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Continuare Augusto, tradire Augusto: principi e tiranni
Le dinastie imperiali nel I e nel II secolo
Augusto e il problema della successione. Quando Augusto morì, nel 14 d.C., i più anziani
potevano ancora ricordare cosa fosse la vecchia repubblica romana: e qualcuno poteva addirittura
credere che, tutto sommato, quella di Augusto fosse stata una lunga parentesi, chiusa la quale si
sarebbe tornati all'antico regime aristocratico. Lo stesso Augusto, del resto, aveva contribuito a
rendere credibile questa ipotesi, evitando attentamente di presentare il suo governo come una rottura
netta rispetto al passato e anzi, come abbiamo visto, cercando in ogni occasione di accreditarsi
come il restauratore dei vecchi ordinamenti repubblicani.
Anche per questo, Augusto non aveva mai indicato esplicitamente un successore: cosa che avrebbe
rivelato con chiarezza la natura monarchica del nuovo regime. Il principe, che non ebbe figli maschi
da nessuna delle sue tre mogli, si era limitato di volta in volta a prendere in adozione i figli nati dai
vari matrimoni di sua figlia Giulia. Così facendo, Augusto segnalava il proprio successore, ma lo
faceva in modo implicito, con la consueta prudenza, attento a non urtare troppo il profondo
sentimento antimonarchico del "romano medio".
La dinastia dei Giulio-Claudi. Purtroppo, tutti i successori designati morirono prima di Augusto e,
alla fine, egli non ebbe altra scelta che adottare Tiberio Claudio Nerone, nato da un precedente
matrimonio di Livia (sua terza moglie). Augusto stimava poco Tiberio, che però veniva da
un'illustre famiglia della nobiltà senatoria ed era quindi ben accetto dal senato. Quando il principe
morì Tiberio divenne puntualmente il suo successore.
Ebbe così inizio la dinastia giulio-claudia, dai nomi delle famiglie di Augusto, la gens Giulia, e di
Tiberio, la gens Claudia. Gli imperatori giulio-claudi governarono Roma fino al 68, prima con
Tiberio (14-37), poi con Caligola (37-41), con Claudio (41-54) e infine con Nerone (54-68): tutti
imparentati, in via più o meno diretta, con Augusto.
La dinastia dei Flavi. Nerone, che non aveva discendenza, venne deposto dal senato e morì
suicida. Con la sua uscita di scena si determinò un vuoto di potere dalle conseguenze drammatiche,
perché nei mesi successivi numerosi pretendenti al trono si affrontarono militarmente, riuscendo, a
volte solo per qualche settimana, a farsi proclamare imperatori. Il 69 è così passato alla storia come
l'anno dei quattro imperatori: Galba, Otone, Vitellio e Flavio Vespasiano, che infine prevalse.
Vespasiano era un generale distintosi nella feroce repressione di una rivolta ebraica in Palestina
(come vedremo). La novità non era di poco conto: il nuovo imperatore non solo non aveva alcun
legame di parentela con il fondatore del principato, ma neppure proveniva dall'aristocrazia di
Roma, perché era originario di Rieti e di umili origini (il padre faceva l'esattore delle imposte).
Inoltre, la sua designazione a imperatore era stata voluta dall'esercito, al di fuori di ogni controllo
da parte del senato e della nobiltà romana. Come osservò uno storico contemporaneo, Tacito, fu
chiaro in quel momento, per la prima volta, che il principe poteva essere eletto anche lontano da
Roma: una consapevolezza che peserà sulla storia successiva. I Flavi conservarono il potere per un
trentennio: da Vespasiano (69-79 d.C.) l'Impero passò nelle mani dei figli Tito (79-81) e Domiziano
(81-96).
La fase del principato adottivo. Anche la successione ai Flavi fu piuttosto traumatica. Alla morte
di Domiziano seguì il breve regno dall'anziano senatore Nerva (96-98): una figura di garanzia,
come diremmo oggi, cioè un uomo stimato e al di sopra delle parti, che ebbe il compito di gestire il
difficile momento di transizione. Alla sua morte il potere fu assunto da un generale di origine
spagnola, Traiano, che Nerva aveva provveduto ad adottare, secondo la prassi consolidata.
Iniziò così l'epoca del cosiddetto principato adottivo: come già Nerva, infatti, anche i suoi tre
successori - Traiano (98-117), Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161) - non ebbero
discendenti diretti, perciò scelsero il proprio successore tra le figure di spicco dell'esercito o
dell'amministrazione. Questo sistema garantì, entro certi limiti, la possibilità di designare per la
successione personalità capaci di raccogliere ampi consensi e dotate delle qualità necessarie a
gestire l'Impero. L'ultimo dei prìncipi adottivi, Marco Aurelio (161-180), lasciò invece in eredità il
trono al figlio naturale Commodo, e mentre Marco Aurelio fu un grande imperatore, Commodo si
rivelò l'opposto del padre, finché nel 192 fu ucciso in una congiura. Di nuovo si pose il drammatico
problema di assicurare una successione.
I Severi. Questa volta la guerra tra i generali, ognuno sostenuto da forze diverse o dagli eserciti di
stanza nelle varie province, fu particolarmente aspra e si protrasse per cinque anni. Alla fine si
impose Settimio Severo (197-211), comandante delle truppe di stanza sul Danubio, che diede inizio
a una nuova dinastia. Vespasiano era stato il primo imperatore non aristocratico, Traiano il primo
non italico (era originario della Spagna): Settimio Severo fu il primo che proveniva dall'Africa. I
suoi successori, Caracalla, Eliogabalo e Alessandro Severo, ressero l'Impero fino al 235.
