Bucarelli - Aldo Moro e la Westpolitik jugoslava

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Massimo Bucarelli
Aldo Moro e l’Italia nella «Westpolitik»jugoslava degli anni Sessanta.
(In: ITALO GARZIA, LUCIANO MONZALI, MASSIMO BUCARELLI, Aldo moro, l’Italia repubblicana e i
Balcani, Nardò, Besa - Salento Books, 2011, pp. 115-160)
1. Tra vecchie ostilità e nuovi antagonismi: il difficile dopoguerra adriatico
Nel corso degli anni Sessanta del Novecento, nel lessico politico in uso tra la classe dirigente
jugoslava per descrivere lo stato dei rapporti con l’Italia sembrò consolidarsi l’impiego di
espressioni e concetti innovativi - se non addirittura rivoluzionari - rispetto alla tormentata e sofferta
storia delle relazioni tra le due sponde dell’Adriatico nella prima metà del XX secolo. All’interno
degli ambienti politici e diplomatici della Federazione socialista jugoslava, nel sottolineare il
carattere positivo delle relazioni con l’Italia, si era soliti definirle un “modello di collaborazione
pacifica tra paesi retti da sistemi politico-sociali differenti ed appartenenti alla medesima area
geografica”; per rimarcare l’intensità e la ricchezza degli scambi economici, commerciali e
culturali, il confine italo-jugoslavo veniva presentato come “la frontiera più aperta al mondo”;
mentre la presenza di una minoranza nazionale italiana all’interno del territorio jugoslavo non era
più considerata una fonte di tensioni e preoccupazioni, ma un’opportunità politica, un vero e proprio
“ponte” tra i due popoli1.
Eppure è noto che a Belgrado, fino a pochi anni prima, ben altra era stata la considerazione della
politica italiana nel suo complesso e del ruolo che i governi di Roma avevano avuto nel
condizionare le scelte compiute dalla Jugoslavia in ambito internazionale e in politica interna; così
come ben differente era stato il giudizio sul contributo che il gruppo etnico italiano in Istria e
Dalmazia aveva assicurato alla cooperazione tra le due sponde adriatiche. Contenziosi territoriali,
rivalità politiche, scontri nazionali, velleitarie aspirazioni di potenza, diversità sociali e
contrapposizioni ideologiche avevano per decenni diviso le due popolazioni e scavato un solco
profondo tra le rispettive classi dirigenti. Le incomprensioni, le polemiche e le ostilità erano state di
1
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e il Ministro degli Affari Esteri italiano,
Antonio Segni, Vanga (Isole Brioni) 1° luglio 1961, AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144; Appunto sul colloquio tra il
Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e il ministro degli Affari Esteri italiano, Pietro Nenni, Belgrado, 28
maggio 1969, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145; Documenti preparatori per i colloqui con il Presidente della
Repubblica italiana, Giuseppe Saragat, a cura del Segretariato di Stato per gli Affari Esteri, “Segretissimo”, 17
settembre 1969, ivi; Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e il Presidente della
Repubblica italiana, Giuseppe Saragat, alla presenza del ministro degli Affari Esteri italiano, Aldo Moro, Belgrado, 3
ottobre 1969, ivi. Anche: Appunto sul colloquio tra il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e l’ambasciatore jugoslavo a
Roma, Srdja Prica, Roma, 27 febbraio 1970, in ACS, AAM, b. 141. Inoltre: G. W. MACCOTTA, La Iugoslavia di ieri e
di oggi, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», 1988, n. 2, p. 232; A. CAVAGLIARI, Jugoslavia: ricordi di
un’ambasciata (1977-1980), in Professione:diplomatico, a cura di E. SERRA, Milano, 1990, p. 45. Per uno sguardo
d’insieme dei rapporti italo-jugoslavi nel dopoguerra, si veda: L. MONZALI, La questione jugoslava nella politica estera
italiana dalla prima guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-1975) in F. BOTTA, I. GARZIA (a cura di), Europa
adriatica. Storia, relazioni, economia, Roma-Bari 2004, pp. 36 ss.
una gravità e di un’intensità tali che, per tanto tempo, l’Italia era stata percepita come un fattore
ampiamente negativo nel divenire della storia jugoslava.
