Democrito (ca. 470/475-360/350 a.C.)
L’arte della medicina cura le malattie del corpo, quella della filosofia [sophia] sottrae l’animo al
dominio delle passioni.1
La tranquillità dell’anima ci è procurata dalla misura nei godimenti e dalla moderazione in
generale nella vita: il troppo e il poco son facili a mutare e quindi a produrre grandi turbamenti
nell'animo. E quegli animi che sono sempre sballottati tra gli estremi opposti non sono ben fermi né
tranquilli. Si deve, dunque, rivolger la mente alle cose possibili e contentarci di quello che si ha,
poco curandoci delle persone che vediamo invidiate ed ammirate e senza tener sempre il pensiero
dietro a loro; e si deve guardare, piuttosto, alla vita che conducono quelli che son carichi di guai,
riflettendo seriamente a quel che essi sopportano, e allora quel tanto che possediamo presentemente
ci apparirà grande ed invidiabile, e non ci accadrà più di soffrire in cuor nostro per il desiderio di
beni maggiori. Difatti, se uno ammira i ricchi e tutti quelli che dagli altri uomini son stimati
fortunati e ad ogni momento il suo pensiero è rivolto a loro, sarà costretto a cacciarsi continuamente
in cerca del nuovo e persino a desiderare di compiere qualche azione irrimediabile, una di quelle
azioni che son proibite dalle leggi. Perciò bisogna non cercare tutto quel che vediamo, ma
contentarci di quel che abbiamo noi, paragonando la nostra vita con quella di coloro che si trovano
in condizioni peggiori, e stimarci fortunati pensando quanto sopportano essi e quanto migliore del
loro è il nostro stato. E se tu effettivamente ti atterrai a questo modo di considerare le cose, vivrai
con animo veramente tranquillo e respingerai da te durante la vita non poche funeste ispiratrici,
come l’invidia, I’ambizione e la malevolenza. 2
Eraclito (VI-V sec. a. C.)
I filosofi devono essere esperti di molte cose.3
Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso il
tutto.4
Platone (427-347)
È proprio del filosofo [di colui che ama molto la sapienza] la condizione […] di essere pieno di
meraviglia; e la filosofia non ha altro cominciamento che questo; e chi disse che Iride fu generata da
Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia.5
Quelli che amano il sapere, sanno bene che la loro anima, appena la filosofia comincia a
guidarla, è come legata, anzi interamente avvinta al corpo, costretta a rivolgere lo sguardo alla realtà
non da sé sola, con i propri mezzi, ma come attraverso un carcere, per cui essa è gravata da una
profonda ignoranza, riconoscendo benissimo che sono le passioni umane, questo terribile carcere e
che, chi vi si ritrova prigioniero, lo deve solo a se stesso. Quelli che amano il sapere, ripeto, sanno
che la filosofia quando prende a guidare la loro anima, che è in simile stato, la conforta, cerca di
1
Diels-Kranz (= DK), frammento 31.
DK 191 (in: Presocratici. Testimonianze e frammenti, tr. di V.E. Alfieri, Roma-Bari, Laterza, 19833, vol. II, pp. 7889).
3
Eraclito, DK 35.
4
Eraclito, DK 41 (trad. G. Giannantoni), cit. in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1.
5
Platone, Teeteto, 155d.