Erano passati oltre due secoli dalla morte di Augusto, ma la struttura di potere da lui creata aveva
retto agli urti del tempo e delle trasformazioni economiche, sociali, militari. Vediamo ora meglio in
che modo.
Il centro dello stato: gli imperatori e il senato
Augusto e il senato. Ancora una volta, bisogna partire dal fondatore dell'Impero. Augusto, come
sappiamo, fece ogni sforzo per presentare il proprio potere come il governo di un principe dotato di
superiore carisma e autorevolezza, sostenuto dal consenso dell'intera società, protetto da prerogative
speciali: ma, a parte questo (che certo non era poco), voleva apparire un senatore come tutti gli altri.
Il senato, e l'aristocrazia che in esso sedeva, era abituata da secoli a dirigere lo stato. Augusto lo
sapeva, e perciò si sforzò sempre di mostrarsi rispettoso nei confronti del senato: da un lato ne
ridusse il potere reale, dall'altro accrebbe il prestigio dei senatori e li coinvolse, per quanto
possibile, nel governo dell'Impero. Si trattava di un compromesso, nel quale non mancava una
buona dose di ipocrisia da entrambe le parti; ma era indispensabile per garantire una transizione
morbida dalla repubblica all'Impero.
I principi sulla linea di Augusto. I successori di Augusto non ebbero tutti la stessa sensibilità.
Alcuni, come Tiberio, Claudio, Vespasiano, Tito e gli imperatori adottivi (da Nerva a Marco
Aurelio, escluso Commodo), perseguirono una politica di buoni rapporti con il senato, fondata su
un atteggiamento di rispetto reciproco. In concreto, si trattava di una sorta di patto di non
belligeranza: da un lato l'imperatore non invadeva i campi di competenza del senato e garantiva la
vita e le proprietà dei senatori, dall'altro i senatori riconoscevano la superiore autorità del principe.
Con Vespasiano si giunse per la prima volta a fissare in una norma specifica (la legge "sul potere di
Vespasiano", lex de imperio Vespasiani) le prerogative dell'imperatore e del senato, approdando
finalmente a una definizione più precisa dei poteri del principe, che Augusto aveva volutamente
lasciato fluida. Questa legge, accettata e promulgata dal senato, riconosceva tra l'altro a Vespasiano
il diritto di stipulare trattati internazionali, di far eleggere i candidati da lui prescelti alle
magistrature, di non essere vincolato dalle delibere del senato o da plebisciti.
I principi assoluti. Altri imperatori, in particolare Caligola, Nerone e Domiziano, scelsero invece la
via di un governo assoluto, di una gestione dello stato che prescindeva dal senato o andava senz'altro
contro di esso, concentrando tutti i poteri nelle proprie mani. Sotto il governo di questi imperatori, il
patto di non belligeranza di cui abbiamo parlato si spezzò: gli aristocratici meno graditi venivano
eliminati attraverso processi politici nei quali l'accusa era assai vaga, perlopiù quella di lesa maestà:
il crimen maiestatis in età repubblicana si applicava a coloro che danneggiavano il pubblico
interesse del popolo romano e la sicurezza dello Stato; in età imperiale comprendeva –
genericamente – qualsiasi offesa o atteggiamento sgradito all’imperatore e alla sua famiglia, e,
poiché forniva innumerevoli pretesti per istruire processi ai danni degli oppositori politici (reali o
presunti) fu il principale strumento di repressione della classe senatoria utilizzato dai principi
assoluti. I nobili, dal canto loro, si vendicavano imbastendo congiure per eliminare con la violenza
il "tiranno". Caligola e Domiziano finirono assassinati, mentre Nerone, deposto dal senato, fuggì da
Roma e si suicidò.
L'atteggiamento degli storici latini. A questi imperatori gli storici latini attribuivano volentieri
comportamenti folli o gesti di inaudita crudeltà: di Caligola, per esempio, si raccontava che avesse
nominato senatore il proprio cavallo e che avesse rap porti sessuali abituali con le sue sorelle.
Nerone si sarebbe esibito spesso nel teatro e nel circo come cantore o auriga, attività ritenute
inaccettabili per la dignità di un aristocratico. A Domiziano, infine, si attribuiva un governo fondato
sul terrore e la persecuzione sistematica di qualsiasi voce di dissenso.
Quanto c'è di vero in tutto questo? Forse non molto. Bisogna tener conto, infatti, che quegli storici
erano tutti senatori, quindi esprimevano il punto di vista della loro classe sociale e finivano per
valutare l'intero operato di un principe sulla base del rapporto che instaurava con l'aristocrazia. In
realtà, la "follia" di certi principi celava probabilmente una scelta precisa: liberare il potere del
principe da qualsiasi controllo, instaurare una monarchia piena ed esplicita.
Un progetto politico preciso. La monarchia era un regime estraneo alla tradizione romana e
trovava un modello soprattutto nelle culture orientali (per esempio quella egizia), da sempre
abituate a venerare il sovrano alla stregua di un dio. Non a caso, alcuni di questi principi cercarono
di introdurre anche a Roma forme di divinizzazione della figura imperiale: Caligola pretendeva la
genuflessione da chi si presentava al suo cospetto, Domiziano volle essere venerato come "signore"
(dominus, titolo con cui gli schiavi si rivolgevano al padrone) e come "dio" (deus). Quanto a
Nerone, le sue esibizioni in teatro e al circo facevano storcere il naso all'aristocrazia, ma gli procurarono un'immensa popolarità presso la plebe urbana, assidua frequentatrice degli spettacoli
circensi: non si trattava quindi di follia, come volevano gli storici contemporanei, ma della precisa
intenzione di guadagnare il consenso popolare.
