L'incidenza dell'ordinamento canonico e civile nell'evoluzione
delle Opere degli Istituti religiosi.
Poiché dell'incidenza dell'ordinamento canonico ha brillantemente trattato Padre Franco Ciccimarra,
ritengo utile richiamare – augurandomi di non incorrere in ripetizioni con quando detto da chi mi ha
preceduto – alcune norme concordatarie e civili che è necessario tenere presenti anche
nell'evoluzione delle Opere.
La relazione è divisa in quattro parti:
−
L'Istituto religioso nel chiarore del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano.
−
Il rappresentante legale dell'Istituto religioso nell'ordinamento civile italiano. Invalidità o
inefficacia di negozi giuridici alla luce dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1985, n. 222.
−
L'esercizio delle attività dell'Istituto religioso nell'ordinamento giuridico-tributario italiano.
−
Brevi conclusioni.
1. L'Istituto religioso nel chiarore del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano.
1.1. La legislazione concordataria e quella di derivazione pattizia richiedono speciale attenzione; in
particolare modo – limitando a quanto più prossimo agli istituti religiosi – l'articolo 7
dell'Accordo, sottoscritto il 18 febbraio 1984, che ha apportato modificazioni al Concordato
lateranense del 1929,1 e le norme sugli enti e beni ecclesiastici approvate con il Protocollo tra
la Repubblica Italiana e la Santa Sede, firmato a Roma il 15 novembre 1984 2.
In seguito la Commissione Paritetica istituita dalla Santa Sede e dalla Repubblica Italiana, ai
sensi dell'articolo 14 dell'Accordo del 18 febbraio 1984, ha dato un'interpretazione autentica
delle richiamate norme, con particolare riguardo all'edilizia di culto e al riconoscimento civile
degli enti ecclesiastici 3.
E', inoltre, da tenere presente il regolamento statale di esecuzione della legge n. 222 del 1985 4.
1.2. Il Cardinale Casaroli – in sede di firma – ha definito strumento di concordia, non di privilegio,
l'Accordo di revisione del Concordato lateranense, il cui fulcro, portante e il principio
1
2
3
4
Cfr. legge 25 marzo 1985, n. 121;
Cfr. legge 20 maggio 1985, n. 206; legge 20 maggio 1985, n. 222; l'Accordo e il Protocollo sono entrati in vigore il
3 giugno 1985, data dello scambio degli strumenti di ratifica.
Il documento conclusivo e la relazione finale della Commissione Paritetica sono stati approvati con scambio di note
diplomatiche 10 aprile / 30 aprile 1997.
Con scambio di note diplomatiche è stata trattata anche:
•
l'abolizione dell'obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato nella procedura di riconoscimento
civile degli enti ecclesiastici (11 luglio / 27 ottobre 1998);
•
la competenza del Ministro dell'Interno, sottratta al Capo dello Stato, all'emanazione dei
provvedimenti riguardanti il riconoscimento civile degli enti ecclesiastici (11 luglio / 27 ottobre 1998).
Approvato con decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 1987, n. 33, modificato con d.P.R. 1° settembre
1999, n. 337.
1
ispiratore è chiaramente espresso nell'articolo 1, dove si riafferma che “lo Stato e la Chiesa
cattolica, sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” e si assume l'impegno
“alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese”.
Nell'atto di procedere allo scambio delle ratifiche dei predetti Accordo e Protocollo, le Parti
contraenti “hanno riaffermato la loro volontà di osservare lealmente [...] le nuove disposizioni
che apportano modificazioni al Concordato lateranense, impegnandosi a procedere sempre,
nell'interpretazione ed applicazione nei rispettivi ordinamenti di tutte le norme concordate,
non solo del doveroso rispetto della lettera e dello spirito degli accordi, ma anche secondo
quella volontà di amichevole collaborazione che caratterizza i loro reciproci rapporti”.
Inoltre, come evidenziato nel Documento pastorale della Conferenza Episcopale Italiana
“Comunione, comunità e disciplina ecclesiale” del 1° gennaio 1989, n. 52, tali norme
concordatarie, “che hanno nello stesso tempo efficacia civile e valore di legge canonica
particolare per la Chiesa in Italia, chiedono di [...] essere osservate con reciproca lealtà e
chiarezza[...]”.
