L'incidenza dell'ordinamento canonico e civile nell'evoluzione delle Opere degli Istituti religiosi. Poiché dell'incidenza dell'ordinamento canonico ha brillantemente trattato Padre Franco Ciccimarra, ritengo utile richiamare – augurandomi di non incorrere in ripetizioni con quando detto da chi mi ha preceduto – alcune norme concordatarie e civili che è necessario tenere presenti anche nell'evoluzione delle Opere. La relazione è divisa in quattro parti: − L'Istituto religioso nel chiarore del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano. − Il rappresentante legale dell'Istituto religioso nell'ordinamento civile italiano. Invalidità o inefficacia di negozi giuridici alla luce dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1985, n. 222. − L'esercizio delle attività dell'Istituto religioso nell'ordinamento giuridico-tributario italiano. − Brevi conclusioni. 1. L'Istituto religioso nel chiarore del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano. 1.1. La legislazione concordataria e quella di derivazione pattizia richiedono speciale attenzione; in particolare modo – limitando a quanto più prossimo agli istituti religiosi – l'articolo 7 dell'Accordo, sottoscritto il 18 febbraio 1984, che ha apportato modificazioni al Concordato lateranense del 1929,1 e le norme sugli enti e beni ecclesiastici approvate con il Protocollo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, firmato a Roma il 15 novembre 1984 2. In seguito la Commissione Paritetica istituita dalla Santa Sede e dalla Repubblica Italiana, ai sensi dell'articolo 14 dell'Accordo del 18 febbraio 1984, ha dato un'interpretazione autentica delle richiamate norme, con particolare riguardo all'edilizia di culto e al riconoscimento civile degli enti ecclesiastici 3. E', inoltre, da tenere presente il regolamento statale di esecuzione della legge n. 222 del 1985 4. 1.2. Il Cardinale Casaroli – in sede di firma – ha definito strumento di concordia, non di privilegio, l'Accordo di revisione del Concordato lateranense, il cui fulcro, portante e il principio 1 2 3 4 Cfr. legge 25 marzo 1985, n. 121; Cfr. legge 20 maggio 1985, n. 206; legge 20 maggio 1985, n. 222; l'Accordo e il Protocollo sono entrati in vigore il 3 giugno 1985, data dello scambio degli strumenti di ratifica. Il documento conclusivo e la relazione finale della Commissione Paritetica sono stati approvati con scambio di note diplomatiche 10 aprile / 30 aprile 1997. Con scambio di note diplomatiche è stata trattata anche: • l'abolizione dell'obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato nella procedura di riconoscimento civile degli enti ecclesiastici (11 luglio / 27 ottobre 1998); • la competenza del Ministro dell'Interno, sottratta al Capo dello Stato, all'emanazione dei provvedimenti riguardanti il riconoscimento civile degli enti ecclesiastici (11 luglio / 27 ottobre 1998). Approvato con decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 1987, n. 33, modificato con d.P.R. 1° settembre 1999, n. 337. 1 ispiratore è chiaramente espresso nell'articolo 1, dove si riafferma che “lo Stato e la Chiesa cattolica, sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” e si assume l'impegno “alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese”. Nell'atto di procedere allo scambio delle ratifiche dei predetti Accordo e Protocollo, le Parti contraenti “hanno riaffermato la loro volontà di osservare lealmente [...] le nuove disposizioni che apportano modificazioni al Concordato lateranense, impegnandosi a procedere sempre, nell'interpretazione ed applicazione nei rispettivi ordinamenti di tutte le norme concordate, non solo del doveroso rispetto della lettera e dello spirito degli accordi, ma anche secondo quella volontà di amichevole collaborazione che caratterizza i loro reciproci rapporti”. Inoltre, come evidenziato nel Documento pastorale della Conferenza Episcopale Italiana “Comunione, comunità e disciplina ecclesiale” del 1° gennaio 1989, n. 52, tali norme concordatarie, “che hanno nello stesso tempo efficacia civile e valore di legge canonica particolare per la Chiesa in Italia, chiedono di [...] essere osservate con reciproca lealtà e chiarezza[...]”. 