Da un certo punto di vista, insomma, i principi assoluti non facevano altro che togliere la maschera
dell'ipocrisia al regime creato da Augusto, mostrando apertamente ciò che tutti sapevano, ma che
non era opportuno dire: che il senato e l'aristocrazia contavano ormai ben poco e che l'intero potere
era nelle mani dell'imperatore. Ma a Roma, nel I e ancora nel II secolo, i tempi non erano maturi
per riconoscere esplicitamente questo sviluppo del potere imperiale, tanto meno per identificare il
principe con un dio in terra.
I principi adottivi e l’età d'oro di Roma. Dopo Domiziano, il principato adottivo segnò per un
ottantennio il ritorno alla conciliazione fra il potere del principe e quello del senato, come abbiamo
detto. Traiano, Adriano, Antonino Pio furono amministratori oculati delle finanze, attenti alle
esigenze delle province e alla sicurezza delle frontiere.
Marco Aurelio fu un seguace dello stoicismo (una corrente filosofica allora molto diffusa fra le classi
colte) e rappresentò addirittura il caso di un imperatore-filosofo, che interpretò i suoi compiti di governo alla luce dell'idea di servizio allo stato. Il principato adottivo fu dunque un periodo aureo, una
specie di seconda età augustea, ma tramontò bruscamente con Commodo e con la guerra civile che
seguì alla sua uccisione nel 192.
Il centro e le periferie: organizzazione burocratica ed esercito
Continua l’ascesa dei cavalieri. Dopo che Augusto creò un primo embrione di burocrazia, sotto il
regno di Claudio vennero coinvolti nelle funzioni amministrative anche i liberti imperiali, cioè gli ex
schiavi del principe, a cui venne affidata la direzione di vari uffici centrali. I successori di Augusto,
comunque, continuarono a rivolgersi soprattutto ai cavalieri per formare i quadri dirigenti
dell'amministrazione.
Da poche decine all'epoca di Augusto, le cariche riservate ai cavalieri giunsero a quasi centocinquanta all'epoca di Commodo, e soprattutto si definì poco a poco una vera e propria carriera, con
gradi successivi da percorrere, a ciascuno dei quali corrispondeva una precisa retribuzione.
Partendo da ruoli minori nell'ufficialità militare, i cavalieri più bravi (oltre che, naturalmente, più
graditi al principe regnante) potevano giungere a ricoprire incarichi delicatissimi, prestigiosi e
strapagati, come quelli di prefetto del pretorio o di governatore dell'Egitto.
Il ruolo dei pretoriani. L'importanza dei soldati andò crescendo nei due secoli successivi ad
Augusto. Del tutto particolare fu, sin dall'inizio, la situazione dei pretoriani, che erano anche
fisicamente vicini al centro del potere. In virtù di questa condizione privilegiata, i pretoriani furono
sempre, in un modo o nell'altro, coinvolti negli intrighi e nei complotti politici della capitale, e
spesso la loro volontà risultò decisiva nell'innalzare al potere un principe oppure, viceversa, nel
deporlo o addirittura nell'assassinarlo.
L’esercito colonna del potere. Ma anche al di fuori dei pretoriani, l'appoggio dei soldati diventò
sempre di più un elemento del quale nessun imperatore poteva fare a meno. Oltre che suprema
autorità politica, il principe era anche, e in certi momenti soprattutto, il responsabile ultimo della
difesa e il capo degli eserciti sparsi ai quattro angoli dell'Impero. Pertanto il consenso del senato era
inutile, se poi le legioni si rifiutavano di obbedire al principe e non riconoscevano la sua autorità.
Il problema del controllo sull'esercito diventava particolarmente grave quando l'Impero era esposto
all'aggressione di popolazioni esterne - una situazione che si verificò sempre più spesso a partire dal
II secolo - e non poteva permettersi malcontenti o defezioni tra le file di chi lo difendeva. Anche in
tempo di pace molti principi furono impegnati a sedare rivolte militari, che scoppiavano perché i
soldati avevano intuito la propria forza e la sfruttavano per strappare all'imperatore aumenti di paga,
miglioramenti delle loro condizioni o semplicemente donativi straordinari in denaro.
L’egemonia dell'esercito. Il peso dei militari raggiunse l'apice all'epoca dei Severi, cioè nei primi
decenni del III secolo. La stessa carriera del fondatore della dinastia, Settimio Severo, da soldato
semplice a comandante delle legioni della Pannonia, che lo proclamarono imperatore e gli
consentirono la vittoria sui concorrenti, mostra che la famiglia di provenienza e i tradizionali
percorsi di formazione politica contavano ormai poco: l'esercito era sempre più la forza che
sceglieva, sosteneva e spesso addirittura forniva i nuovi imperatori. Settimio istituì nuove tasse per
garantire ai soldati paghe più alte e in punto di morte lasciò ai suoi figli questa significativa
indicazione di governo: «Arricchite i soldati, disprezzate tutti gli altri». All'alba del III secolo,
d'altronde, l'Impero iniziava ad assomigliare sempre di più a una fortezza assediata, circondata da
forze ostili pronte ad attaccarlo, e in questa situazione il ruolo degli eserciti di frontiera diventava
cruciale. Vedremo ora da dove e da chi proveniva la minaccia.
Ai confini del mondo romano
La politica estera dell'Impero fra espansione e consolidamento
Gli orientamenti di fondo. I successori di Augusto rispettarono, nelle linee generali, gli indirizzi
impressi alla politica estera romana dal fondatore dell'Impero. Possiamo così riassumerli:
• evitare di avventurarsi in campagne di conquista eccessivamente rischiose;
• consolidare i confini;
• dove non era possibile vincere, condurre negoziati e stringere accordi.
