Democrito (ca. 470/475-360/350 a.C.) L’arte della medicina cura le malattie del corpo, quella della filosofia [sophia] sottrae l’animo al dominio delle passioni.1 La tranquillità dell’anima ci è procurata dalla misura nei godimenti e dalla moderazione in generale nella vita: il troppo e il poco son facili a mutare e quindi a produrre grandi turbamenti nell'animo. E quegli animi che sono sempre sballottati tra gli estremi opposti non sono ben fermi né tranquilli. Si deve, dunque, rivolger la mente alle cose possibili e contentarci di quello che si ha, poco curandoci delle persone che vediamo invidiate ed ammirate e senza tener sempre il pensiero dietro a loro; e si deve guardare, piuttosto, alla vita che conducono quelli che son carichi di guai, riflettendo seriamente a quel che essi sopportano, e allora quel tanto che possediamo presentemente ci apparirà grande ed invidiabile, e non ci accadrà più di soffrire in cuor nostro per il desiderio di beni maggiori. Difatti, se uno ammira i ricchi e tutti quelli che dagli altri uomini son stimati fortunati e ad ogni momento il suo pensiero è rivolto a loro, sarà costretto a cacciarsi continuamente in cerca del nuovo e persino a desiderare di compiere qualche azione irrimediabile, una di quelle azioni che son proibite dalle leggi. Perciò bisogna non cercare tutto quel che vediamo, ma contentarci di quel che abbiamo noi, paragonando la nostra vita con quella di coloro che si trovano in condizioni peggiori, e stimarci fortunati pensando quanto sopportano essi e quanto migliore del loro è il nostro stato. E se tu effettivamente ti atterrai a questo modo di considerare le cose, vivrai con animo veramente tranquillo e respingerai da te durante la vita non poche funeste ispiratrici, come l’invidia, I’ambizione e la malevolenza. 2 Eraclito (VI-V sec. a. C.) I filosofi devono essere esperti di molte cose.3 Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso il tutto.4 Platone (427-347) È proprio del filosofo [di colui che ama molto la sapienza] la condizione […] di essere pieno di meraviglia; e la filosofia non ha altro cominciamento che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia.5 Quelli che amano il sapere, sanno bene che la loro anima, appena la filosofia comincia a guidarla, è come legata, anzi interamente avvinta al corpo, costretta a rivolgere lo sguardo alla realtà non da sé sola, con i propri mezzi, ma come attraverso un carcere, per cui essa è gravata da una profonda ignoranza, riconoscendo benissimo che sono le passioni umane, questo terribile carcere e che, chi vi si ritrova prigioniero, lo deve solo a se stesso. Quelli che amano il sapere, ripeto, sanno che la filosofia quando prende a guidare la loro anima, che è in simile stato, la conforta, cerca di 1 Diels-Kranz (= DK), frammento 31. DK 191 (in: Presocratici. Testimonianze e frammenti, tr. di V.E. Alfieri, Roma-Bari, Laterza, 19833, vol. II, pp. 7889). 3 Eraclito, DK 35. 4 Eraclito, DK 41 (trad. G. Giannantoni), cit. in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 1. 5 Platone, Teeteto, 155d. 2 liberarla, facendole vedere come sia illusoria qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della vista, ma anche attraverso l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade, così , a farne a meno, dei sensi, se non per quel tanto che le sia necessario servirsi di essi e la esorta a comporsi, a raccogliersi in sé, a non fidarsi che di se stessa e solo di quella realtà che ella indaga con le sue facoltà e a giudicare falsa, invece, quell’altra, mutevole e contingente, che ella esamina con mezzi non suoi; perché questa è sensibile e visibile, mentre quella è intelligibile e invisibile. L’anima, dunque, del vero filosofo sa di non doversi opporre a questa liberazione e, perciò, si tiene lontana, quanto più può, dai piaceri terreni, dai desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno si fa vincere dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne potrà ricevere, anche il più grande, come