Avvenire, 15 febbraio 2007
DIBATTITO - Alcuni studi sulla mente e sul cervello tendono a negare l’esistenza di
una realtà soprannaturale. Una questione che finisce per interpellare anche i teologi
La scienza senz'anima?
di Enzo Bianchi e di Vittorino Andreoli
Bianchi: «Non ha senso distinguerla dal corpo: l’uomo è creatura unitaria»
Il termine «anima» è tra i più comuni nelle lingue e nelle culture del mondo, ma il
suo significato è assai vario, ambiguo, sovente indeterminato. Se Gianfranco Ravasi,
nel suo Breve storia dell'anima, scrive che nella Bibbia ebraica il termine nefesh
assume «un impressionante arcobaleno di significati», a seconda del contesto in cui
appare, ciò vale a maggior ragione per le accezioni connesse al termine «anima»
lungo i venti secoli della tradizione cristiana. Ma ciò che mi preme sottolineare in
questa riflessione è il fatto che, a partire dalla metà del secolo scorso, questa parola
ha avuto uno strano destino. Prima di allora era un termine tra i più attestati
all'interno della tradizione teologica, spirituale e liturgica delle chiese, e in particolare
della chiesa cattolica. Si pensi ad espressioni quali: «salvarsi l'anima», «il prete ha
cura delle anime», «la tal parrocchia conta ... anime», «l'anima va all'inferno, in
purgatorio, in paradiso», «che bell'anima ha quella persona», e potremmo continuare.
Poi è subentrato un atteggiamento che definirei più che critico, reticente, da parti
molti nello spazio cattolico.
Oggi non si parla più con facilità di «anima», poiché si è adombrato e indebolito il
concetto di immortalità a favore di quello, più propriamente neotestamentario, di
resurrezione della carne. Siamo certamente di fronte a un influsso dell'esegesi
scritturistica recente e della teologia che ne consegue. Tali discipline, mettendo
maggiormente in luce la veritas judaica e ridimensionando l'apporto ellenistico
intervenuto con l'inculturazione del cristianesimo nel mondo greco, miravano a
ritrovare la prospettiva biblica, ossia a ricollocare al centro della fede cristiana la
resurrezione di Cristo e della carne, la resurrezione di tutti gli uomini alla fine dei
tempi in vista del giudizio. Un piccolo libro di Oscar Cullmann dal ti tolo Immortalità
dell'anima o resurrezione dei morti? esprimeva bene quel clima di rinnovamento
biblico e teologico. Ma è soprattutto la riforma liturgica postconciliare a evidenziare
il particolare destino del termine «anima».
Certamente oggi è ormai un dato acquisito da tutte le discipline cristiane che il
messaggio biblico e patristico, seppur con diverse modalità espressive, intendeva
definire l'essere umano come una realtà unitaria: le differenti ottiche antropologiche
espresse nella lingua ebraica o nel greco dei Settanta attestano infatti l'unitarietà
radicale dell'uomo, pur mettendo in rilievo i diversi aspetti del suo essere e del suo
agire. L'uomo della Bibbia non ha bensì è un'anima, un corpo, uno spirito, cioè un
essere vivente appartenente a questo mondo, una creatura mortale e fragile, un io in
relazione con gli altri, col mondo, con Dio. È significativa in proposito una
riflessione di Agostino nei Soliloqui: «Desidero avere la conoscenza di Dio e
dell'anima (Deum et animam scire cupio). E nulla di più? No, proprio nulla!» (I, 2, 7).
Conoscenza di Dio e di tutto l'uomo, dunque!
Nel cristianesimo la dottrina dell'anima si è arricchita nel corso dei secoli di molti
elementi derivanti dall'esperienza e dall'incontro con le diverse culture, ciò che rende
necessario uno sforzo di sintesi allo scopo di coglierne il significato essenziale.
L'anima è: - il principio spirituale della persona, alla quale Dio ha conferito la dignità
di figlio; - la dimora del Maestro interiore, dell'efficace Unctio magistra, ossia il
luogo dove lo Spirito santo può agire, insegnare, ispirare; - la vita dell'uomo che può
essere perduta o salvata; - tutta la persona umana, colta attraverso ciò che di più
intimo vi è in essa, attraverso l'immagine e la somiglianza di Dio che in essa è
impressa (cf. Gen 1,26-27).
Allargando un poco l'orizzonte, possiamo cogliere nell'idea di anima il richiamo
all'esperienza dell'uomo e alla voce della sua coscienza, a ciò che l'uomo aspira a
vivere nel suo essere capax boni, nella sua apertura alla verità, alla libertà e alla
bellezza, nel suo desiderio di felicità e di beatitudine, nella sua sete di vita eterna,
nella sua capacità di accogliere la presenza di Dio... E così, di fatto, si apre un
itinerario di esplorazione dell'anima come luogo della vita spirituale.