Con qualche eccezione, infatti, i primi due secoli dell'Impero non videro nuove, grandi conquiste.
I diversi principi si dedicarono piuttosto al rafforzamento delle zone di confine e all'occupazione di
aree adiacenti ai territori già conquistati, oppure che interrompevano, perché rimaste indipendenti,
la continuità territoriale di quelle sotto il controllo romano.
La linea Reno-Danubio. Nello scacchiere nord, il confine rimase saldamente attestato lungo la
linea naturale costituita dal Reno e dal Danubio. Dopo il fallimento delle campagne di Augusto in
Germania, infatti, non ci fu alcun vero tentativo di riprendere l'espansione in questo settore, eccetto la
conquista della porzione di territorio fra il corso iniziale dei due grandi fiumi, altrimenti priva di
barriere naturali. Vennero organizzate le due province della Germania Inferiore, sulla riva
occidentale del Reno, e della Germania Superiore , quella che propriamente collegava Reno e
Danubio.
Per il resto, la Germania era un territorio coperto di boschi e paludi, che poco si prestava ai grandi
scontri in campo aperto, nei quali le legioni romane potevano meglio dispiegare la loro potenza. Per
di più le tribù germaniche erano frammentate in un fitto reticolo di etnie e villaggi, ma sapevano
anche, all'occasione, coalizzarsi per respingere l'invasore; così era appunto accaduto all'epoca di
Augusto.
La presenza romana in Britannia. Alcuni imperatori ripresero invece il tentativo di
colonizzazione della Britannia, dove la popolazione indigena offriva minori resistenze: una linea di
espansione suggerita un secolo prima da Cesare, ma a lungo abbandonata dai suoi successori. Fu
Claudio, nel 44, a conquistare la parte meridionale dell'isola (pressappoco l'attuale Inghilterra
propriamente detta), riducendola a provincia, mentre gli imperatori successivi ampliarono le
conquiste verso nord fino a occupare una parte della Scozia. In questa regione non esistevano
elementi naturali (fiumi, catene montuose) a fungere da confine; perciò Adriano e il suo successore
Antonino Pio fecero erigere, verso la metà del II secolo, lunghe muraglie fortificate, da una costa
all'altra della Britannia settentrionale, per proteggere i territori conquistati dalle popolazioni
dell'estremo nord. Il cosiddetto Vallo di Adriano, lungo quasi 120 km, è un capolavoro di
ingegneria militare: una formidabile struttura difensiva che comprende torrette di avvistamento,
camminamenti protetti, mura e fossati, talmente solida da risultare ancora oggi visibile per ampi
tratti. Adriano si dedicò anche a rafforzare le difese della Germania Superiore, cioè il tratto di
confine tra Reno e Danubio, con la costruzione di una linea di fortini di pietra collegati da una
palizzata e da altre opere.
Traiano e la Dacia. L'ultima grande conquista romana fu la Dacia, un vasto territorio a nord del
Danubio corrispondente pressappoco all'attuale Romania . La conquista fu condotta in due
campagne successive guidate da Traiano, nel 101-102 e nel 105-106, che si conclusero con la
riduzione dell'intero territorio a provincia. Di quella conquista resta ancora oggi a Roma una
splendida testimonianza figurativa: con una parte del bottino ricavato dalla campagna, l'imperatore
fece realizzare la Colonna traiana, alta quaranta metri, costituita da un fregio che si srotola a spirale
lungo tutta l'altezza della colonna e che descrive in una successione di quadri scolpiti le varie fasi
della conquista.
Il confine orientale e i parti. Spostiamoci ora sul confine orientale, un'area che rimase nei primi
due secoli del principato una zona calda, soprattutto per la presenza sempre incombente del Regno
partico, che abbiamo più volte ricordato. Quello tra parti e romani era il rapporto tra due potenze
militari entrambe forti, ma non abbastanza da imporsi definitivamente l'una sull'altra; di
conseguenza, la lotta si concentrava nel tentativo di portare sotto il proprio controllo alcuni territori
di confine fra i due imperi, in modo da indebolire l'avversario. Era il caso, per esempio, del vasto
regno collocato fra il mar Nero e il mar Caspio, l'Armenia, sul cui trono si alternarono infatti
sovrani ora filoromani, ora filopartici.
Traiano in Oriente. Anche in questo caso fu Traiano a tentare di forzare la situazione, spingendo
la penetrazione romana verso est con l'obiettivo di spostare il confine dall'Eufrate al Tigri, il più
orientale dei due fiumi della Mesopotamia, il che avrebbe comportato un significativo
ridimensionamento della potenza dei parti. Una prima operazione, condotta all'indomani della
conquista della Dacia, portò le forze di Traiano a occupare una fascia comprendente l'area del Sinai
e l'attuale Giordania: qui venne creata la provincia dell'Arabia Petrea, i cui centri di Petra e Palmira
conservano ancora tracce splendide della presenza romana. La campagna vera e propria contro i
parti iniziò invece in grande stile nel 113, sotto il comando personale di Traiano, e vide subito la
conquista di Armenia e Mesopotamia, mentre la capitale del Regno dei parti, Ctesifonte, cadeva in
mani romane.
La ritirata. Le popolazioni conquistate, tuttavia, opposero una violenta resistenza alle truppe di
occupazione, mentre in Palestina gli ebrei approfittavano dell'impegno romano in Oriente per
ribellarsi a loro volta. Traiano morì nel 117 senza essere riuscito a riprendere il controllo dei
territori strappati ai parti, e il suo successore Adriano - che abbiamo già visto impegnato in
Britannia e in Germania nel consolidamento dei confini - non volle rischiare uomini, mezzi e denaro
nel controllo di un'area che appariva troppo instabile e turbolenta. Le conquiste di Traiano in
Oriente furono abbandonate e il confine tornò ad attestarsi lungo l'Eufrate.
