Cop. Tumori 4/2003 - Giornale Italiano di Cardiologia

RASSEGNA
La modulazione della frequenza cardiaca
nella cardiopatia ischemica stabile: cosa abbiamo
imparato dallo studio SIGNIFY?
Gian Piero Perna, Ilaria Battistoni, Luca Angelini
Cardiologia e UTIC, Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti”, Ancona
Elevated heart rate is a marker of cardiovascular risk in patients with stable coronary artery disease. The addition of ivabradine to standard therapy to reduce heart rate did not improve outcomes in the recent SIGNIFY trial. Moreover, a significant interaction between the effect of ivabradine among subgroups with and without angina with a worse outcome in patients in CCS class >II at baseline was detected. The explanation for
this surprising finding despite a significant reduction in angina and myocardial revascularization procedures
is uncertain. A J-curve for heart rate was not demonstrated. We speculate a significant interference on adverse events (mainly atrial fibrillation and consequently acute coronary syndromes) and on the outcome of unfavorable interactions between ivabradine and diltiazem, verapamil and strong inhibitors of CYP3A4 (4.6%
of the total population). Excluding this subgroup, there are no significant changes in outcomes between the
two treatment groups (ivabradine and placebo).
In conclusion, heart rate is a marker of risk but is not a risk factor and/or a target of therapy in patients with
stable coronary artery disease and preserved ventricular systolic function. Standard doses of ivabradine are indicated for treatment of angina as an alternative or in addition to beta-blockers, but should not be administered in association with CYP3A4 inhibitors or heart rate-lowering calcium antagonists.
Key words. Beta-blockers; Heart failure; Heart rate; Ivabradine.
G Ital Cardiol 2015;16( ): -
RAZIONALE DELLO STUDIO SIGNIFY
Una frequenza cardiaca elevata costituisce un marker di rischio
nei pazienti con scompenso cardiaco1, disfunzione ventricolare sinistra (DVS) asintomatica2, cardiopatia ischemica stabile3 e
nei soggetti con fattori di rischio per malattia coronarica4. Ad
un’elevata frequenza cardiaca sono associate variazioni fisiopatologiche che possono condizionare eventi sfavorevoli: disfunzione endoteliale e aumento dello stress ossidativo, instabilità di placca, aumento del consumo miocardico di ossigeno, riduzione di durata della diastole con conseguente riduzione della perfusione coronarica, ischemia miocardica, rimodellamento
e ipertrofia del ventricolo sinistro, riduzione del riempimento
ventricolare sinistro e riduzione della contrattilità1-5. La modulazione farmacologica della frequenza cardiaca, contrastando
queste variazioni fisiopatologiche sfavorevoli, dovrebbe determinare benefici clinici e prognostici. L’ivabradina, inibendo selettivamente la corrente If del nodo del seno6, riduce la frequenza cardiaca in maniera “pura” senza modificare la pressione arteriosa, la contrattilità del ventricolo sinistro e le resistenze arteriolari. Per questi effetti farmacologici peculiari l’implementazione di ivabradina alla terapia standard è stata utiliz-
© 2015 Il Pensiero Scientifico Editore
Ricevuto 28.10.2014; nuova stesura 18.12.2014; accettato 22.12.2014.
Gli autori dichiarano nessun conflitto di interessi.
Per la corrispondenza:
Dr. Gian Piero Perna Via Piave 102, 60019 Senigallia (AN)
e-mail: [email protected]
zata per valutare gli effetti della modulazione della frequenza
cardiaca nel continuum cardiovascolare.
Nello scompenso cardiaco da DVS sistolica l’associazione di
ivabradina alla terapia standard migliora i sintomi, riduce le
ospedalizzazioni e migliora la prognosi dei pazienti in maniera
strettamente dipendente dalla frequenza cardiaca pretrattamento e dall’entità della riduzione della frequenza cardiaca dopo 4 settimane di terapia1,5,7,8.
Nei pazienti con malattia coronarica e DVS sistolica asintomatica e con frequenza cardiaca pretrattamento >70 b/min, il
trattamento con ivabradina riduce le ospedalizzazioni per infarto miocardico fatale e non fatale, in particolare nei pazienti
sintomatici per angina9.
Nei pazienti con angina pectoris e normale funzione ventricolare sinistra, l’ivabradina, riducendo la frequenza cardiaca
basale e la risposta cronotropa in esercizio, è efficace quanto i
betabloccanti nel controllo dell’angina10 e l’associazione con i
betabloccanti è più efficace dei soli betabloccanti nel controllo
dell’angina e dell’ischemia in corso di test ergometrico11.
