UNIONCAMERE UMBRIA CONVEGNO Tendenze recenti e nodi strutturali dell’economia umbra (Perugia, 20 Febbraio 2004) Sintesi della relazione di Bruno Bracalente Quella che presento è una sintesi della relazione che ho preparato per questo convegno e che è stata distribuita. Una relazione che in realtà è un piccolo studio con il quale ho tentato di analizzare in modo organico, anche se non particolarmente approfondito, l’attuale posizionamento relativo dell’economia regionale nell’ambito del Paese, ma soprattutto nell’ambito di quell’insieme di regioni di piccola e media impresa che con l’Umbria più condividono il modello di sviluppo. Posizionamento relativo in termini strutturali, prima di tutto. Perché in questa fase oggettivamente non facile per l’economia nazionale e regionale, mentre stanno cambiando piuttosto radicalmente i caratteri della competizione internazionale, è più che mai necessario ragionare anche dell’economia umbra in termini strutturali, prima che congiunturali. Poi vedremo, nella seconda parte della relazione, quali sono le principali tendenze recenti e come queste vanno lette rispetto ai nodi strutturali dell’economia regionale. Tutte le imprese italiane, grandi e piccole, in questi anni devono rispondere ad un forte inasprimento della pressione competitiva, il che presuppone crescenti aumenti della produttività, che sono stati invece modesti negli ultimi dieci anni. E insieme alla produttività devono crescere anche i livelli di occupazione, che sebbene aumentati negli ultimi 7-8 anni, sono mediamente ancora ben lontani dagli obiettivi fissati dall’Unione europea nell’ambito della cosiddetta strategia di Lisbona. Di fronte a queste sfide, che pongono problemi nuovi anche a quello che finora è stato il principale motore dell’economia italiana, il sistema delle piccole e medie imprese, sappiamo che l’economia regionale ha anche qualche problema in più, che è responsabile di un livello di sviluppo relativamente minore. Il prodotto interno lordo per abitante dell’Umbria nel 2001 è ancora di circa tre punti inferiore alla media italiana, e il divario rispetto alle regioni che con l’Umbria più o meno condividono la modalità di sviluppo è via via maggiore, passando dalle Marche (4%), alla Toscana (circa il 13%), al Veneto (quasi il 16%), all’Emilia Romagna (circa il 23%). Per evitare equivoci è bene ricordare ancora, all’inizio di questa analisi, che l’economia umbra, sia pure in modo irregolare, tra accelerazioni e frenate, ha mostrato nel tempo una tendenza alla convergenza, e non certo alla divergenza, del livello di sviluppo verso i valori medi del paese e di quasi tutte le regioni del centro nord. Non stiamo dunque parlando di un sistema economico strutturalmente incapace di tenere il passo delle economie più dinamiche del paese, come talvolta viene detto. Stiamo parlando di un sistema economico che, è bene ricordarlo, ha avviato il suo sviluppo in condizioni di grande arretratezza e che pur avendo fatto rilevanti progressi negli anni e nei decenni trascorsi è ancora alle prese – è bene ricordare anche questo - con alcuni fattori di relativa debolezza che ne condizionano i risultati. Per questo è necessario porre attenzione ai fattori locali che si aggiungono alle problematiche comuni, valutandone l’effettiva portata e, per quanto possibile, individuandone le cause sottostanti. I differenziali nei livelli di sviluppo regionale sono riconducibili a diversi fattori, che si pongono su piani anche molto diversi soprattutto riguardo alla possibilità di modificarli attraverso le politiche economiche e sociali. Alcuni sono di carattere quasi “naturale”, frutto della storia economica e sociale, sostanzialmente non modificabili se non nel lungo periodo e molto lentamente. E’ il caso della struttura demografica, di cui ci interessiamo poco, che condiziona, tra l’altro, i tassi di attività e di occupazione. Ma in buona misura è anche il caso della composizione settoriale dell’attività produttiva, il modello di specializzazione che si è storicamente determinato, che condiziona la produttività aggregata. Questo invece non di rado viene indicato come fattore strutturale negativo per la produttività e la competitività dell’economia umbra a causa della prevalenza dei settori cosiddetti leggeri. Intanto bisogna chiedersi se e quanto questi fattori sono effettivamente responsabili dei divari