Una guerra sporca: romani ed ebrei fra Vespasiano e Adriano
La Palestina: un’area calda. I confini non erano le sole zone calde dell'Impero: anche province
interne potevano essere teatro di rivolte contro l'autorità romana che, in alcuni casi, impegnavano
gli eserciti regolari per periodi molto lunghi. Raccontare tutti questi episodi – che furono
probabilmente più numerosi di quanto riportano le fonti antiche – è impossibile. Parleremo perciò
di un caso emblematico, cioè di una regione che rimase a lungo particolarmente turbolenta e le cui
vicende hanno avuto conseguenze importanti per la futura storia europea: la Palestina.
Quest'area cadde sotto il controllo romano nel I secolo a.C., ma la situazione di ribellione contro il
dominio romano rimase di fatto endemica. Periodicamente l'irriducibile sentimento antiromano
della popolazione e di una parte della classe politica ebraica esplodeva in rivolte brevi e spesso
violentissime, che venivano represse con altrettanta violenza dalle autorità di occupazione, senza
che però la resistenza fosse mai completamente stroncata.
66-70: la prima guerra giudaica. Nel 6 d.C. una parte della Palestina, la Giudea, venne accorpata
alla provincia di Siria, mentre nel resto del paese restavano formalmente al potere i sovrani locali
(gli Asmonei), di fatto fantocci nelle mani di Roma; l'instabile situazione, comunque, non si
tranquillizzò. Nel 66, verso la fine del principato di Nerone, scoppiò una nuova e massiccia rivolta:
esasperati dal malgoverno dei funzionari imperiali, gruppi di partigiani ebrei presero le armi e
riuscirono a mettere fuori combattimento non solo la guarnigione romana stanziata in Palestina, ma
anche le ben più numerose truppe di rinforzo giunte dalla vicina Siria. Di fronte al pericolo di
perdere la provincia, Nerone inviò un esercito di 60000 uomini al comando del generale Vespasiano
(destinato poi a divenire a sua volta imperatore): ciò nonostante, la guerra si protrasse fino al 70, e
solo nel 73 i romani domarono gli ultimi focolai. Ogni residuo di indipendenza della Palestina
venne spazzato via.
La distruzione del tempio. La città di Gerusalemme, simbolo dell'identità culturale e religiosa
ebraica, venne praticamente rasa al suolo. In particolare, nel 70 fu abbattuto il Tempio di Salomone,
centro del culto e punto di riferimento del giudaismo internazionale: i sacri arredi del tempio,
compreso un enorme candelabro a sette bracci, furono razziati dai legionari romani, in una scena
drammatica che si può ancora oggi vedere scolpita sull'arco di Tito, innalzato a Roma per celebrare
la vittoria del figlio di Vespasiano, al quale fu affidata la direzione delle operazioni dopo che il
padre era diventato imperatore. Da allora, il Tempio non è stato mai più ricostruito: uno dei suoi
muri perimetrali, tuttora in piedi, è chiamato significativamente Muro del pianto ed è ancora oggi
luogo di preghiera per gli ebrei osservanti.
Nonostante la vittoria e i massacri che a essa seguirono, nei decenni successivi i romani stentarono
a recuperare il pieno controllo della situazione. Un'altra rivolta scoppiò durante la campagna di
Traiano contro i parti, iniziata come sappiamo nel 113, e mise in crisi i piani di avanzata a Oriente
dell'imperatore.
132-135: la seconda guerra giudaica. Nel 132, al tempo di Adriano, scoppiò una nuova e vasta
rivolta, scatenata da due decisioni romane che per gli ebrei furono altrettanti attacchi alla loro
identità culturale e religiosa: il divieto di praticare la circoncisione sui bambini e la scelta di
ricostruire Gerusalemme come una città romana, sostituendo al culto del Dio ebraico quello di
Giove. Anche questa volta gli insorti dimostrarono insospettate capacità di resistenza e fu
necessario un esercito regolare per snidarli dalle loro postazioni. Ottenuta la vittoria, la vendetta
romana fu atroce. Secondo le parole di uno storico di poco successivo ai fatti, Cassio Dione, «solo
pochi scamparono. Cinquanta delle loro più solide fortezze furono distrutte, e vennero rasi al suolo
985 villaggi. Furono uccisi in incursioni e battaglie 580 000 uomini, oltre al numero imprecisabile
di quanti morirono di fame, di malattia e negli incendi. Quasi tutta la Giudea venne ridotta a un
deserto». Allora, a questo prezzo, la regione venne pacificata.
II confine violato
Un mosaico di popoli in movimento. Il Reno e il Danubio sono fiumi lunghi, dal corso ampio e a
tratti impetuoso. A guardarli dalle postazioni difensive collocate sul versante romano si doveva
davvero avere l'impressione che costituissero una barriera invalicabile, in grado di proteggere
l'Impero da qualsiasi attacco. Ma al di là di queste due grandi difese naturali esistevano decine di
popoli che si spostavano, premevano gli uni sugli altri, cercavano nuove terre e nuove risorse, si
affollavano ai confini dell'Impero, attratti dalle sue ricchezze e dalle sue campagne coltivate: e
qualche volta passavano.
I precedenti. Il fenomeno si era sempre verificato nella storia di Roma. I galli che avevano
incendiato la città nel 390 a.C. appartenevano a tribù celtiche sconfinate prima dalla Gallia alla
pianura padana e poi da quest'ultima verso il Lazio. Allo stesso modo, i cimbri e i teutoni, che
minacciarono il Nord Italia verso la fine del II secolo a.C. provenivano dall'Europa settentrionale e
da lì erano calati sui territori romani nella Gallia. Fino a tutto il I secolo d.C, però, casi del genere
rimasero piuttosto sporadici.
