AZERBAIGIAN
Profumo di Islam
In una società di tradizione laica, la religione – riscoperta dopo l’indipendenza – non è vissuta con gli accenti radicali della vicina repubblica islamica dell’Iran. E per quanto lo spettro delle fedi sia variegato, intellettuali e leader religiosi guardano con favore a una sorta di ecumenismo musulmano piuttosto che difendere particolarismi rituali. La mancanza di effettiva libertà religiosa e politica fa il resto. A comandare
è una dinastia al potere da vent’anni, inattaccabile almeno finché all’Occidente faranno gola le riserve naturali del Paese.
«
testo e foto di Farian Sabahi
ono le immense risorse energetiche racchiuse nel Mar
Caspio a impedire ai venti di primavera, che hanno
spazzato via i dittatori arabi, di soffiare anche sull’Azerbaigian. È l’oro nero a far sì che la comunità internazionale continui a sostenere il regime del presidente Ilham
Aliyev, e non la fragile e frammentata opposizione interna», osserva Altay Geyushev, docente di Storia presso
l’università di Baku e intellettuale di spicco nel suo Paese, dov’è rientrato la scorsa estate dopo diversi anni d’insegnamento in un prestigioso ateneo statunitense.
Ci conosciamo da tempo, abbiamo scritto contributi
scientifici agli stessi volumi, e per questo durante il soggiorno nella capitale dell’Azerbaigian è lui a farmi da guida tra gli esponenti della società civile locale. Mentre passeggiamo tra i palazzi art nouveau di inizio Novecento,
dall’altra parte della città i grattacieli di vetro si stagliano
nel cielo e riflettono il blu del Mar Caspio. Un bacino ricco di petrolio e gas di cui l’Italia, complice l’embargo petrolifero dell’Unione Europea contro l’Iran, è il principale destinatario (27%). Sotto i grattacieli si erge una moschea: simboli, in apparenza contradditori, del postmodernismo di Baku e dell’Islam che, riscoperto all’indomani dell’indipendenza nel 1991, le autorità vorrebbero
scalzare. Parte dell’impero persiano fino al Trattato di Golestan del 1813 e di Turkmanciai del 1828 con cui i russi
riuscirono, dopo guerre sanguinose, a strappare allo scià
il Caucaso meridionale, l’Azerbaigian è sempre stato un
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Paese di religione mista: in maggioranza sciita di rito jafarita (60%), con una buona percentuale di sunniti (30%)
di rito hanafita (se di lingua turca) e sciafeita (i non turchi vivono a ridosso delle montagne del Nord), cui va aggiunta una minoranza di ebrei nell’enclave settentrionale di Qoba.
«Siamo musulmani e non ha senso definirci sciiti: la
scuola jafarita è la nostra pratica, non la nostra identità»,
spiega Ilgar Ibrahimoglu, un imam dissidente che ogni venerdì guida la preghiera in una moschea diversa. E aggiunge: «Il nostro marja-e taqlid (‘fonte di emulazione’,
massima carica nell’Islam sciita, NdR) è l’ayatollah Khamenei [il leader supremo della repubblica islamica dell’Iran, NdR], ma abbiamo anche stima dell’ayatollah Sistani [di origine iraniana, dirige il seminario religioso di Najaf, in Iraq, NdR] e ci piace l’intellettuale ginevrino Tariq
Ramadan perché è come noi, musulmano ed europeo».
Cerniera tra Oriente e Occidente, l’Azerbaigian guarda
con crescente curiosità al Vecchio Continente, cercando
di prendere le distanze dall’Iran e dal mondo arabo attraversato dalle rivolte. «Il problema è che qui in Azerbaigian la libertà è limitata, sia nella fede che in politica»,
dichiara Ibrahimoglu. «Quando chiediamo maggiori diritti il governo prende a pretesto l’attivismo religioso per
dare un giro di vite alla società civile.
