David Harris Israele e il conflitto arabo-israeliano Una breve guida per i perplessi (Edizione revisionata e aggiornata) Trad. it. di Carmine Monaco The American Jewish Committee L’American Jewish Committee protegge i diritti e le libertà degli ebrei in tutto il mondo; combatte il fanatismo e l’antisemitismo e promuove i diritti umani per tutti; lavora per la sicurezza di Israele e per una maggiore comprensione tra Americani e Israeliani; sostiene una posizione politica fondata sui valori democratici americani nella prospettiva del retaggio culturale ebraico, e sostiene la creativa vitalità del popolo ebraico. Fondata nel 1906, è stata un’agenzia pionieristica nel campo delle relazioni umane negli Stati Uniti. David Harris Israele e il conflitto arabo-israeliano Una breve guida per i perplessi (Edizione revisionata e aggiornata) Trad. it. di Carmine Monaco The American Jewish Committee David A. Harris è direttore esecutivo dell’American Jewish Committee dal 1990. Ha conseguito la laurea presso l’Università di Pennsylvania, si è laureato in relazioni internazionali presso la London School of Economics, ed ha effettuato studi post-laurea presso l’Università di Oxford. È autore di The Jewish World, Entering a New Culture, In the Trenches, Vol. I, II, III, e coautore di The Jokes of Oppression. La storia di Israele è la mirabile realizzazione di un legame tra una terra, una fede, una lingua, un popolo e una visione, che dura da oltre 3.500 anni. È una storia esemplare di tenacità e determinazione, di coraggio e rinnovamento. È la prova del predominio della speranza sulla disperazione. David A. Harris, da In the Trenches (2000). Titolo originale: Israel and the Arab-Israel Conflict: a Brief Guide for the Perplexed Copyright © 2005 American Jewish Committee All Rights Reserved. Data di pubblicazione: Agosto 2005 Israele e il conflitto arabo-israeliano: una breve guida per i perplessi Il Medio Oriente pare essere sempre presente nei notiziari. È difficile che un giorno trascorra senza una storia su qualcosa accaduto in Israele o sul conflitto arabo-israeliano. Sfortunatamente, data la natura rapida e martellante di molti notiziari dei giorni nostri, l’informazione spesso è carente in quanto a contesto storico. Questa pubblicazione fornisce alcune prospettive e punti di discussione, sia storici che contemporanei, ma senza l’intento di una disamina esaustiva della situazione. Le ragioni a sostegno della causa di Israele sono forti oggi come ieri. Di fronte ai fatti concreti, le persone di buona volontà dovrebbero comprendere: a) la richiesta di pace e sicurezza avanzata da Israele per cinquantasette anni; b) il reale pericolo affrontato da Israele, un paese non più esteso del New Jersey o del Galles, pari a due terzi del Belgio e a solo l’1% del territorio dell’Arabia Saudita, circondato da vicini tumultuosi e pesantemente armati; c) l’incrollabile impegno di Israele ad essere una democrazia, caratterizzata da libere elezioni, pacifici passaggi di potere, controllo dei civili sui militari, libertà di parola, stampa, religione e riunione, ed una magistratura indipendente – un caso unico in tutta la regione; d) il filo comune delle minacce dell’estremismo e del terrorismo affrontate da Israele, Stati Uniti, Europa, India, Australia, Russia, paesi islamici moderati e altri ancora; e) l’impressionante e pionieristico contributo di Israele alla civiltà mondiale in campi come scienza, medicina, tecnologia, agricoltura e cultura; contributo ancora più rimarchevole, considerando la relativa giovinezza del paese e il pesante impegno difensivo dei propri confini, ma che purtroppo viene spesso dimenticato nella preoccupazione di trattare il conflitto e la violenza. Nessun paese può vantare una storia perfetta, e Israele, come altre nazioni democratiche, ha commesso la sua quota di errori. Ma riconoscere la propria fallibilità è una forza nazionale, non una debolezza. E la storia israeliana può essere favorevolmente comparata a quella di qualsiasi altro paese della regione, e anche ben oltre la regione, in forza della sua dedizione ai valori democratici. Israele può essere orgoglioso della sua storia, e i suoi amici non dovrebbero esitare a gridarlo dai tetti. Una storia iniziata molto prima della rifondazione del moderno stato nel 1948. Il legame del popolo ebraico con la terra d’Israele è incontrovertibile e ininterrotto. Un legame che illumina un arco di storia di quattromila anni. La prova “A” di questo legame è la Bibbia ebraica. Il Libro del Genesi, il primo dei cinque libri della Bibbia, racconta la storia di Abramo, l’alleanza col Dio unico, e la partenza da Ur (nell’attuale Iraq) verso Canaan, la regione corrispondente grosso modo a Israele. Il Libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, contiene le seguenti parole: «Il Signore parlò a Mosè, e gli disse: “Manda degli uomini ad esplorare la terra di Canaan, che sto per dare al popolo d’Israele”». Cosa che si realizzò al termine di quarant’anni di spostamenti degli israeliti, in cerca non solo di un rifugio dagli egiziani, ma della Terra Promessa – quella terra che oggi è Israele. La prova “B” è costituita da qualsiasi libro di preghiere ebraiche in uso lungo l’arco dei secoli ovunque nel mondo. I riferimenti nella liturgia a Sion, la terra di Israele, sono infiniti. E questi argomenti sono solo due tra i molti riferimenti a questa terra e alla sua centralità per la storia ebraica e la sua identità nazionale. Lo stesso forte legame unisce il popolo ebraico a Gerusalemme. Questo legame risale ai tempi di Re Davide, il quale visse approssimativamente tremila anni fa, stabilendo a Gerusalemme la capitale di Israele. Da quel momento, Gerusalemme ha rappresentato non soltanto il centro geografico del popolo ebraico, ma anche il cuore metafisico e spirituale della sua fede e della sua identità. Non importa dove gli ebrei preghino: essi si rivolgeranno sempre in direzione di Gerusalemme. Davvero, la relazione tra Gerusalemme e il popolo ebraico è un caso unico negli annali della storia. Gerusalemme è stata il sito dei due Templi – il primo costruito da Re Salomone durante il decimo secolo a.e.v., e distrutto nel 586 a.e.v. durante la conquista babilonese, e il secondo fu costruito meno di un secolo dopo, successivamente ampliato da Re Erode e infine distrutto dall’esercito romano nel 70 e.v.. Scrive il salmista: «Se ti dimentico, Gerusalemme, mi si secchi la mano destra; la mia lingua si incolli al palato se smetto di pensarti, se non dovessi ricordare Gerusalemme anche nell’ora più felice». In un commentario alle Scritture ebraiche si legge: «Anche tu trovi che ci sia una Gerusalemme superiore, corrispondente alla Gerusalemme inferiore. Per puro amore della Gerusalemme terrestre, Dio si fece Uno sopra». E per tremila anni al Seder di Pasqua (cena pasquale, n.d.t.) gli ebrei hanno ripetuto le parole: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Sebbene forzatamente dispersi per quasi diciannove secoli, gli ebrei non hanno mai spento il loro ardente desiderio per Sion e Gerusalemme. È scritto nel libro di Isaia: «Per la causa di Sion non rimarrò in silenzio, per la causa di Gerusalemme non resterò immobile...» Oltre ad esprimere questa aspirazione mediante le preghiere, gli ebrei hanno sempre vissuto in terra di Israele, e specialmente a Gerusalemme, sovente