Non è però noto se la riduzione farmacologica della frequenza cardiaca, riducendo l’ischemia e il consumo miocardico di ossigeno e l’instabilizzazione di placca, riduca gli eventi
coronarici anche nei pazienti con cardiopatia ischemica stabile
e funzione ventricolare sinistra conservata12,13.
METODOLOGIA
Lo studio SIGNIFY14 è stato progettato e condotto per testare
un’ipotesi molto ambiziosa: ridurre la mortalità cardiovascolaG ITAL CARDIOL | VOL 16 | ?????????? 2015
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CHIAVE DI LETTURA
Ragionevoli certezze. Nonostante una frequenza
cardiaca elevata costituisca un marker di rischio
nel paziente con cardiopatia ischemica stabile e
funzione ventricolare sinistra conservata, la
modulazione farmacologica della frequenza
cardiaca con ivabradina non apporta vantaggi
prognostici significativi rispetto alla terapia
incentrata su statine, antiaggreganti, inibitori
dell’enzima di conversione dell’angiotensina, pur
risultando efficace sui sintomi. La stabilizzazione
della placca ateromasica rimane il target
principale della prevenzione secondaria nella
cardiopatia ischemica stabile.
Aspetti controversi. La riduzione dell’angina non
è associata a miglioramento della prognosi,
nonostante l’ischemia e l’angina siano elementi
prognostici definiti nella cardiopatia ischemica
stabile. Come altri studi clinici di
massimizzazione dell’intervento farmacologico in
terapia cardiovascolare, il SIGNIFY ha
confermato che la sicurezza delle molecole
impiegate può essere “messa in crisi” da
interazioni farmacologiche e l’uso di dosi non
approvate dagli enti regolatori, pur in contesti
clinici controllati, può ingenerare risultati inattesi
e fortemente confondenti.
Prospettive. Il trattamento della cardiopatia
ischemica stabile rimane caratterizzato da due
strategie complementari, rispettivamente di
controllo dei sintomi e prevenzione degli eventi.
Dopo il SIGNIFY sarà necessario porre maggiore
attenzione al monitoraggio dei singoli pazienti
relativamente a interazioni, efficacia e sicurezza
dei trattamenti, ed è auspicabile che un processo
di revisione venga avviato per tutti i farmaci
attualmente utilizzati in questo contesto clinico.
re e la frequenza dell’infarto miocardico fatale e non fatale riducendo la frequenza cardiaca in pazienti con cardiopatia
ischemica stabile e funzione ventricolare sinistra conservata, già
trattati con i farmaci “raccomandati” per la prevenzione di
eventi (statine, antiaggreganti, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina [ACE]) e con farmaci di primo livello per
la riduzione dell’ischemia e dell’angina (betabloccanti). L’ipotesi di lavoro è che la riduzione della frequenza cardiaca a valori
<60 b/min ottenga questo risultato riducendo l’ischemia miocardica, il consumo miocardico di ossigeno, la disfunzione endoteliale e lo stress ossidativo.
Sono stati randomizzati e seguiti per un periodo medio di
2.75 anni 19 102 pazienti con cardiopatia ischemica stabile, di
età >55 anni, in ritmo sinusale, con frequenza cardiaca all’arruolamento >70 b/min in due ECG consecutivamente registrati nel periodo di “run-in”, tutti con documentazione di ischemia e/o malattia coronarica. Il 63% di questi pazienti
(n=12 049) lamentava angina (CCS II-IV) e costituiva un grup-
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po prespecificato in cui l’entità dei sintomi faceva presumere
una prognosi peggiore. In questi pazienti alla terapia standard
veniva aggiunta ivabradina partendo da una dose iniziale di 7.5
mg bid con aumento a 10 mg bid, in modo da raggiungere un
target di frequenza cardiaca <60 b/min. I pazienti di età >75
anni iniziavano il trattamento con 5 mg bid e tale dosaggio veniva anche utilizzato in caso di eccessiva bradicardizzazione con
la posologia più elevata.
In base al protocollo di studio, il 51% dei pazienti era trattato con ivabradina 10 mg bid, il 27% con 7.5 mg bid, il 22%
con 5 mg bid. L’età media della popolazione studiata era di 65
anni, la frequenza cardiaca media 77.2 b/min, la frazione di eiezione media 56.4%. La terapia in atto prima dell’aggiunta di
ivabradina era costituita da betabloccanti (83%), statine (92%),
antiaggreganti (97.7%), ACE-inibitori (59%).