di sviluppo della regione, anche se su di essi possiamo fare ben poco. Altri fattori hanno invece a che fare con l’efficienza relativa della modalità di sviluppo che si è storicamente determinata. Ed è soprattutto su questi che occorre riflettere. Perché l’economia umbra, come e più di quella italiana, per un buon numero di anni non migliorerà inventando vocazioni nuove, ma rafforzando le attività in atto e la specializzazione che il mercato e la storia economica hanno determinato. Ma vediamo prima quanto sono effettivamente importanti i fattori strutturali meno modificabili, a partire da quello demografico. Nell’ambito di un paese che ha da tempo nella crisi demografica un problema strutturale rilevante, capace di condizionarne lo sviluppo, l’Umbria come sappiamo ha una struttura demografica ancor meno favorevole. La popolazione in età non di lavoro (fino a 15 anni e oltre 64), e quella delle fasce di età a minore propensione/opportunità di lavoro, nella nostra regione rappresenta una quota sensibilmente maggiore della media nazionale e di quasi tutte le regioni italiane. Da solo questo fattore spiega tutto il divario di Pil per abitante rispetto alla media italiana e più di un terzo del divario rispetto al Veneto, ad esempio. Detto in altri termini, al netto degli effetti “depressivi” derivanti dal fattore demografico, e quindi sulla base della effettiva “forza” del sistema produttivo, il Pil per abitante dell’Umbria del 2001 sarebbe esattamente sul livello medio del paese e più vicino a quello delle altre regioni del centro nord. Il peso negativo del fattore demografico è andato crescendo nel tempo, nonostante che nell’ultimo decennio l’Umbria abbia esercitato una forte attrazione di popolazione, che ha fatto aumentare notevolmente la popolazione residente. Per il futuro, la possibilità che il fattore demografico non spinga verso un ampliamento dei divari e non costituisca una strozzatura per lo sviluppo economico dipende dalla prosecuzione di consistenti afflussi di popolazione dalle altre regioni italiane e dall’estero, oltre che da una maggiore partecipazione al lavoro delle fasce di popolazione oggi più marginali o escluse (donne, anziani). In ogni caso, questo scenario non è senza conseguenze sulla capacità del sistema economico regionale di stare nella nuova competizione fondata sulla qualità del lavoro e del capitale umano. 2 Perché l’introduzione di innovazione nel processo produttivo passa sempre più attraverso le forze di lavoro giovani e istruite. Il che chiama in causa la necessità di predisporre e attuare specifiche politiche, che sul fronte dell’immigrazione devono essere non solo di integrazione, ma anche di formazione e qualificazione professionale degli immigrati. L’altro fattore scarsamente modificabile, e che quindi dovremmo “rassegnarci” a considerarlo come un dato di fatto, è la composizione settoriale dell’economia (il modello di specializzazione). Che da tempo non è più semplicemente riconducibile allo vecchio schema dualistico piccola impresa dei settori leggeri nel perugino, grande impresa dei settori di base nel ternano. Quello umbro è uno sviluppo fondato su più assi o pilastri. Sui settori manifatturieri leggeri, che sono stati i principali protagonisti dell’industrializzazione e dello sviluppo regionale del dopoguerra. Ma anche, in tempi più recenti, sulle risorse territoriali che sono anch’esse parte del modello italiano di sviluppo e che stanno assumendo un’importanza crescente proprio in questa parte del paese, nell’Italia centrale. Di queste risorse territoriali, per un verso l’agricoltura (non solo quella dei prodotti tipici) per un altro il turismo sono importanti fattori di integrazione e di valorizzazione economica. Poi ci sono gli insediamenti produttivi nei settori di base delle grandi imprese multinazionali sui quali è fondata l’economia ternana, la cui integrazione con il resto del sistema, storicamente debole, è andata peraltro aumentando, in particolare nel settore metalmeccanico. Considerare debole questa composizione dell’economia, sfavorevole per lo sviluppo perché per una parte largamente prevalente privilegia settori a minore produttività, è un po’ semplicistico. Anche in termini di contabilità dello sviluppo, diciamo così. Perché ciò che quella composizione fa perdere in termini di produttività aggregata (poco per la verità) lo fa