per esempio una malattia o la perdita di tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa di fronte al male estremo cui andrebbe incontro e al quale, purtroppo, non ci si pensa.6 Aristotele (384/383-322/321) O si deve filosofare o non si deve: ma per decidere di non filosofare è pur sempre necessario filosofare; dunque in ogni caso filosofare è necessario.7 Non dobbiamo perciò preoccuparci se la filosofia non si dimostra utile o vantaggiosa perchè non affermiamo innanzi tutto che sia vantaggiosa, ma piuttosto che è buona, e che la si debba scegliere non per qualcos’altro, ma per se stessa. Infatti come noi andiamo ad Olimpia per lo spettacolo dei giochi in sè, anche senza averne alcun altro vantaggio (perchè lo spettacolo vale in sè più di molto denaro), e come non guardiamo le rappresentazioni drammatiche delle feste Dionisie in base al calcolo di ricevere qualcosa dagli attori – anzi siamo proprio noi a pagare – e come valutiamo molti altri spettacoli più di una gran somma di denaro, così anche valuteremo la contemplazione dell'universo più che non tutte quelle cose.8 Fra tutte le professioni, soltanto quella del filosofo è tale, che le sue leggi sono stabili e le azioni giuste e nobili. Infatti il filosofo soltanto vive guardando costantemente alla natura e al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sè. Ora questa conoscenza è di per sé teor[et]ica, però ci offre la possibilità di regolare su di essa ogni nostra azione. Come cioè, la vista non crea né produce nulla, perchè la sua funzione è soltanto quella di distinguere e rendere evidente ognuna delle cose visibili, però ci pone in grado di fare certe cose ricorrendo ad essa, e ci offre l’aiuto più importante per l’azione (infatti saremmo pressoché completamente incapaci di muoverci, se non la possedessimo), così anche risulta chiaro che mediante questo sapere noi compiamo innumerevoli azioni, sebbene esso sia teoretico; con il suo aiuto decidiamo se una certa cosa deve essere ricercata, un’altra evitata; ma soprattutto, mediante questa conoscenza, conseguiamo tutto ciò che è buono. Chi volesse verificare ciò che abbiamo detto, deve avere ben chiaro che tutto ciò che per l’uomo è buono e utile alla vita sta nell’esercizio e nell’azione, e non nella sola conoscenza del bene. Rimaniamo in buona salute non perchè conosciamo le cose che ci assicurano la salute, ma perché le forniamo al corpo; non siamo ricchi in conseguenza del fatto che sappiamo che cosa è la ricchezza, bensì del fatto che abbiamo acquistato grandi sostanze; e infine, ciò che importa più di tutto, non viviamo una vita più bella e più nobile perché conosciamo qualcosa dell’essere, ma piuttosto perché il nostro agire è buono; questa infatti è veramente la vita felice. Ne consegue che anche la filosofia, 6 Platone, Fedone, 82d-83b. Aristotele, Propreptico, fr. 51. 8 Aristotele, Propreptico, trad. D. Fusaro, B44. 7 se è davvero utile come noi asseriamo, o è un esercizio di azioni rette, oppure è giovevole per tali azioni.9 Chi, infatti, preferisce il puro conoscere, sceglierà massimamente quella che è scienza al massimo grado, e tale è, appunto, la scienza di ciò che è conoscibile nel grado più alto; e sono conoscibili nel grado più alto i primi principi e le cause, giacché mediante questi e in base a questi sono conosciute le altre cose, e non questi sono conosciuti mediante le cose che da essi dipendono, ed è suprema e più importante rispetto alla scienza subordinata ad essa quella scienza che conosce il fine per cui si deve compiere ogni azione particolare; e questo fine è il bene di ogni cosa particolare e, in linea generale, è il sommo bene nell’intera natura. Pertanto, in base a tutte le nostre precedenti considerazioni, risulta che il nome su cui noi stiamo conducendo l’indagine [la Sapienza] rientra nella medesima scienza, poiché questa non può fare a meno di contemplare i primi principi e le prime cause; e il bene, ossia il fine, è una delle cause. Che essa non sia una scienza produttiva