2
liberarla, facendole vedere come sia illusoria qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della
vista, ma anche attraverso l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade, così , a farne a meno,
dei sensi, se non per quel tanto che le sia necessario servirsi di essi e la esorta a comporsi, a
raccogliersi in sé, a non fidarsi che di se stessa e solo di quella realtà che ella indaga con le sue
facoltà e a giudicare falsa, invece, quell’altra, mutevole e contingente, che ella esamina con mezzi
non suoi; perché questa è sensibile e visibile, mentre quella è intelligibile e invisibile. L’anima,
dunque, del vero filosofo sa di non doversi opporre a questa liberazione e, perciò, si tiene lontana,
quanto più può, dai piaceri terreni, dai desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno si
fa vincere dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne potrà ricevere, anche il
più grande, come per esempio una malattia o la perdita di tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa di
fronte al male estremo cui andrebbe incontro e al quale, purtroppo, non ci si pensa.6
Aristotele (384/383-322/321)
O si deve filosofare o non si deve: ma per decidere di non filosofare è pur sempre necessario
filosofare; dunque in ogni caso filosofare è necessario.7
Non dobbiamo perciò preoccuparci se la filosofia non si dimostra utile o vantaggiosa perchè non
affermiamo innanzi tutto che sia vantaggiosa, ma piuttosto che è buona, e che la si debba scegliere
non per qualcos’altro, ma per se stessa. Infatti come noi andiamo ad Olimpia per lo spettacolo dei
giochi in sè, anche senza averne alcun altro vantaggio (perchè lo spettacolo vale in sè più di molto
denaro), e come non guardiamo le rappresentazioni drammatiche delle feste Dionisie in base al
calcolo di ricevere qualcosa dagli attori – anzi siamo proprio noi a pagare – e come valutiamo molti
altri spettacoli più di una gran somma di denaro, così anche valuteremo la contemplazione
dell'universo più che non tutte quelle cose.8
Fra tutte le professioni, soltanto quella del filosofo è tale, che le sue leggi sono stabili e le azioni
giuste e nobili. Infatti il filosofo soltanto vive guardando costantemente alla natura e al divino.
Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta
l’ancora e vive padrone di sè. Ora questa conoscenza è di per sé teor[et]ica, però ci offre la
possibilità di regolare su di essa ogni nostra azione. Come cioè, la vista non crea né produce nulla,
perchè la sua funzione è soltanto quella di distinguere e rendere evidente ognuna delle cose visibili,
però ci pone in grado di fare certe cose ricorrendo ad essa, e ci offre l’aiuto più importante per
l’azione (infatti saremmo pressoché completamente incapaci di muoverci, se non la possedessimo),
così anche risulta chiaro che mediante questo sapere noi compiamo innumerevoli azioni, sebbene
esso sia teoretico; con il suo aiuto decidiamo se una certa cosa deve essere ricercata, un’altra
evitata; ma soprattutto, mediante questa conoscenza, conseguiamo tutto ciò che è buono. Chi
volesse verificare ciò che abbiamo detto, deve avere ben chiaro che tutto ciò che per l’uomo è
buono e utile alla vita sta nell’esercizio e nell’azione, e non nella sola conoscenza del bene.
Rimaniamo in buona salute non perchè conosciamo le cose che ci assicurano la salute, ma perché le
forniamo al corpo; non siamo ricchi in conseguenza del fatto che sappiamo che cosa è la ricchezza,
bensì del fatto che abbiamo acquistato grandi sostanze; e infine, ciò che importa più di tutto, non
viviamo una vita più bella e più nobile perché conosciamo qualcosa dell’essere, ma piuttosto perché
il nostro agire è buono; questa infatti è veramente la vita felice. Ne consegue che anche la filosofia,
6
Platone, Fedone, 82d-83b.
Aristotele, Propreptico, fr. 51.
8
Aristotele, Propreptico, trad. D. Fusaro, B44.
7
se è davvero utile come noi asseriamo, o è un esercizio di azioni rette, oppure è giovevole per tali
azioni.9
Chi, infatti, preferisce il puro conoscere, sceglierà massimamente quella che è scienza al
massimo grado, e tale è, appunto, la scienza di ciò che è conoscibile nel grado più alto; e sono
conoscibili nel grado più alto i primi principi e le cause, giacché mediante questi e in base a questi
sono conosciute le altre cose, e non questi sono conosciuti mediante le cose che da essi dipendono,
ed è suprema e più importante rispetto alla scienza subordinata ad essa quella scienza che conosce il
fine per cui si deve compiere ogni azione particolare; e questo fine è il bene di ogni cosa particolare
e, in linea generale, è il sommo bene nell’intera natura. Pertanto, in base a tutte le nostre precedenti
considerazioni, risulta che il nome su cui noi stiamo conducendo l’indagine [la Sapienza] rientra
nella medesima scienza, poiché questa non può fare a meno di contemplare i primi principi e le
prime cause; e il bene, ossia il fine, è una delle cause.
