Patologie oncologiche e preservazione della fertilità femminile
Autore: Dr Alessio Paffoni, Specialista in Genetica Medica, Ospedale Maggiore Policlinico Mangiagalli
Regina Elena, U.O. Sterilità di coppia, Milano
Obiettivi formativi:
Al termine di questa monografia di aggiornamento, il Medico dovrebbe essere in grado di:

conoscere i trattamenti che possono alterare la fertilità femminile;

comprendere i meccanismi di salvaguardia della fertilità;

illustrare le corrette metodiche da utilizzare.
Introduzione
L’utilizzo di chemioterapie ad alte dosi e di radioterapie è notevolmente aumentato negli ultimi anni e la
disponibilità di protocolli sempre più efficaci e di tecniche diagnostiche avanzate ha radicalmente
aumentato la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti oncologici.
Nel tentativo di migliorare la qualità di vita di questi pazienti, va considerato uno degli effetti collaterali
negativi dei regimi terapeutici: la tossicità gonadica, che può portare a sterilità irreversibile attraverso
blocco della spermatogenesi nell’uomo o menopausa precoce nella donna. Il problema è particolarmente
rilevante nei pazienti in giovane età, che sopportano meglio le terapie antineoplastiche e sono più
danneggiati dall’eventuale sterilità. Da oltre trenta anni, la crioconservazione del liquido seminale si è
mostrata utile ed efficace come ‘riserva del potenziale di fertilità’ per gli uomini esposti al rischio di
sterilizzazione: la semplicità di raccolta del liquido seminale, la buona sopravvivenza degli spermatozoi alla
conservazione in azoto liquido e la relativa semplicità delle metodiche di crioconservazione hanno reso tale
pratica molto diffusa, portando in numerosi casi a gravidanze con cicli di Procreazione Medicalmente
Assistita (PMA). Tutt’oggi rimane l’unico metodo di provata efficacia per preservare la fertilità in pazienti
maschi affetti da cancro1,2.
Per i gameti femminili, al contrario, la situazione è assai più complessa, tanto che ancora non esiste un
metodo d’elezione per la preservazione della fertilità che si possa definire pratico e sicuro e che garantisca
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adeguate probabilità di ottenere una gravidanza per via naturale o ricorrendo a metodiche di PMA. Dello
stesso tipo di intervento potrebbero beneficiare non solo le pazienti oncologiche, ma anche quelle che, per
patologie o condizioni diverse, sono a rischio di menopausa precoce.
Molti sono stati gli approcci sperimentali, ma nessuno può dirsi risolutivo: questioni cliniche, biologiche,
tecniche ed etiche rendono spesso impraticabili le soluzioni attualmente possibili.
Uno studio prospettico3, già nel 1997, mostrava come il 48% delle pazienti oncologiche avesse avuto una
menopausa indotta dagli agenti alchilanti. Lo stesso esito era stato osservato in seguito a trapianto di
midollo nel 92% delle 63 giovani pazienti oncologiche considerate. Gli effetti sterilizzanti erano evidenti a
distanza di tempo, come menopausa precoce dovuta a deplezione dei follicoli primordiali presenti
nell’ovaio al momento della terapia.
Il controllo endocrinologico della fertilità nella donna
La funzione ovarica è regolata da numerosi ormoni prodotti dall’ipotalamo, dall’ipofisi anteriore e dagli
organi sessuali stessi. Qualsiasi danno a queste strutture può comportare sterilità, ma le gonadi sono il sito
più suscettibile agli effetti tossici delle chemioradioterapie.
Il GnRH è l’ormone che rilascia le gonadotropine: è un decapeptide prodotto dall’ipotalamo che trova i suoi
recettori sull’ipofisi, a cui è trasportato dal sistema portale ipotalamo-ipofisario. La sua breve emivita (2-4
minuti) e la secrezione moderata in cicli di pochi minuti ogni 1-3 ore garantiscono bassi livelli nella
circolazione sistemica, tali da non avere attività biologica. L’effetto sull’ipofisi è di promuovere la secrezione
delle gonadotropine FSH (ormone follicolo-stimolante) e LH (ormone luteinizzante).
Il normale periodo riproduttivo di una donna è caratterizzato da cambiamenti mensili ciclici nel tasso di
secrezione degli ormoni sessuali e, quindi, nella situazione ovarica. Queste alterazioni ritmiche sono
mediate da FSH e LH. Nella prima fase del ciclo mestruale (fase follicolare), crescono i livelli dei due ormoni,
prima dell’FSH e dopo pochi giorni dell’LH. L’FSH causa la crescita e la maturazione del follicolo ovarico, che
a sua volta produce quantità crescenti di estrogeni. Gli estrogeni influenzano positivamente il processo,
incrementando il numero di recettori per FSH e LH sulle cellule della teca e della granulosa del follicolo in
maturazione, che diventa più sensibile agli effetti delle gonadotropine. D’altra parte, gli estrogeni hanno
effetto di feedback negativo sulla ghiandola ipofisaria per la produzione di gonadotropine. La conseguente
lieve caduta dei livelli di FSH e LH nella prima fase del ciclo impedisce la maturazione di più follicoli e
provoca l’atresia della coorte di follicoli più avanzati nello sviluppo. Per un meccanismo solo in parte
conosciuto, quando la concentrazione di estrogeni raggiunge un livello critico, si ha un feedback positivo
sull’ipofisi che provoca un aumento dei livelli di LH di dieci volte e di FSH di due o tre volte (“picco”). In
questa condizione il follicolo completa rapidamente il suo sviluppo e avviene la deiscenza del follicolo
stesso (ovulazione). Dopo il rilascio dell’ovocita, inizia la fase luteale del ciclo mestruale: le cellule della teca
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e della granulosa del follicolo residuo formano il corpo luteo e iniziano a secernere grandi quantità di
progesterone e, anche se in minore quantità, di inibina ed estrogeni. Questi tre ormoni hanno un potente
effetto negativo sulla produzione di gonadotropine e un modesto effetto inibitorio sull’ipotalamo: i livelli
ematici di FSH e LH tornano ai livelli basali. Senza la continua presenza di gonadotropine e la produzione
della gonadotropina corionica (HCG) in seguito ad eventuale gravidanza, il corpo luteo regredisce. La
conseguente riduzione dei livelli di estrogeni e progesterone determina l’incremento del rilascio di FSH e LH
per l’inizio di un nuovo ciclo (vedi Figura 1).
In menopausa, il numero di follicoli residui nell’ovaio scende sotto un livello critico. I follicoli non secernono
sufficienti estrogeni per le modificazioni necessarie al ciclo mestruale e l’ovulazione non può avvenire. La
mancanza di feedback negativo stabilizza i livelli di FSH e LH ad alte concentrazioni, simili a quelle del picco
ovulatorio. Un danno al tessuto ovarico che comprometta lo sviluppo follicolare, si traduce in menopausa
precoce.
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Ovogenesi
L’ovaio è costituito esternamente da uno strato di tessuto connettivo denso, la tunica albuginea, che
circonda la spessa zona corticale e dal tessuto connettivo lasso che forma la zona midollare interna. Nella
corteccia ovarica si trovano i follicoli contenenti gli ovociti. Durante lo sviluppo embrionale, la zona
corticale e midollare non sono divise nettamente e le cellule germinali dell’ovaio, gli oogoni, vanno incontro
ad alcune divisioni meiotiche, generando stadi di sviluppo differenti. A metà gestazione, il numero di
oogoni è di circa 7X106, ma si riduce rapidamente nel terzo trimestre di gravidanza, quando il tasso di
apoptosi supera quello di rinnovo cellulare. Le cellule morte vengono rimosse per fagocitosi.
Dopo un certo numero di mitosi, le cellule germinali entrano in meiosi. Queste prime divisioni sono molto
precoci rispetto a quelle che avvengono nel testicolo per gli spermatozoi: in questa sede, infatti, le prime
divisioni riduzionali non avvengono fino alla pubertà e gli spermatogoni sono bloccati in fase pre-meiotica.
Nell’ovaio, dopo alcune settimane dalle prime fasi della meiosi, le cellule germinali entrano in diplotene e
avviene lo scambio di materiale cromosomico materno e paterno. Nessun’altra maturazione nucleare
avverrà fino a che l’ovocita non sarà arrivato alle massime dimensioni in un follicolo stimolato con FSH e LH,
cioè fino alla pubertà. Alcune cellule attenderanno cinquanta anni arrestate in diplotene, portando del DNA
sintetizzato prima della nascita!
Anche le cellule somatiche proliferano rapidamente durante lo sviluppo fetale ed alcune, come le cellule
della granulosa, si associano agli ovociti in diplotene a formare i follicoli primordiali. Queste strutture sono
visibili a partire dalla ventiduesima settimana di gestazione: alla nascita sono circa 1x106. Il terzo tipo di
cellule follicolari, quelle della teca, non è morfologicamente distinguibile fino all’inizio della crescita
follicolare.
Durante la maturazione follicolare, le cellule della granulosa si moltiplicano e l’ovocita aumenta di
dimensioni. Una volta iniziato, questo processo continua finché sia raggiunta la maturità ovulatoria o il
follicolo muoia per atresia. I primi follicoli cominciano a crescere poco dopo la loro formazione ma sono
destinati all’atresia a causa dell’inadeguato assetto di gonadotropine nell’età pre-puberale. La vita media
dei follicoli primordiali è, nella donna, di circa sette anni; per questo motivo il numero di follicoli primordiali
presenti alla pubertà è circa un quarto di quelli formati alla nascita.
Il primo stadio maturativo del follicolo primordiale è il follicolo primario: l’ovocita viene contornato da uno
strato glicoproteico noto come zona pellucida, compreso tra l’ooplasma e le cellule della granulosa. Mentre
i follicoli crescono, si spostano in profondità nella zona corticale. Contemporaneamente alla proliferazione
delle cellule della granulosa, che accolgono l’ovocita in espansione, si crea una guaina di cellule stromali
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intorno al follicolo. Successivamente questa evolverà in uno strato interno altamente vascolarizzato di
cellule secretive (teca interna) e in uno strato esterno di tessuto connettivo (teca esterna).
Il follicolo continua ad allargarsi e alcuni spazi irregolari, contenenti liquido follicolare, si vengono a creare
tra le cellule della granulosa. Questi spazi confluiscono poi a formare una cavità eccentrica nel follicolo,
l’antro. In questa fase il follicolo si dice secondario o antrale e continua a crescere fino a un diametro di
circa 10 mm; l’ovocita ha intanto raggiunto le sue dimensioni massime.
Nella fase finale, il follicolo maturo, o “follicolo di Graaf”, occupa l’intero spessore della zona corticale e
sporge dalla superficie dell’ovaio. La teca interna si espande e secerne grandi quantità di estrogeni finché il
follicolo si rompe rilasciando l’ovocita: è avvenuta l’ovulazione. Poco prima dell’ovulazione, l’ovocita ha
portato a termine la prima divisione meiotica. La cromatina è equamente divisa tra le due cellule figlie, ma
una di esse, l’ovocita secondario, riceve pressoché tutto il citoplasma. L’altra diventa il primo globo polare
che rimane collocato nello spazio perivitellino, tra l’ooplasma e la zona pellucida.
Subito dopo l’espulsione del primo globo polare, l’ovocita entra nella seconda divisione meiotica
arrestandosi alla metafase fino alla fecondazione. La cromatina viene ancora distribuita equamente ma il
citoplasma è trattenuto da una sola cellula figlia, la cellula uovo. Si crea così il secondo globo polare,
destinato, come il primo, a essere perso nelle prime divisioni post-zigotiche. L’uovo rilasciato dal follicolo è
circondato dalla corona radiata, formata da cellule della granulosa aderenti.
In seguito all’ovulazione, la parete del follicolo collassa mentre le cellule della granulosa rimanenti e quelle
della teca interna accumulano lipidi e, insieme, costituiscono il corpo luteo che secerne progesterone,
estrogeni e inibina. Se l’ovocita non viene fecondato, il corpo luteo degenera entro i 14 giorni successivi
all’ovulazione. Nel caso in cui avvenga la fecondazione e ci sia l’impianto dell’embrione, il corpo luteo si
espande e si mantiene durante la gravidanza, pur essendo necessario solo fino a quando inizia l’attività
steroidogenica della placenta.
Solitamente solo una cellula uovo raggiunge l’ovulazione in un ciclo mestruale, sebbene molte di più ne
vengano reclutate per lo sviluppo iniziale. Queste ultime vanno incontro ad atresia, provocando una
continua deplezione del numero di follicoli.