1.3.Il Concordato fa spazio, a partire da un’idea aperta e positiva di libertà: che ciascuno possa essere se stesso e possa agire con il proprio volto e secondo la propria fisionomia; questa è libertà piena. Non basta poterci essere e operare in qualche modo: occorre che ciascuna realtà possa configurarsi e operare esprimendo pienamente la propria identità. E all’uopo, trattandosi di enti ecclesiastici eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, la Repubblica italiana – come chiarito dalla precitata Commissione Paritetica istituita per l’interpretazione autentica di alcune norme concordatarie – è tenuta ai sensi dell’articolo 7, comma 2, dell’Accordo del 18 febbraio 1984, “ad accogliere nel proprio ordinamento gli enti ecclesiastici, ai quali accorda il riconoscimento, con le caratteristiche che agli stessi ineriscono nell’ordinamento di provenienza. Il che comporta che non possono ritenersi applicabili agli enti ecclesiastici le norme del codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private.” 1.4.La libertà della Chiesa e dei suoi enti di svolgere tutte le attività richieste dalla loro missione è garantita anche per quanto concerne la questione del riconoscimento degli enti ecclesiastici come persone giuridiche agli effetti civili. In proposito, con l’Accordo del 18 febbraio 1984 5 la Repubblica italiana si è impegnata da un lato a mantenere fermi i riconoscimenti già operati e, dall’altro, a continuare a riconoscere agli effetti civili gli enti ecclesiastici, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i 5 Cfr. art. 7.2 dell'Accordo. 2 quali “abbiano finalità di religione o di culto”. Con riferimento a questa precisa condizione, si è osservato, in sede critica, che gli scopi concretamente perseguiti da diversi enti ecclesiastici, e tra questi particolarmente gli Istituti religiosi, “eccedono di gran lunga i ristretti confini che lo stato assegna alla religione e al culto, estendendosi non solo alla assistenza e alla beneficenza, ma anche alla istruzione”, alla sanità. Al rilievo può però opporsi la considerazione che nulla impedisce – alla luce del Concordato – agli enti ecclesiastici “di proporsi, oltre alla religione e al culto, anche altre finalità”; la normativa non pretende, infatti, “che il fine di religione o di culto abbia carattere esclusivo, ma esige solo che esso si presenti come “costitutivo ed essenziale” per l’ente stesso”, costituisca cioè la ragione d’essere originaria e costitutiva dell’ente senza la quale questo non esisterebbe. Il fine di religione o di culto può quindi accompagnarsi ad altri scopi e, in particolare, essere “connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico”, come è espressamente riconosciuto. A ciò si aggiunga che per il riconoscimento degli Istituti religiosi, così come per quello degli enti appartenenti alla costituzione gerarchica della Chiesa (es. diocesi, parrocchie) e dei seminari, è preclusa agli organi dello Stato ogni valutazione discrezionale circa l’esistenza del fine di religione o di culto, in quanto è riconosciuta ex lege perché connessa strutturalmente alla loro funzione. Conseguentemente il fatto che un Istituto religioso si proponga di agire nel campo dell’assistenza, della beneficenza, dell’istruzione, dell’educazione ecc. – in attività, cioè, che la legge n. 222 del 1985 considera comunque agli effetti delle leggi civili diverse da quelle di religione o di culto – non può essere di ostacolo al suo riconoscimento. E', inoltre, da tenere presente che, ai fini del riconoscimento, soltanto per gli Istituti religiosi di diritto diocesano hanno rilevanza le risorse patrimoniali di cui dispone l'ente: pertanto, l'indicazione delle dette risorse non è richiesta dalla normativa pattizia per gli Istituti religiosi di diritto pontificio o per le loro provincie o case. 2. Il rappresentante legale dell'Istituto religioso nell'ordinamento civile italiano. Invalidità o inefficacia di negozi giuridici alla luce dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1985, n. 222. 