RISULTATI PRINCIPALI
La riduzione della frequenza cardiaca nel gruppo di trattamento era di 10 b/min rispetto al placebo (60 vs 70 b/min) e tale differenza era mantenuta per tutta la durata dello studio nell’intera casistica e nel sottogruppo con angina. Il 30% dei pazienti in ivabradina raggiungeva una frequenza cardiaca <50 b/min.
La percentuale di sospensione del farmaco in studio era più
elevata nel gruppo trattato con ivabradina (20.6 vs 14.5%;
p<0.01), principalmente per bradicardia asintomatica e in minor misura sintomatica. Una maggiore incidenza di fibrillazione atriale bradicardia-dipendente era registrata nel gruppo ivabradina rispetto al placebo (5.3 vs 3.8%; p<0.01).
Non vi erano differenze significative riguardo all’endpoint
principale dello studio (endpoint composito di morte cardiovascolare e infarto miocardico non fatale) tra il gruppo placebo e
il gruppo ivabradina (6.4% e 6.8% rispettivamente; hazard ratio [HR] 1.08, intervallo di confidenza [IC] 95% 0.96-1.20;
p=0.20), né vi erano differenze tra i componenti dell’endpoint
stesso: morte per cause cardiovascolari (HR 1.10, IC 95% 0.941.28; p=0.25) e infarto miocardico fatale e non fatale (HR 1.04,
IC 95% 0.90-1.21; p=0.60). Nessuna differenza era inoltre rilevabile per gli endpoint secondari e in particolare per la morte
da ogni causa (HR 1.06, IC 95% 0.94-1.21; p=0.35) e la morte improvvisa (201 casi in ivabradina e 202 casi in placebo).
L’analisi dei sottogruppi mostrava una sola significativa interazione (p=0.02) tra i sottogruppi senza angina (CCS I) e quelli con angina significativa (CCS II-IV), che presentavano andamenti opposti (Figura 1). Nel sottogruppo prespecificato dei pazienti con angina (CCS II-IV) era presente un modesto ma significativo incremento di eventi (HR 1.18, IC 95% 1.03-1.35),
con un trend opposto nel sottogruppo senza sintomi (HR 0.89,
IC 95% 0.74-1.08). In contrasto con la distribuzione degli eventi coronarici, nel sottogruppo con angina (Figura 2) si rilevava
un significativo miglioramento dell’angina (24.8% in ivabradina, 19.4% in placebo, Δ=5.4%; p<0.01) e una significativa riduzione delle rivascolarizzazioni elettive (ivabradina 2.8%, placebo 3.5%, Δ=0.7%, HR 0.82; p<0.01). Nel sottogruppo di pazienti con angina il principale determinante dell’effetto negativo era l’incremento dell’infarto miocardico non fatale (HR 1.18,
IC 95% 0.97-1.42; p=0.09).
INTERPRETAZIONE DEI RISULTATI
I risultati dello studio SIGNIFY indicano chiaramente che la frequenza cardiaca è un marker di rischio ma non un fattore di ri-
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Figura 1. Evidenza di interazione per i sottogruppi con e senza angina, che presentano
andamento opposto nell’outcome primario, in contrasto con la neutralità dello studio
nella totalità della casistica.
HR, hazard ratio; IC, intervallo di confidenza.
Figura 2. Efficacia dell’associazione di ivabradina nei pazienti con angina significativa
(CCS II-IV) sui sintomi e sulle rivascolarizzazioni. L’efficacia sull’angina è stata valutata al
terzo mese di trattamento.
schio nel paziente con cardiopatia ischemica a frazione di eiezione conservata, già trattato al meglio con farmaci in grado di
migliorare la prognosi come gli ACE-inibitori, le statine e gli antiaggreganti piastrinici.
Ridurre la frequenza cardiaca in questi pazienti già a rischio
relativamente basso di eventi in terapia standard (2.82% per
anno) non incrementa la stabilità di placca, e la stessa ipotesi
che la frequenza cardiaca di per sé possa determinare eventi
coronarici in era di trattamento estensivo con statine e antiaggreganti viene smentita.