Che essa non sia una scienza produttiva risulta con chiarezza anche da qualche considerazione su
quelli che diedero inizio alla riflessione filosofica; infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia
dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, perché dapprincipio essi si
stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in
un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a
maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. Chi
è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò anche chi ha propensione
per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose
meravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire
all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per
qualche bisogno pratico.10
La «scienza prima» si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte
le cause sono necessariamente eterne, a maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa
scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri […]. Noi
potremmo chiederci, in realtà, se la filosofia prima sia universale o se essa si occupi di un genere
determinato e di una determinata natura […]; se, pertanto, non si ammette l’esistenza di alcun’altra
sostanza al di fuori di quelle che sono naturalmente composte, la fisica, allora, dovrebbe essere la
scienza prima; ma se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa di questa deve
avere la precedenza e deve essere filosofia prima, e la sua universalità risiede appunto nel fatto che
essa è prima; e sarà compito di questa scienza contemplare l’essere-in-quanto-essere, cioè l’essenza
e le proprietà che l’essere possiede in-quanto-essere.11
9
Ivi, B49-52 (trad. Fusaro modificata da me).
Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 a 32 – 982 b 22, trad. A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 8-9.
11
Aristotele, Metafisica, VI, 2, 1026 a 13 – 1026 a 34, ivi, p. 176.
10
K. Marx (1818-1883)
2. La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione
teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il
potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si
isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.
[…]
11. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.12
L. Wittgenstein (1889-1951)
Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi, per così dire diverse terapie.13
Il filosofo è un uomo che deve guarire in sé molte malattie dell’intelletto prima di poter giungere
alle nozioni del sano senso comune.14
W. Dilthey (1833-1911)
Siamo abituati a comprendere sotto il concetto generale di filosofia determinati prodotti
intellettuali che sono emersi in gran numero, nel corso della storia, presso i diversi popoli. Quando
poi esprimiamo ciò che questi dati di fatto designati dall’uso linguistico come ‘filosofia’, o come
‘filosofici’, hanno in comune, allora sorge il concetto di filosofia. Questo concetto raggiungerebbe
la sua massima compiutezza se si fornisse una descrizione adeguata dell’essenza della filosofia. Un
simile concetto dell’essenza esprimerebbe la legge della formazione che agisce nella genesi di ogni
singolo sistema filosofico, e da esso emergerebbero i rapporti di parentela tra i singoli fatti che gli
sono subordinati.
Una soluzione di questo compito ideale è possibile solo a condizione che in ciò che
qualifichiamo come ‘filosofia’ o ‘filosofico’ sia effettivamente contenuto un simile stato di cose
generale, in modo tale che in tutti questi singoli casi agisca una legge di formazione e così un nesso
interno comprenda l’intero ambito che va sotto tale nome. E ogni volta che si parla di filosofia, si dà
questo per presupposto. Con il nome di filosofia si intende quindi un oggetto generale; dietro i
singoli dati di fatto si presuppone un nesso mentale, come fondamento unitario e necessario dei
singoli dati di fatto empirici della filosofia, come regola delle loro mutazioni e come principio
dell’ordine in cui si articola la loro molteplicità.
Ora è possibile parlare di un’essenza della filosofia intesa esattamente così? È cosa tutt’altro che
evidente. Il significato della parola ‘filosofia’, o ‘filosofico’, varia talmente nel tempo e nello
spazio, e le creazioni intellettuali che sono state designate con questo nome dai propri autori sono
così diverse, che potrebbe sembrare che le varie epoche abbiano applicato la bella parola ‘filosofia’,
coniata dai greci, a creazioni sempre diverse. Perché alcuni intendono per filosofia la fondazione
12
Tesi su Feuerbach (1845), trad. di P. Togliatti, in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica
tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80.
13
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 133.