recuperare in termini di tassi di occupazione. Del resto, la vicenda dell’industria siderurgica ternana dimostra che, per diverse ragioni sia di mercato che di politica industriale nazionale, il principale problema strutturale riguarda da tempo proprio la componente dell’economia regionale caratterizzata da più elevata produttività del lavoro. I problemi non nuovi della siderurgia ternana suggeriscono anche un’altra considerazione. Dettata dal fatto che mentre torna la minaccia di un ridimensionamento di quella storica attività produttiva, parallelamente sembrano ridimensionarsi anche le aspettative di nuovo sviluppo riposte nelle più innovative e più “discontinue” politiche di diversificazione produttiva realizzate per la riconversione delle aree di crisi industriale, ovvero per affrontare proprio quel nodo strutturale. Su questo punto c’è più di una riflessione da fare. Riguardo alla oggettiva difficoltà di innestare nuovi settori e inventare nuove “vocazioni”, che tuttavia in una realtà come quella ternana per le prospettive a lungo termine resta una strada obbligata. Ma forse anche riguardo alla esperienza fatta nella nostra regione proprio negli interventi pubblici più mirati e meno diffusi nel sistema produttivo, per i quali la fase della gestione e i risultati concretamente prodotti sono stati non di rado deludenti rispetto alle ambizioni e alla qualità della fase della progettazione. Detto questo, veniamo al punto centrale delle problematiche strutturali dell’economia umbra, ovvero ai fattori che sono il riflesso di qualche problema di efficienza relativa che il sistema umbro presenta nell’ambito degli stessi sistemi regionali di piccola e media impresa. Problemi di efficienza relativa che riguardano alcune parti del sistema, non tutto il sistema, e che però si traducono complessivamente in minore produttività e anche in minori tassi di occupazione. 3 Anche al netto della composizione settoriale, la produttività dell’economia in Umbria è infatti di oltre quattro punti percentuali minore della media del paese, mentre il differenziale è maggiore rispetto alle altre regioni di raffronto (ad eccezione delle Marche, che però ha tassi di occupazione molto più alti). In ogni caso, i differenziali di produttività spiegano più di un terzo del divario di sviluppo nei confronti sia della Toscana, che dell’Emilia Romagna e del Veneto. Il problema riguarda in particolare alcuni settori tipici dell’industria leggera regionale, specialmente quelli della moda, della meccanica, della grafica, ma anche l’industria delle costruzioni e alcuni settori del terziario, a partire dal settore creditizio (il che in parte spiega anche il maggior costo del denaro nella nostra regione) e compreso il commercio. Invece, sia l’agricoltura, per un verso, sia l’industria alimentare e quella siderurgica e chimica (dove è dominante il ruolo della grande impresa ed è maggiore l’intensità di capitale) presentano livelli di produttività del lavoro in linea o superiori a quelli medi del paese e delle altre regioni del centro nord. La ricerca delle cause sottostanti a questo parziale disallineamento della produttività dell’economia regionale ha portato da tempo a ragionare su diverse questioni: la dimensione delle unità produttive, la densità e qualità delle reti di relazioni tra imprese, la dotazione di infrastrutture economiche. Le richiamo brevemente per cercare di precisare meglio qualche aspetto. La dimensione media delle nostre imprese è piuttosto bassa, in parte anche a confronto con altri sistemi produttivi regionali di piccola e media impresa. Le differenze dipendono dalla composizione del sistema delle piccole e medie imprese, nelle quali hanno un peso relativamente minore quelle dimensionalmente più solide, mentre il peso delle micro imprese con meno di 10 addetti è molto maggiore. Le differenze sono rilevanti non solo nei confronti dell’Emilia e del Veneto ma, per l’industria leggera, anche nei confronti delle Marche. Questo è un aspetto rilevante della “questione dimensionale”, perché dal raggiungimento di una dimensione non proprio minima dipende la capacità delle stesse imprese minori di introdurre gli elementi più significativi di innovazione e quindi di conquistare più elevati livelli di efficienza e produttività. Anche per questo, la produttività del lavoro cresce notevolmente passando dalle micro