1.3.Il Concordato fa spazio, a partire da un’idea aperta e positiva di libertà: che ciascuno possa
essere se stesso e possa agire con il proprio volto e secondo la propria fisionomia; questa è
libertà piena. Non basta poterci essere e operare in qualche modo: occorre che ciascuna realtà
possa configurarsi e operare esprimendo pienamente la propria identità.
E all’uopo, trattandosi di enti ecclesiastici eretti o approvati secondo le norme del diritto
canonico, la Repubblica italiana – come chiarito dalla precitata Commissione Paritetica istituita
per l’interpretazione autentica di alcune norme concordatarie – è tenuta ai sensi dell’articolo 7,
comma 2, dell’Accordo del 18 febbraio 1984, “ad accogliere nel proprio ordinamento gli enti
ecclesiastici, ai quali accorda il riconoscimento, con le caratteristiche che agli stessi
ineriscono nell’ordinamento di provenienza. Il che comporta che non possono ritenersi
applicabili agli enti ecclesiastici le norme del codice civile in tema di costituzione, struttura,
amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private.”
1.4.La libertà della Chiesa e dei suoi enti di svolgere tutte le attività richieste dalla loro missione è
garantita anche per quanto concerne la questione del riconoscimento degli enti ecclesiastici
come persone giuridiche agli effetti civili.
In proposito, con l’Accordo del 18 febbraio 1984 5 la Repubblica italiana si è impegnata da un
lato a mantenere fermi i riconoscimenti già operati e, dall’altro, a continuare a riconoscere agli
effetti civili gli enti ecclesiastici, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i
5
Cfr. art. 7.2 dell'Accordo.
2
quali “abbiano finalità di religione o di culto”.
Con riferimento a questa precisa condizione, si è osservato, in sede critica, che gli scopi
concretamente perseguiti da diversi enti ecclesiastici, e tra questi particolarmente gli Istituti
religiosi, “eccedono di gran lunga i ristretti confini che lo stato assegna alla religione e al
culto, estendendosi non solo alla assistenza e alla beneficenza, ma anche alla istruzione”, alla
sanità.
Al rilievo può però opporsi la considerazione che nulla impedisce – alla luce del Concordato –
agli enti ecclesiastici “di proporsi, oltre alla religione e al culto, anche altre finalità”; la
normativa non pretende, infatti, “che il fine di religione o di culto abbia carattere esclusivo, ma
esige solo che esso si presenti come “costitutivo ed essenziale” per l’ente stesso”, costituisca
cioè la ragione d’essere originaria e costitutiva dell’ente senza la quale questo non esisterebbe.
Il fine di religione o di culto può quindi accompagnarsi ad altri scopi e, in particolare, essere
“connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico”, come è
espressamente riconosciuto.
A ciò si aggiunga che per il riconoscimento degli Istituti religiosi, così come per quello degli
enti appartenenti alla costituzione gerarchica della Chiesa (es. diocesi, parrocchie) e dei
seminari, è preclusa agli organi dello Stato ogni valutazione discrezionale circa l’esistenza
del fine di religione o di culto, in quanto è riconosciuta ex lege perché connessa
strutturalmente alla loro funzione.
Conseguentemente il fatto che un Istituto religioso si proponga di agire nel campo
dell’assistenza, della beneficenza, dell’istruzione, dell’educazione ecc. – in attività, cioè, che la
legge n. 222 del 1985 considera comunque agli effetti delle leggi civili diverse da quelle di
religione o di culto – non può essere di ostacolo al suo riconoscimento.
E', inoltre, da tenere presente che, ai fini del riconoscimento, soltanto per gli Istituti religiosi di
diritto diocesano hanno rilevanza le risorse patrimoniali di cui dispone l'ente: pertanto,
l'indicazione delle dette risorse non è richiesta dalla normativa pattizia per gli Istituti religiosi di
diritto pontificio o per le loro provincie o case.
2. Il rappresentante legale dell'Istituto religioso nell'ordinamento civile italiano. Invalidità o
inefficacia di negozi giuridici alla luce dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1985, n. 222.