malgrado i pericoli per la loro incolumità. Fin dall’Ottocento, gli ebrei hanno costituito la maggioranza della popolazione in queste terre. Ad esempio, secondo il Political Dictionary of the State of Israel, gli ebrei costituivano il 61,9 per cento della popolazione di Gerusalemme già nel 1892. Il legame storico e religioso con Gerusalemme è di speciale importanza perché alcuni arabi cercano di riscrivere la storia e asseriscono che gli ebrei sono «occupanti stranieri» o «colonialisti» senza reali legami con questa terra. Questi tentativi di negare la legittimità dello Stato di Israele sono falsi in maniera evidente e vanno mostrati per quello che sono: bugie. Peraltro essi ignorano il fatto “sconveniente” che quando Gerusalemme fu sotto dominio islamico (ad esempio, degli Ottomani e, più tardi, dei giordani), fu sempre ridotta ad una palude. Non fu mai un centro politico, religioso o economico. Ad esempio, quando Gerusalemme fu in mani giordane dal 1948 al 1967, praticamente nessun leader arabo la visitò, e nessuno della casa regnante dei Saud venne dall’Arabia Saudita a pregare alla Moschea di AlAqsa in Gerusalemme Est. Il Sionismo è la richiesta di autodeterminazione nazionale del popolo ebraico. Sebbene l’aspirazione alla terra della nazione ebraica risalga a migliaia di anni addietro, come testimoniano i testi classici ebraici, essa affonda le sue radici anche in una realtà più recente. Teodoro Herzl, considerato il padre del moderno Sionismo, fu un ebreo laico, un giornalista viennese che rimase sbigottito dal chiassoso antisemitismo che corroborava l’infame “Affaire Dreyfus” in Francia, il primo paese europeo ad estendere pieni diritti agli ebrei, così come nel suo nativo impero austroungarico. Egli giunse alla conclusione che gli ebrei non avrebbero mai potuto godere di piena eguaglianza come minoranza nelle società europee, poiché la triste eredità di secoli di antisemitismo vi era troppo profondamente radicata. Perciò, egli chiese la creazione di uno stato ebraico, da lui stesso descritto nella sua opera più importante Der Judenstaat (trad. it. Lo stato ebraico, Genova 1992), pubblicato nel 1896. La visione di Herzl fu fatta propria dal ministro degli esteri britannico Lord Balfour, il quale, il 2 novembre del 1917, emanò una dichiarazione: Il governo di Sua Maestà vede con favore lo stabilirsi in Palestina di una casa nazionale per il popolo ebraico, e compirà i suoi migliori sforzi per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, essendo chiaramente compreso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina, così come i diritti e lo status politico goduto dagli ebrei in qualsiasi altro paese. Nel 1922, la Lega delle Nazioni, incaricando la Gran Bretagna di un mandato per la Palestina, riconobbe «il legame storico del popolo ebraico con la Palestina». L’ascesa di Adolf Hitler e la “Soluzione Finale” nazista, guidata dalla Germania e dai suoi alleati – e facilitata dalla diffusa complicità o dalla semplice indifferenza al destino degli ebrei della gran parte del mondo – rivelò in tutta la sua tragica dimensione il disperato bisogno di uno stato ebraico. (Al riguardo, ricordiamo che il muftì di Gerusalemme Haj Amin elHusseini fu tra i più entusiastici sostenitori del genocidio nazista del popolo ebraico.) Solo in un tale stato, credeva il movimento sionista – e i suoi sostenitori non ebrei – gli ebrei non avrebbero dovuto affidarsi alla “buona volontà” degli altri per determinare il proprio destino. Tutti gli ebrei sarebbero stati benvenuti in Israele, che avrebbe dato loro un rifugio dalle persecuzioni o compimento al loro “ardente desiderio di Sion”. Fu proprio quest’ultimo aspetto che infiammò l’immaginazione di molti ebrei che, a cavallo tra l’800 e il ‘900, si insediarono in quella che era allora una Palestina desolata e, al riparo dalle condanne ideologiche, guidarono la fondazione del moderno stato di Israele. Parlando di desolazione, l’autore e umorista americano Mark Twain visitò l’area nel 1867. Egli la descrisse così: … [Un] paese desolato il cui suolo è ricco abbastanza, ma è quasi per intero dato alle erbacce – un silenzio luttuoso vi si espande... Vi è qui una desolazione a cui nessuna immaginazione può fare la grazia di pomparvi la vita e l’azione... Non abbiamo mai visto un essere umano lungo l’intero percorso... C’era a stento un albero o un arbusto in tutto. Persino l’ulivo e il cactus, questi amici fedeli dei suoli senza valore, avevano pressoché disertato il paese. Basta un solo momento a chiunque visiti oggi Israele per vedere le miracolose trasformazioni della terra, le foreste amorevolmente piantate, il suolo irrigato e coltivato, e le città e i villaggi costruiti. Gli attuali avversari di Israele alterano maliziosamente il significato di Sionismo – il movimento per l’autodeterminazione del popolo ebraico – nel tentativo di presentarlo come una forza demoniaca. Inoltre, essi cercano di descrivere l’area come un posto ben sviluppato dagli arabi residenti, successivamente estromessi dagli ebrei che vi erano sopraggiunti. Il loro obiettivo principale è quello di minare la raison d’être di Israele ed isolare lo stato dalla comunità delle nazioni. Questo accadde, ad esempio, nel 1975, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, superando le strenue obiezioni dei paesi democratici, adottò una risoluzione che etichettava il Sionismo come “razzismo”. La risoluzione fu finalmente abrogata nel 1991, ma l’infame menzogna riemerse nel 2001, alla Conferenza mondiale contro il razzismo, svoltasi a Durban, nel Sud Africa. Il blocco arabo, comunque, fallì il suo tentativo di ottenere la condanna del Sionismo nel documento della conferenza. In quella circostanza, molte nazioni compresero che il conflitto tra Israele e i palestinesi è, come è sempre stato, politico, non razziale. Tra l’altro, questo ricorrente tentativo di marchiare il Sionismo come razzismo è un lampante esempio di asino che dà del somaro al bue. Le nazioni arabe formalmente definiscono se stesse in base alla loro etnia, cioè quella araba, il che esclude automaticamente gli altri gruppi etnici non-arabi, come i berberi e i curdi. Lo stesso vale per la religione. L’Islam è la religione ufficiale in tutti i paesi arabi tranne uno (il Libano), il che determina una emarginazione forzata delle fedi non islamiche, in particolare delle minoranze cristiane. In quest’ambito, vale la pena di ricordare il commento sull’antisionismo del reverendo Martin Luther King Jr.: Che cos’è l’antisionismo? È il rifiuto opposto al popolo ebraico di quel fondamentale diritto che noi giustamente reclamiamo per il popolo d’Africa e per tutte le nazioni della Terra. È una discriminazione contro gli ebrei, amici miei, perché essi sono ebrei. In breve, questo è antisemitismo... Lasciate che queste mie parole riecheggino nel profondo della vostra anima: quando la gente critica il Sionismo, intende gli ebrei – non c’è da sbagliarsi al riguardo. È importante anche sottolineare che i non ebrei non sono stati esclusi dalla costruzione dello stato di Israele. Al contrario. Oggi un quinto dei cittadini israeliani sono non ebrei, compreso oltre un milione di arabi, e l’arabo è una delle lingue ufficiali della nazione. Inoltre, la popolazione ebraica di Israele è sempre stata portatrice di enormi diversità nazionali, etniche, culturali