2.1. L'Istituto religioso, sue provincie e case dotati di personalità giuridica civile nell'ordinamento dello Stato esprimono la propria volontà in detto ordinamento tramite la persona fisica del rappresentante civile, la quale può essere soggetto diverso dal Superiore dell'Istituto religioso, Provincia o Casa. Nel senso di tale possibilità si era espressa l'autorità ecclesiastica con 3 l'Istruzione della Sacra Congregazione dei Religiosi del 6 febbraio 1930, emanata per l'applicazione dell'articolo 29, lettera b) – relativo al riconoscimento della personalità giuridica delle Associazioni religiose – del precedente testo concordatario dell'11 febbraio 1929; leggesi ivi in proposito (n. 2 lettera b): “[...] (e la rappresentanza agli effetti civili patrimoniali, non sempre spetta alla stessa persona che rivesta la qualifica si Superiore dell'Ordine, Provincia o Casa) [...]”: la disposizione ecclesiastica si ritiene tuttora applicabile. La normativa concordataria menziona più volte il rappresentante di un ente ecclesiastico ma non determina – mi limito agli enti di cui sto parlando – chi sia il rappresentante legale dell'Istituto religioso, nell'ordinamento statale. L'articolo 7 della legge n. 222 del 1985 si limita a disporre, tra l'altro. Con riferimento al riconoscimento degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica, delle loro province e case italiane, che gli enti medesimi devono essere rappresentanti giuridicamente e di fatto da cittadini italiani aventi il domicilio in Italia; il medesimo articolo precisa, però, che i detti due requisiti non sono richiesti per le case generalizie e le cosiddette procure degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica: pertanto, il loro rappresentante legale può essere anche un cittadino straniero. La determinazione delle persona del legale rappresentante è, quindi, lasciata completamente all'ordinamento canonico, per cui la certificazione circa detta rappresentanza rilasciata dall'autorità ecclesiastica competente ha certamente rilevanza nell'ordinamento civile. 2.2. La nomina del rappresentante legale dell'ente, agli effetti civili, deve essere iscritta, con la massima sollecitudine, a sua cura nel competente registro delle persone giuridiche, di cui dirò in seguito. E' da tenere, infatti, presente che nell'ordinamento dello Stato è considerato rappresentante legale dell'ente il soggetto che risulta iscritto con tale qualifica nel predetto registro, anche se è stato sostituito. 2.3. Poiché – per consolidata giurisprudenza – gli enti ecclesiastici sono, nell'ordinamento italiano, persone giuridiche private e non pubbliche, l'Istituto religioso, le sue province e case, dotati di personalità giuridica civile, possono delegare – nel rispetto della normativa canonica – la propria rappresentanza sostanziale e processuale a persona diversa dal rappresentante legale agli effetti civili 6; il conferimento di procura, specie se generale richiede grande cautela. E' da tenere presente che, poiché la procura è rilasciata dall'Ente e non dal rappresentante legale che interviene nell'atto, la sua sostituzione non comporta l'estinzione della procura. 6 Vedasi Cassazione, 10 luglio 1984, n. 4040. 4 2.4. Ma chi intende contrattare con l'Istituto religioso, o sua articolazione (es. provincia, casa) civilmente riconosciuti, come può accertarsi se la persona fisica che assume di essere il rappresentante legale dell'Istituto medesimo o sua articolazione è realmente tale e se ha i poteri per il compimento di quell'atto ? E' noto, infatti, che il rappresentante legale agli effetti civili non forma la volontà della persona giuridica da esso rappresentata, ma ne manifesta la volontà legittimamente formatasi all'interno e, all'uopo, occorre tenere presente che il precitato Accordo che ha apportato modificazioni al Concordato lateranense dispone all'articolo 7, n. 5, che: “L'amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico”; l'ordinamento giuridico italiano dà quindi rilevanza a tali controlli. D'altra parte il sistema dei controlli canonici appare alquanto complesso anche perché disciplinato da una molteplicità di fonti: non è, quindi, pensabile che il terzo, per essere sicuro di contrattare validamente con un ente ecclesiastico, debba conoscere le norme del diritto canonico, specie quelle contenute nelle Costituzioni o nel Direttorio di un Istituto religioso, non in commercio. 