Gli sconfinamenti dei "barbari", come i romani definivano questi popoli nel loro complesso,
mettevano molta paura, spesso provocavano gravi distruzioni materiali, ma si risolvevano di solito
in breve tempo, non appena Roma era in grado di mettere in campo una risposta militare
all'invasione.
La nuova minaccia. Le cose cambiarono a partire dal II secolo d.C, quando le invasioni si fecero
più frequenti, più penetranti, e spesso investivano contemporaneamente più fronti, rendendo
difficile la mobilitazione delle truppe lungo un confine esteso per migliaia di chilometri.
Il caso più eclatante si verificò durante il regno di Marco Aurelio, allorché due tribù germaniche, i
quadi e i marcomanni, sfondarono il confine danubiano e giunsero nel 166-167 fino ad Aquileia,
non lontano dall'attuale Trieste. Marco Aurelio reagì ricacciando queste popolazioni al di là del
confine: ma da quel momento in avanti le diverse stirpi germaniche costituirono una minaccia
permanente, che accompagnò tutta la successiva storia dell'Impero.
Le possibili risposte. Per il momento, gli imperatori affrontarono il pericolo in modo differenziato,
con strategie che tenevano conto caso per caso delle situazioni concrete e dei rapporti di forza. A
volte, com'era accaduto con la conquista della Dacia da parte di Traiano, le popolazioni esterne
venivano attaccate direttamente nel loro territorio e annesse all'Impero. Era la soluzione più drastica
e definitiva, almeno sulla carta; ma naturalmente in questo modo il problema della difesa dei confini
non faceva che spostarsi più avanti, lungo la nuova frontiera creata dalla conquista stessa. Altre
volte, i "barbari" venivano semplicemente ricacciati al di là dei confini, magari creando una fascia
di sicurezza (come fece Marco Aurelio), cioè una striscia di terra lungo il confine dell'Impero nella
quale ai "barbari" era proibito di risiedere.
La politica di assimilazione. Altre volte ancora, le popolazioni esterne venivano ammesse
all'interno dei confini, insediate in aree spopolate, inquadrate nell'esercito, magari smembrandole in
piccoli gruppi che venivano poi inviati ai quattro angoli dell'Impero. Questo meccanismo di
inclusione fu all'inizio occasionale, praticato soltanto quando altre politiche più aggressive si
rivelavano impossibili. Con il tempo, però, si diffuse sempre più e contribuì a creare sia un esercito
multietnico sia, nelle aree di confine, una situazione di forte mescolanza fra l'elemento romano e l'elemento germanico.
Il beatissimum saeculum e le sue crepe
L’apogeo dell’impero
Due secoli di splendore. I primi due secoli dell'Impero, e in particolare l'età del principato
adottivo, dall'ascesa al trono di Nerva alla morte di Marco Aurelio (96-180), sono stati spesso
definiti l'epoca d'oro della storia di Roma, addirittura il secolo più felice della storia del mondo.
Le ragioni di questa definizione sono molteplici. In questi due secoli non ci furono, nel complesso,
prolungate situazioni dì guerra: l'Impero sembrava in grado di garantire la sicurezza dei suoi confini
e persino, come si è visto, di potersi ulteriormente espandere. Lo stato era solido e florido;
dappertutto nascevano nuove città e le vecchie (a cominciare da Roma stessa) si popolavano di
templi, palazzi, anfiteatri, strutture di servizio, come i monumentali mercati voluti da Traiano nel
cuore stesso di Roma.
La prosperità economica. L'economia era vivace e gli scambi intensissimi. La situazione di
relativa sicurezza nel Mediterraneo e all'interno dei confini facilitava i commerci e la navigazione.
D'altra parte, i prodotti romani si muovevano ben al di là dei confini politici dell'Impero: merci,
manufatti e monete di fabbricazione romana si trovano ai quattro angoli del mondo, dalla Norvegia
all'India alla Cina, a dimostrazione che i "barbari", quando non si combatteva contro di loro, erano i
più importanti partner commerciali dell'Impero.
Le opportunità di scalata sociale. La forza dell'economia si coglieva anche nella spiccata mobilità
sociale, cioè nella possibilità di migliorare la propria condizione, passando dai gradini più bassi
della scala sociale fino a posizioni di prestigio, di potere o di ricchezza. Certo, aristocratici si
nasceva, e così continuò a essere anche in epoca imperiale: ma ricchi si poteva diventare. Poteva
accadere - e di fatto accadeva - che uomini nati schiavi lasciassero in eredità patrimoni più vasti di
quelli dei loro ex padroni, o che semplici soldati nati in provincia arrivassero a diventare imperatori.
Uno dei protagonisti del più famoso romanzo della letteratura latina, il Satyricon di Petronio, scritto
nel I secolo d.C, Trimalchione, è nato schiavo, è diventato liberto, ha fatto fortuna e ora possiede
talmente tante proprietà che lui stesso non riesce a ricordarne il numero. Allo stesso modo, il nonno
di Vespasiano, nato a Rieti, nell'entroterra laziale, era un semplice sottufficiale dell'esercito, il padre
un esattore delle imposte; eppure i due figli divennero l'uno prefetto dell'Urbe, la prestigiosa (e
molto ben remunerata) carica introdotta da Augusto, l'altro addirittura imperatore. Nel giro di
appena due generazioni, un'oscura famiglia di provincia era diventata la casata più importante del
mondo.