Viene inoltre smentita anche l’ipotesi che ridurre l’ischemia e ridurre l’angina possa migliorare la prognosi. Per verità
questo risultato del SIGNIFY non rappresenta una sorpresa assoluta. In pazienti con cardiopatia ischemica stabile e normale frazione di eiezione nessun farmaco tra quelli impiegati per
ridurre i sintomi15, inclusi i betabloccanti15,16, si è dimostrato
in grado di migliorare la prognosi e nelle linee guida europee
questi farmaci vengono coerentemente considerati trattamenti finalizzati a migliorare i sintomi, non la prognosi15. Anche la rivascolarizzazione miocardica con angioplastica, che
pure costituisce il trattamento più efficace nel controllo della
sintomatologia15,17, non è in grado di migliorare la prognosi15,18 se non nei pazienti con evidenza di angina severa e/o
ischemia estesa12,15. I determinanti della prognosi nella cardiopatia ischemica stabile (Figura 3) sono del resto molteplici
e la complessità delle interazioni tra ischemia, coronaropatia,
componenti funzionali della malattia e parametri clinici, fa sì
che un singolo intervento farmacologico abbia ben poche
probabilità di essere efficace salvo se non intervenga su fattori
prognostici con ruolo centrale nella genesi degli eventi come
la stabilità di placca (statine) o la formazione del trombo (antiaggreganti).
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Figura 3. Elementi determinanti nella prognosi e fisiopatologia della cardiopatia ischemica stabile. La frequenza cardiaca è solo una
delle componenti cliniche correlate alla prognosi, influenzata soprattutto dall’estensione dell’ischemia e della malattia coronarica e
da una serie di variabili fisiopatologiche direttamente correlate agli
eventi.
CAD, malattia coronarica; MAD, arteriopatia multidistrettuale.
Il problema “critico” nello studio SIGNIFY è però costituito
dalla maggiore frequenza di eventi, principalmente infarti miocardici non fatali, nel sottogruppo di pazienti con angina severa, nei quali il trattamento con ivabradina determina una riduzione delle rivascolarizzazioni e un consistente miglioramento
della sintomatologia (Figura 2), associandosi però a un peggioramento dell’outcome che contrasta con un tendenziale, an-
che se non significativo, miglioramento nei soggetti senza angina (Figura 1).
Quando nei trial clinici si verificano effetti opposti in sottogruppi di pazienti, che potrebbero essere “spuri” ed anche effetto del caso19, occorre sempre ricercare i meccanismi con cui
tali effetti vengono generati. Un possibile meccanismo potrebbe essere costituito dall’eccessiva bradicardizzazione con conseguente riduzione della perfusione coronarica nei pazienti più
gravi e con lesioni coronariche severe: tuttavia l’assenza di una
“curva a J” e/o di un valore soglia oltre il quale si verificano gli
eventi e l’assenza di una relazione tra eventi sfavorevoli ed entità della riduzione di frequenza cardiaca indica che anche altri
meccanismi devono essere operativi.
L’uso di dosi di ivabradina “inusuali” (il 51% dei pazienti
assumeva 10 mg bid) ha sicuramente contribuito alla comparsa di effetti indesiderati, che sono risultati significativamente
più elevati nel SIGNIFY14 rispetto a tutti gli altri studi clinici con
ivabradina1,3,10,11. Per tutti i farmaci, l’aumento delle dosi impiegate aumenta la probabilità di effetti collaterali20 in modo
proporzionale ai livelli plasmatici del farmaco stesso (Figura 4).
Inoltre, altri meccanismi sembrano aver contribuito ad aumentare in maniera imprevedibile i livelli plasmatici del farmaco in studio e di conseguenza gli effetti indesiderati nel sottogruppo trattato. Nel SIGNIFY erano stati randomizzati 1135 pazienti in trattamento con diltiazem o verapamil e 262 assumevano forti inibitori del CYP3A4, che aumentano i livelli plasmatici dell’ivabradina favorendo la comparsa di effetti collaterali anche gravi. In questo gruppo di discreta numerosità (4.6%
della popolazione in studio) si verificava un significativo incremento dell’endpoint primario (+61%) e, in particolare, un incremento del 93% dell’infarto miocardico non fatale. Escludendo questi pazienti dall’analisi, le differenze tra i gruppi si
annullano e, in particolare, l’effetto sfavorevole nel sottogruppo di pazienti con angina severa scompare.
La maggiore frequenza di infarto miocardico non fatale, che
costituisce il principale “driver” dell’effetto sfavorevole nel sot-
Figura 4. Effetto delle dosi crescenti di un farmaco in termini di efficacia clinica
(che tende al “plateau”) e di effetti tossici (che aumentano progressivamente).
Le interazioni farmacologiche aumentano i livelli plasmatici dei farmaci in maniera imprevedibile, aumentando ulteriormente gli effetti sfavorevoli e riducendo la finestra terapeutica.