Il numero di follicoli non destinati a maturazione finale è dunque soggetto a calo fisiologico dall’epoca
prenatale fino alla menopausa. Questo tasso di declino è stato recentemente descritto da un modello
ricavato da studi istologici4. In base a questo modello il numero di follicoli cala progressivamente con
l’aumentare dell’età e può essere previsto proprio in base all’età della paziente.
La menopausa è raggiunta quando il numero di follicoli residui scende sotto una soglia stimata in mille unità
che corrisponde a circa 50 anni di età. È stato altresì stimato che l’età è il fattore da cui dipende quasi per
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intero la variabilità della riserva follicolare. Del numero massimo di follicoli, che corrisponde all’età
prenatale, rimane circa il 12% all’età di 30 anni ed il 3% all’età di 40 anni. Anche il numero di follicoli
reclutati per mese è dipendente dall’età e cresce progressivamente fino all’età di 14 anni per poi diminuire
fino ad azzerarsi alla menopausa.
Studi precedenti avevano previsto che una deplezione del numero di follicoli dovuta ad agenti esterni
potesse modificare la riserva ovarica in modo descrivibile da un modello matematico. Se i follicoli vengono
persi nel corso di chemio radioterapie e il successivo tasso di deplezione rimane invariato rispetto alla
popolazione normale, la menopausa viene raggiunta precocemente. Ad esempio, una riduzione del 50% dei
follicoli a trent’anni esita in menopausa a 44 anni, con un ritardo di 0,6 anni nella comparsa della
menopausa per ogni anno di età successivo al trentesimo e fino all’età di 37,5 anni; una riduzione del 90% a
14 anni, esita in menopausa a 27 anni5! (vedi Figura 2).
ANNI PERSI DI FERTILITA'
30
25
50% FOLLICOLI PERSI
90% FOLLICOLI PERSI
15
10
5
50
48
46
44
42
40
38
36
34
32
30
28
26
24
22
20
18
16
14
12
8
10
6
4
2
0
0
ANNI PERSI
20
ETA' ALL'INTERVENTO
Figura 2. Numero previsto di anni fertili persi in seguito a riduzione del numero di
follicoli del 50% o 90% alle età indicate. Da Faddy et al., 1992
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Effetti di radioterapie e chemioterapie sulla funzione gonadica
Radioterapia
In generale, la definizione di danno gonadale nella donna si basa su valutazioni indirette, come amenorrea,
livelli elevati di gonadotropine e bassi di estrogeni. L'esame diretto del danno sugli ovociti è effettuabile
solo con un esame istologico. Tuttavia, l'amenorrea è un segno attendibile di danno gonadico, così come la
ripresa del ciclo mestruale lo è del ripristino della fertilità anche se non della qualità ovocitaria riferibile alla
reale potenzialità riproduttiva. Le ovaie sono sottoposte a dosi significative di irradiazione quando la
radioterapia è utilizzata nel trattamento di patologie addominali e pelviche, come cancro della cervice e del
retto e nella radioterapia per i tumori del sistema nervoso centrale. La stessa situazione si verifica quando
vengono irradiati i linfonodi pelvici per tumori ematologici, come la malattia di Hodgkin. Già nel 1939 viene
descritta un'amenorrea di 6-18 mesi come conseguenza di una irradiazione dell'ovaio di 5 Gy6. La stessa
dose, ora è noto, può causare amenorrea permanente, in tutte le donne di oltre 40 anni di età.
Le cellule germinali femminili sono diversamente sensibili alle irradiazioni nelle diverse fasi del loro
sviluppo: gli oogoni sono più facilmente danneggiabili nelle prime divisioni mitotiche, cioè in età prenatale,
mentre, progredendo nello sviluppo attraverso la meiosi, acquisiscono più resistenza. Per questo motivo i
follicoli primordiali sono più sensibili agli insulti delle radioterapie rispetto a quelli di Graaf7.
Immediatamente dopo l'irraggiamento, gli ovociti diventano picnotici, poi la cromatina si condensa e la
membrana nucleare si disorganizza. Dopo la rimozione degli ovociti non più vitali, si ha la sostituzione con
tessuto fibroso: il principale effetto dell'irradiazione è quindi una profonda riduzione del numero di ovociti.
Le prime osservazioni di Jacox sono state confermate alcuni anni più tardi da altri studiosi; negli anni
Settanta, è stato possibile relazionare l'età della donna al momento della terapia con la probabilità di
ripristinare la fertilità in tempi successivi. Pazienti di età superiore ai 40 anni sono sterilizzate
irreversibilmente con una dose di 5 - 6 Gy, mentre le giovani donne possono talvolta tollerare dosi
massimali di 20 - 30 Gy in somministrazioni frazionate. Dosi singole di 2,5 - 5 Gy inducono spesso alterazioni
del ciclo mestruale in tutte le pazienti, indipendentemente dall'età: meno del 60% delle giovani tra i 15 anni
e i 40 anni e il 100% delle ultraquarantenni risulta sterilizzata8. Dagli studi sulla funzionalità ovarica di
pazienti trattate in età adolescenziale con radioterapia addominale (dose totale 30 Gy) e considerato il calo
esponenziale di ovociti dalla nascita (1 - 2 x 106) alla menopausa (1 x 103), è stato possibile proporre una
LD50 per l'ovocita umano (dose letale per il 50% dei follicoli) compresa tra i 2 ed i 4 Gy9,10.
La letteratura non fornisce dati certi per stabilire se l'ovaio pre-pubere sia meno suscettibile di quello
adulto agli effetti tossici delle radioterapie. Quella che sembra essere una maggiore resistenza dovuta alla
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pubertà, potrebbe semplicemente riflettere il maggior numero di follicoli presenti in giovane età. Uno dei
primi lavori al riguardo riporta il manifestarsi di danno ovarico come amenorrea ed elevati tassi di
gonadotropine 1 - 26 anni dopo l'irradiazione con una dose di 2 Gy per tumori addominali di ragazze prepuberi11. Con un’irradiazione fino a 30 Gy, diciotto ragazze su diciannove hanno sviluppato disfunzione
ovarica primaria e, di queste, dodici hanno richiesto terapia ormonale per completare lo sviluppo puberale.
La menopausa precoce si è manifestata in tutti i casi. La stima della LD50 è stata di 4 Gy, simile a quella per
le giovani adulte. L'instaurarsi di una gravidanza in questo tipo di pazienti è stato sporadicamente
documentato e raramente si è ottenuta la nascita di un bambino vivo12,13.
La radioterapia può anche compromettere la funzionalità uterina, causando un aumento dell’incidenza di
parti pre-termine e aborti spontanei. Questi effetti negativi sono dovuti ad alterazioni morfo-funzionali
dell’utero e della vascolarizzazione.
Chemioterapia
I primi riscontri di danno ovarico dovuto a chemioterapie risalgono alla fine degli anni Cinquanta, quando
tre gruppi indipendenti notano la comparsa di menopausa precoce in donne trattate con busulfan per
leucemia mieloide cronica14,15,16. Nel decennio successivo, viene relazionato l'uso di basse dose giornaliere
di ciclofosfamide con l'insorgere di amenorrea spesso irreversibile17,18,19. Fin dalle prime osservazioni è stato
evidente come l'amenorrea intervenisse, come effetto collaterale, più frequentemente nelle donne più
anziane e fosse in queste spesso permanente. Una dose compresa tra i 40 e i 120 mg die, assunta per 18 24 mesi, è stata riportata come causa di amenorrea, elevati livelli di FSH e LH, bassi livelli di estrogeni e
sintomi menopausali nell'80% delle pazienti.
Analogamente all’irradiazione, la lesione istologica ovarica si manifesta come distruzione del follicolo e sua
sostituzione con tessuto fibroso.
Gli agenti chemioterapici si possono raggruppare in cinque classi, in base al meccanismo d’azione: agenti
alchilanti, induttori di aneuploidie, inibitori della topoisomerasi II, antimetaboliti e radiomimetici.
Frequentemente vengono utilizzati in combinazione, essendo i loro effetti antitumorali generalmente
additivi, ma in molte occasioni anche i loro effetti tossici si sommano. Numerosi tipi di chemioterapici sono
stati identificati come gonadotossici: gli agenti alchilanti sono la categoria più frequentemente associata
alla disfunzione ovarica. In aggiunta al busulfan e alla ciclofosfamide, il melfalan (da solo o in combinazione
con 5-fluorouracile), utilizzato nella terapia adiuvante del cancro alla mammella, causa amenorrea nel 22%
e nel 73% nelle pazienti di età inferiore o superiore ai quarant'anni, rispettivamente20. Secondo uno studio
successivo, la terapia per la stessa patologia, basata sull’uso di ciclofosfamide, metotrexato e 5fluorouracile (CMF), comporta un’amenorrea nel 68% di tutte le pazienti21. Studi più recenti hanno
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confermato questi dati, riportando tassi di amenorrea variabili in base alle fasce di età considerate e
all’associazione di farmaci utilizzati.
Tra i farmaci attivi sulla topoisomerasi, l'effetto tossico dell'etoposide è stato documentato negli anni
Ottanta, come potenziale causa di amenorrea nella dose media di 5 g in circa il 30% delle pazienti22.
Il principale fattore di rischio per l'insorgere di disfunzione ovarica è l'età della donna al momento della
terapia antineoplastica. In tutte le pazienti ultraquarantenni, una dose cumulativa di 5,2 g di ciclofosfamide
comporta amenorrea permanente. Nelle pazienti più giovani, invece, lo stesso effetto è ottenuto a dosi
quasi doppie, con possibilità di recuperare successivamente il ciclo mestruale23.
È di notevole interesse che le pazienti giovani che inizialmente recuperano il ciclo mestruale, come quelle
che ottengono delle gravidanze, raggiungano la menopausa prematuramente rispetto alla popolazione
normale24,25. Quest’osservazione è in accordo con il modello matematico proposto da Faddy nel 199226.
Quando la funzione ovarica è compromessa dalle chemioterapie, le pazienti sono affette da amenorrea,
sintomi climaterici e livelli ormonali menopausali. Gli studi istologici rivelano che gli effetti finali dei farmaci
possono essere l’atrofia ovarica, la deplezione del pool di follicoli primordiali e la fibrosi stromale. Talvolta
gli effetti negativi possono essere parziali e limitati nel tempo, con ripresa del ciclo mestruale posttrattamento.
L’effetto degli agenti chemioterapici è differente su follicoli a diversi stadio di sviluppo. Poiché il target dei
farmaci è le cellule in divisione attiva, i follicoli maturi durante il trattamento sono i primi a essere eliminati
come conseguenza dell’apoptosi causata nelle cellule della granulosa. Questo spiega l’effetto immediato
dell’amenorrea ma non spiega l’effetto a lungo termine sulla deplezione della riserva ovarica, a carico dei
follicoli primordiali quiescenti. Il meccanismo attraverso cui la chemioterapia danneggia la riserva di follicoli
primordiali non è del tutto noto, ma sono stati proposti alcuni modelli esplicativi:
1) “Burn out” follicolare: in base a questa ipotesi la chemioterapia agisce sui follicoli in crescita
riducendo il numero di cellule della granulosa vitali. I fattori paracrini prodotti dalle cellule della
granulosa che inibiscono il reclutamento follicolare (come l’ormone anti-Mülleriano) scendono
sotto un livello soglia tale per cui si perde l’inibizione del reclutamento27. Follicoli primordiali che
dovrebbero essere in stato di quiescenza si trovano invece a crescere attivamente, esponendosi agli
effetti tossici dei chemioterapici e riducendo il pool iniziale.
2) Apoptosi follicolare: esistono evidenze sullo stato di apoptosi indotto dai chemioterapici nei
follicoli primordiali28. I dati in vitro suggeriscono che i chemioterapici possano indurre apoptosi
nelle cellule della granulosa causando una distruzione dell’architettura e della funzionalità del
follicolo.
3) Fibrosi corticale: i chemioterapici sono in grado di produrre fibrosi nella corticale ovarica e
ialinizzazione dei vasi corticali. Al contempo, i processi di neovascolarizzazione possono essere
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alterati. L’instaurarsi di fenomeni ischemici compromette la crescita follicollare e inibisce la
necessaria formazione di vasi necessari a sostenere lo sviluppo dei follicoli.
