LE CASTE SACERDOTALI IN
INDIA
IL SISTEMA SACERDOTALE DAI VEDA AL
BUDDHA
Il sistema delle caste sacerdotali, col suo severo isolamento e molteplice differenziazione, é
un prodotto della teoria brahmanica, che ha così accomodate le cose via via che la sua propria
cultura s'imponeva. D'altra parte la teoria non sarebbe sorta se il popolo non fosse stato diviso
per classi e per mestieri. La teoria delle caste trovò il suo fondamento reale nelle classi della
popolazione effettivamente esistenti e formatesi così presso gl'Indiani come presso gli Irani.
Il fatto di fissare i limiti con maggior rigore, di aumentare la distanza tra casta e casta deriva
innanzi tutto dalla pretesa del sacerdozio di essere la prima casta. Quanto più si rafforzava la
posizione speciale del brahmano e diveniva eccezionalmente favorevole per una quantità di
regole e provvedimenti, tanto più la teoria si affermava e s'imponeva in tutto l'ambito della
vita del popolo.
Nella teoria delle casta sacerdotale furono in origine formulate le pretese del brahmanesimo e
fu esso a dargli la sua organizzazione. In realtà la preminenza della casta si è affermata a poco
a poco. Nell'India antica la classe dominante era veramente la nobiltà, il ceto laico
cavalleresco e colto, ed aveva piena e netta coscienza della dignità della propria casta anche
contro i primi brahmani.
Può essere dunque che la teoria sociale del brahmanesimo, partendo da un dato ordinamento
del popolo in classi e mestieri, cioè dalla divisione del lavoro, ed intensificandolo, abbia
teoreticamente preparato la sua casta ed introdottela nella vita indiana.
Però la formazione della casta può essere forse germogliata in una regione ad occidente,
considerata come terra dei brahmani.
Nell'oriente dell'India, nei territori di Magadha e Videha, era ancora ignota nel sesto secolo a.
C. Solo con la diffusione della cultura e religione brahmanica in India, anche la casta ha
acquistato influenza nel plasmare la vita reale e solo nel medio evo indiano si è aperta del
tutto la strada.
In questo secondo stadio il brahmano é soprattutto sacerdote sacrificatore. Col raffinamento
della tecnica del culto sacrificale sorgono forme speciali di sacerdozio. Chi vuole offrire un
sacrifizio, ne affida il compimento al sacerdote. Quindi egli dirige il rituale come « sacerdote
domestico » di un nobile o del re, ovvero ha il posto di « sacerdote sacrificale » e serve come
tale. Il sacerdote di corte o Purohita é sorto da una professione sacerdotale già ereditaria.
Ai sacerdoti sacrificali (Rtvijas) ci si può rivolgere per ogni sacrificio o per determinate
operazioni rituali. Si tratta di sette uffici tecnicamente fissati, accresciutisi col tempo. Altri
uffici sorsero da sacrifici speciali, soprattutto dal sacrificio del Soma, il cui culto ha gran parte
nella religione indiana, come già nella iranica. È un "succo" inebriante, ottenuta pestando gli
steli di una pianta, finora non identificata (*), che cresceva sui monti della Battriana e nel
Himâlaya occidentale. Il culto del Soma ci mostra un tratto della religione primitiva praticata
dagli Ari nelle loro sedi antichissime. Accanto al fuoco, in cui appareAgni, il Soma è pure una
divinità, sebbene quella bevanda sia preparata dall'uomo.
(*) Probabilmente è la "esclepias acida" - pianta che forniva una bevanda inebriante, il
"succo" capace di conferire la comunione col mondo divino. - non dimentichiamo che "succo"
in indiano è anche opis, poi in greco opion - ci sembra chiaro il riferimento all'Oppio Chiamato anche soma Himalaiano "il cibo degli dei" .
In un laboratorio di San francisco al Langley Porter Hospital, all'EEG e sulla PET, sono stati
analizzati i cervelli di alcuni monaci trascendentali del Tibet. Digiuni, meditazioni,
monotonie, resistenza al freddo, ipoglicemia, ritmi cardiaci rallentati, sono i segreti della
filosofia trascendentale, e sono oggi perfettamente riproponibili in laboratorio con
psicofarmaci appropriati. Ormai così diffusi.
Gli indo-ariani della zona - dove nascono moltissime queste piante - ne abusarono così tanto
del “succo” , che col tempo il cervello si fabbricò dei recettori specifici per assorbire questi
alcaloidi; che sicuramente, alteravano una realtà scomoda e ostile, e quindi la facevano
apparire migliore. Non è andato molto lontano dalla verità colui che ha definito che "le
religioni sono l'oppio dei popoli".
Per creare e dialogare col suo interiore il soggetto, ha bisogno di silenzi con l'esterno, ha
bisogno di quella che chiameremo poi ascesi, misticismo, contemplazione, viaggi
nell'interiore. Ma qualcuno di loro voleva entrare nel modo piu' breve nel mondo degli spiriti
eletti, e ha scoperto il "succo". E gli eredi che ci hanno lasciato pretendono anche loro di
sentire l'alleluia facendosi un "buco" o bevendo falsi "succhi"come le "predicazioni". Molti in
seguito hanno approfittato di questi deboli, ad ogni latitudine. La maggior parte di certi
insegnamenti mistici sfruttano questi stati di coscienza particolari alterati. Un terreno fertile
dove molti predicatori ciarlatani ci sguazzano, o meglio si sono costruiti la loro forza e le loro
ricchezze. "Saranno magari anche non vere le "storielle", ma lasciamo che ci credono fin
quando a noi che le raccontiamo ci permettono di campare bene" disse un famoso
rappresentante religioso.
Non abbiamo dubbi, che il nostro soggetto sta imparando che esiste qualcosa al di la' del
mondo reale, infatti ognuno di noi, in determinate situazioni va oltre questo confine, lo
avverte come bisogno in modo chiaro, anche se lo vede in una forma indefinita e astratta. Si è
scettici solo quando l' esistenza è positiva e ci si crede immortali, ma quando si è deboli e
tutto appare caduco, ci si rivolge al cielo e si adotta il più pernicioso atteggiamento: la
rassegnazione; che viene inculcata dal predicatore illudendo il poveretto che verrà
ricompensato con una giusta ricompensa nell'aldilà.
Ma ha fatto anche un'altra cosa il cervello, ha imparato a prodursele da solo certi oppiacei, in
casi di astinenza non vuole rinunciare all'euforia, all' estasi; cioe' ha imparato a fabbricarsele
queste sostanze.
Grande fu nel mondo la sorpresa, quando Kosterlitz-Hughes e Snyder nel 1978-1984
scoprirono che non c'erano nel cervello solo e semplici recettori di oppiacei (come utenti) ma
aveva il cervello "messo su fabbrica". (Candace Pert fece poi il resto - fu lei a scoprire le
Endorfine - e la sorpresa fu grande.)
Alcune di questi oppiacei (modificanti la ns. realtà che ci è in certi casi scomoda, affliggente,
dolorosa, depressiva, e la vogliamo fuggire questa realtà con i pensieri trascendentali , è
appunto il cervello stesso a fabbricarseli; chiamate oggi encefaline oendorfine (acronimo
di endogeno=nate insieme, e da morfina).
Noi tutti tendiamo a pensare che gli eroinomani (i drogati) vivano in un paese artificiale di
fumi, mentre il resto di noi vivrebbe in un "mondo reale", cosciente, in nulla contaminato, una
inossidabile proba esistenza invece la verità scomoda è che non esiste una realtà libera da una
"contaminazione chimica", perché il massimo produttore e utente di droghe è proprio "LUI" il
nostro cervello umano che sa cosa fabbricarsi in certe situazioni e come mantenere certi livelli
di alcune sostanze, una per eccellenza è la serotonina. A ciascuno di noi in particolari
situazioni di disagio psichico (mancanze di certezze, il grande bisogno di ricorrere al divino) è
LUI che va a modificare più o meno la realtá di ciascuno di noi, a soddisfare la speranza e
l'illusione di come la desideriamo.
Facciamoci caso: nella forma cosi' deviata sia nel mondo arcaico che nell' attuale ne
usufruiranno poi 3 mondi diversi: i deprivati mistici, i deprivati schiavi e infine traslato,
ideprivati che hanno (che paradosso!) il benessere (è ben noto che nei ceti alti è abbastanza
diffuso l'uso di narcotici)
In tutti questi casi, il comune denominatore è la deprivazione dei desideri (azione costrittiva),
l'impedimento per conquistarli (azione punitive del più forte) o l'insoddisfazione (se si sono
appagati questi desideri senza lottare).
Il primo rinuncia alla lotta, il secondo è soccombente perche' è costretto a rinunciare alla lotta
(si sente sconfitto con se stesso) mentre il terzo e' soccombente perche' sa di non aver
conquistato nulla (é umiliato innanzitutto con se stesso e non accetta la sconfitta)
Ed e' tipico che ai succedanei della felicitá vi ricorrano sia quelli che non possiedono nulla
(gli schiavi di una volta) sia quelli che hanno tutto, onori, soldi; bellezza, successo (gli schiavi
moderni). Entrambi devono far tacere tutte le spinte, che provengono da un mondo arcaico
lontanissimo (di lotte) e per farlo, illudendosi, partecipano all'eccitazione generale senza
averne i meriti. Ma alcuni inetti, apatici, anche se partecipano alla "festa" sanno di partecipare
a un' euforia fasulla, e cessata la festa, zitto l'ultimo tamburo, arriva lo stato di angoscia, di
vuoto, di inquietudine: E' il confronto con i propri simili che agita l'anima.
MORFINA - Venne scoperta nel 1805 dal chimico tedesco Friedrich Serturner (1783-1841)
isolandola dal laudano (un preparato a base di oppio) molto più efficace del preparato stesso
per lenire il dolore e nell'indurre al sonno; proprio per quest'ultima caratteristica fu chiamata
"morfina" dal termine greco che significa "sonno".