Modificata da Bottorff e Evans20.
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togruppo con angina, può a sua volta essere spiegato con la
maggiore frequenza di fibrillazione atriale, che aumenta significativamente (+1.5%, p<0.001) nel sottogruppo trattato con
ivabradina, specie nel peculiare sottogruppo di pazienti trattati con farmaci interferenti, verosimilmente per un meccanismo
bradicardia-dipendente21. In pazienti con malattia coronarica
severa, quali sono i pazienti con angina in CCS II-IV, la fibrillazione atriale può determinare dolore toracico protratto associato ad anomalie elettrocardiografiche e/o a movimento enzimatico con conseguente registrazione dell’evento come infarto miocardico non fatale.
Inoltre l’efficacia e la sicurezza di ivabradina è stata valutata in Italia su pazienti reali nel registro AIFA associato al piano terapeutico on-line per la prescrivibilità del farmaco. Dal
febbraio 2008 all’ottobre 2009 sono stati inclusi in questo registro, e valutati ad almeno un follow-up successivo, 14 256
pazienti. In questo campione la percentuale di reazioni avverse gravi è risultata estremamente bassa (0.4%), con un numero di effetti collaterali minori <1% (prevalentemente fosfeni) e una percentuale di decessi per cause cardiovascolari
estremamente bassa (16 pazienti, <0.1%) nel periodo di follow-up valutato, a fronte di un’efficacia elevata nel controllo
degli episodi di angina, ridotti nell’ordine dell’80% nel periodo considerato.
IMPLICAZIONI CLINICHE
Lo studio SIGNIFY è uno studio fisiopatologico, condotto con
metodologia “rigorosa” per la quale il gruppo di trattamento
assumeva nel 51% dei casi dosi di ivabradina non approvate
per l’uso clinico dalle agenzie regolatorie. Inoltre il mantenimento in terapia medica di pazienti con angina severa (CCS >II)
non rispecchia la pratica clinica attuale, che prevede un esame
coronarografico finalizzato alla rivascolarizzazione per questa
tipologia di pazienti15.
Come tutti gli studi condotti con un disegno e una metodologia non usuale nella pratica clinica è difficile trarre delle
conclusioni che siano valide per il clinico. Tuttavia, alcune implicazioni pratiche sono individuabili:
1. la modulazione della frequenza cardiaca con ivabradina non
ha impatto prognostico ma è utile per il controllo dell’ischemia e dei sintomi ad essa correlati, come già emerso
in altri studi10,11,15;
2. l’ivabradina nell’angina stabile deve essere utilizzata in alternativa ai betabloccanti se controindicati o non tollerati o
in associazione ad essi se la frequenza cardiaca è >70 b/min
ed esclusivamente alle dosi consigliate, iniziando con 5 mg
bid e con “up-titration” a 7.5 mg bid se necessario. Poiché
la modulazione della frequenza cardiaca nella cardiopatia
ischemica stabile non ha impatto prognostico, non è necessario raggiungere un target di frequenza cardiaca prefissato. Non cambiano pertanto le indicazioni delle linee
guida15;
3. va posta grande attenzione alle possibili interazioni farmacologiche e vanno assolutamente evitate associazioni con
diltiazem, verapamil o inibitori forti del CYP3A4;
4. un controllo a 3 mesi dei pazienti trattati è utile per verificare l’efficacia del trattamento sui sintomi;
5. la presenza di DVS sistolica costituisce un indicatore importante per l’uso preferenziale di ivabradina nei soggetti con
malattia coronarica, perché questi pazienti nei quali i calcioantagonisti sono controindicati e per altri farmaci non
sussistono evidenze, sono quelli che si giovano anche a scopo prognostico dell’impiego di ivabradina in associazione
ai betabloccanti quando la frequenza cardiaca basale rimane in terapia standard al di sopra dei 70 b/min9,15.
Dopo il SIGNIFY è stata aperta dagli enti regolatori una procedura di verifica della sicurezza di ivabradina nei pazienti con
cardiopatia ischemica stabile. Tuttavia, esistono molte indicazioni sulla sicurezza del farmaco alle dosi approvate dagli enti
regolatori provenienti da numerosi studi clinici controllati in pazienti con angina stabile10,11, con cardiopatia ischemica e DVS3,9,
con scompenso cardiaco e severa DVS1,4,5,7.
