Un ironico testo sul mondo del teatro che non nasconde un background
culturale e letterario, da Scarron a Goldoni e da Pirandello a Eduardo, e
ripropone la questione della drammaturgia italiana contemporanea.
di Enrico Bernard
TEATRO LO SPAZIO ROMA
Vetrina Italiana Decima Edizione
in collaborazione con Roma Capitale
assessorato alle politiche culturali e centro storico
presenta
Scena Prima
di Maricla Boggio
con
Mario Prosperi
Gianna Paola Scaffidi
Beatrice Messa
Stefano Dalla Costa
Collaborazione alla regia: Roberto Zorzut
allestimento scenico: Valerio Di Filippo
Costumi: Helga Williams
Regia di
Mario Prosperi
La letteratura teatrale, e non solo, è ricca di storie sul, nel, intorno a quella
"brutta bestia" che si chiama teatro. Un brutta bestia che si impadronisce di
anima e corpo delle sue malcapitate vittime trasformandole in specie di automi
mostruosi che recitano per vivere, ma vivono anche per recitare in una continua
confusione di realtà e finzione.
Chi ha letto il romanzo di Théohile Gautier "Capitan Fracassa" (1863) o
ha visto il film "Il viaggio di Capitan Fracassa" di Ettore Scola con uno strepitoso
Massimo Troisi, sa di cosa parlo. Si tratta, in sostanza, di quella
immedesimazione nel proprio ruolo tipica dell'istrione che necessita di una
trasformazione del proprio essere, una trasformazione fisica e spirituale che
deve portare ad assomigliare quanto più possibile al personaggio che si
interpreta. Nel caso del romanzo di Gautier, l'attore che ad esempio interpreta
la maschera della commedia dell'arte chiamata Matamoro (il soldato fanfarone
di origine plautina che affonda le sue radici nelle farse atellane della preistoria)
vive la sua vita per trasformarsi completamente e realmente, cioé oltre la
finzione del palcoscencio, nella figura stessa della commedia, addirittura
sottoponendosi ad astinenze dal cibo e a camminate debilitanti, con tanto di
pietre in tasca, per risultare sul palcoscenico magro e orribilmente ossuto come
vuole la tradizione teatrale del suo personaggio.
Come si sa, il tema della finzione e del suo rapporto col reale è un po' il
chiodo fisso non solo della drammaturgia, ma della letteratura di tutti i tempi.
Cito, solo per fare qualche esempio, il Roman comique (tradotto in italiano col
titolo "Il romanzo dei comici di campagna" incompiuto, dal 1651 al 1657) di Paul
Scarron, che narra la vita e le peripezie di una compagnia di attori girovaghi e
rappresenta il modello cui si ispirerà Moliere prima e Gautier stesso poi. Ma
quello della vita vissuta come rappresentazione e finzione, ispira anche un
duplice capolavoro narrativo di Goethe, "Il Wilhelm Meister" che si compone di
due parti in cui il protagonista Guglielmo deve esperire il suo tirocinio, il
noviziato alla vita, attraverso le peregrinazioni al seguito di una compagnia di
comici, perso nel sogno di "fare l'attore" innamorandosi - romanticamente
prima che scocchi per lui il duro richiamo della realtà e della vita borghese - di
tutte le attrici che incrocia. Anche Goldoni, siamo in pieno '700, scrive un testo
sull'esistenza e sussistenza di una compagnia teatrale. Anzi i lavori goldoniani
sull'argomento sono ben due: "L'impresario delle Smirne" e "Il teatro comico".
Mentre il primo è però un divertente affresco d'epoca, al secondo, cioé a "Il
teatro comico", spetta una valenza sperimentale che influirà sulla ripresa
dell'argomento (il gioco delle parti tra finzione e realtà) che sarà la base di
partenza della ricerca pirandelliana. Infine, per concludere questa breve
carrellata, non va dimenticato un gioiello drammaturgico di Eduardo de Filippo
"L'arte della commedia", piéce dei primi anni '60 che narra le peripezie di una
compagnia di teatro di giro che cerca di convincere le autorità locali a concedere
una "piazza", un teatro per lo spettacolo dopo l'incendio del loro carrozzone di
girovaghi.