La conoscenza degli effetti tossici delle chemioterapie sulle gonadi ha favorito lo sviluppo di approcci
studiati per preservare la funzione ovarica. Sono nati così protocolli di chemioterapie combinate che,
mantenendo efficacia contro la malattia, hanno minore tossicità sulle gonadi: ABVD (adriamicina,
bleomicina, vinblastina, decarbazina) piuttosto che MVPP o MOPP (mostarda azotata, vinblastina o
vincristina, procarbazina e prednisolone) per il linfoma di Hodgkin ne è un esempio29.
Un'ampia popolazione di giovani pazienti sottoposte a chemioterapia convenzionale è stata studiata da
Meirow nel 199930: una disfunzione ovarica è stata riscontrata nel 34% delle 168 pazienti. L'incidenza di
perdita della funzione ovarica è risultata significativamente maggiore nelle donne meno giovani. I farmaci
chemioterapici utilizzati hanno dato diverso contributo al danno gonadico: gli alchilanti e i derivati del
cisplatino si sono mostrati i più rischiosi (vedi Figura 3).
Le chemioterapie combinate per il trattamento del linfoma di Hodgkin inducono infertilità nel 38-57% delle
donne quando la terapia comprenda protocolli terapeutici come MVPP, COPP (ciclofosfamide, vincristina,
procarbazina, prednisone) e ChlVPP (clorambucil, vinblastina, procarbazina e prednisone)31,32. Sotto i 30
CHEMIOTERAPICI E RISCHIO DI DANNO OVARICO
4
3,5
3
ODDS RATIO
2,5
2
1,5
1
0,5
0
agenti alchilanti
cisplatino
alcaloidi piante
anti metaboliti
antibiotici
Figura 3. Su 168 pazienti trattate con chemioterapia in combinazione, il tasso di danno ovarico
è stato del 34% e rappresenta un odds ratio di 1. E' stato analizzato il contributo di ogni singola
classe di chemioterapici in termini di odds ratio tra gli esposti rispetto ai non esposti 30.
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anni, tuttavia, il rischio diminuisce fino a meno del 30% e spesso il danno è reversibile, tanto che sono
possibili gravidanze spontanee dopo la ripresa del ciclo mestruale33,34,35. Trattamenti chemioterapici con
ABVD (doxorubicina, bleomicina, vinblastina, dacarbazina) incidono in modo minore o spesso nullo sulla
funzionalità ovarica36,37.
Pazienti affette da tumore mammario sottoposte a chemioterapia combinata con ciclofosfamide,
metotrexato e 5-fluorouracile oppure ciclofosfamide, doxorubicina e 5-fluorouracile sono più
frequentemente esposte al rischio di amenorrea. Per questi trattamenti il tasso di recupero del ciclo
mestruale è circa del 50%, seppur con tempi più lunghi per il secondo. Viceversa, il trattamento con
doxorubicina e ciclofosmamide risulta in elevati tassi di recupero della funzione ovarica al termine del
trattamento38.
Nel 1971, Miller e coll.39 hanno riportato i risultati di un'indagine autoptica eseguita su una adolescente di
13 anni, deceduta per complicazioni infettive dopo una terapia cronica (29 mesi) con 50 - 100 mg die di
ciclofosfamide per artrite reumatoide. Il tessuto ovarico era completamente privo di oogoni e follicoli.
Benché fossero ben conosciuti gli effetti tossici della ciclofosfamide giornaliera sull'ovaio adulto, c'erano
state successive prove che l'ovaio pre-pubere fosse relativamente resistente al danno indotto dal
chemioterapico: diversi lavori riportavano, in seguito a terapia di pazienti pre-puberi con ciclofosfamide
giornaliera, la normale comparsa del menarca nelle adolescenti, regolare ciclo mestruale nelle ragazze
puberi e talvolta gravidanze a termine40,41,42.
Osservazioni simili sul trattamento di giovani affette da leucemia linfoblastica acuta (LLA) proponevano che,
intervenendo in età pre-pubere, non si sarebbero riscontrati problemi alla comparsa del menarca, mentre
le pazienti trattate dopo la pubertà fossero a più elevato rischio di amenorrea e squilibrio ormonale43.
Anche la chemioterapia per linfoma di Hodgkin si è dimostrata piuttosto sicura nelle adolescenti,
comportando disfunzione ovarica solo in quelle che ricevano anche irradiazione pelvica44.
Quigley e coll.45 nel 1989 hanno pubblicato dei dati contrari alle prime considerazioni sull'effetto della
chemioterapia nella funzione ovarica: 20 ragazze affette da LLA, trattate con chemioterapia e irradiazione
craniale, sono state studiate dopo una media di 2 anni dal termine della terapia, e successivamente dopo
altri 2,5 anni. Al primo follow-up, 15 delle 19, che erano pre-puberi al trattamento, erano puberi e 13 di
loro avevano avuto il menarca. Tuttavia, molte avevano elevati livelli di FSH ed LH, con estrogeni nella
norma. Al secondo follow-up, i livelli di gonadotropine erano ancora anomali, suggerendo un danno alle
cellule germinali della maggior parte delle pazienti. Benché questo non avesse inficiato il normale sviluppo
puberale, era indice di una sindrome da disfunzione ovarica.
Dati simili sono stati pubblicati da Byrne e coll.46 nel 1987 riguardo il trattamento del linfoma di Hodgkin in
giovani dai 13 ai 19 anni: gli agenti alchilanti comportano un rischio aumentato di 9,1 volte di sviluppare
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menopausa tra i 21 e i 25 anni, rispetto al solo trattamento chirurgico. Il rischio aumenta a 27,4 volte se alla
chemioterapia viene associata l'irradiazione pelvica.
Alcuni gruppi hanno sperimentato la soppressione farmacologica della funzione ovarica durante il
trattamento, a scopo protettivo. Dopo una prima pubblicazione che ha mostrato l'efficacia della pillola
contraccettiva assunta dal momento della diagnosi di malattia di Hodgkin47, non si è potuto confermare
l'effetto protettivo con altri studi. La somministrazione di un agonista del GnRH (GnRHa) durante la
chemioterapia non si è mostrata utile nel prevenire l'amenorrea48. Risultati opposti, anche se non
ulteriormente confermati da altri Autori, sono stati ottenuti da Blumenfeld49. Benché alcuni studi sul
modello animale abbiano evidenziato un effetto protettivo del GnRHa sui follicoli primordiali, la funzione
gonadoprotettiva nell’uomo è ancora oggetto di dibattito.
Esistono alcuni meccanismi che potrebbero spiegare questo effetto, almeno in via teorica, tra i quali:
1) riduzione della perfusione utero-ovarica come effetto dello stato di ipoestrogenismo indotto dalla
desensitizzazione ipofisaria a carico del GnRHa;
2) riduzione del numero di follicoli reclutati a causa della soppressione della produzione di
gonadotropine.
La prossima pubblicazione di studi clinici randomizzati controllati potrà probabilmente risolvere alcuni dei
dubbi riguardanti l’efficacia dei trattamenti con GnRHa nella prevenzione del danno gonadico durante
chemioterapia.
Trapianto di midollo osseo
Esistono notevoli differenze nella gravità del danno ovarico in pazienti sottoposte a trapianto allogenico per
anemia aplastica grave (Severe Aplastic Anemia, SAA), rispetto a quelle trattate per tumori ematologici. Il
regime di condizionamento per SAA comprende ciclofosfamide, eventualmente in combinazione con
irradiazione dei linfonodi o addominale. Gli effetti endocrinologici del trapianto sono stati riportati in
numerosi studi nel corso degli ultimi venti anni. Tra le pazienti sottoposte a trattamento con ciclofosamide
da sola, quelle di età inferiore ai 26 anni sviluppano amenorrea ma recuperano il ciclo mestruale dopo
alcuni mesi, in media sei; al contrario, solo un terzo delle pazienti oltre i 26 anni recupera il ciclo mestruale
e livelli ormonali normali. Il fenomeno della menopausa precoce è osservabile pressoché in tutte le pazienti
ritornate "fertili"50,51,52.
In un gruppo di 63 giovani pazienti trattate con chemioterapia o radioterapia ablativa prima del trapianto di
midollo, si è riscontrata, in un follow up di cinque anni, disfunzione ovarica persistente nel 92% dei casi
senza correlazione con l'età53.
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I regimi di condizionamento che prevedono irradiazione di tutto il corpo (Total Body Irradiation, TBI),
causano grave danno ovarico e raramente le pazienti recuperano la loro fertilità. Subito dopo il trapianto, le
pazienti diventano amenorroiche con elevati livelli di gonadotropine e sintomi menopausali. Solo nel 6% dei
casi circa (le più giovani), ricompare il ciclo mestruale dopo alcuni anni (3 - 7) dal trapianto54.
Nei numerosi studi di follow-up dopo trapianto di midollo, appare che il principale fattore che determina lo
sviluppo di disfunzione ovarica è il grado di tossicità diretta sopportata dalle gonadi. Il contributo della TBI
sull'asse ipotalamo-ipofisario non è chiarito definitivamente. Alcuni studi mostrano un calo nella
produzione degli ormoni ipofisari (TSH) in seguito a trapianto di midollo osseo, anche con somministrazione
esogena di ormone per il rilascio del TSH55, suggerendo un danno transitorio, e a volte permanente, alla
ghiandola pituitaria. Il coinvolgimento del GnRH è più frequente nei casi in cui sia necessaria una
irradiazione craniale.
Un comune protocollo di condizionamento che non prevede TBI, è il regime busulfan-ciclofosfamide (BuCy). In uno studio su 73 pazienti sottoposte a questo trattamento, solo una ha recuperato il ciclo
mestruale56.
Secondo quanto pubblicato da Sanders e coll.57 nel 1989, il trapianto di midollo in giovani affette da SAA,
effettuato in età pre-pubere, non comporta problemi nel successivo sviluppo e il 94% di queste pazienti
raggiunge il menarca a un'età media di 15 anni, con regolari livelli ormonali. Sulla comparsa di menopausa
precoce, i follow-up disponibili non sono sufficientemente lunghi e non è ancora possibile fornire dati certi.
Il trattamento con TBI prima del trapianto induce, al contrario, considerevoli danni alla funzione ovarica. Se
effettuato in età pre-pubere, è elevato il rischio di avere un alterato o ritardato sviluppo puberale e molte
pazienti non hanno un regolare menarca58,59. Ragazze trapiantate dopo TBI in età puberale hanno
un'elevata incidenza di disfunzione ovarica primaria, con amenorrea ed elevati livelli di gonadotropine60,61.
Una dose di TBI inferiore o uguale a 10 Gy in singola dose prima della pubertà comporta un elevato rischio
di danno ovarico, fino all'80%62. Le somministrazioni frazionate sono meno tossiche, anche a dosi
complessive maggiori.
Nonostante un quadro generale di elevato rischio di danno ovarico dopo TBI, sono riportate gravidanze
spontanee in donne precedentemente sottoposte a TBI, in età sia prepubere sia postpubere63.
Da tutte le osservazioni riportate, risulta che la maggior parte delle pazienti che ricevano chemioterapia e/o
radioterapia e tutte quelle che siano sottoposte a TBI o trapianto di midollo, incontri problemi almeno
temporanei alla funzione gonadica. Per la maggior parte delle donne si avrà menopausa precoce con i
relativi sintomi, perdita di desiderio sessuale e aumentato rischio di osteoporosi e malattie vascolari. Un
accorgimento immediato e relativamente semplice è la terapia ormonale sostitutiva dopo il trattamento. Il
ripristino della fertilità è molto più arduo ed è attualmente tema di grande interesse.
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Possibilità di crioconservazione di cellule riproduttive nelle pazienti
oncologiche
Una pratica diffusa per ripristinare la fertilità delle pazienti, è quella dell’ovodonazione o dell’embrio
adozione: le complicazioni legali ed etiche non sono trascurabili ma, dal punto di vista tecnico, si presenta
come la più facilmente percorribile e la più efficace, anche se vietata in alcuni Paesi, tra cui l’Italia.
Le alternative possibili all’ovodonazione sono la crioconservazione di ovociti, zigoti, embrioni e, più
recentemente, di tessuto ovarico. Esistono inoltre se pur a livello sperimentale (Patrizio USA) studi relativi
alla conservazione dell’intero ovaio dei quali nel tempo andranno valutate le reali applicazioni pratiche.