imprese di 19 addetti alle piccole imprese di 10-49 addetti. E dal punto di vista macro-economico, l’impatto sulla produttività aggregata è molto rilevante, dato che le micro imprese in Umbria assorbono quasi il 60% dell’occupazione complessiva (circa il 50% in Italia) e quasi un terzo di quella manifatturiera. Peraltro la tendenza recente non è verso un rafforzamento dimensionale delle micro imprese, ma verso una maggiore polverizzazione. Sempre a livello nazionale, dal 1996 al 2000 le micro imprese e le piccole imprese che hanno ridotto il numero di addetti e sono passate ad una classe dimensionale inferiore sono state, infatti, molto più numerose di quelle che hanno modificato la dimensione nella direzione opposta. Una tendenza prevalente verso l’incremento di dimensione ha invece caratterizzato l’evoluzione delle medie imprese italiane. Insomma c’è una accresciuta dicotomia nell’ambito delle stesse piccole e medie imprese, rilevata anche per la nostra regione dall’indagine strutturale di Sviluppumbria del 2000, che segnala anche una qualche contraddizione con il ruolo di vitale serbatoio di imprenditorialità in crescita che le micro imprese hanno sempre svolto nei sistemi produttivi ad economia diffusa. 4 E queste tendenze non sono senza implicazioni sulle politiche per il rafforzamento dimensionale del sistema produttivo, che sembrano destinate ad avere più successo se volte a sostenere e accelerare il rafforzamento delle imprese più solide. Mentre per le micro imprese è il caso di prendere atto del loro oggettivo peso e pensare a politiche che tendano a rafforzarne per altra via l’efficienza e la produttività. Qualche cenno anche sulle reti di relazioni tra imprese. Una forma indubbiamente rilevante per la competitività aziendale è la costituzione di gruppi di imprese, perché consente di concentrare, rafforzandole, alcune funzioni (dalla finanza alla funzione commerciale), oppure di raggiungere la dimensione critica per svolgere attività tipiche delle grandi imprese (in particolare la ricerca e sviluppo). In Umbria questi legami “forti” tra imprese sono tutto sommato piuttosto diffusi, anche se meno che nella media del paese. Quasi un quarto delle società di capitali appartengono infatti ad un gruppo (anno 1999) e la percentuale è maggiore sia rispetto alla Toscana che alle Marche. Da questo punto di vista la parte più solida del sistema delle imprese umbre non sembra manifestare dunque, almeno in prima approssimazione, debolezze maggiori delle altre regioni. Un po’ minore sembra invece la diffusione di quei legami “flessibili”, realizzati attraverso collaborazioni, accordi e consorzi, particolarmente presenti soprattutto nelle realtà distrettuali. Il problema è tuttavia più qualitativo che quantitativo e riguarda in particolare la tipologia prevalente dei rapporti di sub-fornitura, diversa peraltro da settore a settore: modesta nel tessile e abbigliamento, dove in Umbria sono largamente prevalenti le imprese sub-fornitrici con funzioni puramente esecutive, migliore nella meccanica, dove è diffusa la “sub-fornitura di specialità”. In ogni caso, anche se vi sono molte distinzioni da fare, il punto più rilevante è che il sistema produttivo regionale si è venuto specializzando prevalentemente nelle fasi manifatturiere, anche ad elevata qualità, ma in genere stenta a presidiare i segmenti delle diverse filiere del made in Italy a maggiore valore aggiunto, come confermano anche le valutazioni contenute nell’ultimo rapporto dell’Unioncamere sulle economie locali. E anche qui l’obiettivo realistico delle politiche pubbliche non può che essere il rafforzamento delle reti relazionali di cui il sistema di imprese già dispone. Sia quelle più “corte” per intensificare la connettività dei sistemi produttivi locali, sia quelle più “lunghe” plurilocalizzate, per integrare di più il sistema produttivo regionale con quello “sovraregionale”, e per sviluppare un maggiore grado di internazionalizzazione dell’economia regionale. Infine le infrastrutture. Non c’è dubbio che sui divari di produttività dell’economia umbra incidono anche le minori economie esterne derivanti da una storica sottodotazione di infrastrutture economiche. Il divario è rilevante soprattutto rispetto a Emilia e Veneto, ma anche rispetto a Toscana e Marche. Sulle infrastrutture occorre però fare qualche considerazione anche di