2.1. L'Istituto religioso, sue provincie e case dotati di personalità giuridica civile nell'ordinamento
dello Stato esprimono la propria volontà in detto ordinamento tramite la persona fisica del
rappresentante civile, la quale può essere soggetto diverso dal Superiore dell'Istituto religioso,
Provincia o Casa. Nel senso di tale possibilità si era espressa l'autorità ecclesiastica con
3
l'Istruzione della Sacra Congregazione dei Religiosi del 6 febbraio 1930, emanata per
l'applicazione dell'articolo 29, lettera b) – relativo al riconoscimento della personalità giuridica
delle Associazioni religiose – del precedente testo concordatario dell'11 febbraio 1929; leggesi
ivi in proposito (n. 2 lettera b): “[...] (e la rappresentanza agli effetti civili patrimoniali, non
sempre spetta alla stessa persona che rivesta la qualifica si Superiore dell'Ordine, Provincia o
Casa) [...]”: la disposizione ecclesiastica si ritiene tuttora applicabile.
La normativa concordataria menziona più volte il rappresentante di un ente ecclesiastico ma
non determina – mi limito agli enti di cui sto parlando – chi sia il rappresentante legale
dell'Istituto religioso, nell'ordinamento statale.
L'articolo 7 della legge n. 222 del 1985 si limita a disporre, tra l'altro. Con riferimento al
riconoscimento degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica, delle loro province e
case italiane, che gli enti medesimi devono essere rappresentanti giuridicamente e di fatto da
cittadini italiani aventi il domicilio in Italia; il medesimo articolo precisa, però, che i detti
due requisiti non sono richiesti per le case generalizie e le cosiddette procure degli Istituti
religiosi e delle Società di vita apostolica: pertanto, il loro rappresentante legale può
essere anche un cittadino straniero.
La determinazione delle persona del legale rappresentante è, quindi, lasciata completamente
all'ordinamento canonico, per cui la certificazione circa detta rappresentanza rilasciata
dall'autorità ecclesiastica competente ha certamente rilevanza nell'ordinamento civile.
2.2. La nomina del rappresentante legale dell'ente, agli effetti civili, deve essere iscritta, con la
massima sollecitudine, a sua cura nel competente registro delle persone giuridiche, di cui dirò
in seguito.
E' da tenere, infatti, presente che nell'ordinamento dello Stato è considerato rappresentante
legale dell'ente il soggetto che risulta iscritto con tale qualifica nel predetto registro, anche se è
stato sostituito.
2.3. Poiché – per consolidata giurisprudenza – gli enti ecclesiastici sono, nell'ordinamento
italiano, persone giuridiche private e non pubbliche, l'Istituto religioso, le sue province e case,
dotati di personalità giuridica civile, possono delegare – nel rispetto della normativa canonica –
la propria rappresentanza sostanziale e processuale a persona diversa dal rappresentante legale
agli effetti civili 6; il conferimento di procura, specie se generale richiede grande cautela.
E' da tenere presente che, poiché la procura è rilasciata dall'Ente e non dal rappresentante legale
che interviene nell'atto, la sua sostituzione non comporta l'estinzione della procura.
6
Vedasi Cassazione, 10 luglio 1984, n. 4040.
4
2.4. Ma chi intende contrattare con l'Istituto religioso, o sua articolazione (es. provincia, casa)
civilmente riconosciuti, come può accertarsi se la persona fisica che assume di essere il
rappresentante legale dell'Istituto medesimo o sua articolazione è realmente tale e se ha i
poteri per il compimento di quell'atto ?
E' noto, infatti, che il rappresentante legale agli effetti civili non forma la volontà della
persona giuridica da esso rappresentata, ma ne manifesta la volontà legittimamente
formatasi all'interno e, all'uopo, occorre tenere presente che il precitato Accordo che ha
apportato modificazioni al Concordato lateranense dispone all'articolo 7, n. 5, che:
“L'amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli
previsti dal diritto canonico”; l'ordinamento giuridico italiano dà quindi rilevanza a tali
controlli.
D'altra parte il sistema dei controlli canonici appare alquanto complesso anche perché
disciplinato da una molteplicità di fonti: non è, quindi, pensabile che il terzo, per essere sicuro
di contrattare validamente con un ente ecclesiastico, debba conoscere le norme del diritto
canonico, specie quelle contenute nelle Costituzioni o nel Direttorio di un Istituto religioso, non
in commercio.
2.5. All'uopo la normativa derivata dall'Accordo di revisione del Concordato ha imposto agli enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti, sia prima sia dopo l'entrata in vigore del nuovo sistema, di
iscriversi nel registro delle persone giuridiche – del quale chiunque può prendere visione – e
ciò soprattutto allo scopo di pubblicizzare “le norme di funzionamento e i poteri degli organi di
rappresentanza dell'ente” 7, in tal modo garantendo “i terzi che entrano in rapporti negoziali
con gli enti ecclesiastici” in nome di una “fondamentale esigenza di certezza giuridica e di
affidamento, più volte prospettata e sostenuta in dottrina”.