Un considerevole limite alla crioconservazione di ovociti ed embrioni è legato allo scarso numero di gameti
ottenibile dalla paziente. Il trattamento farmacologico necessario per questo fine, non è privo di rischi e,
ammesso che la situazione clinica possa permettere una stimolazione ovarica che porti alla maturazione di
più follicoli, il numero di ovociti ottenibile tramite aspirazione follicolare è limitato; si tratta mediamente di
otto (anche se 6 sarebbe il numero di ovociti strettamente necessari, secondo un ampio consensus di
letteratura internazionale, a ottenere, in termini statistici, una gravidanza esito di un processo di
congelamento), non superando in genere le quindici o venti unità. In molti casi, la necessità di intervenire
repentinamente con chemioradioterapie non lascia il tempo necessario a questo tipo di intervento (20-40
giorni); in altri casi, la somministrazione di ormoni esogeni non è proponibile perché può complicare la
patologia presente.
Qualora le condizioni della paziente permettano di affrontare una stimolazione ovarica e di ottenere degli
ovociti, si deve affrontare una metodica di congelamento che, solo in tempi recenti, sta raggiungendo una
standardizzazione che garantisca buoni risultati. Solo negli ultimi anni, infatti, le metodiche a disposizione
hanno permesso di ottenere risultati soddisfacenti da poter proporre alle pazienti un ciclo di
crioconservazione ovocitaria come possibilità concreta di preservazione della fertilità.
Le prime notizie riguardanti una gravidanza con buon esito nella specie umana grazie agli ovociti
criopreservati risalgono al 198664. Da allora l’esperienza è stata ripetuta sporadicamente, fino all’inizio di
questo secolo. Nei primi lavori pubblicati, si è utilizzato un crioprotettore (DMSO) per conservare gli ovociti,
che sono stati lentamente raffreddati da –40 o –70 °C a –80°C prima del trasferimento in azoto liquido;
questa metodica prende il nome di metodo di base di Whittingham65, che è stato il primo a segnalare una
criopreservazione coronata da successo di ovociti di mammifero (topo). Articoli successivi hanno
dimostrato che l’ovocita è molto più difficile da congelare degli embrioni, nel topo come nell’uomo. A causa
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della richiesta di un metodo efficace per crioconservare gli ovociti umani, sono stati in seguito affrontati
studi approfonditi per comprendere quali siano i problemi e in che modo possano essere risolti.
Allo stato attuale appare chiaro che il lento raffreddamento e l’esposizione degli ovociti alle sostanze
crioprotettive anche prima del congelamento influenzano la capacità fertilizzante dell’ovocita, agendo sulla
zona pellucida, e possono disorganizzare il fuso meiotico causando anomalie cromosomiche66,67.
Da circa venticinque anni si sono avuti buoni risultati con il congelamento di embrioni a diverso stadio di
sviluppo68. Con una procedura simile a quella utilizzata per gli ovociti, è possibile crioconservare embrioni
derivanti da metodiche di PMA. Secondo uno studio retrospettivo69, la percentuale di sopravvivenza degli
embrioni alla crioconservazione è intorno al 70% ed è possibile ottenere una gravidanza nel 15-16% dei casi
in cui gli embrioni vengano trasferiti nell’utero materno. Rimangono i limiti precedentemente citati, legati
alla numerosità raggiungibile con un ciclo di stimolazione ovarica e aspirazione follicolare degli ovociti. La
crioconservazione si rivela pertanto utile nei trattamenti di PMA, quando si ottiene un numero di buoni
embrioni superiore a quello richiesto per il trasferimento in utero, per offrire alla coppia un’ulteriore
possibilità di concepimento in un momento successivo. La conservazione di embrioni allo scopo di
preservazione della fertilità spesso non ha le caratteristiche necessarie per essere proposta come metodica
di routine ed è stata occasionalmente utilizzata in donne prima di un trattamento mielo-ablativo70.
Le due opzioni considerate, crioconservazione di ovociti ed embrioni, rimangono improponibili in pazienti in
età pre-pubere e, per quanto riguarda gli embrioni, anche in quelle che non abbiano un partner che
fornisca gli spermatozoi.
L’idea più attuale è quella di ricorrere alla criopreservazione del tessuto corticale ovarico prima
dell’intervento antiblastico, per poi poterlo ri-trapiantare a remissione completa, al fine di ripristinare una
condizione naturale. La prova di principio di tale approccio è stata fornita anni fa in campo zootecnico e più
recentemente riproposta nella pecora, le cui ovaie sono simili a quelle umane71. Un altro approccio
innovativo è quello di recuperare dall’ovaio degli ovociti immaturi senza sottoporre la paziente a
stimolazione ormonale; questi ovociti, maturati in vitro possono essere crioconservati in attesa di futuro
utilizzo.
Teoria del congelamento di cellule isolate
La principale causa di distruzione cellulare durante il congelamento è la formazione di cristalli di ghiaccio
intracellulari: perciò, durante la crioconservazione, uno dei maggiori obiettivi è la riduzione della quantità
d’acqua all’interno della cellula in modo che, quando avviene il congelamento, la quantità di ghiaccio
intracellulare che si forma sia compatibile con la sopravvivenza. L’eccessiva disidratazione dovuta alla
rimozione di troppa acqua è comunque pericolosa. Il punto di congelamento dell’acqua contenente ioni e
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soluti disciolti è inferiore agli zero gradi e dipende dalla concentrazione di soluti. Quando è congelata una
siffatta soluzione, congela dapprima una maggiore quantità di acqua pura, aumentando così la
concentrazione dei soluti con conseguente abbassamento del punto di congelamento della restante
soluzione. In altre parole, la soluzione che non ha ancora subito il passaggio di stato diventa più
concentrata e si abbassa il suo punto di congelamento. L’aumentata pressione osmotica della soluzione
residua può essere causa di danno alle cellule durante il congelamento (“effetto soluzione”).
L’obiettivo di un buon protocollo di congelamento è dunque quello di rimuovere sufficiente acqua dalle
cellule, in modo che la sopravvivenza sia ottimizzata da una minima formazione di cristalli di ghiaccio.
Questo accorgimento, insieme a una soluzione che abbia una pressione osmotica con minimi effetti
dannosi sulla soluzione stessa, aumenta al massimo la sopravvivenza cellulare. Attualmente è riconosciuto
che il danno cellulare durante la criopreservazione non è dovuto all’immagazzinamento a basse
temperature, ma alla transizione a diverse temperature per congelamento e scongelamento, quando è più
probabile che si verifichi la formazione di cristalli di ghiaccio.
Sono stati rilevati due importanti fattori per prevenire i danni da formazione del ghiaccio intracellulare e da
effetto soluzione, rappresentati da:
1) presenza di quantitativi molari di soluti protettivi definiti “crioprotettori”;
2) velocità di congelamento e scongelamento.
Le sostanze crioprotettive possono essere membrana-permeabili, come il dimetilsulfossido (DMSO),
glicerolo e propandiolo (PPD) o membrana-impermeabili (ad es. saccarosio).
Questi due tipi di crioprotettori agiscono tramite differenti meccanismi:
1) abbassando il punto di congelamento di una soluzione per le loro caratteristiche fisiche;
2) interagendo con le membrane nel loro modificarsi da uno stato relativamente fluido a uno stato
relativamente rigido durante il congelamento;
3) prevenendo l’esposizione a elevate concentrazioni di elettroliti sia intracellulari sia extracellulari a
causa del legame con gli elettroliti stessi e della parziale sostituzione dell’acqua.
I crioprotettori impermeabili, come il saccarosio, possono dare inizio alla perdita di acqua dalle cellule per
disidratazione osmotica in assenza di ghiaccio extracellulare. Il controllo delle condizioni di congelamento e
riscaldamento determina l’ultimo destino dell’acqua intracellulare durante il processo di crioconservazione.
Le condizioni termodinamiche interagiscono intimamente con la permeabilità cellulare all'acqua e con le
dimensioni cellulari. I primi studi di criobiologia hanno chiarito l’importanza dell’abilità della cellula a
rispondere alle modificazioni osmotiche, che sono correlate al coefficiente di permeabilità cellulare, alla
superficie della cellula, al gradiente osmotico, alla temperatura. Il riconoscimento dell’interazione tra questi
fattori fa in modo che la risposta di molte cellule alla criopreservazione possa essere predetta.
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Il grado di disidratazione all’interno della cellula e la successiva modificazione della sopravvivenza cellulare
durante il congelamento dipendono da:

temperatura alla quale un congelamento è iniziato/ultimato;

concentrazione della sostanza crioprotettiva usata.
La percentuale di movimento dell’acqua attraverso una membrana cellulare è proporzionale alla differenza
di concentrazione delle molecole disciolte ai due lati della membrana. Maggiore è la concentrazione di
sostanza crioprotettiva, più basso sarà il punto di congelamento della soluzione; ciò permette una maggiore
disidratazione prima che tutta l’acqua extracellulare sia congelata;

permeabilità della membrana cellulare all’acqua e al crioprotettore;

dimensione della cellula e proporzione superficie/volume, da cui deriva che l’acqua può lasciare più
velocemente le cellule più piccole che non le più grandi.
Al di là di queste considerazioni, la quantità di acqua intracellulare che contribuisce alla formazione di
cristalli di ghiaccio può anche essere pre-regolata usando soluti relativamente impermeabili (saccarosio) in
modo da iniziare una disidratazione osmotica della cellula prima che si formi ghiaccio extracellulare.
Durata dell’immagazzinamento
I primi studi che hanno riguardato l’effetto della durata dell’immagazzinamento sono stati effettuati su
topi. È stato dimostrato che l’immagazzinamento fino a quattro anni non ha un effetto significativo sulla
sopravvivenza embrionale72. Non è noto quanto a lungo le cellule e i tessuti umani possano essere congelati
e rimanere vitali ma è verosimile che possano sopravvivere per molti anni, così come è stato descritto in
studi pionieristici su embrioni di topo. Un aspetto fondamentale della crioconservazione in azoto liquido è
la possibilità di danno genetico come risultato di una prolungata esposizione alle radiazioni. Alla
temperatura di –196 °C non dovrebbero esistere meccanismi di riparazione enzimatica. Esperimenti
effettuati su embrioni criopreservati usando una sorgente radioattiva per simulare un lungo periodo di
esposizione alle radiazioni, hanno mostrato, tuttavia, che embrioni di topo potrebbero essere
immagazzinati per un periodo compreso tra 200 e 1000 anni prima di assistere a una significativa riduzione
della sopravvivenza in seguito all’accumulo di danno genetico73. Nel caso del tessuto ovarico, non dovrebbe
presentarsi un aumento di rischio, essendo gli ovociti esposti alle radiazioni naturali per tutto il corso della
vita.
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Reidratazione durante lo scongelamento
Durante lo scongelamento avvengono i procedimenti inversi a quelli del congelamento. In queste fasi, gli
scopi fondamentali sono:
1) reidratare le cellule;
2) rimuovere la sostanza crioprotettiva che ha ricoperto le cellule.
La reidratazione delle cellule comincia durante la fase di riscaldamento, quando il ghiaccio si scioglie e
comincia a permeare le membrane cellulari. La procedura di scongelamento deve garantire una graduale
reidratazione, in modo che il riassemblaggio delle strutture subcellulari non venga danneggiato da rapide
modificazioni osmotiche. Contemporaneamente deve avvenire la rimozione della sostanza crioprotettiva.
Una chiara evidenza che la rimozione del crioprotettore sia un punto critico per la sopravvivenza può
facilmente essere ottenuta ponendo le cellule congelate o quelle equilibrate con un crioprotettore
permeabile all’interno di una soluzione isotonica, come un mezzo di coltura: le cellule si gonfiano e
scoppiano a causa del rapido afflusso di acqua.
Il metodo iniziale per evitare questo shock osmotico è stato quello di rimuovere il crioprotettore
gradualmente, grazie a un cauto trasferimento delle cellule in concentrazioni decrescenti. Ad ogni
passaggio esiste un incremento nel volume cellulare dovuto al raggiungimento dell’equilibrio isotonico,
verso un massimo (“spike del volume”). In seguito si verifica una diminuzione graduale del volume quando
la sostanza crioprotettiva lascia l’embrione e viene mantenuto l’equillibrio osmotico. Quanto più a lungo lo
spike di volume non supera un volume massimo tollerabile, tanto meno le cellule vengono danneggiate.