risulta con chiarezza anche da qualche considerazione su quelli che diedero inizio alla riflessione filosofica; infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, perché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò anche chi ha propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico.10 La «scienza prima» si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte le cause sono necessariamente eterne, a maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri […]. Noi potremmo chiederci, in realtà, se la filosofia prima sia universale o se essa si occupi di un genere determinato e di una determinata natura […]; se, pertanto, non si ammette l’esistenza di alcun’altra sostanza al di fuori di quelle che sono naturalmente composte, la fisica, allora, dovrebbe essere la scienza prima; ma se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa di questa deve avere la precedenza e deve essere filosofia prima, e la sua universalità risiede appunto nel fatto che essa è prima; e sarà compito di questa scienza contemplare l’essere-in-quanto-essere, cioè l’essenza e le proprietà che l’essere possiede in-quanto-essere.11 9 Ivi, B49-52 (trad. Fusaro modificata da me). Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 a 32 – 982 b 22, trad. A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 8-9. 11 Aristotele, Metafisica, VI, 2, 1026 a 13 – 1026 a 34, ivi, p. 176. 10 K. Marx (1818-1883) 2. La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica. […] 11. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.12 L. Wittgenstein (1889-1951) Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi, per così dire diverse terapie.13 Il filosofo è un uomo che deve guarire in sé molte malattie dell’intelletto prima di poter giungere alle nozioni del sano senso comune.14 W. Dilthey (1833-1911) Siamo abituati a comprendere sotto il concetto generale di filosofia determinati prodotti intellettuali che sono emersi in gran numero, nel corso della storia, presso i diversi popoli. Quando poi esprimiamo ciò che questi dati di fatto designati dall’uso linguistico come ‘filosofia’, o come ‘filosofici’, hanno in comune, allora sorge il concetto di filosofia. Questo concetto raggiungerebbe la sua massima compiutezza se si fornisse una descrizione adeguata dell’essenza della filosofia. Un simile concetto dell’essenza esprimerebbe la legge della formazione che agisce nella genesi di ogni singolo sistema filosofico, e da esso emergerebbero i rapporti di parentela tra i singoli fatti che gli sono subordinati. Una soluzione di questo compito ideale è possibile solo a condizione che in ciò che qualifichiamo come ‘filosofia’ o ‘filosofico’ sia effettivamente contenuto un simile stato di cose generale, in modo tale che in tutti questi singoli casi agisca una legge di formazione e così un nesso interno comprenda l’intero ambito che va sotto tale nome. E ogni volta che si parla di filosofia, si dà questo per presupposto. Con il nome di filosofia si intende quindi un oggetto generale; dietro i singoli dati di fatto si presuppone un nesso mentale, come fondamento unitario e necessario dei singoli dati di fatto empirici della filosofia, come regola delle loro mutazioni e come principio dell’ordine in cui si articola la loro molteplicità. Ora è possibile parlare di un’essenza della filosofia intesa esattamente così? È cosa tutt’altro che evidente. Il significato della parola ‘filosofia’, o ‘filosofico’, varia talmente nel tempo e nello spazio, e le creazioni intellettuali che sono state designate con questo nome dai propri autori sono così diverse, che potrebbe sembrare che le varie epoche abbiano applicato la bella parola ‘filosofia’, coniata dai greci, a creazioni sempre diverse. Perché alcuni intendono per filosofia la fondazione 12 Tesi su Feuerbach (1845), trad. di P. Togliatti, in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80. 13 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 133. 