14
Vermischte Bemerkungen (trad. it. Pensieri diversi, Milano, Adelphi), 86 (1944).
delle singole scienze; altri ampliano questo concetto di filosofia aggiungendo a tale fondazione il
compito di dedurne il nesso che lega le singole scienze; oppure la filosofia viene ridotta al nesso
delle singole scienze; oppure ancora la filosofia viene definita come la scienza dello spirito, la
scienza dell’esperienza interna; infine per essa si intende anche il sapere rispetto al comportamento
nella vita o la scienza dei valori universali. Dov’è il nesso interno che lega concezioni della filosofia
così varie e formulazioni così diverse tra loro? Se non si riesce a trovarlo, allora abbiamo a che fare
soltanto con opere diverse che appaiono sotto condizioni storiche mutevoli come esigenze della
cultura, e che condividono una stessa denominazione solo estrinsecamente e in base alle
contingenze storiche – ci sono allora filosofie, ma non una filosofia. Quindi anche la storia della
filosofia non possiede un’unità interna. Essa riceve allora per mano dei singoli autori, a seconda del
concetto che essi se ne formano nel contesto dei propri sistemi, un contenuto sempre nuovo e
un’estensione sempre diversa. Uno preferisce esporre questa storia come avanzamento verso una
fondazione sempre più approfondita delle singole scienze, un altro come la progressiva riflessione
dell’intelletto su se stesso, un altro come la crescente comprensione dell’esperienza di vita o dei
valori della vita. Ora per decidere in quale misura si possa parlare di un’essenza della filosofia,
dobbiamo volgerci dalle definizioni concettuali dei singoli filosofi allo stato di fatto storico della
filosofia stessa: questo fornisce il materiale per la conoscenza di ciò che è la filosofia; il risultato di
questo procedimento induttivo può allora essere compreso più profondamente nelle sue leggi. 15
J. Dewey (1859-1952)
La filosofia è un fenomeno della cultura umana come la politica, la letteratura e le arti figurative.
Ha naturalmente legami con la scienza sociale, con la civiltà. Presso i filosofi esiste la convinzione
che mentre nei sistemi dei pensatori del passato si riflettevano le condizioni e le confusioni del loro
tempo, la filosofia odierna in generale, e quella propria di ciascuno di loro in particolare, si sia
liberata dall’influenza di quel complesso di istituzioni che costituisce la cultura. Bacon, Descartes e
Kant erano troppo convinti di aver rifondato l’intera filosofia, perché si erano attenuti
strettissimamente a una base esclusivamente intellettuale – esclusivamente nel senso che
escluderebbe tutto al di fuori dell’intelletto. Gli sviluppi successivi hanno rivelato che si trattava di
una palese illusione, e hanno mostrato che il lavoro della filosofia consiste nell’antica e sempre
nuova impresa di adattare la massa di tradizioni che di volta in volta costituiscono realmente lo
spirito dell’uomo a quelle tendenze scientifiche e esigenze politiche che sono nuove e inconciliabili
con le autorità tramandate. I filosofi sono parte della storia e presi nel suo movimento; forse essi
sono in una certa misura creatori del futuro, ma certamente anche creature del passato.
Chi nella definizione astratta della filosofia esprime l’idea che essa abbia a che fare con l’eterna
verità o realtà, non toccata dal tempo e dallo spazio, deve ammettere che la filosofia come
manifestazione concreta è puramente storica, ha un corso storico e una molteplicità di luoghi in cui
abita. […]
D’altronde anche coloro che la disprezzano, che la considerano una sterile e monotona
trattazione di problemi insolubili o irreali, farebbero i filistei se negassero che la filosofia, sia o non
sia rivelazione di verità eterne, è comunque di straordinaria importanza come disvelamento dei
problemi, delle proteste e delle aspirazioni dell’umanità. […]
La vita del pensiero consiste nel trovare una connessione in un certo punto tra il nuovo e il
vecchio, tra usanze profondamente radicate e predisposizioni inconsce che, che vengono portate alla
luce e all’attenzione attraverso un qualche conflitto con nuovi orientamenti dell’attività. Filosofie
15
Wilhelm Dilthey, Das Wesen der Philosophie, Stuttgart, Reclam, 1984, pp. 25-27 (trad. mia).
che compaiono in periodi caratteristici determinano le grandi strutture di continuità che sorgono
quando si creano connessioni durevoli del genere tra un passato che si ostina e un futuro che preme.