Dopo i difficili anni del periodo interbellico, allorché la convivenza etnica e la stabilità
istituzionale del già travagliato e debole Stato jugoslavo erano state messe a dura a prova dalle
manovre del regime fascista, e dopo gli anni bui della seconda guerra mondiale, segnati
dall’aggressione italiana e dalla disgregazione della Jugoslavia monarchica, la nascita di una nuova
Italia repubblicana e democratica non era stato motivo sufficiente per produrre una pacificazione tra
le due sponde dell’Adriatico; né il ridimensionamento della presenza italiana nei Balcani, imposto
dalla sconfitta militare e dal trattato di pace del 19472, aveva placato i timori e le preoccupazioni di
Belgrado. Tutt’altro. All’interno della Jugoslavia federale e socialista, sorta dalla macerie della
seconda guerra mondiale e guidata dal leader del partito comunista, Josip Broz ‘Tito’, l’avversione
alla politica italiana e all’elemento nazionale italiano aveva rappresentato una delle principali spinte
centripete per la rinascita di uno Stato unitario degli Slavi del sud. Terminato il conflitto mondiale,
ma scoppiata la guerra fredda e sviluppatosi il confronto bipolare, alle questioni territoriali ereditate
dagli avvenimenti bellici (come la sistemazione della questione di Trieste e la definitiva
delimitazione dei confini settentrionali tra i due paesi), ad acuire il senso di ostilità nei confronti
dell’Italia si era aggiunto il contrasto determinato dalle opposte scelte di fondo in campo
internazionale e in ambito politico, economico e sociale. In buona sostanza, per l’opinione pubblica
jugoslava e per la nuova classe dirigente di Belgrado, gli Italiani rappresentavano degli avversari
dal punto di vista nazionale, dei rivali sul piano politico e, da ultimo, degli antagonisti a livello
ideologico. Gli Italiani erano nemici perché avevano rivendicato (e in parte ancora rivendicavano)
terre abitate da popolazioni jugoslave, perché avevano coltivato mire egemoniche sulle nazioni
balcaniche e perché erano passati dal fascismo al capitalismo anticomunista3.
Le difficoltà delle relazioni politiche erano continuate anche dopo che il governo jugoslavo, in
conseguenza della rottura con l’Unione Sovietica e dell’espulsione dal Cominform nel 1948, si era
avvicinato sensibilmente alle potenze occidentali, diventando una sorta di stato «cuscinetto» tra i
due blocchi in cui si era divisa l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale4. Anzi, le
2
Come è noto il trattato di pace, firmato il 10 febbraio del 1947, stabiliva - per quel che concerneva i confini orientali
italiani - che tutto il territorio della Venezia Giulia a est della linea Tarvisio–Monfalcone fosse assegnato alla Jugoslavia
ad eccezione di una ristretta fascia costiera comprendente Trieste, occupata dagli anglo-americani, e Capodistria, sotto
occupazione jugoslava; questa fascia costiera avrebbe costituito uno stato cuscinetto, il Territorio Libero di Trieste, da
erigersi formalmente attraverso la nomina di un governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Si veda: B.
CIALDEA, M. VISMARA (a cura di), Documenti della pace italiana, Roma 1947, pp. 40 ss.
3
A. G. DE ROBERTIS, Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, 1983; Roma-Belgrado. Gli anni della
guerra fredda, a cura di M. GALEAZZI, Ravenna, 1995; Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, a cura di
G. VALDEVIT, Venezia, 1997, passim; R. PUPO, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano 2005, p.
61 ss.
4
J. PIRJEVEC, Il gran rifiuto. Guerra fredda e calda tra Tito, Stalin e l’Occidente, Trieste, 1990; Jugoslovenski-sovjetski
sukob 1948. Godine. Zbornik radova sa Naučnog Skupa, a cura di INSTITUT ZA SAVREMENU ISTORIJU, Belgrado, 1999.
incomprensioni erano forse aumentate, perché l’opposizione antijugoslava condotta dal Partito
comunista italiano, in applicazione delle direttive decise a Mosca dai leader sovietici, si era andata
ad aggiungere a quella della maggioranza di governo centrista (caratterizzata dal ruolo
predominante dalla Democrazia cristiana, con la partecipazione di socialdemocratici, repubblicani e
liberali), rendendo l’antijugoslavismo patrimonio comune dei maggiori partiti dell’arco
costituzionale5.
Né si erano avvertiti concreti segnali di disgelo dopo la sistemazione data, su diretto impulso
degli anglo-americani, alla questione di Trieste con il memorandum di Londra del 1954, che di fatto
stabiliva la spartizione del mai costituito Territorio Libero di Trieste (TLT), affidando
l’amministrazione della Zona A con Trieste alle autorità italiane e della Zona B a quelle jugoslave6.
A Belgrado e a Roma si erano maturate opinioni diametralmente opposte sul significato e la portata
dell’intesa appena raggiunta. Per gli uomini di governo italiani, si era trattato di una soluzione
provvisoria, che non prevedeva alcuna cessione definitiva di sovranità e che lasciava sussistere
intatta la teorica aspirazione di un futuro ritorno all’Italia di tutto il territorio destinato al TLT e non
soltanto di Trieste e della Zona A7. Al contrario, per Belgrado l’accordo del 1954 aveva
rappresentato la chiusura di fatto della vertenza territoriale. Per Tito e la dirigenza jugoslava, il
sacrificio di Trieste, nonostante implicasse la rinuncia alle rivendicazioni territoriali avanzate con
tanta insistenza e forza alla fine della seconda guerra mondiale8, si era reso necessario per
stabilizzare il confine occidentale e rafforzare la sicurezza nazionale. Pur essendo convinto che
Sull’avvicinamento al blocco occidentale: B. HEUSER, Western «Containment» Policies in the Cold War. The Yugoslav
Case 1948-1953, Londra 1989; L. M. LEES, Keeping Tito Afloat. The United States, Yugoslavia, and the Cold War,
University Park (PA) 1997; D. BOGETIĆ, Jugoslavija i Zapad 1952-1955. Jugoslovensko približavanije NATO-U,
Belgrado 2000; I. LAKOVIĆ, Zapadna vojna pomoč Jugoslaviji \951-1958, Podgorica, 2006.