14 Vermischte Bemerkungen (trad. it. Pensieri diversi, Milano, Adelphi), 86 (1944). delle singole scienze; altri ampliano questo concetto di filosofia aggiungendo a tale fondazione il compito di dedurne il nesso che lega le singole scienze; oppure la filosofia viene ridotta al nesso delle singole scienze; oppure ancora la filosofia viene definita come la scienza dello spirito, la scienza dell’esperienza interna; infine per essa si intende anche il sapere rispetto al comportamento nella vita o la scienza dei valori universali. Dov’è il nesso interno che lega concezioni della filosofia così varie e formulazioni così diverse tra loro? Se non si riesce a trovarlo, allora abbiamo a che fare soltanto con opere diverse che appaiono sotto condizioni storiche mutevoli come esigenze della cultura, e che condividono una stessa denominazione solo estrinsecamente e in base alle contingenze storiche – ci sono allora filosofie, ma non una filosofia. Quindi anche la storia della filosofia non possiede un’unità interna. Essa riceve allora per mano dei singoli autori, a seconda del concetto che essi se ne formano nel contesto dei propri sistemi, un contenuto sempre nuovo e un’estensione sempre diversa. Uno preferisce esporre questa storia come avanzamento verso una fondazione sempre più approfondita delle singole scienze, un altro come la progressiva riflessione dell’intelletto su se stesso, un altro come la crescente comprensione dell’esperienza di vita o dei valori della vita. Ora per decidere in quale misura si possa parlare di un’essenza della filosofia, dobbiamo volgerci dalle definizioni concettuali dei singoli filosofi allo stato di fatto storico della filosofia stessa: questo fornisce il materiale per la conoscenza di ciò che è la filosofia; il risultato di questo procedimento induttivo può allora essere compreso più profondamente nelle sue leggi. 15 J. Dewey (1859-1952) La filosofia è un fenomeno della cultura umana come la politica, la letteratura e le arti figurative. Ha naturalmente legami con la scienza sociale, con la civiltà. Presso i filosofi esiste la convinzione che mentre nei sistemi dei pensatori del passato si riflettevano le condizioni e le confusioni del loro tempo, la filosofia odierna in generale, e quella propria di ciascuno di loro in particolare, si sia liberata dall’influenza di quel complesso di istituzioni che costituisce la cultura. Bacon, Descartes e Kant erano troppo convinti di aver rifondato l’intera filosofia, perché si erano attenuti strettissimamente a una base esclusivamente intellettuale – esclusivamente nel senso che escluderebbe tutto al di fuori dell’intelletto. Gli sviluppi successivi hanno rivelato che si trattava di una palese illusione, e hanno mostrato che il lavoro della filosofia consiste nell’antica e sempre nuova impresa di adattare la massa di tradizioni che di volta in volta costituiscono realmente lo spirito dell’uomo a quelle tendenze scientifiche e esigenze politiche che sono nuove e inconciliabili con le autorità tramandate. I filosofi sono parte della storia e presi nel suo movimento; forse essi sono in una certa misura creatori del futuro, ma certamente anche creature del passato. Chi nella definizione astratta della filosofia esprime l’idea che essa abbia a che fare con l’eterna verità o realtà, non toccata dal tempo e dallo spazio, deve ammettere che la filosofia come manifestazione concreta è puramente storica, ha un corso storico e una molteplicità di luoghi in cui abita. […] D’altronde anche coloro che la disprezzano, che la considerano una sterile e monotona trattazione di problemi insolubili o irreali, farebbero i filistei se negassero che la filosofia, sia o non sia rivelazione di verità eterne, è comunque di straordinaria importanza come disvelamento dei problemi, delle proteste e delle aspirazioni dell’umanità. […] La vita del pensiero consiste nel trovare una connessione in un certo punto tra il nuovo e il vecchio, tra usanze profondamente radicate e predisposizioni inconsce che, che vengono portate alla luce e all’attenzione attraverso