Nota: in una forte depressione (che è un forte calo del livello della serotonina il 5-hiaa
(angoscia persistente), il ciarlatano non può darci nessun razionale rimedio, il neurologo sì!
conosce il meccanismo chimico.
TORNIAMO ALL'INDIA
Con Agni e Soma comincia un processo religioso, che culmina nella teoria indiana del
sacrificio (inteso come funzione sacra, offerta di prodotti vegetali, animali o anche umani alla
divinità) . Così facendo non solo l'uomo può, nel culto, mettersi in rapporto con gli dèi; può
farli persino soggetti alle sue azioni. In ciò sta prima di tutto il punto di partenza per la
speculazione indiana sul sacrificio; nel rapporto tra gli uomini e gli dèi vien concepito il
problema dell'essenza del mondo, foggiato nelle religioni dell'India con grandissima forza di
pensiero ma anche con sfrenata fantasia (alterazione dovuta al soma).
Nel rituale più antico non figuravano, a quanto pare, se non i due sacerdoti cui spettava la
recitazione e l'offerta del sacrificio. Solo il periodo vedico meno antico conosce l'ufficio del
Brahman, che sorveglia in silenzio le operazioni del culto e può annullare tutti gli errori
commessi contro le regole del rituale. Con lui é penetrata nel rituale la concezione indiana
della potenza del pensiero.
II sacerdozio sta in origine al servizio della religione popolare. Ma quanto più la religione è
esercitata da un ceto sacerdotale, tanto più profondamente l'efficacia del pensiero sacerdotale
si fa sentire sulla religione stessa.
Non solo esso riplasma gli déi della fede popolare, ma crea nuovi aspetti di divinità. Nel Veda
si trovano già divinità sorte dal pensiero brahmanico. La potenza del sacrificio e della
preghiera, e quindi dei brahmani, si rispecchia in Brhaspati; a lui, come al sacerdote celeste,
anche gli dèi debbono la loro parte di sacrificio. Se in lui si esprime la coscienza della casta,
altre figure attestano il pensiero filosofico degli ambienti brahmanici.
All'inizio della speculazione indiana troviamo problemi cosmologici. L'idea di una forza
creatrice del mondo vien personificata in Prajâpati e Viçvakarman. La rappresentazione di
questa forza suprema non può ancora liberarsi del tutto dalle forme mitologiche. Eppure con
ciò il pensiero crea delle forze ben superiori agli dèi. Questo architetto del cielo e della terra,
cui tutte le creature debbono la vita e la forza, è il DIO UNICO.
Solo in grazia a lui sono sorti anche gli déi. Ma la sua essenza è imperscrutabile. Brahman è
un'altra creazione della speculazione. Il brahman (neutro) è in origine la formula magica,
mediante la quale il mago primitivo esercita il suo potere. La forza misteriosa in essa nascosta
viene individualizzata e divinizzata.
La stessa concezione determina la preghiera, che non consiste solo in parole, ma agisce
innanzi tutto nella forma della meditazione, dello sprofondarsi nel divino. L'afferrare col
pensiero l'infinito è la potenza suprema, il brahma. Questo é il punto di partenza della
filosofia brahmanica.
In ogni tempo l'uomo ha agito da essere pensante col mettere in rapporto con sé stesso e tra di
loro i fenomeni del mondo e i fatti dell'esperienza. Ma il pensiero ingenuo non sa riconoscere
che quella relazione si effettua puramente mediante le condizioni della vita intellettuale. Gli
Indiani sono pervenuti al pensiero scientifico in quanto videro un problema nel rapporto del
mondo all'infuori di noi col mondo che è oggetto della nostra rappresentazione. (corrisponde
in occidente la filosofia di Arturo SCHOPENHAUER - Il mondo come volontà e
rappresentazione).
L'indagare il processo stesso di questa cognizione è il presupposto della considerazione
scientifica del mondo. Nella mente indiana si compì il passaggio dal pensiero ingenuo e
rivestito di forme mitologiche alla considerazione scientifica del mondo. Ma la loro filosofia
muove dalla religione e in India non se ne è mai distaccata del tutto. Perciò anche le opere più
alte del pensiero indiano risentono della loro impostazione mitologica.
La storia del pensiero indiano indipendente si può dividere in tre capitoli. L'età vedica mostra
i primi accenni alla psicologia nei canti meno antichi del Rgveda, e perfino i primi accenni di
scetticismo riguardo ad ogni cognizione. Si è quindi compiuto un rivolgimento negli ambienti
brahmanici con la elaborazione, in senso profondamente speculativo, della credenza primitiva
alla metampsicosi.
Nelle Upanishad le classi colte laiche appaiono come la maggior forza creatrice del
movimento filosofico. Infine, all'incirca dal VI secolo a. C. in poi, la filosofia scientifica crea
sei sistemi che passano per «ortodossi» in quanto si richiamano anch'essi al Veda come fonte
rivelata di cognizione.
Parallelamente si trovano indirizzi eretici in scettici e materialisti notevolissimi. Tutto quanto
il mondo del pensiero indiano, però, si basa sull'antichissima credenza popolare nella
metampsicosi e svolge quest'unica idea: mediante la cognizione filosofica del mondo e
dell'anima si effettua la liberazione dal cerchio eterno delle nascite e delle morti.
Le grandi creazioni filosofiche dell'India sono comunemente considerate opera del
brahmanesimo. Ma la partecipazione dei brahmani alla vita intellettuale costituisce un
problema difficile. Anche qui dobbiamo risalire alle fasi anteriori, per intendere i grandi
contrasti che riempiono il brahmanesimo. La professione del sacerdote si esplica nella
celebrazione dei sacrifizi; su ciò si fondano e la sua posizione materiale e la sua reputazione
ed influenza. È umano che le pretese crescano. L'avidità dei sacrificatori vedici ha esigenze
spesso veramente terribili e la posizione che l'ambizione sacerdotale richiama per sé passa
ogni misura.
Nella letteratura rituale e giuridica ambedue le tendenze sono messe a nudo. Questo indirizzo
del sacerdozio non poteva aver la forza di produrre creazioni né di alto pensiero né di alta
fantasia; (com in occidente nei "secoli bui") il che é dimostrato dall'irrigidirsi della religione
nelle formule fisse dalla liturgia dall'Avesta, non meno che nel rituale brahmanico del
sacrificio, così povero d'idee. Ma questa è solo una delle vie, quella determinata
tecnicamente, che ha preso l'evoluzione del sacerdozio.
Già nella prima età ariana esso si era messo a capo anche della vita intellettuale.
Dall'ambiente di interessi puramente materiali il pensiero si volgeva agli esseri ed alle forme
cui esso serviva. Il problema di comprendere l'essere interiore era un mezzo per aumentare le
forze intellettuali. Il pensiero si trovava davanti al problema di comprendere il mondo, di
afferrare il rapporto tra l'esperienza umana e la sensazione.
Gli dèi vengono spinti dentro a questo rapporto e sottomessi alle idee che si approfondiscono,
svolgendo la religione dal di dentro dell'uomo.
Lo stesso mondo degli déi si riempie di figure etiche, nelle quali solo da pochi accenni
traspira ancora la connessione con divinità naturali elementari; talvolta sorgono a tutta prima
come forze morali.
L'ultimo passo porta ad un concetto di dio del tutto spirituale, a forme che sono puri simboli
di astrazione. Zarathustra vi é pervenuto. Ma non mancano inni vedici che attestano già lo
spiritualizzarsi ed approfondirsi della religione.
I primi frutti riconoscibili del pensiero indiano sono già contenuti in singoli canti
delRgveda ed Atharvaveda. Accanto alle concezioni religiose vi troviamo speculazioni
filosofiche. I primi accenni ad una psicologia si trovano in una poesia sull'«organo del
pensiero» (manas), descritto come «cognizione, coscienza e volontà, luce immortale nelle
creature, senza del quale niente si fa... che abbraccia ogni cosa immortale, passato, presente
e futuro... come un buon auriga i cavalli, guida esso qua e là gli uomini; sta fermo nel cuore e
pure é mobile, di tutte le cose il più veloce».
Gli Indiani hanno rivolto assai presto l'attenzione al difficile problema psicologico del
pensiero. Cercano di risolverlo coll'ammettere l'esistenza di un organo formato di materia
sottilissima, che agisce nell'uomo e le cui funzioni costituiscono i processi del pensiero.
Questo organo interno (manas) occupa un posto importante nella filosofia indiana posteriore.
Già per il pensiero mitologico il mondo è oggetto di riflessione. E già nell'età vedica dalla
cosmologia mitologica si svolse una cosmogonia, che cerca di afferrare in via speculativa la
creazione e l'esistenza dal mondo e che, soprattutto, comincia a porre domande, con dubbio
audace. Nel profondo inno della creazione (Rgveda X, 129) questo movimento trova la più
grandiosa espressione.
«Non il Non-Essere vi era, non l'Essere vi era allora; non v'era l'aria, non il cielo eccelso.
Che cosa si mosse ? dove ? e per spinta di chi ? l'acqua esisteva e l'abisso profondo? - Non
Morta vi era, nè immortalità: né fra notte e giorno vi era divario. Respirava, senza vanto, per
sua propria forza quell'Uno; a all'infuori di Esso altra cosa non vi era ».
Descritto così lo stato anteriore alla creazione, il poeta dice come sorse il mondo:
«Nacque esso dalla forza del «Tapas» (cfr. il latino tep-or)), dal «Calore o Fervore», cioè
dall'ardente, intimo desiderio di creare.
Quest'«Uno», pensato già come un essere spirituale, viene afferrato dalla potenza di
«Amore», prima manifestazione dal suo pensiero. Questo « Amore» (Kâma) non è altro che
l'impulso dalla procreazioni, la spinta a creare sentita dall'essere primordiale.
«Il legame dell'Essere col Non-Essere trovarono nel cuore, meditando, i vati sapienti».
Nel desiderio sta dunque l'origine di ogni esistenza. E allora si comprende l'ascetica indiana,
che cerca di togliere di mezzo l'origine del dolore mediante la soppressione di tutti i desideri,
prima fonte di questa miserabile esistenza.