CONCLUSIONI E PROSPETTIVE
Nonostante una frequenza cardiaca elevata costituisca un marker di rischio nel paziente con cardiopatia ischemica stabile e
funzione ventricolare sinistra conservata, la modulazione farmacologica della frequenza cardiaca ottenuta con l’implementazione di ivabradina alla terapia standard non apporta vantaggi prognostici significativi14 rispetto alla terapia incentrata
su statine, antiaggreganti, ACE-inibitori. Anche nei pazienti con
angina significativa il beneficio clinico del trattamento è limitato al miglior controllo dei sintomi e alla riduzione delle rivascolarizzazioni, senza che questo si associ a un miglioramento prognostico.
Che la riduzione dell’angina non sia associata a miglioramento dell’outcome costituisce un risultato solo apparentemente sorprendente: in realtà tutti i farmaci utilizzati per il
controllo dei sintomi nella cardiopatia ischemica stabile senza
disfunzione contrattile non hanno finora dimostrato di poter
migliorare la prognosi di questi pazienti “on top” della terapia di prevenzione secondaria incentrata sull’impiego delle
statine e degli antiaggreganti che sono gli unici farmaci, insieme agli ACE-inibitori, in grado di ridurre gli eventi coronarici15,18,21.
Come altri studi clinici di massimizzazione dell’intervento
farmacologico in terapia cardiovascolare, il SIGNIFY ha confermato che la sicurezza delle molecole impiegate può essere
“messa in crisi” da interazioni farmacologiche e che l’uso di
dosi non approvate dagli enti regolatori, pur in contesti clinici
controllati, può ingenerare risultati inattesi e fortemente confondenti20,22,23.
I risultati del SIGNIFY non modificano la pratica clinica né
modificheranno le linee guida riguardanti l’angina stabile. In
caso di funzione ventricolare sinistra conservata l’ivabradina resta un farmaco di seconda linea in aggiunta ai betabloccanti o
in alternativa ad essi per il controllo dei sintomi, con indicazione a considerare la rivascolarizzazione in caso di inefficacia o efficacia solo parziale, senza un obiettivo di frequenza cardiaca da
raggiungere assolutamente prima di ritenere inefficace la terapia stessa12,15. In caso di funzione ventricolare sinistra ridotta,
l’associazione di ivabradina ai betabloccanti in presenza di frequenza cardiaca ancora >70 b/min, resta una indicazione consigliata dalle linee guida non solo per migliorare i sintomi, ma
anche per migliorare la prognosi a distanza9,15.
Dopo il SIGNIFY sarebbe auspicabile la verifica dell’efficacia di tutti i farmaci utilizzati nella terapia dell’angina stabile a
funzione ventricolare sinistra conservata con studi prospettici
su popolazioni di dimensioni adeguate.
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RIASSUNTO
La frequenza cardiaca è un marker di rischio nei pazienti con cardiopatia ischemica stabile. Nel recente trial SIGNIFY l’associazione
di ivabradina alla terapia standard per ridurre la frequenza cardiaca in una popolazione a basso rischio di eventi trattata al meglio
con statine, antiaggreganti e inibitori dell’enzima di conversione
dell’angiotensina non ha migliorato la prognosi. Si è verificata inoltre una significativa interazione per gli effetti dell’ivabradina tra
sottogruppi con e senza angina, con esiti lievemente ma significativamente peggiori nei pazienti con angina in classe CCS >II. La
spiegazione di questo sorprendente risultato non è chiara, anche
perché non è stata rilevata una curva a J per la frequenza cardiaca. Noi ipotizziamo che il sottogruppo di pazienti (4.6%) trattato
con diltiazem, verapamil e inibitori forti del CYP3A4 abbia condi-
zionato la frequenza di effetti sfavorevoli, soprattutto l’insorgenza
di fibrillazione atriale e di conseguenza di sindromi coronariche acute associate alla tachiaritmia. Escludendo questo sottogruppo di
pazienti non si rilevano significative differenze tra i due gruppi di
trattamento (placebo e ivabradina).
In conclusione, la frequenza cardiaca è un marker di rischio ma non
un fattore di rischio, né rappresenta un target di terapia in pazienti affetti da cardiopatia ischemica stabile con funzione sistolica del
ventricolo sinistro conservata. Ivabradina a dosi standard rimane indicata per il trattamento dell’angina in alternativa o in associazione
ai betabloccanti ma non deve essere associata ai forti inibitori del
CYP3A4 o a calcioantagonisti che riducono la frequenza cardiaca.
Parole chiave. Betabloccanti; Frequenza cardiaca; Ivabradina;
Scompenso cardiaco.
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