un qualche conflitto con nuovi orientamenti dell’attività. Filosofie 15 Wilhelm Dilthey, Das Wesen der Philosophie, Stuttgart, Reclam, 1984, pp. 25-27 (trad. mia). che compaiono in periodi caratteristici determinano le grandi strutture di continuità che sorgono quando si creano connessioni durevoli del genere tra un passato che si ostina e un futuro che preme. La filosofia ha quindi uno stretto legame con la storia della cultura, con il susseguirsi delle mutazioni della civiltà. Essa si nutre di correnti della tradizione che in momenti critici vengono riportate alla loro fonte, in modo che la corrente possa prendere una nuova direzione; viene fecondata dal fermento di nuove invenzioni nell’industria, di nuove esplorazioni del globo terrestre, di nuove scoperte scientifiche. Ma la filosofia non è soltanto un riflesso passivo della civiltà, che perdura attraverso il cambiamento e muta nella durata. È essa stessa un cambiamento; le strutture che vengono costruite in questa connessione del nuovo e dell’antico sono piuttosto delle profezie che delle cronache; sono strategie, tentativi di prevenire gli sviluppi successivi. Le annotazioni intellettuali che costituiscono una filosofia hanno una virtù generatrice, proprio perché sono esagerazioni che procedono per scelte ed eliminazioni. […] In questo modo la filosofia segna un cambiamento nella cultura. Poiché essa costruisce strutture cui il pensiero e l’agire del futuro devono adattarsi, il suo ruolo nella storia della civiltà consiste nell’ampliare e trasformare la cultura. L’uomo esprime qualcosa a proprio rischio; una volta espresso, questo qualcosa prende posto in una nuova prospettiva; acquisisce un carattere di permanenza che originariamente non gli apparteneva; entra in modo provocatorio nell’abitudine e nell’uso; scuote e indica la necessità di nuovi sforzi. Con questo non voglio dire che l’elemento creativo sia necessariamente quello dominante nel ruolo della filosofia; è evidente che le sue formulazioni sono state spesso principalmente conservatrici, giustificazioni di elementi scelti della tradizione e delle istituzioni tramandate. Ma anche questi sistemi conservatori hanno esercitato un’azione trasformatrice, se non addirittura creatrice; hanno conferito a quei fattori scelti un potere sulla fantasia e sull’immaginazione delle generazioni seguenti che altrimenti essi non avrebbero avuto. E ci sono altri periodi, come quello del XVII e XVIII secolo in Europa, in cui l’atteggiamento della filosofia è stato spesso rivoluzionario. Per i suoi autori questo cambiamento era solo un cambiamento dall’errore assoluto alla verità assoluta; per generazioni più tarde, guardando all’indietro, il mutamento del contenuto meramente fattuale non era nulla a paragone del mutamento dei desideri e della direzione degli sforzi. […] Finché adoreremo la scienza e avremo paura della filosofia, non avremo una grande scienza; avremo una continuazione zoppicante e incespicante di cose già pensate e dette altrove. Se quanto detto contiene un’implicita esortazione, allora è un’esortazione a gettare a mare ogni timidezza intellettuale, che tarpa le ali della fantasia, un’esortazione all’audacia speculativa, a una maggiore fiducia nelle idee, ad abbandonare una vile dipendenza da quelle idee parziali cui abitualmente diamo il nome di fatti. Ho datto alla filosofia una funzione più umile del solito. Ma la modestia rispetto al suo posto definitivo non è incompatibile con l’audacia nel sostenere questa funzione, per quanto possa essere umile. Questa combinazione di modestia e di coraggio rappresenta l’unico modo che conosco con cui il filosofo possa guardare in faccia gli altri uomini con sincerità e umanità.16 B. Russell (1872-1970) Il fine della filosofia – come quello, d’altronde, di ogni altra attività mentale, dello ‘studium’ nel senso originale della parola – è la conoscenza. E la conoscenza di cui qui si tratta è quel genere di conoscenza che porta unità e sistematicità nelle scienze riunite, e quel genere