Ma già qui accanto alla speculazione filosofica si affaccia la domanda se tali cognizioni siano
propriamente sicure. Ed ecco criticati, negli ultimi versi, i risultati dalla riflessioni:
«Chi sa certamente, chi può qui spiegare donde è nata, donde questa creazione? (Se) gli dèi
vennero dopo questa creazione, chi sa donde essa è venuta ? - Questa creazioni donde é
venuta, se fu creata ovvero increata? Colui cha la vede dall'alto dal cielo, Egli invero lo sa?
oppure non lo sa ? ».
In questo inno appare nello stesso tempo un concetto filosofico di Dio, per il quale gli déi
della fede popolare impallidiscono di fronte a questo dio supremo e personale. Già nell'età
vadica si comincia a dubitare dell'esistenza degli déi popolari. In un antico inno in lode di
Indra (Rgvada, II, 12) si parla di gente che domanda « Dov'è ? » e che dice che « non esiste ».
Non vi era dio così vicino al sentimento popolari come Indra; eppure un altro inno (VIII, 100,
3-4) afferma che molti dicevano: « Indra non esiste ! Chi mai lo ha visto? Chi è colui che noi
celebriamo? ».
Il poeta ricorre allo stesso mezzo adoperato dall'autore dal libro di Giobbe: Indra stesso
appare in tutta la sua potenza e grandezza a risponda con superba parola: «Eccomi qui, o
cantori ! guardami! tutti quanti gli esseri io supero in grandezza ».
Dinanzi all'approfondirsi dal pensiero dileguava soprattutto la molteplicità degli déi. In un
inno del Rgveda (X, 121) si dice apertamente cha tale molteplicità di esseri divini non esiste.
Uno solo può essere creatore e conservatore del mondo.
Dalla speculazione cosmologica si é svolto il pensiero di quest'unico dio personale e creatore.
I nomi che gli si dànno (Prajâpati, Brahmanaspati, Viçvakarman) mostrano che non deriva
dalla rozza e caotica religione popolare, ma da un concetto filosofico della divinità.
Infine il creatore dell'universo diventa un principio creatore puramente intellettuale,
impossibili a designarsi con alcun nome. Nell'inno cosmologico é chiamato semplicemente
« l'Uno ».
Siamo con questo pervenuti agli inizi della massima opera del pensiero indiano, la profonda
dottrina dell' Uno universale. Insegna essa che la molteplicità dei fenomeni, riflessa nei
numerosi dèi dalla credenza popolare, non é in realtà se non la evoluzione dell'Uno,
dall'Eterno, del principio mondiale.
Quest'idea informa la dottrina upanishadica dell'anima dal mondo. In un verso del Rgveda(I,
164, 46) questa dottrina dall'unità é chiaramente espressa:
«Lo chiamano Indra, Mitra, Varuna, Agni; [per altri é] l'augello divino dalle belle ali; quello
che é Uno, i poeti dicono in più modi: Agni, Yama, Mâtariçvan ».
Con ciò é preparata la grande evoluzione di pensiero rappresentata dalla Upanishad.
Dopo quanto abbiamo letto nel precedente capitolo, la letteratura dell'epoca vedica è, alla pari
di quella dell'alto medioevo in occidente, opera della classe clericale. Un rivolgimento in
questo come in tutti gli aspetti della vita indiana doveva recare l'invasione di Alessandro e il
contatto stabilitosi con l'occidente in seguito ad essa. Ma prima di passare a trattare questo
nuovo periodo dobbiamo brevemente soffermarci su questo medioevo indiano e considerare le
due religioni (buddhismo e il jainismo) sorte in opposizione al brahmanesimo prima ancora
della fine di quello vedico.
Il problema che jainismo e buddhismo si pongono, è quello che abbiamo visto divenuto
comune a tutte le religioni e filosofie indiane: come sfuggire al Samsâra, al cerchio delle
esistenze. La soluzione accennata nelle Upanisad, la conoscenza cioè dell'âtman-brahman e il
distacco dalla vita mondana, rispondeva a una tendenza dell'epoca, e brahmani e non
brahmani si ritiravano nella selva a condurvi la vita di asceti o çramana, meditando e vivendo
in povertà; ma non pochi si davano alla pratica di severe penitenze, mentre altri cercavano in
quella dello yoga, cioè di particolari atteggiamenti ed esercizi fisici, l'ottenimento di estasi
durante le quali si innalzavano o credevano di innalzarsi a contemplazioni sovrumane,
distaccandosi completamente dal mondo circostante.
Anticipiamo con una breve sintesi poi illustreremo meglio.
JAINISMO - È dalla cerchia degli çramana che sorgono le due religioni sopra nominate. La
prima ha il suo nome da Jina "vincitore", termine divenuto fisso dal suo fondatore Nâtaputta.
Secondo costui l'agire (karman) sorge dall'accecamento e produce a sua volta nascita e morte,
cioè il dolore; l'accecamento proviene dal desiderio cui bisogna quindi estirpare. Ciò avviene
in buona parte con pratiche ascetiche e penitenze, e quando il Jaina sente di esser giunto alla
estirpazione del desiderio e pronto ad entrare nel nirvâna, cioè nello stato di assoluta
indipendenza dell'animo dalle parvenze e dalle differenze del mondo, egli può lasciarsi morir
di fame senza timore di una posteriore incarnazione. Per ottenere i suoi scopi la chiesa jaina è
organizzata in ordini di monaci e di laici dei due sessi: quanto ai monaci (maschi), si
distinguono quelli di antica osservanza che vanno completamente nudi (digambara "che
hanno come vestito lo spazio") e gl'innovatori, vestiti di bianco (çvetâmbara). Dall'epoca di
Nâtaputta la chiesa jaina si è perpetuata in comunità che però non hanno mai raggiunto un
gran numero di seguaci, ma hanno sempre continuato a esistere, specie nell'India occidentale,
rispettate e fiorenti.
BUDDHISMO - Fondatore del buddhismo è Siddhârta della famiglia principesca degli Çâkya,
stirpe dei Gotama, detto Buddha "lo svegliato" (cioè colui che ha aperto gli occhi alla vera
conoscenza). Nato a Lumbinî, alle falde del Himâlaya, passò la fanciullezza e la prima
gioventú in Kapilavastu, la capitale dello staterello nepâlico in cui dominavano i suoi; a
ventinove anni, secondo la tradizione, abbandonò la casa, la moglie e il figlio Râhula per darsi
alla vita dello çramana in cerca della liberazione. Dopo anni di inutili tentativi, fra cui la
pratica dello yoga e di severe penitenze, egli ebbe una notte la rivelazione della verità di cui
andava in cerca. Da allora si mise in moto per predicare questa verità agli uomini, e morì a
Kusinârâ in età di ottant'anni dopo aver fondato un ordine di monaci e uno di monache, non
fiancheggiati però questi da ordini laici come nel jainismo: il buddhismo, almeno quello piú
antico, non conosce tali compromessi fra principii e vita pratica.
DOTTRINE DEL BUDDHA
La dottrina del Buddha (astraiamo qui da sviluppi ulteriori) si riassume nelle quattro verità:
I.) Dolore è la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte, l'unione con ciò che spiace, la
separazione da ciò che piace, il non ottenere ciò che si desidera;
II.) Fonte del dolore è la brama che conduce da una nascita all'altra;
III.) La soppressione del dolore è ottenibile sopprimendo la brama, e ciò avviene distruggendo
totalmente il desiderio;
IV). Per avviarsi alla soppressione del desiderio e del dolore occorre avviarsi per l'ottuplice
sentiero consistente di: retta fede, retta risoluzione, retto parlare, retto operare, retto vivere,
retto aspirare, retto pensare, retto concentrarsi.
NIRVÂNA
La cessazione del dolore è concetto ricadente col nirvâna; nirvâna che per il buddhismo ha
però significato speciale, in quanto questo non pone come il jainismo delle anime individuali
eterne e costanti: quello che per altri è l'anima, per il Buddha non è che un sempre
rinnovellantesi prodotto di sensazioni e rappresentazioni; venute meno queste, vien meno
anche la possibilità di rinascere e quindi di soffrire. Ma su quella che potremmo chiamare la
sostanza metafisica dell'universo, il Buddha si è rifiutato di esprimersi, giustamente
rispondendo, secondo un antico testo, al discepolo che gli chiedeva notizie sul nirvâna:
«Nessuna misura può misurare colui che è entrato nel nirvâna; non ci sono parole per dire di
lui; svanito è ciò che il pensiero potrebbe afferrare: così ogni strada è preclusa alla parola»;
in ciò divinando la ultralogicità di idee metafisiche, dimostrata dalla critica di Kant (Per molti
versi alla dottrina buddhistica piú antica corrisponde in occidente la filosofia di Arturo
SCHOPENHAUER - Il mondo come volontà e rappresentazione).
LA CHIESA BUDDHISTICA
Ai fini del percorrere l'ottuplice sentiero è indirizzata la istituzione della comunità buddhistica
consistente di monaci e monache. Costoro rinunziano a patria, famiglia e casta, si radono il
capo, indossano una veste di color giallo e vanno errando in qualità di mendicanti (bhiksu,
pâli bhikkhu) dopo essersi votati a castità e povertà, intesa quest'ultima non solo per
l'individuo ma anche per la comunità, e trovando accoglienza, ove esistano, in conventi
fondati da laici che costituiscono una cerchia di credenti non avviati definitivamente alla
conquista della liberazione, noi diremmo piuttosto di simpatizzanti. Data la natura della
religione, manca ogni culto; i laici però raccolgono le reliquie di Buddha o altri santi uomini
in monumenti detti stûpa e celebrano feste con offerte di fiori e luminarie. Ma i monaci e le
monache debbono radunarsi due volte al mese per una confessione pubblica, destinata a
prevenire ogni deviazione dalla ben definita regola.