Leibo e Mazur74 sono stati i primi a suggerire il collocamento di embrioni scongelati in un mezzo di
diluizione contenente un soluto non permeabile, come il saccarosio, per controllare il rigonfiamento
quando la sostanza crioprotettiva lascia gradualmente le cellule. Attualmente, questa procedura è quasi
universalmente sfruttata per la rimozione della sostanza crioprotettiva dai campioni crioconservati.
Negli ultimi dieci anni la criobiologia delle cellule riproduttive femminili ha conosciuto un notevole impulso
grazie all’ottimizzazione di due strategie principali che rispondono ai principi descritti sopra pur attraverso
protocolli estremamente differenti e consistono nel “congelamento lento” e nella “vitrificazione”.
Congelamento Lento di Ovociti
Il primo protocollo utilizzato per il congelamento lento di ovociti maturi era stato copiato per intero dal
congelamento embrionario e prevedeva la concentrazione di saccarosio 0,2 M sia nella soluzione di
congelamento sia in quella di scongelamento, offrendo modeste possibilità di successo.
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L’ottimizzazione dei protocolli di congelamento lento e scongelamento con adeguate sostanze
crioprotettive ha aperto nuove prospettive riguardo alla sopravvivenza degli ovociti a partire dall’inizio del
nuovo millennio75.
Il protocollo proposto è, in sintesi, il seguente: gli ovociti sono messi a contatto con una soluzione
crioprotettiva di 1,2-propandiolo 1,5 M e saccarosio 0,3 M prima di raffreddarli lentamente in un
congelatore programmabile. Dai 20 °C iniziali la temperatura è ridotta a –7 °C alla velocità di –2 °C/min;
dopo aver indotto la formazione di nuclei di ghiaccio, il campione viene ulteriormente raffreddato fino a –
30 °C alla velocità di –0,3 °C/min e infine a –150 °C alla velocità di –50 °C/min prima di essere immerso in
azoto liquido a –196 °C. Lo scongelamento è rapido a 30 °C e, dopo la scomparsa dei nuclei di ghiaccio, il
crioprotettore viene diluito in passaggi successivi fino a completa rimozione.
Una recente metanalisi76 ha riportato il risultato clinico di cicli di fecondazione in vitro con Microiniezione
Intracitoplasmatica dello Spermatozoo ICSI su 4.000 ovociti crioconservati con metodo lento. Il tasso di
gravidanza per ovocita scongelato era del 2,4% con un indice di impianto pari al 13,1% per embrione
trasferito in utero.
Una lieve modifica al protocollo tradizionale prevede una concentrazione di saccarosio superiore nella
soluzione di scongelamento (0,3 M) rispetto a quella di congelamento (0,2 M)77 per offrire una migliore
condizione nella fase di reidratazione allo scongelamento. Con questo protocollo gli Autori hanno riportato
un tasso di sopravvivenza e di fecondazione del 76% e un tasso di gravidanza pari al 5% per ovocita
scongelato e al 7% per embrione trasferito. Questi risultati appaiono come un miglioramento del protocollo
precedente e si avvicinano ai tassi di successo ottenibili con gli embrioni crioconservati.
Un’ampia casistica multicentrica sul congelamento lento ovocitario è stata pubblicata nel 200978 riportando
l’esperienza clinica di diversi centri italiani per un totale di oltre 2000 pazienti. Questi i principali risultati
ottenuti: tasso di sopravvivenza ovocitaria allo scongelamento 56%, tasso di fecondazione 73% e tasso di
impianto 10%, corrispondenti a una percentuale di gravidanza per ciclo pari al 14%. Benché i risultati
recenti siano piuttosto incoraggianti, resta un gap di risultato nel confronto tra i cicli di fecondazione in
vitro effettuati con ovociti “a fresco” e cicli effettuati con ovociti crioconservati con metodica di
congelamento lento.
Vitrificazione di ovociti
Benché la prima pubblicazione riguardante la vitrificazione di ovociti murini risalga al 199179, la metodica è
stata poco applicata in ambito umano fino agli anni recenti quando la sua riscoperta ha portato
all’ottenimento di straordinari successi nella criobiologia applicata alla procreazione medicalmente
assistita. Il principio generale della vitrificazione prevede che la formazione di ghiaccio sia evitata grazie a
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un istantaneo raffreddamento del campione che comporta la formazione di uno stato semi-solido definito
“vetroso”. Questo fenomeno fisico è possibile attraverso l’azione su tre diversi elementi cruciali del
processo di vitrificazione: la concentrazione di sostanze crioprotettrici che abbassano il punto di
congelamento della soluzione, il volume del campione che deve essere minimo in modo da permettere un
rapido trasferimento di temperatura, la velocità di raffreddamento che deve essere tanto elevata da
permettere la formazione dello stato semisolido senza formazione di cristalli di ghiaccio. I tre elementi
influiscono indipendentemente sulle probabilità di vitrificazione e i recenti protocolli sono stati sviluppati in
modo da ottimizzare il contributo di ognuno minimizzando i possibili rischi, legati soprattutto al possibile
effetto tossico arrecato da elevate concentrazioni di crioprotettori.
La metodica prevede l’esposizione degli ovociti a due soluzioni a crescente molarità di sostanze
crioprotettrici (ad es.: etilenglicole e dimetilsolfossido), a cui segue il posizionamento dei campioni su
appositi supporti in un volume inferiore al microlitro per essere esposti alle temperature dell’azoto liquido.
Le maggiori differenze tra i protocolli a disposizione risiedono nei tipi di supporti utilizzati, in relazione a
volume utilizzabile e contatto diretto con l’azoto liquido o protezione dei campioni dall’esposizione
all’azoto stesso. In questo ultimo caso possono essere limitati i rischi di cross-contaminazione tra campioni
veicolate dall’azoto liquido.
I vantaggi della vitrificazione rispetto al congelamento lento sono principalmente una maggiore rapidità di
esecuzione e la mancanza di strumentazioni particolari o costose.
I dati in letteratura sono decisamente meno abbondanti rispetto a quelli del congelamento lento e in
generale più entusiastici. La maggior parte dei risultati a disposizione deriva da cicli di ovodonazione in cui
la giovane età delle pazienti donatrici depone a favore di migliori tassi di successo. Esistono dati
comparativi, anche randomizzati, tra cicli eseguiti con ovociti “a fresco” e “vitrificati”: contrariamente a
quanto noto per il congelamento lento, è stato riportato da almeno tre gruppi distinti una simile
performance in vitro di ovociti freschi e vitrificati80,81,82. I tassi di sopravvivenza sono molto elevati, spesso
superiori al 90%, così come i tassi di fecondazione, tra il 70% e l’80%. Le percentuali di successo in termini di
gravidanze per ovociti scongelati sono piuttosto elevate, con tassi di impianto intorno al 20%.
Benché i dati sulla vitrificazione siano meno esaustivi e più recenti di quelli sul congelamento lento, la
metodica ha conquistato il favore di numerosi ricercatori e centri nel mondo e conosce in questi anni un
rapido sviluppo e un crescente interesse.
Crioconservazione e trapianto di tessuto ovarico
Le procedure di crioconservazione di ovociti maturi sono promettenti ma necessitano per la paziente di un
ciclo di stimolazione ormonale per ottenere la crescita contemporanea di più follicoli ovarici. Esistono a
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questo proposito dei limiti, come l’impossibilità di sottoporsi a una stimolazione ormonale per l’esigenza di
iniziare immediatamente il trattamento antineoplastico, per la presenza di un tumore ormone-sensibile o,
naturalmente, la necessità di trattare pazienti prepuberi83,84.
Un’opzione sempre più studiata per ovviare a queste limitazioni è il trapianto di tessuto ovarico (Ovarian
Tissue Transplantation, OTT), crioconservato o fresco, che ha ottenuto incoraggianti risultati preliminari
negli esperimenti sugli animali e che sull’uomo è, a oggi, una tecnica in fase sperimentale, essendo
riportata la nascita di soli 13 bambini dal 200485. Per il carattere maggiormente sperimentale e le possibili
applicazioni future questo argomento è trattato in dettaglio.
Indicazioni terapeutiche
La crioconservazione del tessuto ovarico è stata concepita per preservare la funzione riproduttiva nelle
pazienti oncologiche a rischio di infertilità dopo chemio/radioterapia. Tra le diagnosi di neoplasia più
frequenti nelle donne in età riproduttiva figura il tumore della mammella, che nel 15% dei casi colpisce
donne sotto i 45 anni86. Molte di queste pazienti sono sottoposte a chemioterapia con agenti alchilanti che
possono compromettere la loro capacità riproduttiva. Altre tipologie diffuse di cancro, come quello alla
cervice, portano spesso alla menopausa precoce.
È in progressivo aumento il tasso di sopravivenza dei bambini che vengono trattati con chemio/radioterapia
per i tumori tipici dell’età infantile e che richiedono il trapianto di midollo osseo87. Questo trapianto o, negli
ultimi tempi, quello di cellule staminali richiede alte dosi di chemio e/o radioterapie per ottenere
l’ablazione di midollo osseo del paziente: questo regime terapeutico provoca l’interruzione della
funzionalità ovarica nella quasi totalità delle pazienti.
Anche pazienti affette da patologie non oncologiche possono essere interessate alla preservazione della
fertilità: indicazioni comuni sono le malattie autoimmuni, come il lupus eritematoso, condizioni genetiche
associate a una prematura interruzione dell’attività ovarica oppure patologie benigne che richiedano
ovariectomia. Demeestere e coll.88 riportano che circa il 20% delle pazienti che richiedono tecniche di
preservazione della fertilità siano affette da condizioni “non-oncologiche”.
Sono riportati casi di OTT eterologhi tra gemelle omozigoti discordanti per Premature Ovarian Failure
(POF)89.
Oltre alle indicazioni terapeutiche è necessario valutare molteplici fattori per comprendere i possibili
benefici che una paziente possa ottenere sottoponendosi alla crioconservazione e al trapianto di tessuto
ovarico. In mancanza di linee guida ufficiali emanate dagli organi competenti, uno dei gruppi pionieri in
questo settore ha elaborato i seguenti criteri per accedere alla procedura: la paziente non deve aver
superato i 30 anni, non deve avere avuto figli in precedenza, deve avere una ragionevole possibilità di
sopravvivenza a 5 anni, un rischio stimato di almeno 50% di perdere la funzionalità ovarica in seguito ai
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trattamenti e non deve avere subito precedenti chemio/radioterapie. A quest’ultima regola si può
soprassedere se la paziente abbia meno di 15 anni e abbia avuto in precedenza solo terapie non
particolarmente gonadotossiche90. Tali criteri trovano massima applicazione ai fini del mantenimento della
fertilità e di una futura gravidanza. Va considerato, tuttavia, che la gravidanza non è l’unico outcome
perseguibile dalla procedura di OTT: esiste la possibilità di voler evitare la prematura interruzione
dell’attività ovarica e le conseguenze della menopausa precoce, vanificando in parte alcuni criteri di
inclusione, in primo luogo quello relativo all’età91.
Trapianto di tessuto ovarico (OTT): possibilità e problematiche
Il principale problema del trapianto è il danno ischemico che si crea nel tessuto trapiantato; il tempo di riperfusione è critico per la sopravvivenza dei follicoli. Nel topo si osserva, utilizzando la tecnica
dell’autotrapianto, un’iniziale riperfusione dopo 3 giorni92, mentre nel ratto sottoposto a un trapianto
autologo di ovaio immaturo si nota una neovascolarizzazione già dopo 48 ore e la funzionalità effettiva
dopo 1 settimana93. Nell’uomo, Martinez-Madrid e coll.94 hanno osservato il processo di
neovascolarizzazione solamente dopo 3 giorni dalla procedura.
Il danno ischemico provoca un drastico impoverimento del pool di follicoli presente nel tessuto trapiantato.
Si stima che almeno il 25% dei follicoli primordiali venga perso durante lo xenotrapianto in topo di tessuto
ovarico umano crioconservato95; altri Autori riportano addirittura il 60-95% di follicoli persi96,97.
La ripresa dello sviluppo follicolare e dell’attività ovarica avviene di solito 4-5 mesi dopo il trapianto98 e
persiste da pochi mesi fino a 5 anni99 ma l’elevato livello basale di FSH solitamente osservato dopo il
trapianto riflette spesso una scarsa riserva ovarica100.
L’utilizzo di fattori di crescita potrebbe avere effetti positivi sulla vascolarizzazione del tessuto, come
mostrato in esperimenti preliminari su modello animale: se l’utilizzo del fattore di crescita endoteliale
vascolare (Vascular endothelial growth factor, VEGF) non ha dimostrato avere effetti sui primati sottoposti
a trapianto101, l’eritropietina si è mostrata capace di promuovere la differenziazione e la proliferazione di
progenitori eritroidi e di prevenire l’apoptosi nel tessuto trapiantato102.