carattere qualitativo, per così dire, sul mix di interventi capace di rispondere alla effettiva domanda proveniente dalle imprese e dal territorio, ovvero alle effettive esigenze attuali e soprattutto future del modello di sviluppo regionale. Servono indubbiamente infrastrutture materiali, in particolare stradali per il collegamento trasversale della regione, ma anche ferroviarie e aeroportuali. Ma servono anche infrastrutture 5 immateriali di comunicazione, per lo sviluppo del terziario e più in generale per il nuovo sviluppo, anche manifatturiero. E poi non bisogna dimenticare che uno sviluppo che ha anche nelle risorse ambientali e territoriali, nell’economia turistica e della cultura fondata sulla fruizione delle città e del territorio, un asse sempre più importante richiede interventi infrastrutturali relativamente più leggeri, ambientalmente sostenibili e, per quanto riguarda le infrastrutture viarie, interventi non solo di collegamento esterno, ma rivolti anche alla accessibilità interna dell’Umbria delle città. Detto questo sulla produttività e sui fattori che la condizionano, per completare il ragionamento di carattere strutturale che mi sono proposto manca solo qualche considerazione sui tassi di occupazione. Nelle realtà di piccola impresa e di industrializzazione leggera, la minore produttività aggregata viene in genere largamente compensata da più elevati tassi di occupazione. Questo in buona parte è vero anche per la nostra regione. Depurato degli effetti della composizione demografica, il tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro è infatti, sempre nel 2001, di otto punti percentuali più elevato della media italiana. Tuttavia, in Umbria il tasso di occupazione è ancora sensibilmente minore di quelli di tutte le regioni di raffronto, tanto che la sua incidenza nella spiegazione dei divari di Pil per abitante è, mediamente, di poco inferiore a quella della produttività. In particolare, il minore tasso di occupazione è responsabile di tutto il divario di Pil pro capite che separa la nostra regione dalle Marche ed è la principale determinante del divario rispetto all’Emilia Romagna. Nonostante i progressi compiuti, c’è dunque ancora un divario da colmare anche nei tassi di occupazione. Il problema riguarda principalmente la fascia di età a cavallo del periodo di pensionamento (55-64 anni) e poi i giovani (20-34 anni) di entrambi i sessi, ma soprattutto le donne, per le quali i differenziali dei tassi di occupazione rispetto all’Emilia o al Veneto raggiungono anche i 10-15 punti percentuali. Il nodo strutturale è in larga misura sul lato della domanda di lavoro espressa dal sistema economico e richiama il problema dell’ampiezza, e in parte della composizione, della base produttiva regionale. Se in diverse regioni italiane, in particolare in quelle del nord est, ormai non c’è più spazio (fisico e di offerta di lavoro) per la crescita quantitativa, l’Umbria ha invece ancora una base produttiva quantitativamente troppo ristretta, sia nell’industria che nei servizi. Poi c’è anche qualche problema di composizione “qualitativa” (in parte emerso anche dalle analisi precedenti) che si riflette sulle opportunità di lavoro qualificato per i giovani, che in Umbria sono ormai tutti almeno diplomati. Qui si conclude la rassegna dei fattori locali, come li ho chiamati all’inizio, che spiegano perché il livello di sviluppo economico dell’Umbria all’inizio degli anni 2000, nonostante un lungo percorso di avvicinamento, è ancora minore di quello di altre regioni più o meno simili quanto a modello di sviluppo. Alcuni, come il fattore demografico non hanno a che fare con la forza del sistema economico, altri invece indicano il persistere di problemi di efficienza relativa presenti in parti del sistema umbro. E veniamo ora alle tendenze più recenti dell’economia regionale. 