IL BUDDHISMO E LE CASTE
Un tratto di ordine sociale è particolarmente da rilevare, come quello che oppose recisamente
il buddismo al brahmanesimo e forse fu causa in definitiva della sua scomparsa dall'India: il
rifiuto alle distinzioni di casta fatto dai monaci al loro ingresso nell'ordine, il quale non
poteva non riflettersi sull'atteggiamento dei laici rispetto a questo pilastro dell'edificio sociale
indiano. Ponendo una tale prassi, il Buddha sanciva un principio già serpeggiante fra
gli Cramana e in genere fra elementi di quel pensiero laico che in parte abbiamo visto
confluito nelle Upanisad; solo che, data la importanza e diffusione assunta a certi momenti
dal buddhismo, questo annullamento della gerarchia castale e soprattutto della supremazia
arrogatasi dai brahmani doveva provocare l'opposizione piú decisa da parte di costoro:
opposizione conducente a una riscossa, di cui vedremo in seguito i modi e i successi.
Anticipato questo torniamo all'argomento iniziale.
Questo medioevo indiano non é diviso dall'età antica con un taglio netto. Le condizioni
politiche e sociali si riconoscono con maggior chiarezza; ma in nessuna parte si avverte un
radicale riordinamento della vita politica. Il medioevo dell'India viene spesso considerato
come l'età del buddismo. La persona e l'attività del Buddha sono per noi solo la più cospicua,
e la più visibile, elevazione della vita indiana. Ma le sue idee hanno radice in concezioni più
antiche e la sua attività si svolge accanto a quella di altri fondatori di sètte. Nè vi é stato mai
un tempo in cui il buddismo abbia esclusivamente dominato nell'India. Accanto ad esso sono
sempre esistiti il brahmanesimo e numerose sètte.
Per la vita intellettuale indiana i germi di una nuova età sono da cercare in quel farsi
indipendente e profondo del pensiero, che spicca nelle Upanishad. Le classi laiche, innanzi
tutto la nobiltà, guidano anche il movimento spirituale. Dal loro ambiente si sono sviluppate
le grandi riforme religiose, nonché la filosofia scientifica.
La tradizione letteraria ha riunito le più antiche opere filosofiche dell'India, le Upanishad, con
la massa degli scritti vedici. Per la storia della cultura, però, esse segnano il passaggio ad un
nuovo periodo e la più grande evoluzione intellettuale avvenuta nell'India.
È vero che la dottrina delle Upanishad é ben lungi dall'offrire un sistema coerente, collegata
com'è solo da un'intima unità nel movimento dei pensieri. Con un audace idealismo il
pensiero indiano cerca qui di raggiungere la realtà attraverso i fenomeni e nello stesso tempo
di sollevare l'uomo verso il vero Essere, oltre i limiti della sua esistenza terrena. Ma sopra
ogni altra cosa é significativo per la vita dello spirito indiano il connubio della speculazione
filosofica con la religione.
Anche le religioni indiane della liberazione hanno tutte un carattere filosofico, spesso
fortemente intellettualistico. Nella letteratura delle Upanishad questo movimento trova la sua
espressione classica; esse segnano la più alta elevazione della maniera di concepire il mondo.
Potremo contenere il periodo delle Upanishad tra l' VIII e il VI secolo a. C.
Abbiamo già visto nel Veda i primi accenni al pensiero filosofico. Dalla speculazione sulla
creazione del mondo e sull'universo sembra si sia sviluppata l'idea dell'unità, plasmatasi
panteisticamente nell'ipotesi di un'anima del mondo.
Certamente tali problemi furono studiati anche nell'ambiente brahmanico, per es. dal grande
Yâjflavalkya; ma nell'insieme il sacerdozio non andava oltre alla speculazione sul sacrificio.
Furono le classi laiche a spingere avanti, in modo indipendente, questo moto di pensiero. Qui
si esaminano questioni del tutto estranee all'ambiente della vita brahmanica. S'indagano
l'essenza del mondo, il rapporto del proprio Io con l'universo, per trovarne la soluzione nella
grandiosa idea dell'Uno Universale
Ma la mira cui la cognizione tende é la comprensione dell'essenza del mondo, dell'origine
delle cose, della posizione dell'uomo nell'universo. Chi intende che ogni esistenza costituisce
un'unità, è liberato dal dolore e dall'illusione; tutti gli esseri esistono solamente in Dio. Ma
l'essenza del mondo é determinata dal suo principio vitale, principio
spirituale,l'âtman, l'Io o l'Anima.
Esso é privo di qualità, infinito, imperituro, immutabile. La creazione é un'emanazione di
questa Anima, tutto esiste in essa e per essa. E così anche l'uomo forma un'unità col principio
di ogni esistenza; l'anima del mondo e l'anima dell'uomo sono in fondo identiche.
Il riconoscimento di questa identità, espressa nelle parole «ciò sei tu» (tat tvam asi), porta con
se la liberazione e la vittoria sulla morte. Chi possiede questa vera cognizione, é pervenuto
nello stesso tempo alla perfezione morale; essa brucia quel che vi é di cattivo nell'uomo,
abbatte il peccato e porta la vera felicità. La contemplazione, l'assorbirsi in quel pensiero è il
mezzo di acquistare tale perfezione: con lo spegnersi della coscienza, col sommergersi nella
meditazione l'uomo si avvicina il più possibile all'Essere assoluto.
Nel pensiero indiano si effettua il passaggio dalla spiegazione mitologica alla spiegazione
scientifica del mondo. Ma il pensiero indiano, anche delle sue opere massime, rimane pur
sempre colorito di idee religiose. Suo fine supremo ed ultimo non é la spiegazione scientifica
del mondo: il pensiero filosofico sta sempre al servizio della idea della liberazione. Tutti i
sistemi filosofici hanno a comune lo scopo di liberare dal circolo di un'eterna rinascita
mediante la cognizione del problema mondiale. Si sono formati diversi sistemi di filosofia
scientifica, sei dei quali passano per ortodossi, perché riconoscono come autorità la
rivelazione dei Veda.
Questi più antichi sistemi della filosofia scientifica indiana risalgono al VI secolo a. C. e
presuppongono tutti la speculazione anteriore dei Brâhmana e delle Upanishad. Spesso si
riattaccano alle idee fondamentali delle Upanishad, anche quando le combattono, come
Kapila, il fondatore della dottrina Sâmkhya.
Ordinati secondo la loro probabile età, questi sei sistemi sono:
1. II Sâmkhya, di Kapila: sistema dualistico, secondo il quale esistono ab aeterno la materia
originaria unica e le anime individuali; Iddio non esiste. Nonostante il suo ateismo, da questa
dottrina si è svolto il pensiero religioso fondamentale della liberazione, che avviene quando si
riconosce che l'anima é essenzialmente diversa dalla materia. Allora essa é per sempre
liberata dal congiungersi con un corpo.
2. L'Yoga di Patanjali ha aggiunto al Sâmkhya, esteriormente, una concezione teistica. Ma
innanzitutto esso svolge e perfeziona la teoria e la pratica della contemplazione, dell'esercizio
(yoga) del pensiero che conduce alla liberazione.
3. La Mîmâmsâ di Jaimini é una teoria del frutto delle azioni, che si riattacca al sacrificio
vedico. Solo in grazia della sua logica può passare per un sistema filosofico.
4. Il Vedânta di Bâdârayana riprende la speculazione delle Upanishad, insegnando l'identità
del brahman, del principio mondiale eterno, con l'âtman, l'anima. Su questa dottrina é fondata
la liberazione dalle trasmigrazioni dell'anima: che riconosce sé stesso, l'Io o l'anima (âtman),
identico al brahman, ritorna nel grembo eterno di ogni Essere e non rinasce più.
5. Il Vaiçeshika di Kanâda é un ingenuo materialismo, fondato sopra una teoria atomica.
Speciale importanza ha la dottrina dell'origine del mondo.
6. Il Nyâya di Gautama, fin dall' antico riunito al Vaiçeshika, é un notevole sistema di logica.
Ciascuno di questi sistemi filosofici ci è conservato nei cosiddetti Sûtra o manuali scolastici,
che li espongono in formule molto concise. Servivano esse di base alla lezione orale nella
quale erano illustrate e commentate e dovevano impararsi a memoria. Senza la spiegazione
del maestro sono incomprensibili. Perciò furono accompagnate da numerosi commenti,
coll'aiuto dei quali noi possiamo comprendere i testi.
Accanto ai sistemi « ortodossi » stanno gli scettici ed i materialisti. Già nelle Upanishad e
nel codice di Manu si accenna a questi pensatori che negano un'altra vita e la sopravvivenza
dell'anima. Un atteggiamento consciamente negativo di contro al brahmanesimo tiene
Cârvâka, insigne filosofo materialista. Per lui l'anima è un elemento corporeo con la facoltà
della cognizione. Solo la percezione sensibile può essere fonte di cognizione. Lo scopo della
vita é limitato al mondo dei sensi; la felicità é un godimento che, evitando ogni cosa
spiacevole, dà solo un senso di gioia. La fede nel Veda e nell'efficacia del sacrificio é
stoltezza. Il Veda contiene menzogne e contraddizioni. Solo il dolore fisico é infelicità.
Ma anche un pensatore come Cârvâka non sa sottrarsi all'idea della liberazione. La nostra
esistenza sensoria é piena di dolori. Come si può superare il dolore? Prima coi godimenti, poi
con la morte che ci libera dal dolore dell'esistenza fisica.
L'antichità indiana è per noi un periodo la cui storia non si può sicuramente accertare; ve ne
scorgiamo solo gli effetti dal processo della civiltà. Solo l'età del Buddha si può riguardare
come il principio della vera e propria storia dell'India. Antiche relazioni storiche, favorite
dallo svolgersi del commercio marittimo tra la costa occidentale dell'India e la regione dei due
fiumi, accennano alla Babilonia. In un testo buddistico si fa menzione di Baveru, cioè
Babele.
É vero che le relazioni di cultura fra l'India e l'Asia occidentale sono documentate solo dalle
parole prese ad prestito da una lingua all'altra. Per la cultura indiana, i rapporti con l'Asia
occidentale sono segnati dall'introduzione della scrittura nell'India. La scrittura indiana deriva
da una forma dell'aramaica; pare che dei mercanti ve l'abbiano portata e che dal sud-ovest si
sia diffusa verso il nord dell'India, nel settimo secolo.