e linguistiche, che si accentuarono ancora di più a cavallo del 1980, quando Israele salvò decine di migliaia di ebrei neri residenti in una Etiopia duramente colpita dalla siccità, e che chiedevano di essere portati in Israele. Riporto qui l’eloquente commento di Julius Chambers, allora direttore generale del “N.A.A.C.P. [National Association for the Advancement of Coloured People, n.d.t.] Fondo di difesa legale ed educazione”: Se le vittime della carestia in Etiopia fossero state bianche, innumerevoli nazioni avrebbero forse offerto loro un rifugio. Ma la gente che muore ogni giorno di fame in Etiopia e in Sudan sono neri, e in un mondo dove il razzismo è ufficialmente deplorato virtualmente da ogni governo organizzato, solo una nazione non Africana ha aperto le sue porte e le sue braccia. La silenziosa azione umanitaria dello Stato di Israele, azione intrapresa senza alcun riguardo al colore della pelle di coloro che sono stati salvati, si eleva come una condanna del razzismo molto più concreta di tanti semplici discorsi o risoluzioni. Il conflitto arabo-Israeliano poteva essere evitato. Poco dopo la sua fondazione nel 1945, le Nazioni Unite presero ad interessarsi del futuro della Palestina mandataria, allora sotto protettorato britannico. Una commissione dell’ONU (UNSCOP, United Nations Special Committee on Palestine) raccomandò all’Assemblea Generale una partizione della terra tra ebrei e arabi. Nessuna delle parti avrebbe ottenuto tutto ciò che desiderava, ma una divisione avrebbe riconosciuto che vi erano due popolazioni – una ebraica, l’altra araba – su una terra, e che ciascuna meritava il suo stato. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, con un voto di 33 a favore, 13 contrari e 10 astenuti, adottarono la Risoluzione n. 181, nota come Piano di Partizione. L’accettazione del Piano di Partizione avrebbe significato lo stabilirsi di due stati, ma i confinanti stati arabi e le popolazioni arabe locali rifiutarono la proposta con veemenza. Essi rifiutarono di riconoscere un diritto degli ebrei a qualsiasi parte della terra e scelsero la guerra per ricacciarli fuori. Questo rifiuto è sempre stato il nocciolo e il cuore del conflitto – allora come oggi. Molti paesi arabi e l’Iran, per non menzionare le organizzazioni terroristiche palestinesi, ancora non riconoscono il reale diritto all’esistenza di Israele, qualsiasi siano i suoi confini, anche dopo cinquantasette anni dalla sua fondazione. Il 14 maggio 1948 lo Stato di Israele fu fondato. Winston Churchill comprese il suo significato: La realizzazione di uno stato ebraico... è un evento nella storia del mondo che non va visto nella prospettiva di una generazione o di un secolo, ma nella prospettiva di mille, duemila o addirittura tremila anni. Anni dopo, il presidente John F. Kennedy offrì la sua interpretazione del significato della rinascita di Israele quasi 1900 anni dopo la sua ultima espressione di sovranità nazionale: Israele non è stato creato per scomparire: Israele durerà e fiorirà. Israele è il figlio della speranza e la casa dei coraggiosi. Esso non può essere distrutto dall’avversità né demoralizzato dal successo. Esso porta lo scudo della democrazia e onora la spada della libertà. Sull’argomento della pace, la Dichiarazione della Costituzione dello Stato di Israele include queste parole: Noi tendiamo la nostra mano a tutti gli stati vicini e ai loro popoli in una offerta di pace e buon vicinato, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di cooperazione e aiuto reciproco con il popolo ebraico sovranamente insediato sulla propria terra per il bene comune di tutti. Tragicamente, questa offerta, come molte altre precedentemente fatte da leader ebrei nei mesi precedenti la creazione dello stato, fu ignorata. Il 15 maggio 1948 gli eserciti di Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Siria attaccarono il nascente stato ebraico, allo scopo di distruggerlo. Nel corso di questa guerra, dichiarata dalle nazioni arabe, le popolazioni civili soffrirono, come accade in tutte le guerre. È tuttora oggetto di controversie quanti arabi locali lasciarono Israele perché i leader arabi glielo ordinarono fino a minacciarli in caso di un loro rifiuto, quanti partirono per timore dei combattimenti, e quanti furono costretti a partire dalle forze israeliane. Ciò che rileva è che centinaia di migliaia di arabi rimasero in Israele e divennero cittadini di questo stato. Ma il punto centrale non va perso di vista, ovvero i paesi arabi scatenarono questa guerra allo scopo di annientare i 650.000 ebrei del nuovo Stato di Israele, e così facendo queste nazioni hanno sfidato il piano delle Nazioni Unite mirato a creare i due stati: quello ebraico e quello arabo. Il conflitto arabo-israeliano ha creato due popolazioni di rifugiati, non una sola. Mentre l’attenzione del mondo è stata focalizzata sui profughi palestinesi, il problema delle centinaia di migliaia di ebrei costretti a lasciare i paesi arabi, divenendo rifugiati a loro volta, è stato largamente ignorato. Molti esperti, infatti, sostengono che l’entità delle due popolazioni interessate è molto simile. Ma c’è stata una profonda differenza: Israele ha assorbito immediatamente gli ebrei rifugiati, mentre i profughi palestinesi sono stati confinati in campi e deliberatamente tenuti qui generazione dopo generazione a causa di un calcolo politico degli arabi e con la complicità dell’ONU. Non esiste oggi al mondo alcun esempio comparabile di una popolazione rifugiata trattata in maniera così cinica. Finora, tra tutti i paesi arabi, solo la Giordania ha esteso la cittadinanza ai profughi palestinesi. Gli altri ventuno stati arabi, che si estendono su vasti territori e condividono la lingua, la religione e le radici etniche dei palestinesi, hanno rifiutato di farlo. Perché? Tristemente, essi sembrano aver ben poco interesse ad alleviare le sofferenze dei rifugiati che continuano a vivere in campi profughi spesso davvero squallidi. Piuttosto, essi vogliono nutrire l’odio nei confronti di Israele, e così usano i rifugiati come un’arma chiave nella loro incessante guerra contro Israele. Tra l’altro – solo per dare una percezione di come i palestinesi sono trattati nel mondo arabo – il Kuwait espulse sommariamente oltre 300.000 palestinesi che lavoravano da anni nel paese (ma a cui non venne mai dato il passaporto kuwaitiano) quando Yasser Arafat sostenne l’invasione di Saddam Hussein che scatenò la Guerra del Golfo 1990-91. I palestinesi furono tutti visti come una potenziale quinta colonna. Si elevò a stento qualche lieve protesta da parte degli altri paesi arabi per quella che fu l’espulsione di una intera comunità di palestinesi. E potrà sembrare difficile a credersi, ma il Libano, che per decenni è stato casa di diverse centinaia di migliaia di palestinesi, ha impedito loro con apposite leggi di operare in numerosi settori professionali. La storia dei rifugiati ebrei provenienti dai paesi arabi per sfortuna non è stata raccontata a dovere. Quando è sorta la questione dei rifugiati ebrei, i portavoce arabi hanno spesso finto di ignorarla, oppure hanno strenuamente sostenuto che gli ebrei vivevano bene sotto il dominio islamico, contrariamente a quanto accadeva nell’Europa cristiana. In qualche circostanza hanno argomentato, con falsa ingenuità, che gli arabi, per