2.5. All'uopo la normativa derivata dall'Accordo di revisione del Concordato ha imposto agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sia prima sia dopo l'entrata in vigore del nuovo sistema, di iscriversi nel registro delle persone giuridiche – del quale chiunque può prendere visione – e ciò soprattutto allo scopo di pubblicizzare “le norme di funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza dell'ente” 7, in tal modo garantendo “i terzi che entrano in rapporti negoziali con gli enti ecclesiastici” in nome di una “fondamentale esigenza di certezza giuridica e di affidamento, più volte prospettata e sostenuta in dottrina”. Conseguentemente l'Istituto religioso o sue articolazioni civilmente riconosciuti, allorquando si sono iscritti nel predetto registro, hanno dovuto produrre, tra gli altri documenti, anche o lo statuto approvato agli effetti civili (sono rarissimi i casi) contenente le norme di funzionamento dell'ente e i poteri degli organi di rappresentanza 8 o, in difetto dello statuto, un attestato della Santa Sede (se di diritto pontificio) o del Vescovo diocesano (se di diritto diocesano) con l'indicazione dei predetti elementi; normalmente nell'attestato della Santa Sede è anche precisato che, agli effetti civili, l'ente agisce per mezzo del legale rappresentante la cui qualifica è attestata dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita 7 8 Cfr. art. 5 della legge n. 222 del 1985. Cfr. art. 15, n. 4, del regolamento di esecuzione della legge n. 222 del 1985, approvato con d.P.R. n. 33 del 1987. 5 apostolica (se competente); che il legale rappresentante dura in carica sino a quando non venga sostituito e che la sua nomina non richiede accettazione in forza del voto di obbedienza; che il legale rappresentante “può compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione. Per il compimento di atti di straordinaria amministrazione è necessaria: a) l'autorizzazione del Superiore competente secondo il Diritto Canonico; b) nonché la licenza della Santa Sede per gli atti il cui valore superi la somma fissata dalla stessa Santa Sede (attualmente un milione di euro; ndr) od aventi per oggetto beni di pregio artistico o storico o donati alla chiesa “ex voto”. La concessione della licenza della Santa Sede costituisce in ogni caso e per tutti gli atti di straordinaria amministrazione certificazione dell'esistenza dell'autorizzazione di cui alla lettera a)”. Nel caso in cui il rappresentante legale compia un atto di straordinaria amministrazione (es. contratto di mutuo passivo; vendita di immobile) senza averne i poteri, l'ente da esso rappresentato potrà contestarne la validità nei suoi confronti, disconoscendo l'operato del rappresentante medesimo. 2.6. Il soggetto che entra in rapporto negoziale con l'Istituto religioso o sua articolazione ha, quindi, la possibilità di controllare quanto risulta nel registro delle persone giuridiche ed è suo interesse farlo, atteso che esiste altra disposizione di derivazione pattizia, l'articolo 18 della legge n. 222 del 1985, secondo la quale sulla validità ed efficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono esercitare alcuna influenza – e quindi non sono opponibili a terzi che non ne fossero a conoscenza – “le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l'omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”. 3. L'esercizio delle attività dell'Istituto religioso nell'ordinamento giuridico-tributario italiano. 3.1.La libertà della Chiesa e dei suoi enti di svolgere attività diverse da quelle che lo Stato considera di religione o di culto è espressamente e reiteratamente dichiarata. Il precitato Accordo del 18 febbraio 1984 riconosce, infatti, alla Chiesa “la piena libertà di svolgere la sua missione” anche nel campo educativo e caritativo 9, garantendole specificamente “il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione” 10; e ancora, che le “attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, 9 10 Cfr. art. 2, n. 1, dell'Accordo. Cfr. art. 9, n. 1, dell'Accordo. 6 nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e nel regime tributario previsto per le medesime”11 Inoltre, la Repubblica italiana, richiamandosi al principio enunciato dall'articolo 20 della Costituzione, ha riaffermato “che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività” 12. Può quindi concludersi che la libertà degli Istituti religiosi, come di qualsiasi altro ente ecclesiastico, di operare in tutti i campi che rientrano nella missione della Chiesa è ampiamente tutelata. Si richiama l'attenzione sulla circostanza che la soggezione alla disciplina comune delle attività svolte dagli enti ecclesiastici in settori diversi da quelli considerati di religione o di culto trova un esplicito limite nel “rispetto della struttura e della finalità” degli enti stessi. La riserva, lungi dal costituire un privilegio, trova giustificazione “alla luce dei principi costituzionali in tema di libertà religiosa”; si vuole impedire l'applicazione nei confronti degli enti ecclesiastici di quelle disposizioni che potrebbero condurre a rinnegare e a limitare il carattere ecclesiastico ad essi riconosciuto dallo Stato. Trattasi, quindi, di una clausola di salvaguardia normativamente predisposta a tutela della “identità” dell'Ente. La normativa comune può riferirsi, ad esempio, all'autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di determinate attività, al trattamento del personale dipendente nelle stesse, occupato, all'adeguamento – secondo disposizioni vigenti – degli impianti negli immobili dove l'attività è esercitata, all'osservanza della normativa tributaria in materia. 