La diffusione della cultura: commercio librario, biblioteche e istituzioni culturali. Intanto, le
opere dei poeti e letterati latini si diffondevano ampiamente nell'Impero. Dopo le biblioteche
pubbliche aperte a Roma da Augusto, un'altra grande iniziativa del genere fu realizzata da Traiano:
la biblioteca Ulpia resterà per secoli una delle istituzioni culturali più importanti di Roma, dove
letterati e intellettuali trovavano non solo un ambiente silenzioso e appartato, ma soprattutto
preziosi documenti d'archivio e autentiche rarità bibliografiche. Proprio davanti all'imponente
edificio che la ospitava si ergeva la già ricordata Colonna traiana, nella quale, non a caso, gli eventi
sono narrati come se fossero rappresentati su un rotolo librario. Biblioteche minori erano associate
alle residenze imperiali, ai templi o alle terme e sono attestate in molti centri dell'Impero.
Da provinciali a cittadini. Alla crescente omogeneità culturale si accompagnava la progressiva
diffusione della cittadinanza romana. Anche in questo caso l'iniziatore del processo era stato
Cesare, quando aveva concesso la cittadinanza agli abitanti della Gallia Cisalpina; ma la tendenza
continuò senza interruzione per tutta l'epoca imperiale. L'acquisizione della cittadinanza non
significava solo entrare in una condizione privilegiata dal punto di vista dei diritti e della posizione
di fronte alla legge: per i membri delle classi agiate, significava la concreta possibilità di accedere
alle carriere pubbliche come ufficiali dell'esercito e della flotta, come funzionari della burocrazia
imperiale, infine come magistrati e senatori. Da qualsiasi punto dell'Impero, almeno in linea di
principio, era possibile fare il grande salto che portava a Roma, nel cuore stesso del potere.
La constitutio Antoniniana, ovvero l’editto di Caracalla. Il punto culminante di questo processo
fu raggiunto nel 212, allorché l'imperatore Caracalla, figlio di Settimio Severo, estese la
cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero, con l'eccezione di alcune categorie minori e numericamente poco significative. Il provvedimento, più che da una effettiva volontà di parificare tutti i
sudditi, derivava forse da ragioni di semplificazione del prelievo fiscale e, sicuramente, dalla
necessità di reperire nuove entrate per le casse dello stato, attraverso l’estensione di imposte dirette,
quali le tasse di successione o quelle sulla liberazione degli schiavi, finora riservate ai soli cittadini.
Esso risulta tuttavia ugualmente significativo: era infatti il punto di arrivo di un processo di
progressiva integrazione e parificazione dei provinciali, iniziato con Cesare e proseguito con
Claudio, il riconoscimento di uno stato di fatto, quello in virtù del quale erano potuti diventare
imperatori anche dei provinciali, come Traiano, Adriano e Settimio Severo. Con la constitutio
Antoniniana, per la prima volta nella storia, nasceva un organismo imperiale in cui tutti,
dall'imperatore all'ultimo dei contadini, erano accomunati dalla condivisione della medesima
condizione giuridica.
L'altra faccia del benessere: plebi rurali e plebi urbane
Un mondo senza confini. Nell'anno 100, dunque, un qualsiasi cittadino dell'Impero poteva andare
da Roma a Londra o da Roma a Gerusalemme senza mai dover attraversare una frontiera,
viaggiando su strade solide, sicure e veloci; in qualsiasi città si fosse fermato a dormire o a
mangiare, avrebbe trovato qualcuno che parlava la sua lingua, il latino; se poi voleva curare il suo
corpo, o svagarsi, terme e teatri erano diffusi in tutti i centri dell'Impero, anche i più piccoli; e in
qualche libreria o biblioteca della Gallia o della Britannia avrebbe persino trovato le ultime novità
di qualche poeta alla moda.
Il volto violento della romanizzazione. Naturalmente tutto questo aveva dei prezzi: e qualcuno che
li pagava. Le conquiste si accompagnavano a razzie, deportazioni, riduzioni in schiavitù. La logica
degli antichi era che la guerra si paga da sé, il che significava, in concreto, che i costi della
conquista ricadevano sugli stessi popoli conquistati. Inoltre, il governo di una provincia da parte
dell'elite dirigente romana era spesso poco meno di un saccheggio legalizzato e le numerose
ribellioni succedutesi anche in questo periodo dimostrano che l'età d'oro dell'Impero non brillava in
modo uniforme per tutti.
Gli schiavi cominciano a scarseggiare. Quest'altra faccia del mondo luccicante che abbiamo
descritto finora era rappresentata anzitutto dalla campagna. L'arresto della spinta espansionistica
non ebbe solo l'effetto di consolidare i confini dell'Impero, ma anche di ridurre drasticamente la
disponibilità di schiavi. Per secoli, la schiavitù si era infatti incrementata grazie alle nuove
occupazioni e alle massicce deportazioni di popolazione. Naturalmente, la schiavitù non cessò di
esistere nella Roma imperiale, anche perché era un fenomeno che in parte si alimentava da sé, dato
che il figlio di uno schiavo era a sua volta schiavo. Il numero di servi, tuttavia, non copriva più la
domanda del mercato, una domanda proveniente soprattutto dagli immensi latifondi
dell'aristocrazia, sparsi in Italia e in tutte le province, che in questo periodo aumentarono
ulteriormente.