Conseguentemente l'Istituto religioso o sue articolazioni civilmente riconosciuti, allorquando si
sono iscritti nel predetto registro, hanno dovuto produrre, tra gli altri documenti, anche o lo
statuto approvato agli effetti civili (sono rarissimi i casi) contenente le norme di funzionamento
dell'ente e i poteri degli organi di rappresentanza 8 o, in difetto dello statuto, un attestato della
Santa Sede (se di diritto pontificio) o del Vescovo diocesano (se di diritto diocesano) con
l'indicazione dei predetti elementi; normalmente nell'attestato della Santa Sede è anche
precisato che, agli effetti civili, l'ente agisce per mezzo del legale rappresentante la cui
qualifica è attestata dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita
7
8
Cfr. art. 5 della legge n. 222 del 1985.
Cfr. art. 15, n. 4, del regolamento di esecuzione della legge n. 222 del 1985, approvato con d.P.R. n. 33 del 1987.
5
apostolica (se competente); che il legale rappresentante dura in carica sino a quando non venga
sostituito e che la sua nomina non richiede accettazione in forza del voto di obbedienza; che il
legale rappresentante “può compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione. Per il
compimento di atti di straordinaria amministrazione è necessaria: a) l'autorizzazione del
Superiore competente secondo il Diritto Canonico; b) nonché la licenza della Santa Sede per
gli atti il cui valore superi la somma fissata dalla stessa Santa Sede (attualmente un milione di
euro; ndr) od aventi per oggetto beni di pregio artistico o storico o donati alla chiesa “ex
voto”. La concessione della licenza della Santa Sede costituisce in ogni caso e per tutti gli atti
di straordinaria amministrazione certificazione dell'esistenza dell'autorizzazione di cui alla
lettera a)”.
Nel caso in cui il rappresentante legale compia un atto di straordinaria amministrazione (es.
contratto di mutuo passivo; vendita di immobile) senza averne i poteri, l'ente da esso
rappresentato potrà contestarne la validità nei suoi confronti, disconoscendo l'operato del
rappresentante medesimo.
2.6. Il soggetto che entra in rapporto negoziale con l'Istituto religioso o sua articolazione ha, quindi,
la possibilità di controllare quanto risulta nel registro delle persone giuridiche ed è suo interesse
farlo, atteso che esiste altra disposizione di derivazione pattizia, l'articolo 18 della legge n. 222
del 1985, secondo la quale sulla validità ed efficacia di negozi giuridici posti in essere da
enti ecclesiastici non possono esercitare alcuna influenza – e quindi non sono opponibili a
terzi che non ne fossero a conoscenza – “le limitazioni dei poteri di rappresentanza o
l'omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal
registro delle persone giuridiche”.
3. L'esercizio delle attività dell'Istituto religioso nell'ordinamento giuridico-tributario
italiano.
3.1.La libertà della Chiesa e dei suoi enti di svolgere attività diverse da quelle che lo Stato
considera di religione o di culto è espressamente e reiteratamente dichiarata. Il precitato
Accordo del 18 febbraio 1984 riconosce, infatti, alla Chiesa “la piena libertà di svolgere la sua
missione” anche nel campo educativo e caritativo 9, garantendole specificamente “il diritto di
istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione” 10; e ancora, che le
“attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette,
9
10
Cfr. art. 2, n. 1, dell'Accordo.
Cfr. art. 9, n. 1, dell'Accordo.
6
nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali
attività e nel regime tributario previsto per le medesime”11 Inoltre, la Repubblica italiana,
richiamandosi al principio enunciato dall'articolo 20 della Costituzione, ha riaffermato “che il
carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non
possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua
costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività” 12.
Può quindi concludersi che la libertà degli Istituti religiosi, come di qualsiasi altro ente
ecclesiastico, di operare in tutti i campi che rientrano nella missione della Chiesa è ampiamente
tutelata.