Numerose formazioni di stati degli Indi ariani avevano nel frattempo riempito il nord della
penisola. Nella regione tra l'Himâlaya e il Narbada si erano formate monarchie e repubbliche
con regime aristocratico. Accanto a numerosi principati minori e ad alcune repubbliche
esistevano qui quattro regni maggiori: più importante di tutti quello di Magadha (oggi Bihar),
con la capitale Râjagr-ha (oggi Rajgir). Verso nord-ovest il Magadha confinava col regno dei
Kosala (oggi Vudh) con la capitale Çrâvasti (in pâli Savatthi) situata nelle prealpi del Nepal.
A sud di esso si stendeva il regno dei Vatsa, con la capitale Kauçambîl (in pâli Kosambî); a
sud-ovest, il regno degli Avanti con la capitale Ujjayini (oggi Ujjain). Al Magadha
apparteneva l'Anga, posto ad oriente, con la città di Campâ. Vi erano poi piccole signorie
repubblicane, come gli otto stati alleati dei Vrjji (in pâli Vajji), con la capitale Vaiçâlî (in pâli
Vesali).
Solo in singoli punti possiamo rintracciare la storia politica dal 600 al 326 a.C.. Pare che nel
sesto secolo i Kosala acquistassero la supremazia nell'India settentrionale, fino allora tenuta
dai Magadha. I Kosala conquistarono il piccolo principato di Kâçi, la regione intorno a
Benares, dove il Buddha cominciò la sua predicazione col famoso sermone di Benares. La
circostanza che gli stati settentrionali (Magadha, Anga, Kosala, Vaiçâlî, Kâçi) furono teatro
della storia sacra e dei Buddisti e dei Jaina, ci permette di ricostruire dalla letteratura delle
sétte alcuni fatti della storia stessa.
In una fonte brahmanica troviamo nel Magadha la più antica dinastia storicamente accertabile,
quella dei Çaiçunâga, con Râjagrha per capitale. Col quinto sovrano di questa stirpe,
Bimbisâra, ci si fa avanti la prima figura palpabile della storia indiana. Si può dire che egli
abbia fondato la potenza del Magadha, avendo assoggettato gli Anga ed essendosi
imparentato con cospicue dinastie confinanti. Bimbîsâra divenne un fedele seguace e
protettore del Buddha. Si dice che regnasse 28 anni: quando morì, il Buddha era già molto
vecchio. Cosicché possiamo porre il suo regno circa nel 513-485 a.C. Fu ucciso da suo figlio
Ajâtaçatru (pâli Ajâtasattu); secondo la tradizione buddistica, istigatovi da Devadatta, cugino
e rivale del Buddha.
Sappiamo di una guerra combattuta da Ajâtaçatru contro i Kosala, che sembra decidesse della
temporanea supremazia del Magadha. La regione dei Kosala appare nel IV secolo come parte
del regno di Magadha. Fortunata fu pure l'impresa contro i Licchavi, la cui capitale, Vaiçâlî,
fu conquistata. Pare che da allora tutto il territorio fra il Gange e l'Himâlaya fosse dipendente
dal Magadha. Per assicurare il proprio dominio, il re costruì presso al Gange una fortezza,
sotto la cui protezione sorse e fiorì una delle più grandi città dell'India.
Udaya, nipote di Ajâtaçatru, fondò qui Pâtaliputra (pâli Pâtaliputta), che doveva poi divenire
la capitale del gran regno di Candragupta, fondatore della dinastia dei Maurya.
Bimbisâra e Ajâtaçatru erano contemporanei di Dario il Grande (521-485), che avviò
relazioni importanti tra la Persia e l'India occidentale.
Cercando di assicurare i confini dell'Iran, più volte minacciati, egli venne a contatto con
popoli indiani, fra i quali si ricordano i Gandhara e gli Assaceni (Açvaka). Nello stesso tempo
Dario mandò delle spedizioni a studiare i territori limitrofi del suo regno. Notevole fra queste
il viaggio di Skylax di Karyanda, che riconobbe il corso dell'Indo, sino alla foce. I popoli
della regione dell'Indo, dal Gandhara al Sindh, furono sottomessi le iscrizioni reali li citano
come tributari. La satrapia indiana del regno persiano era la provincia più ricca, tributaria con
una grossa somma. Sotto Serse gli Indiani diedero un contingente all'esercito; truppe indiane
combatterono a Platea (479). Sembra che queste relazioni si rallentassero sotto l'ultimo re
persiano, Dario Codomano; quando Alessandro giunse in India, nel Penjab e nel Sindh
regnavano numerosi principi indigeni.
Pare che sotto Ajâtaçatru il regno di Magadha toccasse l'apice della potenza. I suoi primi
successori non sono per noi che puri nomi. Ajâtaçatru morì circa il 459 a.C.. Gli ultimi due
sovrani della dinastia, Nandivardhana e Mahânandin, regnarono fin verso il 350 a.C..
Da allora comincia una nuova dinastia, quella dei Nanda, dalle origini oscure. Sembra che
fossero dei « parvenus », i quali detronizzarono un debole sovrano e ne distrussero la dinastia.
Conservarono il potere appoggiandosi ad un esercito numeroso e disciplinato, quale lo aveva
formato Ajâtaçatru nelle sue varie guerre.
Alessandro si accorse della potenza di una dinastia militare quando si trovò sul Hyphasis
(326). I Nanda furono a loro volta, come pare, rovesciati da un attivo «parvenu»,
Candragupta, il fondatore della dinastia dei Maurya. La comparsa di lui si riconnette al
dominio greco stabilito da Alessandro nell'India.
LA VITA E LA DOTTRINA DEL BUDDHA
La formazione di sétte religiose che si staccano dal brahmanesirno, è da ricondurre a due
fonti. Nella vita del popolo vi é sempre stato un sentimento religioso, che non si riveste del
rituale brahmanico, ma si accosta alla divinità con l'adorazione di un cuore credente. Da tale
religiosità interna é sorta la sétta popolare che trovò la propria espressione nel famoso poema
teologico della Bhagavadgitâ, il canto della divinità. Un'altra fonte della innovazione
religiosa sta nelle dottrine filosofiche « liberatrici », tra le quali il buddismo divenne la più
importante. La formazione delle sètte religiose é molto antica nell'India: si può rintracciarla
fin presso al limite dell'età vedica. Le epigrafi ci fanno conoscere la sétta degli Ajivaka, che
deve essere esistita già prima dell'800 a.C.: li troviamo pur ricordati negli scritti giainici e
buddistici. Si accostavano ai Jaina nel volere tutta la vita dominata dall'ascesi. Di per sé,
l'ideale ascetico é già brahmanico, ma come tale limitato agli ultimi anni della vita.
Gli Ajîvaka formavano un ordine monastico. D'altra parte aderivano strettamente alla
religione popolare mediante l'adorazione di Visnu ; in genere, questa sètta rappresentava un
indirizzo teistico. La energia del pensiero religioso e l'impulso alla formazione di sétte sono
stati sempre vivaci nell'India. Tra le numerose sétte, sorte dal grande movimento spirituale del
medioevo, il buddismo è divenuto una religione mondiale, mentre il giainismo, nato
contemporaneamente, fino ad oggi fiorisce soltanto in India.
Due punti di vista sono particolarmente da rilevare per la concezione storica del buddismo:
prima la sua dipendenza dalla fase anteriore del pensiero filosofico, poi il suo carattere di
religione. Il modo con cui in esso procedono di pari passo filosofia e religione, brama di
cognizione e di liberazione, è uno dei più notevoli fenomeni nella storia dello spirito indiano.
Filosofia: Il mondo e la sua essenza, il modo con cui é sorto, la posizione dell'uomo e
dell'anima rispetto al mondo formano il contenuto del pensiero filosofico.
Religione: Il sollevarsi su questa esistenza, il liberarsi dalle sue contingenze, il distaccarsi dal
circolo eterno della nascita e della morte é lo scopo delle religioni indiane «liberatrici». Ma il
peculiare sta nell'abbinarsi delle due tendenze. La via della liberazione é segnata dalla
cosmologia e dalla psicologia; la via del distacco del mondo passa attraverso la cognizione
filosofica. Quando essa scopre la connessione di ogni fatto, comincia la liberazione dai legami
dell'esistenza. Vi si giunge mediante l'ascesi, quale strumento della meditazione filosofica,
che dalle angustie dell'esistenza trova la via della salvazione.
Con ciò si connette una credenza divenuta forza dominatrice per la vita spirituale indiana: la
trasmigrazione delle anime. Forse essa si riattacca alla credenza primitiva secondo la quale
l'anima dopo la morte passa in altri esseri, uomini, animali, piante. Sembra che fin dall'VIII
secolo a. C. la speculazione indiana abbia accolto questa idea, svolgendola in seguito
coll'ammettere che ogni nuova esistenza sia determinata dal tenor di vita della precedente.
La condotta morale, il merito o la colpa, determinano la nuova forma di esistenza; felicità o
infelicità non sono che conseguenza delle azioni della vita anteriore. In tal modo l'individuo,
con tutte le sue vicende, è collocato nella inevitabile necessità di un'eterna serie di causalità.
Questo pensiero è stato sempre terribile per l'Indiano; è un grave peso che opprime le anime.
Infatti la trasmigrazione delle anime, col ritorno in nuove forme di esistenza, implica l'eterna
ripetizione della morte.
Trovare l'ultima morte, demolire per sempre la dimora dell'esistenza, ecco la liberazione
proclamata dal Buddha allorquando la perfetta cognizione gli fu rivelata.
Per la biografia del Buddha (sopra appena accennata) abbiamo solo scarse notizie storiche,
sufficienti però per intendere la sua personalità in tutti i tratti essenziali e per assegnargli il
posto che gli spetta nella storia del suo tempo. Per la stirpe apparteneva alla casta guerriera,
cioè alla nobiltà: discende dalla nobile famiglia dei Çâkya (pâli Sakyai. Suo padre
Çuddhodana (Suddhodana) non era un « gran re », ma un principe, proprietario di terre assai
vaste.
