannah Arendt succede al posto di Jünger o Schmitt, Aron e Berlin subentrano a Popper e von Hayek ecc.), dove la spasmodica ricerca di nuove coordinate, specie se autenticamente vissuta, sembra contraddistinguere la riflessione postideologica dell’epoca attuale. R.: La domanda mi sollecita a considerare alcune, serie modificazioni del costume: in questi anni, non solo in Italia, ma in Italia con caratteri abbastanza decisi, si viene imponendo e diffondendo – certo con diverse gradualità, ma in modo piuttosto diffuso – una certa immagine di uomo, un forma mentis che plasma le scale di priorità e i piani di vista personali. È l’emergenza di un individuo che si vuole come auto-referenziale, coltiva i propri desideri interpretandoli in maniera semplicemente empirica ed egoista, eleva immediatamente questi desideri, così angustamente interpretati, a misura del proprio rapporto con la realtà. Questo individualismo onni-desiderante, propagandato come comportamento quasi “naturale” da una parte assai cospicua dei media – che intende il sacrificio di se stessi come massima insensatezza e non eleva altro criterio di giudizio che l’auto-soddisfazione empirica e il successo immediato – rappresenta a mio giudizio la manifestazione contemporanea più inquietante del nichilismo. Inoltre l’Italia ha conosciuto negli ultimi anni un processo già da tempo in atto in altre società europee: le ondate migratorie hanno popolato le nostre città non solo di nuovi colori, ma anche di culture, costumi, religioni diverse. Orbene, il governo di fenomeni complessi come l’accoglienza dei diversi, dello “straniero”, e la realizzazione di una convivenza solidale e regolata fra differenti culture e religioni in uno stesso spazio territoriale, politico e giuridico, richiederebbero una sapiente mediazione politica e una consistente cultura della complessità, e non sembra possano venire ragionevolmente affrontate esorcizzandole con scorciatoie identitarie, chiusure fondamentalistiche, introversioni localistiche. Un altro aspetto del quadro è – come già accennavo – l’enorme crescita del potere tecnologico sostenuto dalle conquiste scientifiche. Come ha accentuato fra gli altri Hans Jonas la vita non è più oggi un presupposto indiscusso. Le bio-tecnologie aprono nuove possibilità di intervenire sulla vita, ma questo potere scientifico-tecnico moltiplica i dilemmi morali – cioè i dilemmi che si riferiscono non al poter fare, di per sé aperto al bene e al male, ma al dover essere –, in particolare quando di tratta della vita umana. I codici deontologici fino ad ora condivisi, e le legislazioni, faticano a padroneggiare le nuove questioni. Ci troviamo ad esempio confrontati con il potere che le tecnologie mediche, o le tecnologie che richiedono competenze mediche e sanitarie per essere applicate, hanno o potranno avere nel determinare i processi che riguardano sia l’iniziare che il terminare della vita sensibile. Fino a che punto, cioè entro quale limite etico, relativo al dover essere, l’applicazione di queste tecnologie alla vita sensibile è compatibile con la natura morale dell’uomo, natura morale della quale fa parte necessariamente anche la libertà di determinare con un giudizio se stessi? Su questi punti si contrappongono abbastanza vivacemente visioni morali e concezioni antropologiche diverse; la politica si trova messa così a confronto con problemi sui quali sembra arduo pervenire a soluzioni condivise, dati la differenza delle antropologie di partenza e il pluralismo conflittuale di visioni morali che non sempre manifestano reale disponibilità a realizzare quello che Jürgen Habermas chiama un “apprendimento complementare”. In questo senso si evidenzia il ruolo costruttivo della ricerca etica come “scienza del conflitto” della quale parlavo all’inizio, per tentare di padroneggiare secondo la comune ragionevolezza, esercitata in vista dell’intesa, le questioni maggiori di questa nostra età complicata.