6 Gli anni successivi al 2001 sono stati caratterizzati da un forte rallentamento dell’economia italiana, che non ha risparmiato la nostra regione. Le dinamiche umbre sono state tuttavia per alcuni versi differenti rispetto all’andamento sia del Paese nel suo complesso, sia delle regioni più simili, come la Toscana e le Marche. Vediamo separatamente i diversi aspetti per i quali le informazioni statistiche ci consentono di avere delle indicazioni sufficientemente fondate, a partire dalle tendenze dell’occupazione. Dal 2001 il numero di occupati in Umbria è rimasto sostanzialmente costante, con una riduzione nel 2002 e un successivo recupero nell’anno appena trascorso. Costante sia nell’industria che nei servizi. Sono invece cresciuti gli occupati alle dipendenze, di circa 6 mila unità, a scapito degli autonomi, diminuiti dello stesso ammontare. Il quadro nazionale e interregionale da questo punto di vista è di maggiore dinamicità complessiva, ma soprattutto nel settore dei servizi. Nel terziario la crescita è infatti continuata con notevole intensità sia in Toscana (+5.5%) che nelle Marche (+ 5.1%), mentre nell’insieme del Paese l’incremento di occupati è stato del 3%. La sostanziale stazionarietà dell’occupazione industriale invece non si discosta molto dall’andamento medio nazionale, ma le Marche continuano a crescere, mentre in Toscana in questi ultimi due anni l’occupazione industriale si è ridotta in misura consistente (-4%). Insomma, al di là dei problemi dell’industria, che alcune gravi emergenze aziendali o settoriali portano in primo piano, accomunando l’Umbria ai problemi del paese, questi dati segnalano una specifica, e un po’ anomala, difficoltà nel composito comparto dei servizi, sulle cui cause occorre riflettere attentamente, perché nei servizi non meno che nell’industria l’Umbria ha necessità di ampliare la sua base produttiva. L’altra faccia di queste dinamiche è che il tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro in Umbria nell’insieme dei due anni si è ridotto leggermente, per effetto di una diminuzione nel 2002 in parte recuperata nel 2003. Anche il tasso di disoccupazione è leggermente diminuito (perché è diminuito il tasso di attività), portandosi sul 5.2%. In Toscana è diminuito un po’ di più, ma i progressi più rilevanti li ha compiuti le Marche, dove il tasso di disoccupazione (3.8% nel 2003, ma 3.4% nel secondo semestre) è ormai sui livelli delle regioni del Nord Est. Le dinamiche imprenditoriali, misurate tramite il tasso netto annuo di variazione delle imprese iscritte ai registri delle camere di commercio sostanzialmente confermano il quadro. Fanno però emergere anche qualche maggiore difficoltà umbra nei settori tipici dell’industria leggera e forse aiutano a fare un po’ di luce sulle componenti del terziario che sono responsabili dell’attuale congiuntura negativa segnalata dall’andamento dell’occupazione, ma confermata anche dai dati sul valore aggiunto. Nell’ambito del terziario gli scostamenti più rilevanti nei confronti della media del paese e delle altre regioni si osservano, sia nel 2002 che nel 2003, soprattutto in due settori. Il primo è quello dei servizi avanzati alle imprese, in particolare nelle attività informatiche, immobiliari, libere professioni, ricerca ecc. (E forse anche la riduzione di lavoratori autonomi potrebbe essere un altro indizio della difficoltà di questo importante comparto). Il secondo è quello delle attività legate al turismo, ovvero alberghi e ristoranti (e nell’ultimo anno anche il commercio). Sono solo indizi, ma è il caso di segnalarli. 7 Vediamo ora le esportazioni, i cui dati sono invece certamente più solidi. E in generale anche migliori. In una fase di calo progressivo e molto accentuato delle esportazioni del paese, soprattutto di quelle verso i paesi UE, le esportazioni regionali, dopo un risultato meno positivo nel 2001, hanno mostrato una migliore dinamica soprattutto nel 2002 (un aumento del 6% in valore contro una riduzione dell’1,4% delle esportazioni nazionali). Peraltro, anche nei primi tre trimestri del 2003 la dinamica delle esportazioni umbre, pur negativa (-3.4%), è stata migliore di quella media nazionale (-4.6%) e anche di quella di Marche e Toscana. Sia pure “in discesa”, in questi ultimi due anni c’è stato dunque un leggero recupero del divario negativo che caratterizza da sempre la propensione all’esportazione dell’economia umbra. Tuttavia, va tenuto presente che tra i principali settori esportatori della regione i risultati migliori, sia nel 2002 che nel 2003, sono stati conseguiti proprio da quel settore siderurgico ternano che oggi è al centro delle preoccupazioni della comunità regionale e che da solo rappresenta un quarto del valore delle esportazioni regionali. Di conseguenza, i risultati presentano qualche ombra in più se l’analisi viene limitata ai principali settori tipici dell’industria