La patria del Buddha, Kapilavastu (Kapilavatthu), le cui rovine sono state di recente scoperte,
giaceva nel Nepal meridionale, nelle "prealpi" dell'Himâlaya. Mentre sua madre Mâyâ, si era
messa in viaggio per visitare i genitori, fu presa dalle doglie e partorì il Buddha in un
boschetto presso il villaggio Lumbini. Dal 1896 si conosce con precisione il luogo di nascita;
il gran re buddista Açoka (Asoka) vi fece innalzare una colonna con l'epigrafe: « Qui è nato
l'Eccelso ». Al fanciullo fu posto nome Siddhârta (Siddhattha); Gautama (Gotama) era il
cognome della sua famiglia. Vivente, il Buddha di solito veniva chiamato «l'asceta Gautama».
Al pari della nascita, la leggenda ha corredato di miracoli anche la gioventù del Buddha. In
realtà la sua vita non fu diversa da quella di un giovane principe indiano. Si istruì nel
maneggio delle armi e nella caccia, preparazione del futuro guerriero. Ma nella nobiltà non si
trascurava l'educazione intellettuale. A base della cultura più elevata stavano la grammatica e
la filosofia; si studiavano poi le opere giuridiche, i precetti di morale e le massime di condotta
di vita. La sua educazione, può già da sola averlo condotto ai pensieri che occupavano e
agitavano il suo tempo. La forza spirituale, la passione di pensiero che costituiscono la
personalità del Buddha, possono sole aiutarci ad intendere come si riplasmassero in lui le idee
e le tendenze del tempo. Ma della sua evoluzione personale non sappiamo niente.
Il Buddha si era ammogliato giovane. Quando nell'animo suo si produsse la crisi, gli nacque
un figlio che chiamò Râhula (legame). Si dice che allora pronunziasse le parole: «Un legame
mi è nato». Il Buddha aveva 29 anni allorquando con repentina decisione abbandonò una vita
felice e la sua famiglia per l'«esilio dal mondo» (pravrajyâ, pâli pabbajjâ). Egli stesso ce ne
spiega i motivi. La vecchiaia, la malattia e la morte avevano fortemente impressionato l'anima
sua squisitamente sensibile; per esse gli si era affacciato il problema del significato e dei
valore della vita. I fatti, per i quali la vita appare destinata al decadere, lo avevano riempito di
« malessere, vergogna e disgusto». «A me, che vedevo tali cose, scomparve ogni gioia per la
gioventù, per la salute e per la vita».
Il trasformarsi, nella sua mente, delle esperienze quotidiane della vita in problemi profondi e
di opprimente gravità, si spiega in ultima analisi solo con la peculiarità dei suo carattere,
mirante alla suprema cognizione del mondo e rivelante solo per essa la sua intima natura. Ma
non vi è individualità umana estranea ad ogni relazione storica. Anche il Buddha muoveva da
pensieri e tendenze del suo tempo. Già l'antica filosofia aveva riconosciuto che ogni esistenza
è dolore. Il Buddha fece suo il principio pessimistico, riducendo tale concezione teorica ad
una forza trasformatrice della vita. Distaccandosi dalla vita sino allora condotta, aveva preso
la decisione suprema; la sua evoluzione era compiuta. Non gli restava che liberarsi e
redimersi dall'eterno e incommensurabile dolore di ogni esistenza.
A tale scopo il Buddha fece il passo ordinario nell'India di tutti i tempi si recò nella solitudine
delle selve per acquistare mediante severa ascesi e continua meditazione la cognizione
liberatrice, per giungere, col riconoscere le vere cagioni del dolore, alla redenzione. I primi
maestri del Buddha furono due rappresentanti della dottrina del Yoga, che cercava di
pervenire ad una completa concentrazione del pensiero, e per essa alla cognizione suprema,
mediante mezzi ascetici, speciali posture del corpo, digiuno e arresto della respirazione.
Avendo un giorno il Buddha perduto i sensi per esaurimento fisico, riconobbe che l'ascesi non
era la via della redenzione. Ricominciò a prender cibo, ma rimase altri sette anni nella
solitudine. Finalmente, mentre stava seduto all'ombra di un açvattha (assattha, ficus
religiosa), gli balenò alla mente la cognizione definitiva, la liberazione da lui cercata.
In che consisteva questa cognizione? Per il pensiero religioso dell'Indiano, «redenzione»
significa sempre liberazione dalla necessità della rinascita. La certezza di essersi sottratto per
sempre, mediante la scoperta del nesso causale, al circolo della nascita e della morte, deve
aver prodotto nel Buddha una profonda eccitazione. Essa traluce dalla strofa famosa,
proclamante con altera parola la sua vittoria sulle cause della rinascita:
«Per il volgere di molte nascite correvo cercando il costruttore della casa, nè lo avevo
trovato; la vita si rinnovava in dolorosa vicenda. O costruttore, ti ho scoperto! or non più la
casa farai: tutte le tue travi, rotte; il comignolo, infranto; senza aspirazioni il cuore, estinta
ogni sete ».
Il Buddha riconosce senz'altro come propria missione il comunicare agli uomini la sua
scoperta. Comincia allora - e durerà quasi 45 anni - la predicazione che conduce l'asceta
Gautama attraverso la regione del Gange.
La prima proclamazione della sua dottrina avviene mediante la celebre predica di Benares,
tenuta dinanzi ai cinque asceti con i quali aveva una volta vissuto. Lo schematismo di questo
discorso ci riesce strano; ma certo in tal modo soleva esprimersi il Buddha parlando ad uditori
abituati all'insegnamento filosofico. A questi cinque monaci non tardò ad aggiungersi un gran
numero di laici. Fra i suoi primi discepoli il Buddha scelse i messaggeri della sua
dottrina, «per la salute di molti, per compassione del mondo, per benedizione, per salvezza,
per gioia degli dèi e degli uomini».
Della rimanente vita del Buddha conosciamo solo qualche dettaglio: certo sarà trascorsa assai
uniforme, come porta seco la natura indiana. Dal giugno all'ottobre dura la stagione delle
piogge; il Buddha la passava in boschetti donatigli dai suoi ricchi patroni. Il suo più potente
protettore, Bimbisâra re del Magadha, regalò alla comunità dei monaci il bosco Veluvana
presso Râjagrha (Râjagaha), soggiorno preferito del Buddha.
Nel primo anno della sua attività pubblica visitò la sua città natale, Kapilavastu. La sua ricca e
nobile famiglia non voleva saper nulla del mendicante nella veste gialla dei monaci.
Soprattutto il padre gli rimproverò di disonorare la famiglia. Ma la personalità del Buddha fu
certo affascinante per intima grandezza. Ben presto il padre e la moglie si convertirono alla
sua fede.
La tradizione della vita del Buddha successiva alla rivelazione dà varie notizie su persone e
avvenimenti dentro l'Ordine monacale; particolare rilievo vi ha il discepolo prediletto,
Ananda. Veniamo a sapere di dissensi nell'Ordine; Devadatta, cugino del Buddha, esigeva
un'ascesi assai più severa. Ciò condusse, forse nel 26.° anno, ad uno scisma. Nel VII secolo d.
C. esisteva ancora in India questa setta religiosa fondata da Devadatta. Però la notizia che
Devadatta tentasse di assassinare il Buddha e che il tentativo fosse sventato dalla potenza
miracolosa del Maestro, sembra puramente leggendaria.
Su gli ultimi tre mesi della vita del Buddha siamo informati da una tradizione più completa e
assai buona. Il Buddha aveva ottant'anni. Cadde ammalato nel villaggio di Beluva, dove si
trovava a passare la stagione delle piogge; ma, riavutosi, si avviò verso Kuçinagara
(Kusinâra). Nel villaggio di Pâvâ, accettò l'invito di un fabbro, che gli servì della carne
(secondo altri dei funghi); allora riammalò. Trascinatosi a stento in un boschetto, vi si fece
preparare un giaciglio; sotto due alberi, e qui aspettò la morte.
Ed ecco che conforta i discepoli piangenti: «Potrebbe darsi, o Ananda, che voi pensaste: Il
Maestro più nulla dirà, noi abbiamo perduto il nostro Maestro. - Non pensate in tal modo, o
Ananda. La dottrina che vi ho insegnato, e l'Ordine che ho stabilito, saranno i vostri maestri
quando io non sarò più ».
Le sue ultime parole, che esprimono la sua confessione di fede, furono queste: «Ecco, io vi
esorto. Tutto quello che è nato, deve perire. Ottenete la salvezza a forza di zelo».
La leggenda ha circondato la morte del Buddha di solenne grandezza. Sul morente piovono i
fiori degli alberi, sebbene non sia il tempo della fioritura. La terra si scuote, rumoreggia il
tuono; così la natura si mostra commossa per la dipartita del Beato.
La morte del Buddha cade circa nell'anno 477 a.C.. I Malla, la famiglia regale di Kuçinagara,
avutane notizia, apprestarono un funerale di sette giorni per il defunto Maestro.
La salma fu arsa con onori regali: le reliquie spartite fra otto famiglie principesche, a lui
molto amiche; alla famiglia del Buddha toccarono le ossa. I Sakya le posero in un grande
sarcofago e sulla tomba innalzarono uno stûpa. Questa tomba del Buddha è stata ritrovata nel
1898, e riaperta. Conteneva diverse urne, una delle quali portava l'iscrizione seguente, in
lingua magadhese, nella lingua cioè della regione dove il Buddha predicava:
«Questo scrigno delle reliquie dell'eccelso Buddha della stirpe dei Sakya è pia fondazione dei
fratelli e delle sorelle, coi loro figli e mogli». L'autenticità delle reliquie é inoppugnabile;
oggi sono possedute dal re del Siam.
La dottrina del Buddha ne' suoi singoli tratti può esporsi solo in una biografia del Maestro.