Andreoli: «Non è possibile "misurarla", è la nostra finestra aperta su Dio»
Vorrei sottolineare un pericolo che può sorgere da una esasperazione delle scoperte
del cervello. Premetto che troppo spesso nella filosofia si cerca di «mantenere tutto»
ossia conservare valore attuale a ogni affermazione dei filosofi antichi: Socrate,
Platone, Aristotele; invece, molti pensieri, teorie, principi oggi appartengono a un
fenomeno puramente storico e vanno sostituiti con quello che è l’apporto della mente,
perché sono termini della mente. Ma c’è un pericolo e il pericolo è che si crei una
mitologia del cervello.
La mitologia del cervello sta nel ritenere che adesso tutto sia riducibile al cervello. E
non è una strada che sia stata percorsa solo dai riduzionisti, che sostengono che tutto
ciò che non è ancora cervello, diventerà poi spiegabile in termini di molecole quando
si perfezioneranno le ipotesi, i metodi e soprattutto gli strumenti di prova scientifica.
È un pericolo, questa mitologia, per le stesse scienze comportamentali, per esempio
per la psichiatria, che rientra in questa categoria perché si occupa del comportamento
sia pure estremo, sia pure con caratteristiche particolari.
Allora mentre amo le ricerche del cervello e sostengo che debbano moltiplicarsi e che
nel tempo contribuiranno a cambiare la nostra vita, però bisogna anche stare attenti
perché ormai all’interno delle neuroscienze c’è un vero delirio sul cervello, per cui il
cervello sa tutto e del cervello sappiamo tutto.
Invece il comportamento – normale o patologico – è comunque la risultante di tre
fattori: uno è certamente il cervello, tanto con la sua determinante genetica che con la
plasticità di cui si è detto; il secondo è la storia personale, le esperienze che ciascuno
di noi ha fatto. E infine c’è l’ambiente. Per cui per capire qualsiasi comportamento
bisogna tenere in considerazione il fattore biologico, il fattore esperienziale, quello
che chiamiamo la personalità (quindi le psicologie) e, terzo, il fattore ambientale.
Questo, dunque, è il campo dell’uomo e per studiarlo è centrale il ruolo della
relazione tra un soggetto e l’altro, e quindi diventa necessario, per comprenderlo, dare
particolare attenzione all’esperienza e alla mente. E di questo si occupa la psichiatria,
che Giorgio Colombo ha definito: scienza infelice.
Insisto, dunque, nel sostenere che sull’anima non posso dir niente o soltanto che non
è un campo riferibile o risolvibile nei termini scientifici. Dallo studio dell’uomo
nascono, infatti, dei problemi che non posso risolvere e che si riferiscono
specificamente all’anima, quelle due caratteristiche cui ho fatto cenno all’inizio:
l’immortalità e l’immaterialità, perché escono dai limiti dell’umano, appunto, lo
trascendono. Anzi, se per capire il comportamento ci sono tre fattori, cioè il cervello,
la personalità e l’ambiente, per l’anima invece esiste un’altra triade: morte, fede e
Dio. Senza affrontare questi aspetti, il problema della fine, il problema della fede, il
problema di Dio, non possiamo accedere a nulla che riguardi l’anima.
Queste caratteristiche proprie dell’anima, distintive rispetto al concetto di mente, si
sono arricchite di significato con l’apporto del linguaggio del Nuovo Testamento che
ha mostrato come l’anima sia trascendente, quindi non immanente, non dentro
l’uomo, non parte di sé. E non vi è dubbio che tutto ciò che trascende l’uomo, non
può essere oggetto di scienza, è anima. Proprio ciò che vorremmo si chiamasse anima
in distinzione dalla mente, qualche cosa che, in definitiva, riguarda Dio. Ma è chiaro
che, cadendo Dio, cade anche l’anima: se uno non crede a Dio crolla la fede, e con
questa l’idea stessa di anima. Ma c’è di più: se l’anima è qualche cosa che si unisce
con Dio, certamente per farlo deve avere un luogo che non sia quello della Terra, ed
ecco che c’è un destino escatologico che viene mediato attraverso la fede. Come
scienziato mi trovo di fronte a un problema della fede, al problema del credere e a
quali sono le caratteristiche perché si possa appunto credere. È un problema che deve
essere rivolto agli studi dell’anima.
Un enigma per teologi e filosofi
L'anima sfugge ai parametri di esattezza della matematica, ma ha anch'essa una
«chimica» sia pure se nella sfera del trascendente. È questo lo snodo di un volumetto,
«L'anima tra scienza e fede» (San Paolo), nel quale sono raccolti interventi di studiosi
di varie discipline che s'interrogano sulla questione. Dal libro, che presenta scritti di
Anzani, Boncinelli, Lambertenghi, Polli, Ravasi, Reale e dell'arcivescovo di Milano
Tettamanzi, pubblichiamo alcuni brani dei testi di Enzo Bianchi e Vittorino Andreoli.