Un po’ come il presidente egiziano Mubarak, quando
usava i Fratelli musulmani come scusa per reprimere il
dissenso». Le dimostrazioni non violente del 2011 hanno portato a numerosi arresti: secondo Amnesty International i prigionieri politici sono 16 e per Reporter senza
frontiere il Paese si colloca al 152° posto (su 178) in termini di libertà di espressione.
rentanove anni, Ibrahimoglu ha studiato religione e
filosofia nella città santa iraniana di Qum, dove ha
vissuto dal 1993 al 2001. Offrendoci il tè nero nei tradizionali bicchierini di vetro, il religioso sciita dichiara di
«non ricevere finanziamenti dall’Iran, perché vogliamo
essere indipendenti, da Teheran come dalla Turchia». A
rafforzare questa tesi, Geyushev aggiunge: «L’azerbaigiano è uno sciita che ha frequentato le scuole laiche, ha vissuto il comunismo, conosciuto Lenin e letto Freud, si è
riappropriato dell’Islam dopo l’indipendenza. Questa
non potrà mai diventare una repubblica islamica perché
il secolarismo fa parte dell’identità nazionale fin dalla
metà dell’Ottocento. Siamo, di fatto, la più laica tra le repubbliche ex sovietiche».
I rapporti con Teheran non sono facili: gli azerbaigiani
non hanno bisogno di visto né per l’Iran né per la Turchia,
mentre iraniani e turchi devono ottenerlo per varcare la
frontiera di questa piccola repubblica caucasica. Non c’è
T
reciprocità e il motivo è semplice: «Se permettessimo ai
turchi di entrare senza visto, gli iraniani reclamerebbero
lo stesso trattamento. Ma l’Iran ha 74 milioni di abitanti
e, tenuto conto che lì gli alcolici sono vietati, rischieremmo la coda dei turisti in cerca di birra!», scherza Geyushev uscendo dall’ufficio del mullah, mentre passiamo
vicino alla Torre della Vergine, uno dei monumenti più
famosi di Baku, forse un’antica torre del silenzio di tradizione zoroastriana.
Mentre ci incamminiamo verso la Neftçilar prospekti,
la passeggiata lambita dal Mar Caspio dove abbiamo appuntamento con un altro intellettuale di spicco, Geyushev aggiunge: «Abbiamo paura dell’arretratezza associata all’Iran, e non solo di quella legata alla rivoluzione del
1979 e all’ascesa degli ayatollah: fin dall’Ottocento gli intellettuali azerbaigiani hanno rappresentato, con una satira feroce, i membri del clero iraniano come bugiardi seriali e oppressori delle donne. Da quel momento l’Iran
non è più riuscito a recuperare un’immagine positiva,
mentre la Turchia gode di miglior fama e quando si tratta
di scegliere la scuola per i figli sono in molti a predilige-
Baku. La moschea sunnita dei martiri, costruita
dall’ambasciata turca dopo la caduta dell’impero sovietico.
È stata chiusa quattro anni fa per essere ristrutturata.
east . rivista europea di geopolitica
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AZERBAIGIAN: UN ISLAM PLURALE
o scisma tra sunniti e sciiti risale alla morte di Maometto nel 632 d.C. Si doveva decidere a chi affidare il timone della comunità islamica e la maggioranza (sunniti) riteneva che la leadership spettasse a un vicario (khalifa, da
cui deriva il termine ‘califfo’), scelto per via elettiva tra i
compagni del Profeta, secondo procedure tribali consolidate, mentre una minoranza (sciiti) sosteneva la candidatura del cugino del Profeta, ’Ali, che era anche suo genero
poiché marito della figlia prediletta Fatima.
’Ali aveva una serie di qualità, che avallavano la sua candidatura: aveva trascorso la vita con Maometto, era stato
tra i primi a riconoscerne la missione profetica (dopo la prima moglie Khadija), lo aveva affiancato e – secondo la tradizione sciita – sarebbe stato investito dell’incarico di successore nella località di Ghadir Ghumm, tra la Mecca e Medina: un episodio che i sunniti non negano ma ridimensionano, considerandolo una dimostrazione di stima.
I sunniti praticano quattro diverse tradizioni interpretative del fiqh (giurisprudenza islamica): hanafita, hanbalita, malekita e sciafeita. Da parte loro gli sciiti riconoscono
da cinque (gli zaiditi dello Yemen) a dodici imam (i duodecimani in Iran, Iraq, ecc.).