Per una storia dell' India importa soprattutto la sua connessione con la storia dello spirito
indiano. Il Buddha fu senza dubbio un acuto pensatore, ma non uno spirito creatore. Il suo
pensiero si concentra del tutto intorno al problema della causalità, quale lo aveva trovato
elaborato dal sistema Sâmkhya. La parte teoretica della sua dottrina è filosofia sâmkhya. La
tradizione buddistica non si é scostata dal vero, affermando che il primo maestro del Buddha,
Arâda Kâlâma, fu un seguace del Sâmkhya. Non solo si può asserire, con piena probabilità,
l'antecedenza della dottrina sâmkhya, ma anche aggiungere che la base della dottrina
buddistica è formata da una determinata forma pratica dello Yoga.
Così pure il precetto di non uccidere alcun essere vivente, cioè la condanna del sacrificio
degli animali, è un precetto ascetico, comune ai brahmani, ai buddisti ed ai giaina. Nella sua
mira finale, il nirvâna (nibbâna), la dottrina buddistica non si allontana molto dalle definizioni
proprie delle dottrine filosofiche.
Infine, la dottrina principale del buddismo (della quadruplice sublime verità intorno
all'essenza ed alla rimozione del dolore) sembra derivare da uno schema della scienza indiana;
oltre che nel yoga, la ritroviamo nella medicina indiana.
Non v'è dubbio che il Buddha non abbia preso le mosse da un bisogno pratico della vita, da
lui riconosciuta come dolore.
In cerca di liberazione, solo all'ascesi poteva rivolgersi. Per questo andò nell'«esilio».
Nell'Yoga lo sprofondarsi nella meditazione è stato tanto elaborato da farne un'arte.
Se il Buddha più tardi condannò l'ascesi, ciò avvenne perché essa non gli diede ciò che
prometteva, la visione interna dell'essenza dell'âtman, dell'io, dell'anima. Sebbene
coll'immergersi nella meditazione egli non acquistasse la certezza interna sulla natura
dell'âtman, pure conservò i concetti filosofici fondamentali del Sâmkhya. Per il suo pensiero
il problema del nesso infinito tra causa ed effetto prendeva il primo posto.
La filosofia buddistica presenta questo nesso come formato di dodici membri. I concetti, coi
quali il nesso causale appare presso i buddisti, sono collegati anche nel Sânkhya-Yoga, e
nell'ordine stesso, come causa ed effetto. Il modo con cui il buddismo utilizza la serie causale,
mostra che si presuppone come nota. Nel Sâmkhya-Yoga essa è il risultato finali, cui mira la
costruzione filosofica; perciò qui non viene espressa a mo' di formula. All'incontro nel
buddismo essa è una formula dogmatica, la cui dimostrazioni passa in seconda linea. Se ne
presupponeva, pertanto, il significato.
La «Legge» e la «Disciplina» proclamate dal Buddha dovevano, secondo le sue ultime parole,
essere i maestri dei suoi discepoli. Al Buddha è mancato un successore personale e sono
mancati così il punto centrale e il capo supremo all'Ordine ed alla chiesa buddistica. Il
Buddha sopravvisse nella sua dottrina, non in una istituzione. La sua comunità è in primo
luogo l'ordine dei monaci, che si raccolsero in compagnie, senza essere però organizzate
mediante un'alta direttiva. I monaci si radunano in assemblea due volte al mese, solo per
rafforzare i voti monacali con una specie di confessione, recitando l'antica formula
delPrâtimoksha (Pâtimokkha) e per assicurare la vita dell'Ordine mediante l'esame di sé
stessi.
Il buddismo ha avuto nell'India una « storia ecclesiastica » solo in quanto l'Ordine dei monaci
fissò la dottrina e il Canone in appositi concili: poi, per le missioni. Il primo concilio, tenuto a
Râjagrha subito dopo la morte del Buddha, fissò i precetti della Legge (Dharma, Dhamma) e
della Disciplina (Vinaya). Lo stabilirsi della tradizione è il punto di partenza per la
formazione del Canone.
Il secondo concilio si riunì cento anni dopo a Vaiçalî (Vesali) per toglier di mezzo degli abusi
introdottisi nei conventi dei Magadha: ha solo importanza locale.
Al terzo concilio di Pâtaliputra, tenuto nel 241, durante il regno di Açoka, diede pure
occasione il decadimento della disciplina, contro il quale invano lottava l'abate Tishya
Maudgaliputra (Tissa Moggaliputta). L'intervento del re Açoka valse a purgare la chiesa dagli
elementi indegni. Il Canone fu completato con un'opera di Maudgaliputra, che segnò il trionfo
delle sue idee. Con questo terzo concilio s'inizia la grande missione buddistica al di là dei
confini dell'India.
Si inviarono missionari nel Kashmir e Kabul, nelle regioni dell'Himâlaya e nel Dekkan, nella
Battriana e nell'India transgangetica. Mahendra (Mahinda), fratello di Açoka, si recò a
Ceylon, da lui conquistata al buddismo, che vi si è conservato fino ad oggi. Un quarto
concilio, tenuto nel Kashmir sotto il re indoscita Kanishka, si occupò pure di riforme. Le
sacre scritture furono sottoposte ad una revisione e la dottrina fissata. In realtà questo concilio
segna la divisione, sempre più profonda, del buddismo in libere sètte. Nel buddismo
settentrionale il segno fu dato dal distacco delle due scuole Mahâyâna e Hînayana circa il 194
a. C.).
La prima ebbe a fondatore Nâgâ juna; il nome Mahâyâna, "grande veicolo", indica che i suoi
seguaci aspiravano a rinascere come Bodhisattva o Buddha futuri, mentre i seguaci del
Hînayâna o "piccolo veicolo" si accontentavano ciascuno della propria liberazione. In
quest'ultimo senso il buddismo originario è conservato più puro, mentre il Mahâyâna ne segna
la completa decadenza. Da esso hanno origine il mondo fantastico degli déi e la speculazione
sfrenata, creatrice di figure metafisiche quali i Dhyânibuddha, i Dhyânibodhisattva,
Avalokitêçvara, Maitreya, il messia del buddismo. Da esso nacquero pure la teologia del
lamaismo e il buddismo tibetano e mongolo.
Il buddismo non possiede un vero e proprio Ordine laico, giacché la mèta suprema può esser
raggiunta solo nello stato monacale. Però l'Ordine dei monaci fu sempre dipendente dal
favore dei laici, dovendo ad essi ricorrere per pii donativi e per fondazioni. Chi provvede il
monaco di cibo o lo invita ai pasti, è tenuto per «devoto» (upâsaka). Per dichiarare tale
accessione all'Ordine, i laici pronunziavano dinanzi ad un monaco la formula del rifugio nel
Buddha, nella Dottrina e nell'Ordine. I laici sono tenuti a rispettare solo cinque
comandamenti: non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non mentire, non bere
alcolici. Ma una potenza che domini e regga i laici non esiste.
l buddismo originario non conosce culto religioso. Ma ha fatto una concessione al bisogno di
feste e di cerimonie, prendendo da altre sètte i giorni festivi nei quali i monaci spiegano la
Dottrina anche ai laici e commentano i sacri testi. Con la venerazione delle reliquie del
Buddha, il buddismo si trovò a possedere un culto. In territorio buddistico sorgono
dappertutto i cosiddetti stûpa: santuari che racchiudono le reliquie. Vi si fa omaggio di fiori e
d'incenso. Beo note le relique del Buddha a Ceylon: la traccia lasciata dal suo piede, e un
dente. Per quest'ultimo, e fin nel 1858, si celebrava una grande festa.
Il Buddha non scrisse nulla; eppure la letteratura buddistica muove da lui, avendo conservato
con grande fedeltà i suoi discorsi e dialoghi. Nei suoi sermoni ai monaci si rivolgeva ad una
comunità cui eran familiari i concetti della filosofia: parlava allora secondo le formule
scolastiche. Il famoso sermone di Benares non fa l'impressione di eloquenza viva e
immediatamente efficace; ci si presenta piuttosto come un compendio di dogmatica, gettato in
un formulario conciso e sistematicamente ordinato. Ma il Buddha poteva parlare così davanti
a uditori istruiti nelle scuole filosofiche. Egli disponeva pure del ricco tesoro di similitudini,
racconti, favole e novelle, di evidenza ed efficacia immediate. Dinanzi a un popolo che si
deliziava di racconti, il Buddha ha impiegato questo mezzo con arte perfetta.
La letteratura ecclesiastica del buddismo si è andata formando dalla tradizione buddistica. Già
nel primo concilio fu stabilito ciò che dovesse considerarsi come legge dell'Ordine e come
dottrina del Buddha. Gli scritti canonici del buddismo non sono conservati nella lingua in cui
predicò il Buddha, ma nella lingua letteraria comune del buddismo, il pâli. In tale forma ci è
conservato il canone della chiesa meridionale; la redazione sanscrita é riconoscibile dai
frammenti del Turkestan. Speciale importanza ha la raccolta dei Jâtaka, leggende intorno alle
esistenze anteriori del Buddha, basate su antichi racconti popolari.
Diffondendosi nell'Asia orientale e centrale, il buddismo ha creato anche una grande
letteratura in Cina e in Giappone, nel Tibet e nella Mongolia: per lo più si tratta di traduzioni
o di rifacimenti di opere indiane; ma anche in creazioni originali lo spirito indiano continuò a
dare l'impulso alla cultura dell'Asia centrale.
Come religione il buddismo può esser giudicato solo rispetto alla concezione indiana della
vita. Il pensiero ha scoperto la più profonda radice della fede religiosa nel riconoscimento che
ogni esistenza é dolore. Con forza strapotente questo pensiero, comune in tutta l'India, ha
determinato l'evoluzione personale del Buddha e la sua attività. Da essa nacque il bisogno
della redenzione. Anche come religione liberatrice, il buddismo si basa sulla filosofia indiana.
Il Buddha evitò di discutere questioni metafisiche, non avendo esse alcuna importanza per la
salvezza dell'uomo.