Si richiama l'attenzione sulla circostanza che la soggezione alla disciplina comune delle attività
svolte dagli enti ecclesiastici in settori diversi da quelli considerati di religione o di culto trova
un esplicito limite nel “rispetto della struttura e della finalità” degli enti stessi. La riserva,
lungi dal costituire un privilegio, trova giustificazione “alla luce dei principi costituzionali in
tema di libertà religiosa”; si vuole impedire l'applicazione nei confronti degli enti ecclesiastici
di quelle disposizioni che potrebbero condurre a rinnegare e a limitare il carattere ecclesiastico
ad essi riconosciuto dallo Stato.
Trattasi, quindi, di una clausola di salvaguardia normativamente predisposta a tutela
della “identità” dell'Ente.
La normativa comune può riferirsi, ad esempio, all'autorizzazione amministrativa per lo
svolgimento di determinate attività, al trattamento del personale dipendente nelle stesse,
occupato, all'adeguamento – secondo disposizioni vigenti – degli impianti negli immobili dove
l'attività è esercitata, all'osservanza della normativa tributaria in materia.
3.2.Ma quali sono le attività diverse da quelle di religione o di culto e quali, invece, queste ?
In proposito occorre richiamarsi all'articolo 16 della legge n. 222 del 1985 il quale prevede:
- alla lettera a) che, ai soli effetti delle leggi civili, si considerano, comunque, come “attività di
religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione
del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana”;
- e contestualmente precisa alla lettera b) che, sempre ai soli effetti delle leggi civili, sono
comunque qualificate come “attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di
assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, in ogni caso, le attività
commerciali o a scopo di lucro” (quindi, anche quando sono strumentali per il conseguimento
11
12
Cfr. art. 7, n. 3, dell'Accordo.
Cfr. art. 7, n. 1, dell'Accordo.
7
delle finalità di religione e di culto).
Si segnala che non essendo l'elencazione di cui al predetto articolo 16 esaustiva, possono
esservi attività non espressamente menzionate che saranno quindi rimesse all'interpretazione
dottrinale e giurisprudenziale.
E' da rilevare poi l'espressa menzione, tra le attività di religione o di culto, della educazione
cristiana come attività distinta dalla catechesi e la circostanza che la “educazione”, senza alcuna
aggettivazione, rientra, invece, tra le attività diverse.
3.3.Disponendo l'Accordo di revisione del Concordato l'assoggettamento delle attività diverse da
quelle di religione o di culto alle leggi dello Stato concernenti tali attività, ne consegue
chiaramente che le attività di religione o di culto sono escluse dalla detta soggezione e restano
quindi sottratte dall'ingerenza dello Stato.
Si è sopra detto che lo svolgimento di attività diverse da quelle di religione o di culto è soggetto
anche al regime tributario previsto per le medesime. In proposito è da tenere presente: che non
ogni attività diversa è rilevante agli effetti fiscali, non lo sono, ad esempio, le attività
assistenziali e di istruzione gratuite e che il Concordato dispone l'equiparazione, agli effetti
tributari, degli enti ecclesiastici aventi fini di religione o di culto, come pure delle attività
dirette a tali scopi, agli enti aventi fine di beneficenza o di istruzione: ciò significa che ogni
volta che esiste una norma specifica in detta materia per gli enti con finalità di beneficenza o di
istruzione, tale norma si applica automaticamente, in forza dell'equiparazione, agli enti
ecclesiastici. 13
Ma per stabilire quale è la normativa tributaria applicabile nel settore dell'imposizione diretta
(in estrema sintesi, imposta IRES) all'Istituto religioso o alle sue province e case civilmente
riconosciuti nell'esercizio di attività diverse, è necessario conoscere come i detti enti si
inquadrino sotto il profilo tributario.
3.4.Non vi è dubbio che l'Istituto religioso, come pure le sue province e case, avendo per sua natura
fine di religione o di culto, deve considerarsi fiscalmente un ente non commerciale, non
avendo per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali. 14
Ai fini della qualificazione di cui sopra si considerano commerciali le attività indicate
nell'articolo citato in nota. 15
13
14
15
Cfr. art. 7, n. 3, dell'Accordo.
Cfr. art. 73, comma 1, lettera c, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n.
917, di seguito “TUIR”, come novellato dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344.
Cfr. art. 13 del TUIR: attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi; attività intermediarie nella
circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; attività bancaria o assicurativa; altre attività
ausiliarie delle precedenti; attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi non rientranti tra
8
La legge
16
, precisa che l'oggetto esclusivo o principale dell'ente è determinato “in base alla
legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura
privata autentica o registrata.”