3.2.Ma quali sono le attività diverse da quelle di religione o di culto e quali, invece, queste ? In proposito occorre richiamarsi all'articolo 16 della legge n. 222 del 1985 il quale prevede: - alla lettera a) che, ai soli effetti delle leggi civili, si considerano, comunque, come “attività di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana”; - e contestualmente precisa alla lettera b) che, sempre ai soli effetti delle leggi civili, sono comunque qualificate come “attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro” (quindi, anche quando sono strumentali per il conseguimento 11 12 Cfr. art. 7, n. 3, dell'Accordo. Cfr. art. 7, n. 1, dell'Accordo. 7 delle finalità di religione e di culto). Si segnala che non essendo l'elencazione di cui al predetto articolo 16 esaustiva, possono esservi attività non espressamente menzionate che saranno quindi rimesse all'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale. E' da rilevare poi l'espressa menzione, tra le attività di religione o di culto, della educazione cristiana come attività distinta dalla catechesi e la circostanza che la “educazione”, senza alcuna aggettivazione, rientra, invece, tra le attività diverse. 3.3.Disponendo l'Accordo di revisione del Concordato l'assoggettamento delle attività diverse da quelle di religione o di culto alle leggi dello Stato concernenti tali attività, ne consegue chiaramente che le attività di religione o di culto sono escluse dalla detta soggezione e restano quindi sottratte dall'ingerenza dello Stato. Si è sopra detto che lo svolgimento di attività diverse da quelle di religione o di culto è soggetto anche al regime tributario previsto per le medesime. In proposito è da tenere presente: che non ogni attività diversa è rilevante agli effetti fiscali, non lo sono, ad esempio, le attività assistenziali e di istruzione gratuite e che il Concordato dispone l'equiparazione, agli effetti tributari, degli enti ecclesiastici aventi fini di religione o di culto, come pure delle attività dirette a tali scopi, agli enti aventi fine di beneficenza o di istruzione: ciò significa che ogni volta che esiste una norma specifica in detta materia per gli enti con finalità di beneficenza o di istruzione, tale norma si applica automaticamente, in forza dell'equiparazione, agli enti ecclesiastici. 13 Ma per stabilire quale è la normativa tributaria applicabile nel settore dell'imposizione diretta (in estrema sintesi, imposta IRES) all'Istituto religioso o alle sue province e case civilmente riconosciuti nell'esercizio di attività diverse, è necessario conoscere come i detti enti si inquadrino sotto il profilo tributario. 3.4.Non vi è dubbio che l'Istituto religioso, come pure le sue province e case, avendo per sua natura fine di religione o di culto, deve considerarsi fiscalmente un ente non commerciale, non avendo per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali. 14 Ai fini della qualificazione di cui sopra si considerano commerciali le attività indicate nell'articolo citato in nota. 15 13 14 15 Cfr. art. 7, n. 3, dell'Accordo. Cfr. art. 73, comma 1, lettera c, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, di seguito “TUIR”, come novellato dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344. Cfr. art. 13 del TUIR: attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi; attività intermediarie nella circolazione dei beni; attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie delle precedenti; attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi non rientranti tra 8 La legge 16 , precisa che l'oggetto esclusivo o principale dell'ente è determinato “in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autentica o registrata.” Il riferimento “alla legge” è di notevole rilievo, considerato che (mi scuso della ripetizione, ma l'importanza dell'argomento la giustifica): - l'articolo 7, n. 2, dell'Accordo di revisione del Concordato dispone che lo “Stato continuerà a riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto”; - l'articolo 1 della legge 20 maggio 1985, n. 222, riafferma tale principio e il successivo articolo 2 precisa che per alcune categorie di soggetti (tra i quali gli Istituti religiosi) il fine di religione o di culto è addirittura presunto per legge. Anche in base alla legge, pertanto, l'Istituto religioso e le sue articolazioni sono certamente enti non commerciali. Ma vi è di più. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti costituiscono per l'ordinamento tributario italiano “enti non commerciali di diritto”, in quanto, a differenza degli altri enti non commerciali, non perdono la qualifica di ente non commerciale agli effetti tributari, anche nel caso di cui dovessero esercitare prevalentemente attività commerciali per un intero periodo d'imposta (normalmente coincidente per loro con l'anno solare) 17. Agli effetti tributari, pertanto, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono assoggettati alla normativa dettata per gli enti non commerciali, a prescindere dall'attività in concreto svolta. Con riferimento a ciò si tenga presente che la ratio della scelta operata dal legislatore tributario nel tenere ferma la natura non commerciale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti è ravvisata nella circostanza che, con riferimento a questi enti, “si ritengono comunque prevalenti le attività istituzionali di ispirazione eminentemente idealistica” 18. 3.5.Agli enti non commerciali la normativa fiscale in materia di imposta sul reddito delle società (IRES) riconosce una capacità contributiva limitata; infatti il loro reddito complessivo ai fini della predetta imposta è formato soltanto dalle categorie di reddito indicate dalla legge per tali enti 16 17 18 19 19 , tra le quali sono, però, compresi i redditi d'impresa (es. gestione a pagamento di le attività precedentemente indicate. Cfr. art. 74, comma 4, del TUIR. Cfr. combinato disposto delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 dell'articolo 149 del TUIR. Vedasi la relazione di accompagnamento al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, con il quale è stata inserita nel TUIR la predetta disposizione. Cfr. art. 143 TUIR. 9 pensionato, di istituto scolastico, di casa di riposo per persone anziane, di casa di cura). I redditi di cui alle categorie interessate sono fiscalmente rilevanti ovunque prodotti e indipendentemente dalla loro destinazione e, quindi, anche se destinati a fine di culto, di religione, di assistenza. Poiché il reddito complessivo dell'Istituto religioso e sue articolazioni, in quanto enti non commerciali, è costituito esclusivamente dalle predette categorie, consegue che le offerte ricevute non finalizzate dall'offerente all'attività commerciale eventualmente esercitata dall'ente medesimo, sono fiscalmente irrilevanti. Non concorrono, altresì, alla formazione del reddito complessivo 20 i fondi pervenuti a seguito di raccolte pubbliche occasionali e i contributi pubblici per lo svolgimento convenzionato o in regime di accreditamento di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali dell'ente; poiché la norma non distingue tra contributi erogati a fondo perduto e quelli aventi natura di corrispettivo, anche questi ultimi rientrano nell'agevolazione. 3.6.La legge 21 , dopo aver precisato che il reddito d'impresa è quello che deriva dall'esercizio di attività commerciali, stabilisce che l'attività va esercitata per professione abituale (cioè stabile, continua), ancorché non esclusiva. E' da tenere presente che per l'Amministrazione finanziaria la qualificazione di attività commerciale deve effettuarsi con riferimento al contenuto e alla forma delle attività svolte considerate oggettivamente e non in relazione alla natura dell'ente o all'eventuale fine di lucro perseguito dallo stesso, non essendo tale fine necessario per aversi esercizio di attività commerciali; con la conseguenza che ad esempio, le prestazioni di servizi ovviamente dietro corrispettivo, rese mediante un organizzazione (insieme di mezzi e di persone), configurano esercizio di attività commerciale, anche se i proventi siano costituiti da corrispettivi economici di poco superiori ai costi ed anche, come si è già detto, se il reddito che si ritrae da detto esercizio è destinato a fini