Un ulteriore fattore di rischio per la sopravvivenza del tessuto si verifica proprio durante la riperfusione e
consiste nella formazione di ingenti quantità di specie reattive dell’ossigeno (Reactive Oxygen Species, ROS)
che danneggiano le membrane cellulari, perossidano i lipidi e diminuiscono la funzionalità dei
mitocondri103. Per ovviare a tale problema è stato sperimentato nel ratto l’utilizzo di antiossidanti, come
l’acido ascorbico e il mannitolo, che hanno dimostrato di poter ridurre il danno ischemico indotto
chirurgicamente104, la melatonina e l’oxitetracliclina che, somministrati intraperitonealmente, diminuiscono
i fenomeni necrotici nell’ovaio105. Nel bovino, tessuti incubati 24 ore con acido ascorbico hanno mostrato
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riduzione dell’apoptosi106; tuttavia, nessun antiossidante si è dimostrato al momento efficace
nell’aumentare la percentuale di sopravvivenza dei follicoli.
Esperimenti di xenotrapianto di tessuto umano hanno evidenziato che la stimolazione con gonadotropine
iniziata prima e protratta dopo il trapianto ha effetti positivi sulla vitalità e sulla crescita follicolare 107,108. In
campo umano non vi sono ancora evidenze sull’efficacia dei trattamenti ormonali nonostante alcuni autori
abbiano sperimentato approcci di vario tipo109,110,111,112 apparentemente non più efficaci della totale assenza
di trattamento113,114.
Aspetti pratici di crioconservazione del tessuto ovarico
Al contrario degli ovociti maturi, gli ovociti immaturi presenti nei follicoli primordiali dell’ovaio sono poco
sensibili ai danni dati dalla crioconservazione in virtù di alcune caratteristiche peculiari: dimensioni ridotte,
limitata presenza di organuli, assenza di zona pellucida, ridotta attività metabolica e stato di relativa
quiescenza e indifferenziamento115,116. Questi follicoli, allo stadio iniziale di sviluppo, sono in grado di
sopravvivere sia alle procedure di congelamento-scongelamento del tessuto ovarico umano117, sia
dell’ovaio umano in toto118.
Il metodo più studiato per congelare il tessuto ovarico è lo slow freezing che, attraverso l’utilizzo adeguato
di crioprotettori, presenta un grado di sopravvivenza follicolare del 70-80%119,120,121. Confrontando tessuto
ovarico congelato e fresco non sono state riscontrate differenze nella frammentazione del DNA122 ma non
sono ancora completamente chiari gli effetti della crioconservazione sull’integrità della struttura delle
cellule della granulosa. Inoltre, saggi d’espressione eseguiti su queste cellule con tecnologia micro-array
hanno mostrato un anomalo livello di espressione di geni coinvolti nei pathway apoptotici che potrebbe
essere causato dalla procedura di crioconservazione123. Il lavoro di Choi e coll.124 ha confermato questi
risultati, mostrando che il numero dei follicoli nel tessuto ovarico murino congelato-scongelato diminuisce
rispetto al fresco dopo 5 giorni di coltura e ha evidenziato un possibile ruolo dei processi apoptotici e/o
necrotici che si innescano dopo la crioconservazione. Non sono invece state riscontrate differenze di
espressione dei geni tipici dello sviluppo follicolare come GDF9, inibina-α o ZP3124.
La vitrificazione è un metodo di crioconservazione di recente re-impiego nel campo della preservazione
della fertilità, anche per quanto riguarda il tessuto ovarico. La vitrificazione del tessuto ovarico, infatti, è già
stata sperimentata in diversi modelli animali con risultati alterni: topo, pecora, cane, bovino e maiale e
anche nella specie umana125,126. I lavori più recenti relativi alla vitrificazione sembrano evidenziare un
mantenimento migliore della struttura ovarica, delle cellule stromali e degli spazi intercellulari, ma
confermano che l’utilizzo in studi clinici richieda la preventiva dimostrazione dell’efficienza e della
sicurezza.
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La crioconservazione di tessuto ovarico era inizialmente effettuata soprattutto utilizzando frammenti di
corticale al fine di preservare il maggior numero possibile di follicoli primordiali; negli ultimi anni l’interesse
si è concentrato anche sulla possibilità di conservazione dell’ovaio in toto, con o senza peduncolo vascolare.
Recentemente molti gruppi si sono indirizzati verso la possibilità di crioconservare l’intera gonade
femminile sfruttando gli studi condotti sui modelli animali. Bedaiwy e coll.127 hanno dimostrato che nella
pecora è possibile la crioconservazione dell’ovaio intero ottenendo dopo lo scongelamento una ragionevole
vitalità del tessuto e che, tecnicamente, la perfusione dell’organo con crioprotettori attraverso il canale
vascolare e il successivo autotrapianto con anastomosi microvascolare è fattibile e dà buoni risultati.
In ambito umano, Martinez-Madrid e coll.128 hanno descritto un protocollo in cui, con la crioconservazione
dell’ovaio intero con il peduncolo, si è potuto ottenere allo scongelamento il 75% di sopravvivenza dei
follicoli e una struttura dei vasi e dello stroma istologicamente normale se paragonata a quella di un ovaio
fresco; in uno studio successivo, gli stessi Autori hanno dimostrato che la procedura di congelamento non
comporta aumento di frammentazione del DNA (analizzata tramite il test TUNEL), variazioni nell’aspetto
immunoistochimico o attivazione della caspasi-3129.
Ovaio intero o frammenti di corticale?
Il trapianto dell’ovaio con anastomosi vascolare permette una rapida rivascolarizzazione della corticale
ovarica e quindi una riduzione del danno ischemico130. Questa procedura richiede la presenza di un
peduncolo ovarico sufficientemente conservato e implica una tecnica chirurgica più complessa rispetto al
re-impianto di frammenti corticali in sede ortotopica.
In diverse specie animali è stato possibile effettuare il trapianto di ovaio a fresco131,132,133,134.
In ambito umano, Silber e coll.135 hanno riportato una gravidanza ottenuta dopo trapianto di ovaio intero
fresco tra due gemelle omozigoti discordanti per menopausa precoce.
Sugli animali è stata anche testata la possibilità di crioconservare l’ovaio in toto e di trapiantarlo, con
risultati incoraggianti; nella pecora, modello d’elezione per l’apparato riproduttivo, sono riportati successi
di trapianto di ovaio, basati sulla conservazione del vaso epigastrico e del peduncolo vascolare ovarico,
esitati anche nella nascita di agnelli sani136,137. Nonostante questi successi, è riportato che a distanza di
alcuni mesi dal trapianto, il tasso di sopravvivenza dei follicoli può essere inferiore all’8% 138. Queste
osservazioni pongono il problema di quanto il trapianto possa essere efficace e duraturo nel tempo.
Nell’uomo la crioconservazione dell’ovaio in toto effettuata tramite slow freezing139,140,141,142 ha mostrato
che l’integrità strutturale dell’organo può essere mantenuta e che il tasso di sopravvivenza follicolare,
conservando il pediculo vascolare per agevolare la riperfusione, può essere elevato, fino al 75%143. Bedaiwy
e coll.144 hanno utilizzato i tessuti di donne sottoposte a ovariectomia bilaterale per comparare il danno da
congelamento-scongelamento nell’ovaio in toto e nelle biopsie di tessuto corticale. Un ovaio è stato
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crioconservato intatto con il peduncolo vascolare mentre l’altro sezionato in piccole strip e congelato con
slow freezing. Dopo 7 giorni di conservazione l’ovaio intero non mostrava differenze di sopravvivenza
rispetto ai frammenti di tessuto congelati con slow freezing e nemmeno alterazioni nell’espressione dei
pattern di Bcl-2 e p53.
Nonostante la procedura di trapianto dell’ovaio in toto sia già applicabile in campo umano ed i dati
suggeriscano che il congelamento-scongelamento possa essere un approccio concreto alla preservazione
della fertilità, sono necessari ulteriori studi per stabilire l’efficacia anche a lungo termine, considerando
l’ingente perdita di riserva follicolare riscontrata durante gli studi sugli animali.
Sede eterotopica od ortotopica per il trapianto?
L’autotrapianto permette di evitare l’immunosoppressione del paziente e può essere sia ortotopico sia
eterotopico. Nel trapianto ortotopico il tessuto viene reinserito nella sua sede originaria per cui può
teoricamente permettere concepimenti spontanei se il resto dell’apparato riproduttivo non ha subito
danni. Nel trapianto eterotopico il tessuto è posizionato in una sede differente da quella originaria,
solitamente facilmente raggiungibile e monitorabile, come, per esempio, l’avambraccio o la zona
sottocutanea addominale145,146; è possibile però che la differenza di microambiente possa ripercuotersi
negativamente sulla qualità degli ovociti147.
Molti esperimenti su animali hanno cercato di chiarire gli effetti della sede di re-impianto sul trattamento.
Deng e coll.148 hanno mostrato che, nel coniglio, si ottengono risultati paragonabili per istologia e
ultrastruttura trapiantando tessuto fresco o crioconservato a livello del mesometrio, della borsa ovarica o
dell’ovaio. Altri studi sostengono che la borsa ovarica o la capsula renale siano siti migliori di quelli
intraperitoneali o sottocutanei149,150,151. Nel topo il tessuto trapiantato in sede intraperitoneale contiene
meno follicoli in crescita (12%) rispetto a quello trapiantato sotto la capsula renale (70%)152. Inoltre Yang e
coll.153 hanno dimostrato che il numero di embrioni a 2 cellule che si formano dopo maturazione in vitro è
maggiore se gli ovociti provengono da un trapianto ortotopico piuttosto che da uno eterotopico, mentre
non c’è differenza nella capacità di impianto.
Per quanto riguarda la specie umana sono stati condotti esperimenti di xenotrapianto di tessuto ovarico di
donne donatrici in animali riceventi, soprattutto topo, per determinare la differenza del numero dei follicoli
presenti in base ai diversi siti di impianto154.
I possibili siti eterotopici per trapianto di tessuto nella donna sono molteplici: l’utero, il muscolo retto
dell’addome, lo spazio tra il tessuto mammario e la fascia superiore dei muscoli pettorali, la fascia
addominale tra l’ombelico e il pube155,156,157. I trapianti in questi siti hanno mostrato di essere in grado di
ristabilire la funzionalità ovarica ma non di dare origine a gravidanze dopo la raccolta degli ovociti158,159,160.
Oktay e coll.161 da un trapianto sottocutaneo hanno ottenuto 20 ovociti, ma solo 8 di questi erano adatti
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alla inseminazione in vitro e solo 2 si sono fecondati. L’unico embrione a 4 cellule trasferito non ha dato
origine all’impiano in utero.
I pochi casi di nascita di bambini dopo trapianto derivano da autotrapianti di frammenti di corticale in siti
ortotopici, come la fossa ovarica o l’ovaio residuo162,163,164,165,166.
Alla luce di questi lavori sembra che il trapianto eterotopico, nonostante permetta una ripresa della
funzionalità ovarica, influisca negativamente sulla qualità degli ovociti e sulla loro capacità di formare
embrioni vitali, per cui è da ritenersi sub-ottimale nel caso in cui la paziente sia alla ricerca di una
gravidanza.
Maturazione in vitro dei follicoli primordiali
La preservazione della fertilità può avvalersi dei metodi di coltivazione in vitro dei follicoli preantrali o degli
ovociti recuperati da follicoli a diverso stadio di sviluppo.
Quest’ultimo approccio, che sfrutta la fase terminale di sviluppo ovocitario in vitro, è attualmente utilizzato
in casi selezionati di PMA; in particolare è ritenuto un metodo efficace per le pazienti affette da policistosi
ovarica; ha portato alla nascita di alcune centinaia di bambini sani167. Le condizioni di coltura influenzano
enormemente la riuscita della procedura; alcuni Autori, come Buckett e coll.168, hanno dimostrato un
aumentato tasso di aborti clinici dopo maturazione in vitro rispetto all’utilizzo di tecniche convenzionali di
fecondazione in vitro. Al momento mancano dati sufficienti per chiarire molti aspetti ed è necessario
continuare a monitorare gli effetti a lungo termine sui nati da tale tecnica.
