COS’E’ L’IVABRADINA
Prima applicazione clinica, frutto di una scoperta italiana
La frequenza cardiaca è regolata dal nodo senoatriale, gruppo di cellule cardiache dove
origina l’attività di pacemaker, il “segnapassi”. A differenza delle altre cellule del
muscolo cardiaco, queste cellule (miociti senoatriali) hanno la capacità di depolarizzarsi
e generare autonomamente il potenziale d’azione, un’onda che si propaga a tutto il
muscolo cardiaco. Il meccanismo sottostante a questa corrente autogenerata fa capo alla
corrente ‘If’ (“funny”) descritta per la prima volta da un’equipe di ricercatori italiani
condotta dal prof. Dario Di Francesco di Milano alla fine degli anni ‘70. Il sistema
nervoso simpatico (noradrenalina) accelera la FC, mentre il sistema parasimpatico la
riduce.
Negli ultimi decenni la ricerca si è rivolta verso lo studio di agenti bradicardici
selettivi che prevenissero gli attacchi ischemici senza avere gli effetti collaterali dei
farmaci in uso. In altre parole, composti che abbassassero la frequenza cardiaca,
riducendo il consumo di ossigeno, che non alterassero la contrattilità miocardica, come i
beta-bloccanti, né la circolazione coronarica sia a riposo che in esercizio e senza agire a
livello periferico sulla muscolatura liscia vascolare, come i calcio-antagonisti.
Dopo la metà degli anni ’90 fu sviluppato un primo derivato solo parzialmente selettivo
della corrente If, la zatebradina, che arrivò ai test clinici, ma il suo sviluppo è stato
interrotto per gli effetti collaterali.
Una maggiore selettività e specificità per i canali If è stata ottenuta con l’ivabradina,
permettendo così l’uso di dosi relativamente elevate con una buona inibizione della
corrente If e una riduzione efficace della frequenza cardiaca. Questo effetto conduce ad
una ridotta domanda di ossigeno nel miocardio e migliora l’apporto di sangue
all’endocardio: due aspetti importanti nel trattamento della malattia ischemica.
L’ivabradina rappresenta quindi la prima applicazione clinica frutto delle scoperta
italiana dei canali ‘If’.
L’ivabradina, determina l’inibizione dei canali If e la riduzione della frequenza
cardiaca, senza abbassare la pressione arteriosa. Quale inibitore specifico dei canali If,
non ha effetti apprezzabili a livello del muscolo cardiaco atriale e ventricolare, rallenta
la depolarizzazione diastolica senza alterare la durata del potenziale d’azione, non
modifica la velocità di conduzione intratriale, atrioventricolare o intraventricolare, né
modifica la contrattilità, come invece accade con i calcio-antagonisti e i beta-bloccanti.
Non ha effetti sui vasi periferici, né sul sistema di conduzione cardiaca, né effetto
rebound alla sospensione o tolleranza farmacologica in seguito ad uso prolungato.
Gli studi clinici
L’ivabradina è stata approvata nel corso del 2005 dall’Agenzia europea del farmaco
(EMEA). È gia in commercio nel maggiore parte dei paesi europei e da alcuni mesi
anche in Italia per la terapia dell’angina.
Il farmaco ivabradina è stato l’unico inibitore dei canali If a raggiungere lo sviluppo
clinico in fase III. Molti studi preclinici hanno dimostrato l’efficacia anti-ischemica
dell’inibizione dei canali If e dell’ivabradina come anti-anginoso. Trial clinici hanno
coinvolto più di 6.000 pazienti (i più vasti mai condotti sull’angina), in cui sono stati
valutati gli effetti anti-ischemici e anti-anginosi, rispetto a placebo o a due faramci
correntemente in uso come atenololo (beta-bloccante) o amlodipina (calcioantagonista). Un effetto collaterale abbastanza raro è rappresentato da sintomi oculari
dose-correlati (fosfeni - visione offuscata). Questi effetti sono generalmente transitori, e
comunque reversibili, e molto raramente tali da indurre il paziente a interrompere la
somministrazione del farmaco.
Lo Studio COURAGE (Clinical Outcomes Utilizing Revascularization and Agressive
DruG Evaluation), condotto tra il 1999 e il 2004, ha interessato quasi 2.300 pazienti con
ischemia miocardica e malattia coronarica confermata angiograficamente. La metà di
questi pazienti, seguiti fino a 7 anni, hanno subito una procedura di angioplastica
coronarica prima di ricevere una terapia farmacologica ottimale, mentre l’altra metà ha
ricevuto soltanto questa terapia farmacologica.
I risultati tra i due gruppi sono statisticamente paragonabili, evidenziano quindi
l’importanza di impostare, nei pazienti con malattia coronarica, una terapia
farmacologica precoce ed ottimale.
Lo studio BEAUTIFUL (morBidity-mortality EvAlUaTion of the If inhibitor ivabradine
in patients with stable coronary artery disease and left ventricULar systolic
dysfunction), iniziato nel dicembre 2004 e i cui risultati vengono presentati quest’anno
al Congresso ESC di Monaco, valuta l’efficacia dell’ivabradina in pazienti con malattia
coronarica stabile e disfunzione ventricolare sinistra. Lo studio ha coinvolto 10.917
pazienti in 781 centri di 33 Paesi dei 4 continenti. Ha infatti dimostrato che nei
cardiopatici con frequenza al di sopra dei 70 b/m aumenta progressivamente il rischio di
infarto (46%), scompenso cardiaco (56%) e mortalità (34%).
In questi pazienti l’ivabradina ha ridotto il rischio di infarto del 36% (P=0.001) ed il
rischio di rivascolarizzazione coronarica del 30% (P=0.016) nonostante i pazienti
fossero già in terapia ottimale secondo le linee guida: anticoagulanti (94%), ACEinibitori o bloccanti dell’angiotensina II (91%), -bloccanti (87%) e ipolipemizzanti
(76%).