che risulta da una verifica critica del fondamento delle nostre convinzioni, dei nostri pregiudizi e delle nostre opinioni. Ma non si può affermare che la filosofia abbia avuto molto successo nel tentativo di trovare risposte 16 John Dewey, Philosophy and Civilization (1931), cit. in Elberfeld, Was ist Philosophie? Programmatische Texte von Platon bis Derrida, Stuttgart, Reclam, 2006, pp. 206-210 (trad. mia). definitive alle sue domande. Se si chiede a un matematico, a un geologo o a un altro scienziato a quale patrimonio di verità la sua scienza abbia portato, la sua risposta durerà facilmente tanto quanto vorremo stare ad ascoltarlo. Ma se si pone la stessa domanda a un filosofo, egli dovrà ammettere – se è franco e sincero – che qui non si è giunti a risultati positivi comparabili con quelli delle altre scienze. […] Il valore della filosofia consiste al contrario proprio essenzialmente nell’incertezza che essa porta con sé. Chi non ha mai avuto un capriccio filosofico cammina nella vita ed è come rinchiuso in una prigione: dei pregiudizi del buon senso comune, delle opinioni abituali della sua epoca o della sua nazione e delle opinioni che sono cresciute in lui senza il contributo o l’assenso della ragione riflessiva. Un uomo tale tenderà a trovare il mondo determinato, finito, evidente; gli oggetti familiari non suscitano domande, e le possibilità che non gli sono familiari le respingerà con disprezzo. Ma nonappena cominciamo a filosofare […] le stesse cose quotidiane portano a domande cui si può rispondere solo in modo molto incompleto. La filosofia non ci può dire con certezza quali sono le risposte giuste a queste domande, ma ci può dare molte possibilità sulle quali riflettere, che ampiano il nostro campo visivo e ci liberano dalla tirannia del consueto. Essa riduce la nostra certezza su cosa siano le cose, ma aumenta il nostro sapere su quel che le cose potrebbero essere. Abbatte la certezza un po’ arrogante di coloro che non si sono mai trovati nel regno del dubbio liberatore, e mantiene desta la nostra capacità di stupirci, mostrandoci le cose che ci sono familiari da lati inconsueti. […] La contemplazione filosofica è una via d’uscita. La sua lungimiranza non divide il mondo in due settori, in amici e nemici, utile e dannoso, buono e cattivo: è uno sguardo imparziale sul tutto. Se la contemplazione filosofica non viene guastata da ingerenze estranee, essa non vuol dimostrare che l’intero mondo è affine all’uomo. Ogni conoscenza guadagnata è anche un ampiamento del nostro sé, ma tale ampiamento riesce nel modo migliore quando non lo si cerca direttamente. Riesce quando il desiderio di sapere agisce liberamente, attraverso osservazioni che non cercano fin dal principio nei loro oggetti questa o quella particolarità, bensì nelle quali il sé si conforma alle proprietà che si trovano nell’oggetto. […] Quello che nella contemplazione resta di personale o privato, tutto ciò che dipende dalle abitudini, dai propri interessi o desideri, distorce l’oggetto e disturba l’unità che l’intelletto ricerca. Poiché erigono una sorta di barriera tra il soggetto e l’oggetto, queste cose personali e private diventano una prigione della mente. L’intelletto libero vuol vedere le cose come le vedrebbe Dio, libero dal qui e ora, da speranze e paure, senza il ciarpame delle opinioni abituali e dei pregiudizi tradizionali, calmo, privo di passione, animato da un unico desiderio, che esclude ogni altro, di conoscenza, una conoscenza tanto impersonale, tanto puramente contemplativa quanto è umanamente possibile. Per questo l’intelletto libero stimerà di più la conoscenza astratta e generale, che non viene toccata dalle contingenze della storia personale, che la conoscenza attraverso i sensi, che dipende necessariamente da un punto di vista del tutto personale e da un corpo i cui organi di senso travisano ciò che ci svelano.17 17 B. Russell, “Il valore della filosofia”, in The problems of philosophy (I problemi della filosofia), cap. 15, trad. mia.