In Azerbaigian il 60% della popolazione è sciita duodecimana di rito jafarita (prende il nome dal sesto imam e riconosce come fonti del diritto islamico il Corano, la Sunna, il
consenso e il ragionamento umano) e il 30% è sunnita, diviso in due scuole giuridiche: quella hanafita (riserva al ragionamento umano un maggiore spazio nell’elaborazione
del fiqh) per la popolazione di lingua turca e sciafeita (dà
più importanza agli hadith rispetto alle dottrine consuetudinarie) per i non turchi, che vivono a ridosso delle montagne settentrionali. Si tratta di un Islam complesso e plurale, arricchito dalla presenza di un’enclave ebraica a Quba,
una località a nord della capitale Baku.
L
re le scuole turche». L’accenno di Geyushev ai diritti delle donne non è casuale, soprattutto dopo le Primavere arabe in cui l’altra metà del cielo è stato il motore del cambiamento in alcuni Paesi: basti pensare allo Yemen, dove
a scatenare le proteste è stata l’attivista Tawakkul Karman, a dicembre insignita del Nobel per la pace.
La società dell’Azerbaigian è per certi versi ancora maschilista, ma le leggi sanciscono l’uguaglianza di genere
e la storia registra un’emancipazione precoce: la prima
scuola femminile laica risale al 1901, il suffragio universale femminile al 1918 e sebbene in quegli anni a Baku si
usasse il chador gli intellettuali facevano uscire le mogli
senza velo e preferivano spose cristiane ed ebree in segno
di provocazione.
Nel 1991 il primo presidente del parlamento fu una
donna. Inoltre, nella tradizione letteraria dell’Azerbaigian, l’eroe è sempre accompagnato da una donna: per
esempio, nell’epica che narra le gesta del fuorilegge Koroghli, sorta di Robin Hood in versione caucasica, lui ha
sempre al fianco la moglie Nigar, anche in battaglia.
SOPRA Un tratto della Neftçilar prospekti,
la passeggiata lambita dal Mar Caspio.
IN BASSO Gli intellettuali azerbaigiani
Nariman Ghassemzadeh (a sinistra) e Altay Geyushev (a destra).
lo sciismo sia «una trappola persiana», ma diffida in
uguale misura degli arabi. Per quanto abbiano seguito tra
i loro concittadini, non sono però questi esponenti della
società civile a poter intaccare la stabilità di questa repubblica con solo nove milioni di abitanti: al potere dal 2003,
ovvero dalla morte del padre Heydar, il presidente Ilham
Aliyev è uscito dalle politiche del 2010 più forte di prima, visto che il suo partito ha ottenuto la maggioranza dei
n un bar sul lungomare incontriamo il giornalista Nariman Ghassemzadeh, cinquantasei anni, noto per aver
tradotto il Corano in lingua azera. Commenta le questioni religiose sui media locali, promuove idee riformiste ed
è molto seguito dalla popolazione perché, commenta Geyushev, «dice quello che vogliamo sentirci dire»: è contrario al velo, alla poligamia e all’uso dell’arabo, crede che
125 seggi nell’unica camera e i pochi deputati indipendenti sono perlopiù legati alla dinastia regnante. E Aliyev
sembra deciso a conquistare il terzo mandato nelle prossime elezioni, che si terranno nel 2013.
In cambio della stabilità politica, indispensabile per garantire all’Europa i rifornimenti di energia e il transito del
gas caucasico, la comunità internazionale accetta la cor-
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Baku. Donne musulmane nella moschea sciita di Bibi Heybat,
distrutta nel 1935 dai sovietici e ricostruita
negli anni Novanta dopo il crollo dell’Urss.
ruzione dilagante, il nepotismo e le mancate riforme. Sono il prezzo da pagare per fare investimenti in un Paese
che riesce ad attrarre miliardi di dollari in diversi settori
economici: nel periodo 1995-2011 gli investimenti stranieri sono stati pari a 63,1 miliardi di dollari, di cui 41,4
erano investimenti diretti, ottenuti grazie alla promulgazione di leggi a loro garanzia fin dal 1992.
Il motore dello sviluppo è ovviamente il settore energetico, che attrae le multinazionali con il know how più
avanzato. L’impressione è però che anche qui, come nei
Paesi attraversati dalle Primavere arabe, l’Occidente sia
complice di un regime che riesce a barattare le mancate
riforme con l’accesso alle ricchezze energetiche. Perché
l’odore dei petrodollari fa (purtroppo) deviare anche il
corso dei fiumi.
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