Naturalmente limito gli esempi al genere di Teatro-sul-Teatro che viene
sempre confuso con una sua variante, quella del Teatro-nel-Teatro che ha pure
tanti esempi nella drammaturgia di tutti i tempi e si costituisce come "genere"
nel Settecento con Ludwig Tieck , esponente del romanticismo tedesco e autore
della trilogia del teatro nel teatro ("Il gatto con gli stivali" "Il mondo alla
rovescia" e "Il principe Zerbino"). Trilogia che è stata un secolo dopo abilmente
"incorporata" dal teatro pirandelliano (per i rapporti tra Tieck e Pirandello vedi
il mio saggio "Pirandello plagiatore di Tieck" su www.amnesiavivace.it).
La differenza, sia pur sottile, tra il Teatro-nel-Teatro e il Teatro-sul-Teatro
sta nel fatto che nel primo caso la commedia si sostituisce alla realtà
coinvolgendo inaspettatamente gli spettatori nel gioco delle finzioni (solitamente
il pubblico diventa parte integrante e personaggio dello spettacolo stesso),
mentre invece, nel caso del Teatro-sul-Teatro, il pubblico rimane a guardare lo
spettacolo che parla più genericamente dei casi della vita dedicata alla scena - a
Melpomene, per citare la figlia di Zeus e Mnemosine, Musa protettrice dell'arte
drammatica.
Il lavoro di Maricla Boggio "Scena prima" è da ascriversi a questo
secondo filone drammaturgico di teatro che parla del mondo del teatro ("sul"
quindi, e non "nel" teatro) anche se la serata in cui ho assistito allo spettacolo era
dedicata ad una "prova generale", una forma di rappresentazione in cui il
pubblico alla fine viene chiamato ad esprimersi su questioni attinenti alla
messinscena. Sarebbe stata anche una soluzione, questa di stravolgere
l'impianto drammaturgico del Teatro-sul-Teatro in una rappresentazione
pirandelliana di Teatro-nel-Teatro, tuttavia dubito che si sia trattato di un fatto
voluto, questo finale coinvolgimento del pubblico e relativo dibattito con
l'autore, quanto piuttosto un momento intrinseco alla natura di "prova" della
recita cui ho assistito (ma va detto, e scusate se insisto, che anche "Questa sera si
recita a soggetto" e "Sei personaggi in cerca d'autore" di Pirandello
rappresentano l'espediente di partenza del "work in progress").
La piéce di Maricla Boggio si apre con un furioso litigio tra un giovane
attore con la giovane moglie, una ex collega figlia d'arte di un importante
regista, la quale, essendo divenuta appena madre, tanto che tra grida dei giovani
coniugi e piatti rotti si sentono pure i vagiti dell'infante "depositata" nella stanza
attigua, non sopporta l'idea di essere lasciata da sola e lontano dalle scene a
preparare la pappina. Tanto più che lo spigliato maritino si è fatto
raccomandare dal Maestro, il paparino di lei, insider e lobbysta del mondo dello
spettacolo, nonché ex amante di una famosa attrice, per farsi da questa
ingaggiare. La commedia va piacevolmente avanti su ritmi alla Feydeau con
diversi colpi di scena che coinvolgono la combriccola: la questione è che sono
tutti gelosi di tutti. Ricardo, il regista famoso, è geloso di essere stato soppiantato
nelle grazie di Isabella (la diva) dal bellinbusto Gianluca. Isabella a sua volta è
gelosa del fatto che il ragazzo sia bravo e gli strappi la scena e gli applausi,
mentre Elvira, la figlia del grande maestro, costretta al forzato riposo dalle scene
per fare la mamma, è gelosa non tanto dell'ingaggio amoroso del compagno,
quanto più del suo successo. La situazione sempre complicarsi, quando ad un
certo punto la risoluzione si presenta apparentemente semplice. Riccardo, il
maestro, vuole fare le scarpe al suo giovane primattore troppo narciso ed
istrionico, mentre Isabella vuole disfarsi di Gianluca, troppo ambizioso e
pericoloso per gli equilibri della compagnia. Il gioco è fatto col passaggio di
Gianluca dalla compagnia di Isabella a quella di Riccardo, in barba a tutti i
sentimenti decantati e promesse di amore sempiterno. Ma c'è ancora un nodo da
sciogliere, ed è quello di Elvira che si fa sentire per il suo immediato ritorno sulle
scene. Anche in questo caso due più due fa quattro: alla fine della giostra
Riccardo, Isabella, Elvira e Gianluca si fonderanno in una sola compagnia ed
intepreteranno se stessi. Infatti, quello che hanno fino a questo punto vissuto
come persone reali, si è tramutato in testo, cioé in finzione, da rappresentarsi sul
palcoscenico. Il gioco è fatto.