definizione, non possono essere antisemiti perché, come gli ebrei, sono semiti. È vero che non vi è mai stato l’equivalente dell’Olocausto nell’esperienza ebraica in terra islamica, ed è anche vero che vi sono stati periodi di cooperazione ed armonia, ma occorre raccontare tutta la storia. Gli ebrei non hanno mai goduto di uguali diritti dei mussulmani in paesi sotto dominio islamico; ci sono sempre state precise norme di comportamento per gli ebrei (come per i cristiani) da cittadini di seconda classe. Le violenze contro gli ebrei non erano sconosciute nel mondo islamico. Per citare solo un esempio del destino degli ebrei nei paesi arabi, gli ebrei vissero ininterrottamente in Libia sin dai tempi dei Fenici, ovvero da molto tempo prima che gli arabi arrivassero dalla penisola arabica, portando l’Islam nel nord Africa e insediandosi – occupando? – terre già abitate tra l’altro dalle popolazioni indigene dei Berberi. La gran parte dei 40.000 ebrei libici dovette partire tra il 1948 e il 1951, in seguito ai pogroms verificatisi il 1945 e il 1948. Nel 1951 la Libia divenne un paese indipendente. Nonostante le garanzie costituzionali, agli ebrei rimasti nel paese fu negato il diritto di voto, di ricoprire uffici pubblici, di ottenere un passaporto libico, di supervisionare i loro affari comunitari o acquistare nuove proprietà. Dopo il terzo pogrom del 1967, ai residui 4.000 ebrei libici fu concesso di partire con solo una valigia e l’equivalente di 50 dollari. Nel 1970 il governo libico promulgò una serie di leggi relative alla confisca dei beni degli ebrei esiliati e emanò delle obbligazioni a risarcimento, pagabili entro quindici anni. Ma il 1985 giunse e trascorse, e non fu pagato alcun risarcimento. Il governo fece invece distruggere i cimiteri ebraici, usando le pietre tombali per pavimentare nuove strade, in base ad una calcolata strategia mirata a cancellare le vestigia della storica presenza ebraica nel paese. Si stima una presenza di circa 750.000 ebrei nei paesi arabi nel 1948, l’anno della fondazione di Israele; oggi ne sono rimasti appena 6.000, la gran parte dei quali residente in Marocco e Tunisia. Dov’era la simpatia araba per il popolo palestinese tra il 1948 e il 1967? Con gli accordi inerenti l’armistizio che pose fine alla Guerra d’Indipendenza di Israele, la Striscia di Gaza passò nelle mani dell’Egitto. Piuttosto che conferire sovranità alle popolazioni arabe locali e ai palestinesi che vi si erano rifugiati, le autorità egiziane imposero un regime militare. Nel frattempo, la West Bank e Gerusalemme Est furono governate dalla Giordania. Anche in questo caso nulla fu fatto al fine della creazione di uno stato indipendente palestinese; al contrario, la Giordania si annetté il territorio con un’azione riconosciuta solo da due nazioni nel mondo, ovvero Gran Bretagna e Pakistan. Fu durante questo periodo, e precisamente nel 1964, che fu fondata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Il suo scopo non era la creazione di uno stato sulle terre sotto l’autorità egiziana e giordana, ma piuttosto l’eliminazione di Israele e la fondazione di uno stato arabo palestinese sull’intera area. L’articolo 15 della Carta dell’OLP definisce chiaramente il suo scopo: La liberazione della Palestina, dal punto di vista arabo, è un dovere nazionale per respingere il Sionismo, l’invasione imperialista della grande madrepatria araba e per purgare la presenza Sionista dalla Palestina. Negli anni seguenti, il terrorismo targato OLP raggiunse l’apice della sua mortale violenza, focalizzata su obiettivi israeliani, americani, europei ed ebraici. Furono bersaglio dei terroristi: scolari, atleti olimpionici, diplomatici, passeggeri di aeroplani, e persino un turista in crociera costretto su una sedia a rotelle. Come giunse Israele in possesso di West Bank, Golan, Striscia di Gaza, Penisola del Sinai e di Gerusalemme Est, inclusa la Città Vecchia? Tutt’oggi molte persone si riferiscono istintivamente ai “territori occupati” senza neppure chiedersi come queste aree siano pervenute nelle mani di Israele nel 1967. Anche in questo caso c’è nel mondo arabo chi tenta di riscrivere la storia e imputa ad Israele un preteso espansionismo, ma i fatti sono chiari. Ecco una rapida cronologia dei principali eventi che portarono alla Guerra dei Sei Giorni: Il 16 maggio 1967 Radio Cairo annunciò: «L’esistenza di Israele è durata troppo a lungo. È giunta l’ora della battaglia in cui noi distruggeremo Israele». Lo stesso giorno l’Egitto chiese il ritiro delle truppe dell’ONU di stanza in Gaza e Sharm el-Sheikh fin dal 1957. Tre giorni dopo l’ONU, a sua eterna vergogna, annunciò che avrebbe esaudito la richiesta egiziana. Il 19 maggio Radio Cairo affermò: «Questa è la nostra occasione, arabi, per infliggere a Israele un colpo mortale di annientamento...» Il 23 maggio il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser dichiarò la sua intenzione di bloccare lo stretto di Tiro alle navi israeliane, per colpire i commerci vitali di Israele verso l’Asia e l’Africa dell’Est. Israele replicò che, per le leggi internazionali, ciò costituiva un casus belli, un atto di guerra. Il 27 maggio Nasser disse: «il nostro obiettivo principale è la distruzione di Israele». Il 30 maggio il re di Giordania Hussein collocò le forze giordane sotto il controllo egiziano. Truppe egiziane, irachene e saudite furono inviate in Giordania. Il 1 giugno il leader iracheno espresse il suo pensiero: «Noi siamo risoluti, determinati e uniti per raggiungere il nostro chiaro scopo di cancellare Israele dalla mappa». Il 3 giugno Radio Cairo salutò l’imminente guerra santa islamica. Il 5 giugno Israele, circondato da forze arabe notevolmente più numerose e pesantemente armate, pronte ad attaccare in qualsiasi momento, lanciò un attacco preventivo. In sei giorni Israele sconfisse i suoi nemici e conquistò nuove terre lungo i fronti egiziano, giordano e siriano. Israele fece strenui – e documentati – sforzi, attraverso i canali dell’ONU, al fine di persuadere re Hussein a restare fuori dalla guerra. Diversamente da Egitto e Siria, la cui ostilità verso Israele era irremovibile, la Giordania aveva tranquillamente cooperato con Israele, di cui condivideva la preoccupazione per l’ostilità dei disegni palestinesi. Anni dopo, re Hussein riconobbe pubblicamente che la sua decisione di entrare nella guerra del 1967, in seguito alla quale perse il controllo della West Bank e di Gerusalemme Est, fu uno dei più grossi errori da lui commessi. Un’altra occasione di pace perduta. Poco dopo la Guerra dei Sei Giorni, Israele manifestò il suo desiderio di dare terra in cambio di pace con i suoi vicini arabi. Mentre Israele non era preparato a cedere la parte Est di Gerusalemme – che conteneva i luoghi più sacri di Israele e che, in lampante violazione dei termini dell’accordo di armistizio israelo-giordano, erano stati interamente off limits per Israele per quasi diciannove anni (mentre la Giordania dissacrava 58 sinagoghe nel Quartiere Ebraico della Città Vecchia e il mondo rimaneva in silenzio) – era però pronto a cedere i territori conquistati nel quadro di un accordo generale. Ma l’apertura di Israele fu rifiutata seccamente. Una inequivocabile risposta giunse da Karthoum, la capitale del Sudan, dove i leader arabi riuniti in conferenza annunciarono la loro risoluzione