di culto o di religione o di assistenza, cioè a scopi diversi da quelli di lucro. La collocazione del reddito si ha, infatti, in un momento cronologicamente e giuridicamente successivo, rispetto a quello dell'esercizio dell'attività produttiva del reddito ed è, come tale, del tutto ininfluente per qualificare l'attività svolta alla sua produzione come commerciale o meno. 3.7.Per quanto concerne le scrittura contabili, è da tenere presente che in base alla legge 22 , alle attività commerciali esercitate dagli enti non commerciali (tra i quali l'Istituto religioso, sue 20 21 22 Cfr. art. 143, comma 3, del TUIR. Cfr. art. 55 del TUIR. Cfr. art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 10 province e case) è applicabile la disciplina delle scritture contabili prevista per le imprese commerciali, con l'obbligo della tenuta della contabilità separata per le dette attività; si ha così, “la totale separazione, sotto il profilo dell'obbligo contabile – fiscale, tra ambito commerciale e ambito non commerciale con la conseguente irrilevanza fiscale degli adempimenti contabili in relazione alle attività istituzionali e l'assoggettamento agli obblighi contabili previsti per le imprese in relazione alle attività commerciali.” 4. Brevi conclusioni. 4.1.Da quanto esposto, sia pure sommariamente, risulta evidente che l'Istituto religioso, per operare nell'ordinamento italiano, non ha necessità di configurarsi diversamente – né può pretendersi il contrario – da quelle che sono le sue caratteristiche delineate dal diritto canonico. Appare quindi – oserei dire – sensato avvalersi al massimo delle possibilità offerte dal Concordato, particolarmente considerando che il mantenimento della centralità dell'ente ecclesiastico, a fronte di vantaggi immediati e a volte apparenti, significa conservare il riconoscimento da parte dell'ordinamento civile della specificità dell'ente avente finalità di religione o di culto e della particolare natura delle Opere gestite. Prima di abbandonarsi a scelte che, se pur imposte dalla criticità di situazioni e comprensibili, rischiano di fare scomparire l'Opera, o il suo collegamento con l'Istituto religioso, mi parrebbe necessario insistere nella ricerca di nuove formule – eventualmente con la collaborazione delle altre componenti del popolo di Dio, soprattutto dei laici – che ne evitino la chiusura, consentendo così la continuità dell'Opera. Che se poi la ricerca avesse esito negativo, sommessamente ritengo che i “mezzi opportuni, anche se nuovi” – cui si fa riferimento nel numero 20 del Decreto Conciliare “Perfectae caritatis” – debbano, però, essere compatibili con la normativa canonica e con la natura dell'Istituto religioso, ente ecclesiastico e che la relativa decisione circa la scelta richieda attento previo esame anche delle conseguenze di carattere tributario. 4.2.Con riferimento ai fabbricati – anche se a volte i problemi sono di diversa natura – mi permetto di riportare un passo tratto dal punto “Chiese ed edifici” della Lettera ai Superiori e alle Superiore Generali degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, avente per oggetto: “i beni culturali degli istituti religiosi”, inviata il 10 aprile 1994 dal Presidente della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa. “Per quanto riguarda gli spazi, che si stanno abbandonando a causa della crisi vocazionale, sarà bene che si progetti un programma di utilizzazione che tenga conto non soltanto del fattore economico (vendita al miglior prezzo possibile), ma soprattutto renda ragione del 11 significato storico e spirituale delle singole costruzioni. Sembra pertanto urgente che non si precipitino alcune decisioni circa l'alienazione del patrimonio immobiliare, ma si tenga conto della finalità propria di ciascun edificio nello sforzo di mantenerne integra la finalità originaria, soprattutto per quanto riguarda i centri liturgici. Le vaste costruzioni che si trovano soprattutto nei paesi di antica tradizione cristiano siano sottratte a discutibili speculazioni, ma siano possibilmente rese disponibili per azioni sociali e culturali a favore della popolazione, con il cui aiuto in passato tali opere sono state edificate.” ***** Termino la presente relazione, conscio delle sue numerose lacune – che spero possano almeno in parte essere colmate durante il dibattito – e ringrazio per la cortese attenzione. Roma, 10 novembre 2007 Edoardo Boitani, avvocato 12