L’opzione più innovativa, ma ancora in fase assolutamente sperimentale, è la coltura in vitro dei follicoli
primordiali che possa portare allo sviluppo dell’ovocita all’interno del suo ambiente “naturale”. Alcuni studi
hanno già dimostrato nel modello animale la possibilità che il complesso ovocita-cellule della granulosa
derivante da tessuto ovarico crioconservato sia in grado di crescere e raggiungere la caratteristiche di
follicolo antrale169 e originare ovociti fecondabili170. Nella specie umana gli studi sono ancora allo stadio
iniziale di comprensione dei meccanismi molecolari coinvolti nel processo di maturazione e delle migliori
modalità di coltura da utilizzare171.
Abir e coll.172 hanno proposto un tentativo di coltura dei follicoli in un gel di collagene e da allora diversi
studi hanno indagato l’importanza di allestire colture tridimensionali per conservare l’architettura
fisiologica del follicolo173,174 e di adattare il terreno alle esigenze di crescita tramite l’aggiunta progressiva di
fattori specifici per le successive fasi di crescita175,176. Ultima frontiera, per ora affrontata nella specie
murina, è la coltura tridimensionale dei follicoli in biglie di alginato in cui la matrice supporta la crescita e
permette alla struttura di mantenere una morfologia definita in vivo-like177. È da valutare se tale procedura
possa essere utile anche nell’uomo, in cui la grande differenza nella velocità di maturazione dei gameti
potrebbe richiedere una coltura di molti mesi178.
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Applicazione clinica
Il modello animale d’elezione per lo studio dell’apparato riproduttivo femminile è la pecora e proprio
questo modello animale è stato oggetto di molte pubblicazioni che riguardano il trapianto di frammenti di
tessuto ovarico o di ovaio intero e la loro crioconservazione. Già da qualche anno, alcuni Autori hanno
mostrato la capacità di ristabilire la funzione ovarica con il trapianto di strip di corticale ovarica
crioconservate179 e successivamente Salle e coll.180 hanno riportano anche la nascita di un agnello sano
dopo autotrapianto di una porzione di ovaio (hemi-ovary) crioconservato.
Bedaiwy e coll.181 hanno indicato che anche l’ovaio in toto sopravvive alla crioconservazione mantenendo
una buona vitalità dopo lo scongelamento e Arav e coll.182 hanno definitivamente confermato questa
osservazione tramite un trapianto di ovaio intero con anastomosi della vena e dell’arteria intatte con
conseguente normale flusso sanguigno ovarico e, nonostante la compromissione dei follicoli dovuta al
congelamento, l’attività ovarica era riscontrabile dopo due mesi dal trapianto. L’anno successivo è stata
riportata la prima gravidanza e il primo nato vivo da trapianto di ovaio intero nella specie ovina183.
Nei primati è stata invece recentemente dimostrata la possibilità, attraverso il trapianto eterotopico
sottocutaneo, di ripristinare il ciclo mestruale e la capacità di produrre ovociti maturi sotto stimolazione di
gonadotropina184 da cui è possibile ottenere nati vivi185.
I successi riportati in campo umano con la procedura di OTT hanno utilizzato differenti trattamenti del
tessuto ovarico, da strip di corticale all’ovaio intero con o senza peduncolo vascolare186,187,188. Mentre per il
tessuto fresco sono state sperimentate tutte queste varianti, per quello congelato finora sono state
utilizzate più frequentemente le biopsie di corticale, sotto forma di strip associate a trapianto in sede
ortotopica o eterotopica o, in alcuni casi, in entrambe le sedi contemporaneamente189,190.
Bedaiwy e coll.191, in una valutazione molto puntuale sull’utilizzo e l’efficienza clinica della procedura di
OTT, ha riportato per 46 donne sottoposte a trapianto dal 1987 al 2008 le seguenti indicazioni: 27 per
diagnosi di POF, 16 per rischio di POF, 2 per infertilità; in un caso è stato documentato il ripristino di attività
ovarica successivo a un accidentale “intrappolamento” di tessuto ovarico nel muro addominale durante
un’ovariectomia laparoscopica per patologia benigna. Nella quasi totalità dei casi l’OTT ha comportato il
trapianto di frammenti di tessuto corticale ovarico e solo per 3 pazienti è stato utilizzato l’ovaio intero: in
due di questi casi il trapianto di ovaio intero è avvenuto in sede eterotopica per evitare che fosse
danneggiato dalle radioterapie indirizzate alla zona pelvica192,193, mentre l’altro caso è stato sottoposto a
trapianto di ovaio proveniente dalla sorella HLA-matched per ristabilire l’attività ovarica assente a causa di
disgenesia194. Il ripristino della attività ovarica è stato documentato in tutte e tre queste pazienti ma
nessuna ha ottenuto una gravidanza.
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Prendendo in considerazione le 23 pazienti in cui effettivamente la POF era in atto al momento del
trapianto, documentata con livelli pre-OTT di FSH > 30 IU/L, si è riscontrata crescita follicolare nel tessuto
trapiantato in tutti i casi, dopo un tempo mediano di 120 giorni (60-244), mentre la ricomparsa del ciclo
mestruale si è verificato in 18 casi. Analizzando i dati nel complesso, Bedaiwy e coll.195 hanno concluso
indicando due fattori legati alla procedura che favoriscono la ripresa della funzionalità ovarica: utilizzo di
tessuto fresco rispetto a quello congelato e innesti più ampi di tessuto. Riguardo la durata della funzionalità
ovarica nel tempo, è stato osservato che, dopo sei mesi di follow up dalla procedura di OTT, 4 donne su 23
presentavano di nuovo assenza di attività ovarica con incremento dei livelli di FSH, riduzione della
produzione di estrogeni e mancata crescita follicolare. Per analizzare come outcome la gravidanza è
necessario escludere tutte le pazienti che abbiano subito isterectomia o che non abbiano cercato prole. È
stata recentemente riportata la nascita di 13 bambini da tessuto ovarico crioconservato e trapiantato in
sede ortotopica in dieci pazienti, otto delle quali con indicazione oncologica e due trattate con
chemioterapici per patologia non oncologica196. Altre gravidanze sono state ottenute dopo trapianto
eterologo di tessuto proveniente da gemelle omozigoti discordanti per POF197. Le gravidanze riportate in
letteratura sono state ottenute equamente in modo spontaneo o successivamente all’applicazione di
tecniche di fecondazione in vitro. La procedura di OTT può pertanto essere efficace nel ristabilire la
funzione ovarica, almeno nel breve periodo. Nonostante gli studi sugli animali suggerissero che non vi
fossero differenze tra l’utilizzo del tessuto fresco e quello crioconservato, nella specie umana il trapianto a
fresco risulta più efficace, evidenziando l’esigenza di migliorare le tecniche di conservazione198,199. Mancano
tuttora dei dati di follow up sul lungo periodo, sia per funzionalità ovarica sia per bambini nati, e non vi
sono ancora risultati sull’utilizzo di ovaio intero crioconservato.
Sicurezza
Principale problema di sicurezza nel trapianto di tessuto ovarico autologo è il rischio di reintrodurre cellule
cancerose nel paziente con il tessuto trapiantato. Le metastasi ovariche sono rare nelle tipologie di tumori
più frequenti nei giovani, come il tumore di Wilms, i linfomi, gli osteosarcomi, il sarcoma di Ewing e il
rabdomiosarcoma extragenitale200. Alcune patologie neoplastiche, come i neuroblastomi e i tumori al
cervello, possiedono un moderato rischio di metastatizzare in sede ovarica201 ma esistono altre patologie in
cui tale rischio è più concreto; nelle leucemie, in cui la metastasi ovarica è naturale, la paziente candidata a
OTT sarebbe posta di fronte a un grave rischio. Per questo è fondamentale sviluppare maggiormente test
per valutare la presenza di cellule trasformate nel tessuto da reimpiantare, avvalendosi di indagini
istologiche e molecolari. Elizur e coll.202 hanno mostrato come sia possibile analizzare metastasi
microscopiche nel tessuto ovarico attraverso l’utilizzo di molteplici approcci, per esempio individuando
HER2, considerato un marker dei tumori cerebrali. Nei casi di leucemia o linfomi è possibile valutare
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cromosomi e altri marker tumorali attraverso l’immunoistochimica e la biologia molecolare203 e in un
prossimo futuro potrebbe essere possibile sottoporre a screening eventuali cellule cancerose metastatiche
prima del trapianto, utilizzando tecniche di immunoistichimica, citofluorimetria, di genetica molecolare o,
ancora, di citogenetica.
Queste considerazioni non valgono per il trapianto eterologo, per il quale è necessario invece garantire
l’istocompatibilità del donatore e per la maturazione dei follicoli in vitro che è attualmente una tecnica del
tutto sperimentale ed in via di sviluppo.
Una indicazione importante all’OTT è quella di donne portatrici di mutazioni in BRCA-1 e BRCA-2; in questi
casi il rischio di sviluppare un tumore ovarico è, rispettivamente, del 60% e del 10-20%204 e l’ovariectomia
abbassa questo rischio del 90%205. Queste pazienti potrebbero beneficiare di trapianto eterologo oppure, in
futuro, della maturazione in vitro o dello xenotrapianto. Studi per analizzare l’integrità degli ovociti ottenuti
da quest’ultima tecnica hanno però mostrato maturazione anomala del nucleo e del citoplasma206. Lo
xenotrapianto, nonostante le prove di principio biologiche, non è ancora applicabile a causa di questioni
etiche, per il problema della trasmissione di virus o prioni tra le diverse specie coinvolte e per l’incapacità
della specie “ricevente” di mantenere l’assetto epigenetico degli ovociti della specie da cui deriva il
tessuto207.
Naturalmente è necessario approfondire le indagini che dimostrino la sicurezza delle diverse fasi della
procedura, dal prelievo, alla crioconservazione al reimpianto.
Problemi etici
Questioni etiche si aprono di fronte all’utilizzo di queste nuove procedure, in primo luogo perché la
sicurezza delle tecniche deve ancora essere confermata univocamente.
Tutte le procedure di preservazione della fertilità femminile richiedono l’intervento chirurgico con
anestesia per cui espongono la paziente a dei rischi aggiuntivi rispetto a quelli indispensabili al trattamento
della sua patologia; questo vale soprattutto per le pazienti pre-puberi, in cui le ovaie sono piccole e
l’operazione più rischiosa. Per contro, i dati a disposizione sul trapianto di tessuto ovarico, sia eterologo sia
autologo, sono troppo pochi per definire in maniera certa la loro efficienza e il loro rapporto costobeneficio. Ancora più importanti diventano queste considerazioni quando si parla di tecniche più
innovative, quali la vitrificazione del tessuto, la maturazione in vitro (In Vitro Maturation, IVM) di follicoli
preantrali e degli ovociti da essi derivati o lo xenotrapianto.
Altro argomento di dibattito sono le indicazioni cliniche per le quali si possa suggerire la crioconservazione
o il trapianto di tessuto ovarico. Alcuni autori hanno definito dei limiti, soprattutto legati all’età della
paziente, ma non vi sono ancora linee guida ufficiali da parte degli organi competenti.
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La somministrazione del consenso informato alla paziente è un punto altamente critico in quanto, data la
preliminarità delle esperienze, è difficile offrire attendibili percentuali di rischio e di successo. Non è da
sottovalutare l’aspetto psicologico che, in pazienti oncologiche, deve tenere in considerazione la difficoltà
del percorso terapeutico e fornire gli elementi di informazione consoni al particolare stato emotivo della
paziente. Nel caso di pazienti adolescenti il problema è amplificato e risulta ancora più difficile stabilire
quale sia la forma di comunicazione corretta poiché sono i genitori a dover effettuare le scelte in vece dei
figli.
I problemi etici si possono quindi sostanzialmente dividere in problemi che derivano dall’incertezza e dai
dubbi che ancora persistono sulla procedura, che quindi vanno risolti attraverso la ricerca clinica e di base,
e quelli che derivano dalla corretta gestione del paziente nel percorso diagnostico-terapeutico.
È auspicabile che la comunità scientifica, considerando i progressi fino a ora ottenuti, emani al più presto
delle indicazioni per uniformare il comportamento degli operatori del settore e per informare
correttamente i possibili fruitori delle tecniche.