il 1 settembre 1967, contenente tre no: «No alla pace, no al riconoscimento e no al negoziato con Israele». Nel novembre del 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottò la risoluzione n. 242 Questa risoluzione, spesso citata nelle discussioni inerenti il conflitto arabo-israeliano come base per la sua soluzione, non viene sempre riportata con precisione. La risoluzione sottolinea «l’inammissibilità dell’acquisizione di territorio mediante la guerra e il bisogno di lavorare per una giusta e durevole pace in cui ciascuno [il corsivo è nostro, n.d.r.] Stato dell’area possa vivere in sicurezza». Più avanti essa chiede il «ritiro delle forze armate israeliane da territori occupati nel recente conflitto», ma deliberatamente omette l’uso dell’articolo “i” prima della parola “territori”. L’allora ambasciatore degli Stati Uniti presso l’ONU, Arthur Goldberg, notò che questa fu una omissione intenzionale, affinché la sistemazione finale potesse permettere, sulla base di non specificati confini, quegli aggiustamenti necessari alla sicurezza di Israele. Ad esempio, prima della Guerra dei Sei Giorni del 1969, il punto più stretto dello Stato di Israele – appena a nord di Tel Aviv, la sua città più grande – si estendeva per appena nove miglia. La risoluzione includeva anche un appello a porre termine «ad ogni richiesta e stato di belligeranza e al rispetto e al riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato nell’area e al loro diritto di vivere in pace dentro confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza». E, non ultimo, essa «afferma inoltre la necessità (a) di garantire la libertà di navigazione lungo le rotte internazionali dell’area; (b) di dare una giusta soluzione al problema dei profughi [Notare come l’assenza di specificità dell’espressione “problema dei profughi”, permette più di una interpretazione su quante siano le popolazioni rifugiate. N.d.r.]; e (c) garantire l’inviolabilità e l’indipendenza politica di ogni Stato nell’area, attraverso misure comprendenti la creazione di zone demilitarizzate». Il 22 ottobre 1973 – durante una nuova guerra dichiarata dagli arabi, che divenne nota come Guerra di Yom Kippur poiché ebbe inizio nel corso del giorno più sacro all’ebraismo – il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottò la Risoluzione n. 338. La misura chiedeva il cessate il fuoco, l’applicazione della Risoluzione n. 242 nella sua interezza, e l’avvio di un dialogo tra le parti coinvolte. Le Risoluzioni nn. 242 e 338 sono normalmente citate insieme riguardo qualsiasi colloquio di pace arabo-israeliano. Gli insediamenti diventano argomento di contestazione Ciò è fuor di dubbio, però anche questo aspetto, come qualunque altro del conflitto arabo-israeliano, ha alle spalle molto di più. Dopo la vittoria di Israele nella guerra del 1967, e una volta divenuto chiaro che i paesi arabi non erano interessati a negoziare la pace, Israele, guidato da una coalizione laburista, comincia a incoraggiare la costruzione di insediamenti, o nuove comunità, sulle terre conquistate. Questa pratica fu accelerata durante il governo guidato dal Likud, dopo il 1977. Qualsiasi opinione si possa avere sugli insediamenti, è importante comprendere i motivi che hanno spinto Israele a perseguire questa politica: (a) Israele sostiene che la terra era oggetto di disputa – sia gli arabi che gli ebrei la reclamavano – e poiché non esisteva alcuna autorità sovrana, gli israeliani avevano lo stesso diritto ad insediarvisi dei palestinesi (i quali non avevano mai avuto un proprio stato su questi territori); (b) sono esistite comunità ebraiche nella West Bank molto prima del 1948, ad esempio in Hebron e in Gush Etzion, dove nell’arco del 1900 gli arabi hanno compiuto numerosi massacri, uccidendo un gran numero di ebrei; (c) la West Bank, secondo la Bibbia ebraica rappresenta la culla della civiltà ebraica, e alcuni ebrei, guidati dalla fede e dalla storia, erano ansiosi di riallacciare tali legami; (d) il governo israeliano riteneva che alcuni insediamenti potevano essere utili ai fini della sicurezza, data la loro importanza geografica e soprattutto topografica in quest’area piuttosto ristretta; (e) molti ufficiali israeliani ritenevano che la costruzione degli insediamenti, determinando uno stato di fatto, avrebbe potuto avvicinare il giorno in cui i palestinesi, comprendendo che il tempo non era necessariamente dalla loro parte, avrebbero parlato di pace. Allo stesso tempo, i sondaggi hanno frequentemente rilevato che la maggioranza degli israeliani concorda sul fatto che qualsiasi accordo di pace con i palestinesi comporterà necessariamente lo smantellamento di molti degli insediamenti, sebbene non tutti. Quegli insediamenti che oggi sono sostanzialmente delle città e che sono più vicine a Gerusalemme e altre aree adiacenti ai confini del 1967, saranno verosimilmente tenuti da Israele in qualsiasi accordo di pace. È importante sapere che la linea del 1967 non è mai stata un vero e proprio confine riconosciuto internazionalmente, ma piuttosto una linea di armistizio che marcava le posizioni sul campo alla fine della Guerra di Indipendenza di Israele del 1949. Gli Stati Uniti hanno di recente riconosciuto questo fatto di importanza critica quando il Presidente George W. Bush scrisse al Primo Ministro Ariel Sharon, il 14 aprile del 2004, che «è irrealistico aspettarsi che lo status finale derivante dai negoziati sarà il pieno e completo ritorno alle linee dell’armistizio del 1949». Le possibilità di pace Nel 1977 per la prima volta un esponente del Likud, Menachem Begin, divenne primo ministro. Fatto che non impedì al presidente egiziano Anwar Sadat di compiere quello stesso anno il suo storico viaggio in Israele e di tenere un discorso alla Knesset, il parlamento israeliano. Si realizzò uno straordinario percorso di pace, tra gli alti e bassi inevitabili in una così difficile negoziazione. Nel settembre 1978 furono formulati gli Accordi di Camp David, i quali fornivano una solida struttura per una pace complessiva, compresa una proposta relativa ad un autogoverno limitato per i palestinesi (proposta che fu rifiutata dai palestinesi). Sei mesi più tardi fu firmato l’accordo di pace che pose termine a trentuno anni di stato di guerra tra Israele ed Egitto. Fu un notevole momento della storia. Sadat (che per gran parte della sua vita aveva manifestato la sua virulenza antisemita e anti-israeliana, oltre ad essere stato l’ispiratore dell’attacco a sorpresa egiziano – condotto insieme alla Siria – contro Israele, che diede luogo alla Guerra di Yom Kippur del 1973) si accordò con Begin, il capo di una coalizione israeliana di destra, per aprire un nuovo capitolo delle relazioni arabo-israeliane. Era la prova che con la volontà, il coraggio e la lungimiranza tutto era possibile. Ma tutti gli altri paesi arabi, ad eccezione del Sudan (guidato allora da una leadership molto più moderata di quella attuale) e dell’Oman, interruppero le relazioni diplomatiche con l’Egitto in segno di protesta contro la pace. Finché nel 1981 il leader egiziano fu assassinato da membri della Jihad islamica egiziana, che più tardi sarebbero diventati “fratelli in arme” di Osama bin Laden e della sua rete terroristica Al-Qaeda. Da parte sua, Israele restituì all’Egitto la vasta distesa del Sinai (approssimativamente 