Il Buddha fece un passo indietro col lasciar cadere l'idea di una causa ultima di ogni esistenza
o di ogni divenire, già raggiunta con l'Uno Universale. La sua dottrina é spogliata
dell'elemento mistico, senza del quale nessuna religione può vivere. Ma la serie astratta della
causalità fu intesa dal Buddha con un forte sentimento religioso, acquistando così un
contenuto umano e un'importanza storica, di molto superiori al suo valore filosofico. Inoltre la
morale buddistica ha un'altezza e un'intima unità che non fu mai sorpassata e che é stata
raggiunta solo dall'etica cristiana.
L'etica buddistica ha il suo punto. centrale e la sua unità interna nell'amore, che non conosce
limite alcuno e a tutti gli uomini si volge con spirito di pietà e di sacrificio, ponendo così
un'altissima mèta all'attività umana. Per questo la dottrina del Buddha é una forza tuttora
efficace: il suo ideale s'innalza al disopra di ogni sforzo umano. Né il valore di quella méta e
di tale religione deve credersi diminuito dal fatto che la vita storica gli resta di molto
inferiore. L'ideale buddistico si é dimostrato forza morale ed educatrice per milioni di uomini,
elemento di civiltà per popoli interi. Nell'oriente asiatico il buddismo ha lo stesso valore del
cristianesimo in Europa. Ed è una delle tre più grandi religioni della popolazione mondiale.
La storia del buddismo nell'India, del suo dominare e decadere, é in gran parte oscura. Non
con la violenza é stato combattuto, né è svanito per le persecuzioni; é scomparso per
disfacimento interno. Varie le ragioni; già coll'accogliere, come fece nel nord, le idee popolari
della mitologia e la magia, fece torto a sé stesso. Inoltre il buddismo non aveva un terreno
sicuro tra la popolazione, non possedendo tra i laici alcun appoggio saldamente organizzato.
Visse del favore dei principi, senza mettere radici profonde tra la popolazione. Si aggiunga
che non contribuì a far progredire le questioni della vita civile indiana e della nazione. In
questo senso la tradizione indiana fu rappresentata dal brahmanesimo. Nel momento più
grave, durante le conquiste musulmane, il buddismo non fece niente per l'India. Gli
mancarono le forze intellettuali, da poter gareggiare con i capi del ravvivato brahmanesimo; e
gli mancò pure l'energia morale per portare in qualche modo il proprio contributo alle
questioni dell'esistenza nazionale.
Ma di questo parleremo più avanti.
LA RELIGIONE DEL JAINA
Resti di un tempio a Jainico a Mandhatta
La setta religiosa dei Jaina esiste tuttora in India, accanto al brahmanesimo. Nata
contemporaneamente al buddismo, col quale ha in comune tutte le idee essenziali, si
mantenne però accanto ad esso come movimento religioso indipendente. La tradizione storica
dei Jaina li fa risalire al principio del V secolo a.C.; e l'attendibilità di queste notizie é
confermata da una tradizione buddistica spesso parallela, nonché da iscrizioni. La setta dei
Jaina fioriva già nei primi cinque secoli dopo la morte del Buddha.
Il fondatore storico della setta giainica é Vardhamâna, detto il « Jina » cioè «il Vittorioso». Al
pari del Buddha, Vardhamâna era di nobile famiglia e fece a trent'anni lo stesso passo del
Buddha: rinunciò alla vita mondana, distribuì le sue ricchezze ed abbracciò l'ascetismo. Per
dodici anni andò vagando per varie regioni dell'odierno Bengala. Dopo il primo anno di
ascesi, adottò la nudità; nel tredicesimo, mediante continua, meditazione, raggiunse la
cognizione suprema. Da quel momento cominciò a predicare e ad ammaestrare col nome
di Mahâvîra (il grande eroe) e fondò l'ordine ascetico dei Nirgrantha (in partirò, niggantha),
«gli sciolti da ogni vincolo».
Per trent'anni si aggirò, sempre insegnando e predicando, nel Bengala occidentale, dove anche
il Buddha svolse la propria attività. La predicazione del Jina fu pure molto fortunata;
quantunque la sua dottrina non avesse piena esplicazione che nell'ascesi, vi aderì anche una
comunità laica di «devoti» (upâsaka, uvâsaga) o «uditori» (çrâvaka, sâvaga). Jamâli, il
genero del maestro, fece nascere uno scisma. Il Jina morì a 72 anni nella città di Pâpâ (Pâvâ,
oggi Padraona), dove si era trattenuto durante la stagione delle pioggie, sotto la protezione del
re Hastipâla.
La tradizione giainica sulla storia della setta è in diversi punti confermata da notizie
buddistiche, dalle quali risulta innanzi tutto che Vardhamâna stesso fu un influente avversario
del Buddha e che già al tempo del Buddha i suoi seguaci erano sparsi in varie regioni
dell'India. Il più antico documento intorno ai Jaina è costituito dal settimo editto su colonne di
Açoka in cui la sorveglianza dei suoi funzionari sulle corporazioni religiose è estesa ai
monaci buddisti ed ai Niganlha. Questi ultimi sono i Jaina; e l'averli espressamente
menzionati accanto a numerose sètte anonime dimostra la loro importanza così per il numero
dei seguaci come per l'influenza di cui godevano nella vita sociale.
Al pari del buddismo, il giainismo ravvisa la mèta suprema nella liberazione dal cerchio delle
nascite e delle morti. Dalla salvazione non deve essere escluso nessuno per via della stirpe o
della posizione sociale; essa è aperta tanto ai nobili quanto ai çûdra spregiati, «agli Ari ed ai
non ari» ; anche i maomettani vengono tuttora accolti nelle comunità giainiche.
Come religione, il giainismo mostra la via della salvezza, della liberazione dall'esistenza,
indicando i mezzi per raggiungerla: e sono, del pari che nel buddismo, retta fede, retta
cognizione e retta condotta.
La retta fede consiste nella convinzione che il fondatore della religione è giunto alla
liberazione mediante le proprie forze: che nella dottrina, da lui annunziata all'umanità
sofferente, sta la salvezza del mondo: che tutti trovano rifugio in lui dalle angustie della vita.
La retta cognizione consiste nell'intendere a dovere il sistema filosofico insegnato dal Jina, le
«nove verità».
La dottrina giainica è una dottrina, a base filosofica, intorno all'essenza e al destino
dell'anima, che offre notevoli concordanze con la teoria dell'anima di Platone e della religione
orfica. Nella teoria del mondo presuppone la cosmologia brahmanica. Il mondo é increato ed
eterno, composto di sei sostanze: gli atomi della materia, il tempo, lo spazio, le anime, il bene,
il male (o peccato).
Dalla combinazione delle sostanze sorgono tutti i fenomeni del mondo sensibile e spirituale,
fra cui i corpi. Le anime come esseri singoli sono cose reali, esistenti di per sé; la loro essenza
consiste in ciò che sono (come in Platone) la potenza della cognizione pura e intellettuale. Ma
le anime appaiono nel mondo sempre unite ad un corpo in cui sono legate : e ciò in
conseguenza di una colpa, rappresentata come un offuscarsi della cognizione pura mediante
l'impulso all'attività, mediante l'abbandonarsi alle passioni ed agli influssi delle impressioni
sensitive.
Secondo il modo di agire nel corpo - il Karman - l'anima acquista meriti o incorre nel peccato.
Essendo eterna, ricompare in corpi sempre nuovi, di uomini, animali, piante ed anche in
oggetti insensibili, secondo le proprie azioni. Da questa teoria prende le mosse la dottrina
giainica in quanto é religione. La salvezza sta nel liberare l'anima dal congiungimento col
corpo, mediante la soppressione del Karman. L'impulso all'attività e le passioni devono
vincersi con la meditazione e l'ascesi; dopo di che l'anima passa in una vita ultraterrena, dove
esiste in eterno nella sua natura puramente intellettuale e in pace perfetta.
La retta condotta, l'etica del giainismo, è regolata dai cinque voti, imposti solo agli asceti
nella loro forma più severa, ed ai laici in forma più attenuata. L'asceta si obbliga, al pari del
penitente brammano, a non far del male ad alcuna creatura, a non mentire, a non prendere
alcuna cosa senza permesso, a conservarsi casto, a praticare la rinunzia.
Il primo e più importante comandamento vieta soprattutto di uccidere qualsiasi animale. Il
comandamento della rinunzia non solo vieta di possedere alcunché, ma esige anche piena
indifferenza verso tutte le impressioni dei sensi e l'abbandono di ogni attaccamento alle cose
di questo mondo. Nel valore attribuito all'ascesi e specialmente nel raccomandare il suicidio
per fame come meritorio, il giainismo si allontana dal buddismo, in ciò accordandosi solo col
brahmanesimo.
Se le idee fondamentali nella dottrina del Buddha e del Jina offrono grandi rassomiglianze,
ben' diversa è la posizione dei buddisti e dei jaina nella vita e nella cultura dell'India.
Del giainismo ha sempre fatto parte un laicato che, pur seguendone i precetti nella forma
attenuata, visse o vive tra le faccende del mondo. E questo elemento laico, con la sua serietà
ed abilità pratica, con lo spirito di sacrificio e la partecipazione alle opere più elevate della
cultura, ha fino ad oggi validamente personificato il giainismo. Né questo è rimasto senza
influenza anche sulla vita politica: il grande dotto jaina, il monaco Hemacandra (1088-1172),
valendosi del suo ascendente sul re Kumârapâla, trasformò lo stato del Gujarat secondo gli
ideali morali del giainismo.
Il giainismo contribuì in modo grandioso ad arricchire l'arte. Alle sue creazioni appartengono
alcuni dei più imponenti templi dell'India, come quelli in marmo, costruiti nei secoli XI e XII,
del monte Abu, con le loro sale luminose ed i colonnati interni. Nell'arte giainica furono
accolte anche le numerose figure dell'induismo. L'architettura è, in tutti i tratti essenziali,
identica a quella del brahmanismo medievale. In contrasto col buddismo, i Jaina
parteciparono pure attivamente al culto della letteratura sanscrita.