Maturazione in vitro e crioconservazione di ovociti
La tecnologia emergente della maturazione in vitro (IVM) di ovociti immaturi e successiva
crioconservazione è recentemente stata proposta come opzione per il mantenimento della fertilità
femminile208. I risultati preliminari di studi pubblicati confermano che questo approccio può offrire ovociti
adatti alla fecondazione in vitro ottenendo tassi di gravidanza e outcome ostetrici paragonabili a quelli
relativi ai concepimenti spontanei o in seguito a trattamenti standard per l’infertilità209,210. Il recupero degli
ovociti immaturi può essere eseguito senza stimolazione ovarica ed entro una breve finestra temporale. Nel
caso di pazienti oncologiche che debbano iniziare subito la chemioterapia, la IVM potrebbe essere l'unica
opzione disponibile per preservare la fertilità e potrebbe rappresentare il gold standard al fine di evitare
l'uso di stimolazione ormonale in particolari condizioni patologiche. Il prelievo degli ovociti immaturi viene
generalmente effettuato durante la fase follicolare del ciclo mestruale, ma è possibile che anche in fase
luteale si possa ottenere un idoneo recupero ovocitario per dare priorità alla necessità di iniziare la
chemioterapia.
I piccoli follicoli antrali presenti nelle ovaie umane portano ovociti immaturi arrestati allo stadio di profase
della divisione meiotica e non sono in grado di essere fecondati dagli spermatozoi prima di completare la
maturazione raggiungendo lo stadio di metafase della seconda divisione meiotica (MII). In un medium di
coltura appropriato gli ovociti sono in gradi di riprendere la meiosi in vitro per poter essere fecondati,
indipendentemente dal giorno del ciclo mestruale e dal supporto di gonaditropine.
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Sebbene l’inizio della ricerca sugli ovociti immaturi risalga addirittura al 1930, fino al 1991, quando Cha e
coll.211 hanno riportato per primi la raccolta intenzionale di ovociti immaturi da donne sottoposte a
chirurgia ginecologica, la IVM non era considerata nella pratica clinica. Purtroppo, i tassi di gravidanza
iniziali non erano soddisfacenti; oggi la IVM non è solo un trattamento alternativo riconosciuto per le
coppie che necessitano di tecniche di riproduzione assistita, ma è anche considerata come un metodo
innovativo di conservazione della fertilità, che estende la possibilità di criopreservazione a pazienti con
patologie che precludono il trattamento con i metodi più convenzionali. Tuttavia, in confronto
all'applicazione della fecondazione in vitro convenzionale, la maturazione in vitro di ovociti umani è ancora
eseguita da un numero relativamente basso di cliniche. Il suo principale limite è che il recupero di ovociti
immaturi può essere eseguito solo in donne in età post-puberale.
Il monitoraggio delle condizioni ovariche basali inizia con una ecografia di base, possibilmente nella fase
follicolare del ciclo mestruale tra i giorni 2 e 5, o durante la fase luteale, in base alle esigenze cliniche. Il
monitoraggio può essere infatti eseguito indipendentemente dalla fase del ciclo mestruale, dando priorità
alla necessità di iniziare la chemioterapia.
Sono registrati il numero e le dimensioni dei follicoli antrali e lo spessore dell'endometrio; l'utero e le ovaie
sono esaminati per eventuali anomalie e viene eseguito un profilo ormonale. Una seconda ecografia viene
eseguita alcuni giorni dopo, secondo il ciclo mestruale, quando si prevede che il maggiore dei follicoli abbia
raggiunto un diametro tra 10 e 12 mm. Sulla base di evidenze internazionali la somministrazione di
gonadotropina corionica umana (hCG) 10.000 UI 36 ore prima della raccolta degli ovociti aumenta le
percentuali di successo in termini di recupero e maturazione.
La maggior parte delle pazienti tollera facilmente la procedura di raccolta degli ovociti immaturi sotto
sedazione cosciente con midazolam per via endovenosa e fentanil, oltre al blocco paracervicale. Poiché i
follicoli sono più piccoli rispetto a quelli dei cicli standard, è necessario un ago di calibro inferiore (da 19 a
20 G). La pressione di aspirazione è fissata da 75 a 80 mmHg, circa la metà della pressione di aspirazione
convenzionale, per minimizzare il rischio di denudazione degli ovociti durante l'aspirazione. I follicoli spesso
sono diffusi in tutto lo stroma ovarico ed è pertanto generalmente impossibile evitare punture multiple
dell’ovaio. A volte può essere necessaria una pressione addominale per fissare le ovaie mobili durante la
raccolta. Le pazienti con ovaie difficilmente raggiungibili possono essere trattate in anestesia generale.
L'aspirato follicolare viene esaminato in primo luogo allo stereomicroscopio per individuare i complessi
cumulo-ovocita: gli ovociti immaturi sono generalmente piccoli e circondati da poche cellule della
granulosa.
Poiché gli ovociti piccoli potrebbero sfuggire alla vista, l'aspirato follicolare viene filtrato attraverso un
colino con fori da 70 micrometri. L'aspirato filtrato può essere riesaminato dopo il lavaggio con un mezzo di
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coltura. Gli ovociti raccolti già in fase MII sono subito denudati e crioconservati mentre gli ovociti immaturi
sono coltivati in un medium IVM integrato con 75 UI di FSH e 75 UI di LH e periodicamente valutati per
eventuale maturazione fino a 48 ore dal prelievo. Vengono decumulati e crioconservati al termine della
maturazione nucleare, da 24 a 48 ore più tardi.
Anche per gli ovociti maturati in vitro esistono diverse strategie di crioconservazione, come per gli ovociti
maturi cioè, principalmente, il congelamento lento o la vitrificazione.
Conclusioni
Le strategie di preservazione della fertilità sono da considerare ancora largamente sperimentali. Per
scegliere una metodica è necessario valutare diversi fattori, tra i quali: età della paziente, tipo di
trattamento previsto, diagnosi, presenza del partner, tempo a disposizione e possibile interessamento
dell’ovaio dalla malattia. È auspicabile un percorso facilitato di consulenza tra l’oncologo e il ginecologo al
fine di evitare ritardi e informare adeguatamente la paziente.
Il congelamento di tessuto ovarico andrebbe considerato per le pazienti prepuberi o per le giovani donne
per le quali sia impossibile effettuare la stimolazione ovarica.
Negli altri casi il congelamento degli ovociti o di embrioni offre al momento maggiori possibilità di futura
gravidanza. Sono in fase di sviluppo protocolli di stimolazione alternativi (con letrozolo o inibitori
dell’aromatasi) che possano essere proposti anche alle pazienti fino a ora considerate escluse per patologia
dai programmi di stimolazione standard.
È necessario interessarsi della qualità di vita dei pazienti sopravvissuti al cancro e la fertilità ne è un aspetto
fondamentale che va considerato prospetticamente, prima di iniziare i trattamenti. In attesa di nuovi
progressi nella biologia delle cellule germinali, la comunità scientifica deve incoraggiare strategie concrete
di preservazione della fertilità.
Questionario ECM
1. Quale di questi aspetti favorisce un corretto processo di vitrificazione delle cellule?
a. tempi di raffreddamento molto rapidi e molarità elevate di crioprotettore
b. tempi di raffreddamento molto rapidi e basse molarità di crioprotettore
c. utilizzo di vetro temperato
d. utilizzo di paillettes di alluminio
2. Quale tra queste può essere la corretta definizione di “vitrificazione”?
a. congelamento di una soluzione liquida in maniera rapida
b. congelamento di un solido
c. creazione di uno stato vetroso di cristalli di ghiaccio
d. solidificazione di una soluzione liquida senza la formazione di cristalli di ghiaccio
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3. In una donna di 43 anni affetta da patologia ematologica benigna e candidata a trapianto di cellule
staminali ematopoietiche, si consiglia:
a. di crioconservare il tessuto ovarico
b. di crioconservare ovociti maturi
c. di rinunciare alla ricerca di prole a causa dell’età relativamente avanzata
d. nessuna delle risposte indicate
4. I gameti vengono normalmente crioconservati in azoto liquido. A questo proposito, è vero che:
a. nell’azoto liquido possono trasmettersi agenti patogeni tra diversi campioni
b. in azoto liquido la sterilità dei campioni è garantita
c. la vita di gameti congelati non è superiore ai 5 anni
d. tutte le risposte indicate
5. Quando dovrebbe avvenire la crioconservazione dei gameti per i pazienti oncologici?
a. prima di qualsiasi chemio/radioterapia
b. prima della chemioterapia ma dopo la radioterapia
c. in nessun caso, per il rischio di trasmissione della patologia alla prole
d. è indifferente
6.
La crioconservazione dei gameti viene consigliata ai pazienti oncologici. A questo proposito, è
falso che:
a. è spesso imprevedibile l’effetto delle terapie sulla gametogenesi
b. solo i pazienti con neoplasia ovarica dovrebbero depositare gli ovociti
c. l’età influisce sulla scelta della strategia di conservazione
d. la diagnosi influisce sulla scelta della strategia di conservazione
7. La crioconservazione di tessuto ovarico:
a. è vietata dalla legge 40/2004
b. è una tecnica sperimentale che ha permesso la nascita di alcuni bambini.
c. è una tecnica sperimentale che non ha permesso la nascita di bambini
d. è applicabile solo nel modello animale
e.
8. Per preservare la fertilità in una ragazzina di 9 anni affetta da neoplasia e candidata a
chemioterapia si consiglia:
a. di crioconservare il tessuto ovarico in attesa di un futuro utilizzo
b. di crioconservare gli ovociti prelevati dall’ovaio
c. di crioconservare gli embrioni dopo opportuna stimolazione ovarica
d. di non avere prole per gli elevati rischi di malformazioni
9. Quale di questi approcci non ha ancora permesso la nascita di bambini?
a. ICSI su ovociti maturati in vitro dallo stadio di vescicola germinale
b. ICSI effettuata con spermatozoi immaturi
c. crioconservazione di corticale ovarica e successivo trapianto in sede ortotopica
d. crioconservazione di corticale ovarica e successivo trapianto in sede eterotopica
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10. Quale di questi approcci ha permesso la nascita di bambini?
a. ICSI su ovociti prelevati dopo xenotrapianto.
b. ICSI effettuata con spermatozoi ottenuti da tessuto testicolare dopo xenotrapianto.
c. crioconservazione di corticale ovarica e successivo trapianto in sede ortotopica
d. crioconservazione di corticale ovarica e successivo trapianto in sede eterotopica
11. Quali tra i seguenti è un vantaggio della tecnica di vitrificazione?
a. elevata disidratazione della cellula
b. necessità di notevole rapidità delle operazioni
c. stress osmotico elevato
d. non necessita di strumenti costosi
12. Per preservare la fertilità in una donna di 30 anni affetta da carcinoma della mammella e candidata
a immediata chemioterapia, si consiglia:
a. di effettuare un’inseminazione dopo la chemioterapia
b. di crioconservare il tessuto ovarico e gli ovociti immaturi
c. di crioconservare gli ovociti con una stimolazione standard
d. nessuna delle risposte indicate
13. Per preservare la fertilità in una donna di 25 anni affetta da patologia ematologica benigna e
candidata a trapianto di cellule staminali ematopoietiche, si consiglia:
a. di effettuare una inseminazione dopo la terapia
b. di crioconservare il tessuto ovarico
c. di crioconservare gli ovociti
d. di non avere prole per gli elevati rischi di malformazioni
14. Per preservare la fertilità in una donna di 35 anni affetta da tumore ovarico e candidata a
chemioterapia si consiglia:
a. di crioconservare il tessuto ovarico in attesa di poterlo ritrapiantare
b. di crioconservare gli embrioni dopo opportuna stimolazione ovarica
c. di non avere prole per gli elevati rischi di malformazioni
d. nessuna delle risposte indicate
15. Quale è lo stadio follicolare più rappresentato nella corticale ovarica umana?
a. primordiale quiescente
b. secondario
c. antrale
d. primario
16. Quale è il principale limite alla buona riuscita del congelamento di ovaio intero?
a. il danno ischemico
b. la presenza di follicoli antrali
c. la ridotta velocità di raffreddamento
d. tutte le risposte indicate
17. Una sostanza crioprotettrice è utile perché:
a. abbassa il punto di congelamento della soluzione
b. favorisce l’esposizione del campione ad elevate concentrazioni di elettroliti
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c. previene la vitrificazione
d. tutte le risposte indicate
18. La dose di radioterapia letale per il 50% dei follicoli ovarici è stimata essere:
a. 15 Gy
b. 2-4 Gy
c. 0,1 Gy
d. non è stata ancora stimata
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