23.000 miglia quadrate, più del doppio dell’intera superficie di Israele), la quale avrebbe fornito una zona cuscinetto tra Egitto e Israele di fondamentale importanza strategica. Israele restituì anche i notevoli campi petroliferi che aveva scoperto nel Sinai, un grande sacrificio per un paese privo in pratica di risorse naturali. Israele chiuse importanti basi che aveva costruito per la sua aviazione e, nonostante il forte sostegno di Begin agli insediamenti, smantellò queste enclavi nel Sinai. Così facendo, Israele dimostrò la sua inestinguibile sete di pace, la sua volontà di correre rischi concreti e di compiere serie rinunce, e la sua scrupolosa determinazione nel rispettare i termini degli accordi. Nella storia moderna, quale altro paese dopo aver vinto una guerra per la propria stretta sopravvivenza, avrebbe rinunciato alla terra conquistata e ad altri fondamentali assetti strategici per raggiungere la pace? Israele e la Giordania strinsero uno storico accordo di pace nel 1994. Questi furono negoziati molto più semplici rispetto a quelli con l’Egitto, poiché Israele e Giordania godevano già di buoni, seppur taciti, legami basati sulla sovrapposizione del reciproco interesse nazionale a fronteggiare i palestinesi. (I giordani temevano le ambizioni territoriali dei palestinesi allo stesso modo degli israeliani.) Israele dimostrò ancora una volta la sua profonda aspirazione alla pace e la sua disponibilità a compiere i passi necessari a raggiungerla, compreso l’aggiustamento dei confini e la condivisione delle risorse idriche reclamata da Amman. Il 26 ottobre 1994, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e re Hussein di Giordania firmarono un formale trattato di pace a Wadi Araba sul confine israelo-giordano. Rabin lo definì «la pace dei soldati e la pace degli amici». Spinti dagli esempi dell’Egitto prima e della Giordania poi, altri paesi arabi cominciarono ad instaurare relazioni con Israele. Il più disponibile tra questi fu la Mauritania, che divenne il terzo stato arabo a stabilire relazioni diplomatiche formali con Israele. Altri ancora, come Marocco, Oman, Qatar e Tunisia, pur non offrendo pieno riconoscimento, avviarono aperte relazioni politiche ed economiche. E anche altri paesi arabi hanno sviluppato punti di contatto con Israele che hanno portato ad una varietà di risultati, pur scegliendo i canali della non ufficialità finché, sostengono, non sarà raggiunto un più generale e complessivo accordo di pace tra Israele e i suoi vicini. Ancora un’opportunità di pace rifiutata dai palestinesi nel 2000-2001. Quando Ehud Barak divenne primo ministro nel 1999, annunciò un’ambiziosa agenda. Il leader del centrosinistra israeliano affermò che avrebbe tentato di arrivare alla storica fine del conflitto con i palestinesi nell’arco di tredici mesi, ripartendo da dove erano giunti i suoi predecessori, sulla base di quanto stabilito dalla Conferenza di Madrid del 1991, i primi colloqui di pace dopo gli accordi di Camp David, e dagli Accordi di Oslo del 1993, i quali produssero una Dichiarazione di Principi congiunta tra Israele e i palestinesi. Così formulata, l’agenda di Barak andava oltre ciò che in Israele chiunque avrebbe pensato possibile concedere nella volontà di raggiungere un compromesso nell’interesse della pace. Con il sostegno attivo dell’amministrazione Clinton, Barak spinse il processo di pace più lontano e più veloce che poteva e, per raggiungere l’accordo, egli fece nuove e importanti concessioni anche su una questione infinitamente sensibile come quella di Gerusalemme. Ma ugualmente, Barak e Clinton fallirono. Arafat non era pronto ad avviare il processo di pace e di farlo funzionare. Piuttosto che spingere avanti quei colloqui che avrebbero portato alla creazione del primo stato palestinese, con la sua capitale in Gerusalemme Est, Arafat andò via dopo aver assurdamente provato a convincere il presidente Clinton che non vi erano legami storici tra Gerusalemme e gli ebrei, ed aver lanciato la richiesta-bomba del riconoscimento di un cosiddetto “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi e di generazioni di loro discendenti. Arafat sapeva sicuramente che ciò rappresentava la rottura immediata delle trattative, poiché nessun governo israeliano avrebbe mai potuto concedere a milioni di palestinesi di insediarsi in Israele e, in tal modo, cancellare completamente il carattere ebraico dello stato. Tragicamente, Arafat rivelò la sua incapacità, la sua mancanza di volontà, o entrambe, a raggiungere la pace al tavolo dei negoziati. Egli preferì invece tornare ad un modello a lui più familiare: parlare di pace all’occasione, e allo stesso tempo incoraggiare in maniera sistematica il terrorismo. Arafat comprese che l’immagine mediatica di un Israele pesantemente armato che affronta in strada i palestinesi, inclusi quei bambini da questi cinicamente spediti in prima fila, avrebbe lavorato a suo vantaggio. Israele sarebbe stato spinto nel ruolo dell’aggressore e dell’oppressore, i palestinesi in quello delle vittime calpestate. Non sarebbe passato molto tempo, secondo i suoi calcoli, prima che il mondo arabo denunciasse rabbiosamente Israele, che i paesi non allineati rispondessero con lo stesso seme, che gli europei richiedessero ulteriori urgenti concessioni da Israele per placare i palestinesi, che i gruppi internazionali per i diritti umani accusassero Israele di usare una forza eccessiva, e che il mondo, afflitto come sempre dalla memoria corta, dimenticasse che il leader palestinese aveva appena rifiutato un’occasione senza precedenti per stringere un accordo di pace. Arafat non si sbagliava del tutto. Molti media, molti governi europei e la maggioranza delle organizzazioni umanitarie interpretarono il ruolo che lui aveva ritagliato per loro. Fu solo dopo la sua morte, avvenuta nel 2004, che alcuni tra questi (e solo alcuni) finalmente compresero quanto e in che modo erano stati ingannati dall’astuto e corrotto leader di cui essi avevano inesplicabilmente scelto di fidarsi, e persino di rendere romantico. È probabile inoltre che i calcoli di Arafat confidassero nell’adozione di una linea più dura nei confronti di Israele sia da parte di Washington, come conseguenza delle pressioni di Egitto e Arabia Saudita, due paesi arabi di grande peso nella visione del mondo dei politici americani, sia da parte dell’Unione Europea. E c’era la possibilità, a lungo andare, che Israele, un paese giovane, cominciasse a stancarsi della lotta e del pedaggio quotidiano di vittime civili e militari, dell’impatto negativo sul morale e sulla psiche della nazione – per non parlare della sua economia – e del potenziale crescente isolamento internazionale. Ma Arafat sbagliò grossolanamente i suoi calcoli. Israele non si stancò: resse la corsa. E gli Stati Uniti, vicini ad Israele, riconoscendo e smascherando Arafat per quello che era, rifiutarono di avere ulteriori colloqui con lui. Cosa ci si aspetta esattamente che Israele faccia per garantire la sicurezza dei suoi cittadini? Cosa farebbero gli altri stati in una situazione simile? Forse i recenti attentati in Gran Bretagna, Egitto, Indonesia, Marocco, Russia, Spagna, Tunisia, Turchia, Stati Uniti e così via, hanno aiutato il mondo a comprendere la vera natura della minaccia terroristica che Israele ha dovuto affrontare e la base razionale