umbra di piccola e media impresa. Relativamente ai quali i tassi di crescita delle esportazioni sono infatti un po’ minori di quelli del paese e su valori intermedi tra quelli delle Marche (maggiori) e quelli della Toscana (minori). Insomma, pur con un andamento complessivo delle esportazioni tutto sommato incoraggiante, l’economia umbra non si può dire estranea alle difficoltà delle esportazioni italiane, soprattutto verso il mercato europeo, nel quale si è fatta particolarmente aggressiva la competizione dei paesi emergenti proprio nei prodotti del made in Italy, dove infatti l’Italia ha perso negli ultimi anni rilevanti quote di mercato. I problemi della siderurgia ternana sono un capitolo a sé, ma è evidente che dalla sua prospettiva dipende anche una parte significativa delle esportazioni regionali. Infine i conti economici regionali, i cui ultimi dati consolidati si riferiscono però all’ormai lontano 2001. In quell’anno il Pil dell’Umbria è cresciuto dell’1.5%, un po’ al di sotto sia della media italiana (1.8) che delle Marche (2.1%) e della Toscana (1.7%). Per conoscere il risultato del 2002 con un sufficiente grado di precisione bisognerà aspettare il prossimo mese di novembre, ma intanto l’Istat ha diffuso di recente una stima provvisoria secondo la quale la crescita del Pil dell’Umbria è allineata a quella nazionale (0.4%) ed è un po’ superiore a quelle della Toscana (0.1%) e delle Marche (0.2%). Una qualche coerenza con le indicazioni delle analisi precedenti la troviamo soprattutto nella composizione settoriale della crescita del Pil, che sia nel 2001 sia nel 2002 appare come la risultante di una dinamica relativamente più positiva del valore aggiunto dell’industria e di una meno positiva di quello dei servizi, mentre l’agricoltura ha subito una forte flessione nel 2001, compensata in parte da una ripresa nell’anno successivo. Qualche parola per concludere. E’ evidente che il forte rallentamento ai limiti della stagnazione che ha caratterizzato gli ultimi due anni dell’economia italiana non potevano non riflettersi sull’economia umbra. Le indicazioni provenienti dall’analisi delle tendenze recenti dell’economia regionale mostrano tuttavia anche qualche problema specifico, che riguarda principalmente l’ampio settore dei servizi privati (e forse 8 in particolare alcune sue componenti importanti per la nostra economia, così almeno ci dicono alcuni indizi). L’industria rispecchia di più le tendenze nazionali, che sono quelle di una fase non positiva sia per l’industria di base che per il settore del made in Italy e della manifattura leggera, dove infatti anche le imprese e le esportazioni regionali mostrano segni di difficoltà. E’ ovvio che da una fase oggettivamente non positiva, come quella che l’economia regionale non meno di quella nazionale ha attraversato in questi ultimi anni, non potevano derivare miglioramenti sul piano strutturale o passi in avanti sulla strada dell’avvicinamento ai parametri delle altre regioni che con l’Umbria più condividono la modalità di sviluppo. I nodi che nella prima parte della relazione sono stati richiamati e analizzati, che riguardano tanto l’ampiezza della base produttiva e i tassi di occupazione quanto la produttività del sistema delle piccole e medie imprese, permangono quali punti prioritari sui quali indirizzare le azioni programmatiche concertate e da concertare tra istituzioni e forze sociali nell’ambito del Patto per lo sviluppo e sollecitare l’impegno diretto delle stesse imprese. D’altra parte, i problemi strutturali dell’economia umbra, se per intensità presentano ancora il carattere di un divario da colmare o da ridurre, che richiede l’intensificazione di uno sforzo aggiuntivo della comunità regionale, per qualità sono però in gran parte gli stessi che sono davanti a tutta l’economia italiana, sebbene con modalità diverse nelle sue diverse articolazioni territoriali. Per questo, insieme all’impegno delle imprese e dei soggetti sociali e istituzionali della nostra regione, occorre anche una politica economica nazionale capace di affrontare i vecchi e nuovi problemi della competitività del sistema industriale, e più in generale del sistema produttivo nazionale, anche con politiche direttamente rivolte al sistema produttivo e modulate sulle esigenze differenziate delle diverse varianti territoriali del modello italiano di sviluppo. 9