Il ritardo tecnologico dell’agricoltura romana e la crisi delle campagne. L'agricoltura era la
base dell'economia romana (come di tutte le civiltà antiche), cioè la fonte della maggior parte dei
beni, delle materie prime poi lavorate e commercializzate, delle rendite, insomma della ricchezza
prodotta. Le colture nell'area mediterranea, tuttavia, avevano perlopiù rendimenti molto scarsi in
rapporto al lavoro necessario a produrli; poche le eccezioni, come l'Egitto, dove le piene del Nilo
garantivano più raccolti in un anno. Secondo Columella, autore nel I secolo d.C. di un trattato di
agronomia, in Italia una misura di grano seminata ne fruttava in media quattro: una resa bassissima,
senza contare che molti terreni andavano lasciati un anno sì e uno no a maggese (ossia incolti, a
prato), o si esaurivano fino a diventare sterili. Mentre i romani dimostrarono eccellenti capacità di
innovazione, per esempio nell'ingegneria (strade, acquedotti, ponti, anfiteatri), non ottennero
risultati analoghi in agricoltura: ci furono ben pochi progressi nel tipo di giogo o di aratro usati,
nell'irrigazione o nella selezione delle sementi. Perché questa carenza o ritardo tecnologico in
agricoltura? La ragione non fu un difetto di creatività, ma piuttosto la mancanza di stimoli. L'ampia
disponibilità di nuove terre da coltivare e l'abbondante offerta di schiavi, infatti, fecero sì che il
metodo più rapido ed economico per incrementare la produzione fosse di acquisire altra terra e altre
braccia per lavorarla. Roma, quindi, rispose alle sue necessità agricole puntando semplicemente
sulla quantità. Proprio per questo, la carenza di lavoro servile rischiava di intaccare i fondamenti del
sistema produttivo, tanto che (come vedremo) fu necessario poco a poco sostituirlo con un nuovo
sistema di produzione, il colonato.
I ceti emarginati delle città. La povera gente non viveva solo in campagna: da sempre, affollava
anche i quartieri popolari delle città, e soprattutto, naturalmente, di Roma. Finché esisteva la
repubblica, questi ceti (commercianti al minuto, artigiani, clienti di grandi famiglie aristocratiche,
gente che viveva di espedienti al limite e oltre il limite della legalità) avevano in qualche modo
svolto un ruolo politico: le assemblee popolari erano aperte anche a loro, oppure potevano formare
il seguito di qualche leader politico e magari lanciarsi in avventure sovversive, come all'epoca della
congiura di Catilina.
Ma da quando, con l'impero, le assemblee erano diventate un rito privo di qualsiasi influenza reale
e, almeno in teoria, non esisteva più lotta politica, perché tutto il potere era nelle mani di uno solo, i
proletari di Roma erano abbandonati a se stessi. E fra i due mondi sembra impossibile qualsiasi
comunicazione, anche la semplice solidarietà umana.
Però i proletari erano tanti, spesso frustrati dalle miserabili condizioni di vita, e potevano diventare
pericolosi. Per tenerli buoni, come disse un poeta dell'epoca, il potere politico usava due strumenti:
panem et circenses “il pane e il circo”. Il pane voleva dire le frumentazionì, cioè le distribuzioni
gratuite di grano, inventate all'epoca dei Gracchi e da allora mai più interrotte. Ma non solo. C'erano anche distribuzioni di altri beni alimentari e distribuzioni di denaro, e per questo ogni occasione
era buona: l'inizio di una nuova dinastia o l'ascesa al trono di un imperatore, i successivi anniversari
di questa ricorrenza, il compleanno del principe, la nascita dell'erede, i lasciti testamentari, le tante
feste che costellavano il calendario rituale e politico della Roma imperiale. Il principe svolgeva il
ruolo di "padre della patria" anche sfamando i suoi figli poveri; del resto, essere ammessi alle
frumentazioni costituiva un minuscolo segno di prestigio, a volte l'unico per chi viveva al limite
della sussistenza. E poi c'era il circo, che nella Roma imperiale voleva dire anzitutto spettacoli di
gladiatori. La gladiatura esisteva da tempo a Roma, ma fu in epoca imperiale che si trasformò in una
vera e propria industria dell'intrattenimento, con spettacoli che si svolgevano praticamente tutto il
giorno tutti i giorni, seguendo una precisa scaletta. Gli spettacoli dei gladiatori rappresentavano un
fatto di costume, una componente irrinunciabile della giornata-tipo di ogni romano, dall'ultimo dei
plebei all'imperatore, che aveva il proprio palco riservato e non di rado interveniva direttamente a
decidere la sorte di questo o quel combattente sconfitto. Non mancarono persino imperatori (per
esempio Commodo) che scesero in prima persona nell'arena a combattere.
Gli "onesti" e gli "umili". Nei primi due secoli dell'Impero la distinzione sociale tradizionale fra
nobiltà e plebe venne a cadere. Poco a poco, come si è visto, sarebbe accaduto lo stesso a quella fra
cittadini e non cittadini, mentre anche gli schiavi si riducevano progressivamente di numero: non
per questo, tuttavia, si attenuarono le barriere sociali.
La nuova distinzione, ora, passava fra gli "onesti", honestiores, letteralmente "la gente perbene", e
gli "umili", humiliores, letteralmente "quelli che stanno in basso". La prima categoria comprendeva
i membri dei ceti privilegiati (senatori e cavalieri), i grandi funzionari dell'amministrazione, gli alti
ranghi dell'esercito e i soldati al termine della loro carriera, le classi dirigenti locali; la seconda tutti
gli altri. Gli "onesti" e gli "umili" divennero progressivamente diversi di fronte alla legge. Ai primi,
per esempio, non si potevano infliggere punizioni di carattere corporale e la pena massima alla quale potevano essere condannati era l'esilio. Ai secondi si applicava tanto la tortura quanto la pena di
morte, dunque erano cittadini di serie B, a cui restava aperta la possibilità - che, naturalmente, si
concretizzava per pochissimi - di arricchirsi e tentare la scalata sociale, perché i due gruppi erano
rigidamente definiti, ma non chiusi.