Il riferimento “alla legge” è di notevole rilievo, considerato che (mi scuso della ripetizione, ma
l'importanza dell'argomento la giustifica):
- l'articolo 7, n. 2, dell'Accordo di revisione del Concordato dispone che lo “Stato continuerà a
riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o
approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di
culto”;
- l'articolo 1 della legge 20 maggio 1985, n. 222, riafferma tale principio e il successivo articolo
2 precisa che per alcune categorie di soggetti (tra i quali gli Istituti religiosi) il fine di religione
o di culto è addirittura presunto per legge.
Anche in base alla legge, pertanto, l'Istituto religioso e le sue articolazioni sono certamente enti
non commerciali.
Ma vi è di più. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti costituiscono per l'ordinamento
tributario italiano “enti non commerciali di diritto”, in quanto, a differenza degli altri enti non
commerciali, non perdono la qualifica di ente non commerciale agli effetti tributari, anche nel
caso di cui dovessero esercitare prevalentemente attività commerciali per un intero periodo
d'imposta (normalmente coincidente per loro con l'anno solare) 17.
Agli effetti tributari, pertanto, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono assoggettati alla
normativa dettata per gli enti non commerciali, a prescindere dall'attività in concreto svolta.
Con riferimento a ciò si tenga presente che la ratio della scelta operata dal legislatore tributario
nel tenere ferma la natura non commerciale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti è
ravvisata nella circostanza che, con riferimento a questi enti, “si ritengono comunque prevalenti
le attività istituzionali di ispirazione eminentemente idealistica” 18.
3.5.Agli enti non commerciali la normativa fiscale in materia di imposta sul reddito delle società
(IRES) riconosce una capacità contributiva limitata; infatti il loro reddito complessivo ai fini
della predetta imposta è formato soltanto dalle categorie di reddito indicate dalla legge per tali
enti
16
17
18
19
19
, tra le quali sono, però, compresi i redditi d'impresa (es. gestione a pagamento di
le attività precedentemente indicate.
Cfr. art. 74, comma 4, del TUIR.
Cfr. combinato disposto delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 dell'articolo 149 del TUIR.
Vedasi la relazione di accompagnamento al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, con il quale è stata inserita
nel TUIR la predetta disposizione.
Cfr. art. 143 TUIR.
9
pensionato, di istituto scolastico, di casa di riposo per persone anziane, di casa di cura).
I redditi di cui alle categorie interessate sono fiscalmente rilevanti ovunque prodotti e
indipendentemente dalla loro destinazione e, quindi, anche se destinati a fine di culto, di
religione, di assistenza.
Poiché il reddito complessivo dell'Istituto religioso e sue articolazioni, in quanto enti non
commerciali, è costituito esclusivamente dalle predette categorie, consegue che le offerte
ricevute non finalizzate dall'offerente all'attività commerciale eventualmente esercitata dall'ente
medesimo, sono fiscalmente irrilevanti.
Non concorrono, altresì, alla formazione del reddito complessivo
20
i fondi pervenuti a seguito
di raccolte pubbliche occasionali e i contributi pubblici per lo svolgimento convenzionato o in
regime di accreditamento di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini
istituzionali dell'ente; poiché la norma non distingue tra contributi erogati a fondo perduto e
quelli aventi natura di corrispettivo, anche questi ultimi rientrano nell'agevolazione.
3.6.La legge
21
, dopo aver precisato che il reddito d'impresa è quello che deriva dall'esercizio di
attività commerciali, stabilisce che l'attività va esercitata per professione abituale (cioè stabile,
continua), ancorché non esclusiva.
E' da tenere presente che per l'Amministrazione finanziaria la qualificazione di attività
commerciale deve effettuarsi con riferimento al contenuto e alla forma delle attività svolte
considerate oggettivamente e non in relazione alla natura dell'ente o all'eventuale fine di lucro
perseguito dallo stesso, non essendo tale fine necessario per aversi esercizio di attività
commerciali; con la conseguenza che ad esempio, le prestazioni di servizi ovviamente dietro
corrispettivo, rese mediante un organizzazione (insieme di mezzi e di persone), configurano
esercizio di attività commerciale, anche se i proventi siano costituiti da corrispettivi economici
di poco superiori ai costi ed anche, come si è già detto, se il reddito che si ritrae da detto
esercizio è destinato a fini di culto o di religione o di assistenza, cioè a scopi diversi da quelli di
lucro.