La filosofia ha quindi uno stretto legame con la storia della cultura, con il susseguirsi delle
mutazioni della civiltà. Essa si nutre di correnti della tradizione che in momenti critici vengono
riportate alla loro fonte, in modo che la corrente possa prendere una nuova direzione; viene
fecondata dal fermento di nuove invenzioni nell’industria, di nuove esplorazioni del globo terrestre,
di nuove scoperte scientifiche. Ma la filosofia non è soltanto un riflesso passivo della civiltà, che
perdura attraverso il cambiamento e muta nella durata. È essa stessa un cambiamento; le strutture
che vengono costruite in questa connessione del nuovo e dell’antico sono piuttosto delle profezie
che delle cronache; sono strategie, tentativi di prevenire gli sviluppi successivi. Le annotazioni
intellettuali che costituiscono una filosofia hanno una virtù generatrice, proprio perché sono
esagerazioni che procedono per scelte ed eliminazioni. […]
In questo modo la filosofia segna un cambiamento nella cultura. Poiché essa costruisce strutture
cui il pensiero e l’agire del futuro devono adattarsi, il suo ruolo nella storia della civiltà consiste
nell’ampliare e trasformare la cultura. L’uomo esprime qualcosa a proprio rischio; una volta
espresso, questo qualcosa prende posto in una nuova prospettiva; acquisisce un carattere di
permanenza che originariamente non gli apparteneva; entra in modo provocatorio nell’abitudine e
nell’uso; scuote e indica la necessità di nuovi sforzi. Con questo non voglio dire che l’elemento
creativo sia necessariamente quello dominante nel ruolo della filosofia; è evidente che le sue
formulazioni sono state spesso principalmente conservatrici, giustificazioni di elementi scelti della
tradizione e delle istituzioni tramandate. Ma anche questi sistemi conservatori hanno esercitato
un’azione trasformatrice, se non addirittura creatrice; hanno conferito a quei fattori scelti un potere
sulla fantasia e sull’immaginazione delle generazioni seguenti che altrimenti essi non avrebbero
avuto. E ci sono altri periodi, come quello del XVII e XVIII secolo in Europa, in cui
l’atteggiamento della filosofia è stato spesso rivoluzionario. Per i suoi autori questo cambiamento
era solo un cambiamento dall’errore assoluto alla verità assoluta; per generazioni più tarde,
guardando all’indietro, il mutamento del contenuto meramente fattuale non era nulla a paragone del
mutamento dei desideri e della direzione degli sforzi. […]
Finché adoreremo la scienza e avremo paura della filosofia, non avremo una grande scienza;
avremo una continuazione zoppicante e incespicante di cose già pensate e dette altrove. Se quanto
detto contiene un’implicita esortazione, allora è un’esortazione a gettare a mare ogni timidezza
intellettuale, che tarpa le ali della fantasia, un’esortazione all’audacia speculativa, a una maggiore
fiducia nelle idee, ad abbandonare una vile dipendenza da quelle idee parziali cui abitualmente
diamo il nome di fatti. Ho datto alla filosofia una funzione più umile del solito. Ma la modestia
rispetto al suo posto definitivo non è incompatibile con l’audacia nel sostenere questa funzione, per
quanto possa essere umile. Questa combinazione di modestia e di coraggio rappresenta l’unico
modo che conosco con cui il filosofo possa guardare in faccia gli altri uomini con sincerità e
umanità.16
B. Russell (1872-1970)
Il fine della filosofia – come quello, d’altronde, di ogni altra attività mentale, dello ‘studium’ nel
senso originale della parola – è la conoscenza. E la conoscenza di cui qui si tratta è quel genere di
conoscenza che porta unità e sistematicità nelle scienze riunite, e quel genere che risulta da una
verifica critica del fondamento delle nostre convinzioni, dei nostri pregiudizi e delle nostre opinioni.