dell’inflessibile risposta israeliana. Inflessibile, sì, ma anche misurata. La verità è che Israele, data la sua forza militare, avrebbe potuto infliggere un colpo molto più devastante ai palestinesi, ma ha scelto di non farlo per molteplici umanitarie. ragioni diplomatiche, politiche, strategiche e Jenin è un esempio perfetto. Sebbene i portavoce palestinesi si affrettarono a condannare l’operazione militare israeliana del 2002 in questa città della West Bank, definendola come un “massacro”, in realtà Israele scelse il metodo molto più rischioso di entrare in città in cerca dei covi dei terroristi proprio allo scopo di evitare vittime civili tra i palestinesi. Come risultato, Israele subì la perdita di ventitre giovani soldati e dall’altra parte morirono una cinquantina di palestinesi armati. L’alternativa di Israele poteva essere quella di attaccare Jenin via aria, allo stesso modo in cui gli aerei da combattimento della NATO bombardarono Belgrado nel 1990, ma ciò avrebbe causato delle uccisioni indiscriminate, cosa che Israele tenta disperatamente di evitare. È interessante che molti tra coloro che in Occidente criticano Israele per la sua tattica nel trattare il terrorismo, stanno ora adottando quegli stessi metodi, compreso il rafforzamento dell’intelligence, la sorveglianza, l’infiltrazione e la prevenzione. A giudicare dall’analisi delle pubblicazioni antiterrorismo diffusesi globalmente, non sembra che “contenimento”, “dialogo”, “compromesso” e “comprensione” facciano parte del vocabolario corrente adoperato nei confronti di chi ci attacca; né dovrebbero esserlo, ma queste erano alcune delle molte parole offerte non tanto tempo fa come consiglio a Israele dalla comunità internazionale per trattare la minaccia terroristica. In ultima analisi, sebbene Israele goda di una superiorità militare, Gerusalemme comprende che questo non è un conflitto che può essere vinto esclusivamente sul campo di battaglia. Più semplicemente, nessuna delle due parti si appresta a sparire. Questo conflitto può essere risolto solo al tavolo della pace, se e quando i palestinesi comprenderanno alla fine che hanno dissipato oltre mezzo secolo di storia e numerose opportunità per costruire uno stato accanto ad Israele, non al suo posto. L’aspetto forse più controverso della politica israeliana è la barriera difensiva – o di sicurezza – attualmente in costruzione, definita falsamente dai suoi oppositori “muro”. Sono tre le cose che, in particolare, dovrebbero essere ricordate. Primo, la barriera ha dimostrato di ridurre drasticamente la capacità dei terroristi palestinesi di entrare nei centri abitati israeliani e causarvi devastazioni e stragi. Secondo, la barriera fu costruita in conseguenza di una reiterata attività terroristica: sono stati rilevati oltre 25.000 tentati attacchi contro Israele da parte di gruppi o di singoli palestinesi solo negli ultimi cinque anni. Terzo, la barriera può essere spostata in qualsiasi direzione, o anche smantellata, ma le vite delle vittime innocenti del terrore non potranno mai più essere restituite. Gaza è un test delle reali intenzioni palestinesi Il disimpegno di Israele da Gaza, frutto della mente del primo ministro Sharon, non soltanto fornisce un potenziale nuovo punto di partenza del processo di pace, ma dà anche ai palestinesi, sotto la leadership del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, una storica opportunità per darsi un autogoverno. Cominceranno i palestinesi a costruire una società civile e pacifica priva dell’endemica corruzione, violenza e anarchia così diffuse in passato o Gaza finirà per diventare una zona franca per i terroristi e i loro amici? Aspireranno a costruire uno stato modello che possa vivere pacificamente accanto ad Israele oppure useranno Gaza come una nuova piattaforma per lanciare missili e organizzare attacchi terroristici contro i vicini israeliani? Un test chiave per la leadership del presidente Abbas è la sfida posta dai gruppi terroristici operanti all’interno della società palestinese. La nuova leadership palestinese ha condannato a volte gli attacchi portati da questi gruppi, ma solo raramente li ha affrontati in maniera diretta, e non ha mai tentato di disarmarli. Senza agire su questo fronte, le possibilità di andare avanti con successo lungo il cammino della pace diminuiscono drammaticamente. Inoltre, l’Autorità Palestinese non potrà mai stabilire la sua autorità se gruppi armati si permettono il lusso di operare sia come fazioni politiche sia come milizie armate. In particolare, Hamas e Jihad islamica, due gruppi radicali sulla lista delle organizzazioni terroristiche stilata da Stati Uniti ed Unione Europea, hanno operato con relativa impunità nelle aree sotto il controllo palestinese. Lo stesso vale per Hezbollah. Ciascuno di questi tre gruppi ha legami operativi e finanziari con l’Iran e la Siria. Vi è un altro punto importante. Se, dopo gli Accordi di Oslo del 1993, l’Autorità Palestinese avesse iniziato a introdurre i valori della tolleranza e della coesistenza negli studi scolastici, forse la generazione di giovani attentatori suicidi a cui abbiamo assistito in anni recenti avrebbe potuto agire diversamente. Invece costoro sono stati nutriti con una ferrea dieta a base di incitamento, odio, diffamazione e demonizzazione degli ebrei, dell’ebraismo, di Israele e del Sionismo. Sono stati spinti a credere che non può esserci più alta chiamata per gli arabi e per i mussulmani di quel cosiddetto “martirio” finalizzato all’uccisione del maggior numero possibile di quegli odiati ebrei “figli di scimmie e maiali”, come sono regolarmente definiti da alcuni portavoce. E questi insegnamenti sono stati rinforzati dalla grancassa dell’odio suonata nelle moschee duranti i sermoni del venerdì, dalla popolarità di libri notoriamente antisemiti come il Mein Kampf e i Protocolli dei Savi di Sion, e dall’impiego dei media palestinesi come megafoni per l’incitamento all’odio. Quando le scuole, i media e le moschee palestinesi fermeranno questa inondazione di antisemitismo e antisionismo, allora aumenteranno le possibilità di gettare le basi di una vera pace. Nonostante le dichiarazioni della propaganda palestinese, non esiste nulla di comparabile da parte israeliana. Quando solitarie voci israeliane adottano un linguaggio estremista (o azioni) la società israeliana le condanna velocemente, non le idolatra. Israele è una democrazia che pensa e si comporta come una democrazia Non è sempre facile però essere democratici e gestire le difficili situazioni che Israele si trova ad affrontare. Ma mentre Israele riceve la sua quota di critiche per i suoi presunti metodi pesanti, i palestinesi, a dispetto della loro stridente retorica, comprendono meglio di chiunque altro che sono proprio i valori democratici e il ruolo delle leggi di Israele a costituire il probabile tallone di Achille della nazione. I palestinesi sanno, anche se non lo ammettono pubblicamente, che il sistema democratico pone ostacoli e limiti alle opzioni politiche di Israele. Essi sanno che Israele è basato su un sistema politico multipartitico e che questi partiti necessitano di differenziarsi l’uno dall’altro per avere una possibilità di successo elettorale. Infatti, i partiti includono qualsiasi punto di vista, dall’estrema sinistra all’estrema destra, dai laici ai religiosi, dagli