La collocazione del reddito si ha, infatti, in un momento cronologicamente e giuridicamente
successivo, rispetto a quello dell'esercizio dell'attività produttiva del reddito ed è, come tale, del
tutto ininfluente per qualificare l'attività svolta alla sua produzione come commerciale o meno.
3.7.Per quanto concerne le scrittura contabili, è da tenere presente che in base alla legge
22
, alle
attività commerciali esercitate dagli enti non commerciali (tra i quali l'Istituto religioso, sue
20
21
22
Cfr. art. 143, comma 3, del TUIR.
Cfr. art. 55 del TUIR.
Cfr. art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
10
province e case) è applicabile la disciplina delle scritture contabili prevista per le imprese
commerciali, con l'obbligo della tenuta della contabilità separata per le dette attività; si ha così,
“la totale separazione, sotto il profilo dell'obbligo contabile – fiscale, tra ambito commerciale
e ambito non commerciale con la conseguente irrilevanza fiscale degli adempimenti contabili
in relazione alle attività istituzionali e l'assoggettamento agli obblighi contabili previsti per le
imprese in relazione alle attività commerciali.”
4. Brevi conclusioni.
4.1.Da quanto esposto, sia pure sommariamente, risulta evidente che l'Istituto religioso, per operare
nell'ordinamento italiano, non ha necessità di configurarsi diversamente – né può pretendersi il
contrario – da quelle che sono le sue caratteristiche delineate dal diritto canonico.
Appare quindi – oserei dire – sensato avvalersi al massimo delle possibilità offerte dal
Concordato, particolarmente considerando che il mantenimento della centralità dell'ente
ecclesiastico, a fronte di vantaggi immediati e a volte apparenti, significa conservare il
riconoscimento da parte dell'ordinamento civile della specificità dell'ente avente finalità di
religione o di culto e della particolare natura delle Opere gestite.
Prima di abbandonarsi a scelte che, se pur imposte dalla criticità di situazioni e comprensibili,
rischiano di fare scomparire l'Opera, o il suo collegamento con l'Istituto religioso, mi parrebbe
necessario insistere nella ricerca di nuove formule – eventualmente con la collaborazione delle
altre componenti del popolo di Dio, soprattutto dei laici – che ne evitino la chiusura,
consentendo così la continuità dell'Opera.
Che se poi la ricerca avesse esito negativo, sommessamente ritengo che i “mezzi opportuni,
anche se nuovi” – cui si fa riferimento nel numero 20 del Decreto Conciliare “Perfectae
caritatis” – debbano, però, essere compatibili con la normativa canonica e con la natura
dell'Istituto religioso, ente ecclesiastico e che la relativa decisione circa la scelta richieda
attento previo esame anche delle conseguenze di carattere tributario.
4.2.Con riferimento ai fabbricati – anche se a volte i problemi sono di diversa natura – mi permetto
di riportare un passo tratto dal punto “Chiese ed edifici” della Lettera ai Superiori e alle
Superiore Generali degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, avente per
oggetto: “i beni culturali degli istituti religiosi”, inviata il 10 aprile 1994 dal Presidente della
Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa.
“Per quanto riguarda gli spazi, che si stanno abbandonando a causa della crisi vocazionale,
sarà bene che si progetti un programma di utilizzazione che tenga conto non soltanto del
fattore economico (vendita al miglior prezzo possibile), ma soprattutto renda ragione del
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significato storico e spirituale delle singole costruzioni. Sembra pertanto urgente che non si
precipitino alcune decisioni circa l'alienazione del patrimonio immobiliare, ma si tenga conto
della finalità propria di ciascun edificio nello sforzo di mantenerne integra la finalità
originaria, soprattutto per quanto riguarda i centri liturgici. Le vaste costruzioni che si
trovano soprattutto nei paesi di antica tradizione cristiano siano sottratte a discutibili
speculazioni, ma siano possibilmente rese disponibili per azioni sociali e culturali a favore
della popolazione, con il cui aiuto in passato tali opere sono state edificate.”
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Termino la presente relazione, conscio delle sue numerose lacune – che spero possano almeno in
parte essere colmate durante il dibattito – e ringrazio per la cortese attenzione.
Roma, 10 novembre 2007
Edoardo Boitani, avvocato
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