Ma non si può affermare che la filosofia abbia avuto molto successo nel tentativo di trovare risposte
16
John Dewey, Philosophy and Civilization (1931), cit. in Elberfeld, Was ist Philosophie? Programmatische Texte von
Platon bis Derrida, Stuttgart, Reclam, 2006, pp. 206-210 (trad. mia).
definitive alle sue domande. Se si chiede a un matematico, a un geologo o a un altro scienziato a
quale patrimonio di verità la sua scienza abbia portato, la sua risposta durerà facilmente tanto
quanto vorremo stare ad ascoltarlo. Ma se si pone la stessa domanda a un filosofo, egli dovrà
ammettere – se è franco e sincero – che qui non si è giunti a risultati positivi comparabili con quelli
delle altre scienze. […]
Il valore della filosofia consiste al contrario proprio essenzialmente nell’incertezza che essa porta
con sé. Chi non ha mai avuto un capriccio filosofico cammina nella vita ed è come rinchiuso in una
prigione: dei pregiudizi del buon senso comune, delle opinioni abituali della sua epoca o della sua
nazione e delle opinioni che sono cresciute in lui senza il contributo o l’assenso della ragione
riflessiva. Un uomo tale tenderà a trovare il mondo determinato, finito, evidente; gli oggetti
familiari non suscitano domande, e le possibilità che non gli sono familiari le respingerà con
disprezzo. Ma nonappena cominciamo a filosofare […] le stesse cose quotidiane portano a domande
cui si può rispondere solo in modo molto incompleto. La filosofia non ci può dire con certezza quali
sono le risposte giuste a queste domande, ma ci può dare molte possibilità sulle quali riflettere, che
ampiano il nostro campo visivo e ci liberano dalla tirannia del consueto. Essa riduce la nostra
certezza su cosa siano le cose, ma aumenta il nostro sapere su quel che le cose potrebbero essere.
Abbatte la certezza un po’ arrogante di coloro che non si sono mai trovati nel regno del dubbio
liberatore, e mantiene desta la nostra capacità di stupirci, mostrandoci le cose che ci sono familiari
da lati inconsueti. […]
La contemplazione filosofica è una via d’uscita. La sua lungimiranza non divide il mondo in due
settori, in amici e nemici, utile e dannoso, buono e cattivo: è uno sguardo imparziale sul tutto. Se la
contemplazione filosofica non viene guastata da ingerenze estranee, essa non vuol dimostrare che
l’intero mondo è affine all’uomo. Ogni conoscenza guadagnata è anche un ampiamento del nostro
sé, ma tale ampiamento riesce nel modo migliore quando non lo si cerca direttamente. Riesce
quando il desiderio di sapere agisce liberamente, attraverso osservazioni che non cercano fin dal
principio nei loro oggetti questa o quella particolarità, bensì nelle quali il sé si conforma alle
proprietà che si trovano nell’oggetto. […]
Quello che nella contemplazione resta di personale o privato, tutto ciò che dipende dalle
abitudini, dai propri interessi o desideri, distorce l’oggetto e disturba l’unità che l’intelletto ricerca.
Poiché erigono una sorta di barriera tra il soggetto e l’oggetto, queste cose personali e private
diventano una prigione della mente. L’intelletto libero vuol vedere le cose come le vedrebbe Dio,
libero dal qui e ora, da speranze e paure, senza il ciarpame delle opinioni abituali e dei pregiudizi
tradizionali, calmo, privo di passione, animato da un unico desiderio, che esclude ogni altro, di
conoscenza, una conoscenza tanto impersonale, tanto puramente contemplativa quanto è
umanamente possibile. Per questo l’intelletto libero stimerà di più la conoscenza astratta e generale,
che non viene toccata dalle contingenze della storia personale, che la conoscenza attraverso i sensi,
che dipende necessariamente da un punto di vista del tutto personale e da un corpo i cui organi di
senso travisano ciò che ci svelano.17
17
B. Russell, “Il valore della filosofia”, in The problems of philosophy (I problemi della filosofia), cap. 15, trad. mia.