ebrei russi agli arabi. Al riguardo, gli arabi israeliani attualmente detengono circa il dieci percento dei seggi alla Knesset e alcuni di questi parlamentari si sono apertamente schierati in questo conflitto con i nemici di Israele. Essi sanno che l’opinione pubblica in Israele ha la sua importanza e i suoi effetti politici. Essi sanno che Israele gode di una stampa libera e indagatrice. Essi sanno che Israele possiede una magistratura indipendente che occupa un posto di rispetto nella vita della nazione, e che non ha esitato ad annullare le decisioni del governo, anche militari, quando sono sembrate incoerenti con lo spirito o la lettera delle leggi israeliane. Essi sanno che Israele ha una prospera società civile e numerosi gruppi per i diritti umani che operano in maniera obiettiva e imparziale. Essi sanno che Israele protegge la libertà di culto di tutte le comunità religiose, fino al punto di impedire agli ebrei di pregare al Monte del Tempio, il luogo più sacro all’ebraismo, allo scopo di evitare tensioni con i fedeli islamici delle due moschee costruite su quel luogo molto più tardi. Infatti, a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele ha ceduto l’autorità sull’area al Waqf, l’autorità religiosa islamica. Possiamo fare il confronto con quello che è successo ai luoghi santi ebraici una volta in mani arabe? Essi sanno che Israele, basato sui principi che stanno al cuore delle tradizioni ebraiche, attribuisce grande importanza alle norme etiche e morali di comportamento, anche quando, a volte, non riesce ad essere all’altezza di esse. E infine essi sanno che esistono restrizioni auto-imposte al comportamento di Israele proprio perché Israele è uno stato democratico, e perché, in ultima analisi, il suo governo è espressione della volontà del popolo. Se solo il Medio Oriente rassomigliasse all’Europa! Chi non auspicherebbe una soluzione pacifica del conflitto e l’instaurazione di una cooperazione regionale? Quando è stata l’ultima volta che una nazione democratica ha lanciato un attacco militare contro un’altra democrazia? Per sfortuna, la democrazia è un lusso molto raro in Medio Oriente. I palestinesi sanno che l’ultimo presidente siriano Hafez elAssad trattò con i fondamentalisti islamici uccidendone un numero stimato tra 10.000 e 20.000 in Hama, e spianando la città per dare un inequivocabile messaggio agli altri fondamentalisti del paese. Essi sanno come l’ex presidente Saddam Hussein gestì la questione dei curdi usando gas venefici per ucciderne decine di migliaia, e distruggendo centinaia di villaggi curdi. Essi sanno come l’Arabia Saudita reagì al sostegno dato a Saddam Hussein dallo Yemen durante la Guerra del Golfo del 1990-91. Nel giro di una notte il governo espulse dal paese 600.000 yemeniti. Ed essi sanno come l’Egitto ha trattato i suoi radicali islamici, al riparo dai radar dei media, senza fanfare. Migliaia di questi estremisti sono stati uccisi o detenuti in prigione senza neppure il dovuto processo. I palestinesi contano sul fatto che Israele non seguirà alcuno di questi esempi. Il che è la forza di Israele come democrazia, anche se ciò comporta un prezzo. I palestinesi cercano di trarre vantaggio da ciò. Ma essi hanno commesso un errore fondamentale: hanno sottovalutato la volontà di Israele di sopravvivere. Gli israeliani vogliono la pace disperatamente. Allo stesso tempo però, la pace a qualunque costo non è pace. Gli israeliani vogliono smettere di preoccuparsi delle bombe sugli autobus e nei mercati. Essi vogliono mettere fine alle sepolture dei loro figli, vittime del terrore o di scontri militari. In breve, essi vogliono condurre vite normali, ed hanno dimostrato più volte la loro disponibilità ad arrivare a lungimiranti, e persino potenzialmente rischiosi, compromessi alla ricerca della pace. Gli israeliani, comunque, hanno imparato la dolorosa lezione della storia. La pace senza confini sicuri e difendibili può significare il suicidio nazionale. E chi può sapere meglio dei cittadini di Israele, gran parte dei quali sopravvissuti all’Olocausto e rifugiati dalle terre comuniste e dall’estremismo arabo, quanto pericoloso può essere abbassare la guardia troppo rapidamente, troppo facilmente? Possono gli israeliani semplicemente ignorare gli appelli dell’Iran all’annientamento di Israele e la sua domanda di acquisizione di armi di distruzione di massa, l’ospitalità data dalla Siria ai gruppi terroristici decisi a distruggere Israele, gli arsenali di Hezbollah pieni di migliaia di missili a corto raggio dislocati nel Libano meridionale e capaci di raggiungere la parte settentrionale di Israele, e gli orripilanti appelli a compiere attacchi suicidi contro Israele lanciati in Gaza e nella West Bank? Il nostro mondo non è stato affatto gentile con gli ingenui, i creduloni e gli illusi. A dispetto dei dubbiosi del tempo, Adolf Hitler intendeva esattamente quello che diceva quando scrisse il Mein Kampf, Saddam Hussein intendeva esattamente quello che diceva quando insisteva che il Kuwait era una provincia dell’Iraq, e Osama bin Laden intendeva esattamente quello che diceva quando, nel 1998, faceva appello all’uccisione del maggior numero possibile di americani. Israele vive in un quartiere particolarmente rozzo. Per sopravvivere, deve essere coraggioso sul campo di battaglia e al tavolo della pace: esso ha superato entrambi i test con ottimi voti. Israele è molto più che conflitto e soluzione del conflitto. Mentre il dibattito pubblico tende a focalizzarsi sulle questioni legate a guerra, violenza e terrorismo nella regione, esiste un altro lato di Israele che viene visto solo di rado, se si escludono quei fortunati che hanno visitato Israele e che hanno visto con i propri occhi. Israele è un paese di inimmaginabili vibrazioni e dinamismo. È un paese antico e all’avanguardia al tempo stesso. È un paese di vincitori di premi Nobel in letteratura e chimica, di medaglie olimpiche, di concertisti e di stelle del rap. Ci sono più scienziati e ingegneri pro capite in Israele che in qualsiasi altra parte del mondo. È ai vertici delle classifiche mondiali per numero di giornali, di lettori e di libri pubblicati. Il numero di società di start-up nell’high-tech e di brevetti rilasciati è impressionante per un paese di appena sei milioni di abitanti. Dei suoi progressi medici, delle rivoluzioni nei campi della tecnologia e delle comunicazioni, così come delle innovazioni in agricoltura, non ha beneficiato solo Israele, ma anche miliardi di persone in tutto il mondo. La prossima volta che entri in una chat room, che usi un telefono cellulare, che gestisci un’immagine a colori o che ricevi un messaggio vocale, che adoperi un microprocessore Pentium, o che hai bisogno di una TAC o di una risonanza magnetica, o che vedi prosperare una fattoria in un deserto grazie all’irrigazione goccia a goccia, ci sono ottime probabilità che Israele ti stia dando una buona mano. Israele. Più lo conosci, più lo comprendi. (Edizione revisionata e aggiornata) The American Jewish Committee The Jacob Blaustein Building David A. Harris 165 East 56 Street New York, NY 10022 L’American Jewish Committee opera nelle seguenti aree: Odio razziale e antisemitismo – Pluralismo – Israele – Ebraismo americano – Ebraismo internazionale – Diritti umani Agosto 2005-09-22 www.ajc.org The American Jewish Committee