Fin qui la commedia, - che ha anche una chiusa culturalmente impegnata:
quale teatro vorrà mai concedere "la piazza", cioé il cachet per la serata, ad un
testo di autore italiano, per giunta "ancora" vivente? Strehlerianamente l'istrione
Riccardo ha uno slancio di vitalità e generosità inusitate: a me piacciono,
conclude, le cose difficili.
Il testo di Maricla Boggio non nasconde una sua istanza letteraria e
riflessiva sulla natura della vita da artisti, soprattutto nel mondo del teatro: ai
dialoghi veloci e divertenti tra i personaggi si aggiungono monologhi
introspettivi in cui ciascuno dei quattro spiega il perché del suo agire, dei suoi
sotterfugi, dei piccoli o grandi tradimenti e delle ipocrisie cui questo maledetto
mestiere, la "brutta bestia" della quale parlavo all'inizio, costringe chi ha la
disgrazia (o la fortuna, dipende dai punti di vista) di capitarvi. Così azioni che a
persone normali sembrerebbero inspiegabili (perché Isabella vuol fare le scarpe
al giovane amante Gianluca che fa letteralmente volare lo spettacolo?) trovano
spiegazioni adeguate nelle dinamiche che solo chi fa parte di questo mondo
riuscirebbe d'acchitto a capire.
Gianna Paola Scaffidi nel ruolo non facile della "diva" Isabella è
efficacissima e rende bene il personaggio istrionico facendo leva sul mestiere e
sulla gestualità retorica con cui molte "signore" del palcoscenico si scherniscono
infingendo falsa modestia. Credibili nei ruoli dei giovani attori Elvira e Gianluca,
rispettivamente Beatrice Messa e Stefano Dalla Costa.
Un discorso a parte va fatto per Mario Prosperi, regista della commedia e
interprete nel ruolo di Riccardo, ma anche ideatore e realizzatore di una
ultradecennale iniziativa che sarebbe riduttivo definire meritoria, nell'ambito
della quale trova spazio questa produzione. Parlo della sua "Vetrina Italiana, la
rassegna di proposte per un repertorio del teatro italiano contemporaneo", ora
giunta alla decima edizione, che nel corso degli anni si è costituita come un vero
e proprio Centro di drammaturgia nazionale: un'esperienza partita dal teatro
Politecnico, di cui Mario Prosperi è stato (e ha dato) per una ventina di anni
l'anima, e che ora fa piacere ritrovare nel teatro diretto da un altro autore
italiano, Alberto Bassetti, "ancora" vivente - per dirla con le parole della
commedia della Boggio.
Certo, la ristrettezza di mezzi di cui oggi soffre la produzione artistica,
non permette una realizzazione che vada oltre il bozzetto o l'affresco d'ambiente
del mondo del teatro. Ma quel cialtronesco Maestro, il Riccardo interpretato da
Prosperi, con tutte le sue idiosincrasie nei confronti della realtà, della vita
borghese, con tutte le sue ipocrisie e infingardaggini, con quel suo vestito
sgualcito e sdrucito e i buchi sotto le suole delle scarpe (i costumi sono di Helga
Williams), in fin dei conti ci risulta simpatico, attaccato com'è con la colla alle
tavole di un palcoscenico da cui non svuole assolutamente schiodarsi,
nonostante tutte le avversità e difficoltà, perché solo lì sopra ritrova il senso
della (sua) vita. Proprio come il Matamoro del romanzo di Gautier e della
Commedia dell'Arte, che alla fine, quando si accorge di non riuscire più a vivere
nella finzione, di non essere più necessario come maschera "tragica" del reale, si
lascia mestamente morire nel bosco.