5
Anton Vratuša al Comitato Centrale del PCJ, Roma, 9 luglio 1948, Rapporto s. n.; Il ministro jugoslavo a Roma,
Mladen Iveković a Tito e a Kardelj, Roma, 25 marzo 1949, Rapporto “Segretissimo” n. 28/49, in AJ, CK SKJ, KMOV
(48/1 – 57 – 131), b. 2, ff. 72 e 85; Appunto sul colloquio tra il ministro jugoslavo a Roma, Mladen Iveković e il
ministro degli Affari Esteri italiano, Carlo Sforza, 22 aprile 1950, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 23, f. 70. Anche. M.
ZUCCARI, Il dito sulla piaga. Togliatti e il PCI nella rottura tra Tito e Stalin 1944-1957, Milano, 2008, pp. 169 ss.; P.
KARLSEN, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, Gorizia, 2010, pp. 198 ss.
6
Sulla questione di Trieste, soprattutto nei suoi sviluppi tra il 1945 e il 1954, esiste ormai un’ampia bibliografia; si
ricordano: D. DE CASTRO, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste,
1981, 2 voll.; J.-B. DUROSELLE, Le conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, 1966; A. G. DE ROBERTIS, Le grandi
potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, 1983; M. DE LEONARDIS, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del
problema di Trieste (1952-1954), Napoli, 1992; P. PASTORELLI, Origine e significato del Memorandum di Londra, in
«Clio», 1995, n. 4; B. NOVAK, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1996; D. BOGETIĆ,
Tršćanska kriza 1945-1954. Vojno-politički aspekti, Belgrado 2009.
7
Brevi note sullo “Status” di Trieste (Zona A) e della Zona B, appunto “riservatissimo” di Manlio Castronuovo, Roma
11 gennaio 1964, allegato a Castronuovo a Giovanni Fornari, l. personale, Roma, 11 gennaio 1964, in ACS, AAM, b.
77, f. 215, s.f. 1.
8
Nota del Ministero degli Affari Esteri all’Ambasciata dell’Unione Sovietica, Belgrado, 4 settembre 1945; Nota del
Governo della Federazione Democratica di Jugoslavia al Governo dell’Unione Sovietica, Belgrado, 5 settembre 1945;
Memorandum della Federazione Democratica di Jugoslavia sulla questione della Marca Giuliana e degli altri territori
jugoslavi in Italia, 6-7 settembre 1945; Ljuba Leontić a Edvard Kardelj, Londra, 9 luglio e 15 agosto 1945, l.
“Segretissimo”; Kardelj a Tito, Londra, 22 settembre 1945, Rapporto, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 20., ff. 23, 24 e
27.
Trieste appartenesse allo spazio etnico ed economico sloveno, il leader jugoslavo riteneva ormai
impossibile arrivare alla città giuliana, perché l’Italia poteva contare sull’alleanza delle potenze
occidentali e perché la Jugoslavia aveva bisogno del sostegno anglo-americano per contenere la
minaccia e le pressioni del blocco orientale. Anticipando di molti anni le stesse conclusioni cui
sarebbero giunti Aldo Moro e alcuni diplomatici italiani a lui vicini, Tito non riteneva ipotizzabile
ottenere Trieste con il consenso, né tanto meno con la forza, perché “nessuno al mondo” avrebbe
dato il proprio “appoggio morale” a un’operazione simile. Era necessario, quindi, essere realisti e
garantirsi il sicuro possesso della Zona B e di Koper/Capodistria, il cui sviluppo infrastrutturale
avrebbe dato nel lungo periodo un maggiore vantaggio strategico e maggiori opportunità
economiche. Tito, infatti, era convinto che il tempo fosse dalla parte dei popoli jugoslavi, perché
più giovani e attivi della nazione italiana: in cento anni, gli Jugoslavi erano arrivati nei pressi di
Trieste ed erano ancora nel pieno della loro fase espansiva, mentre gli Italiani avevano perso
capacità d’iniziativa e spinta propulsiva: “Loro sono destinati ad arretrare lentamente – aveva
affermato il leader jugoslavo nel novembre del 1953 ad una delegazione degli Sloveni residenti
nella Zona A - , mentre noi avanziamo. Non hanno alcuna possibilità di riprendere la marcia in
avanti, mentre noi siamo un nuovo Stato che cresce”9. Tuttavia, in quel momento, la situazione
internazionale non era favorevole alla Jugoslavia o, almeno, non lo era in misura tale da poter
rivendicare ancora Trieste e contemporaneamente continuare a dipendere dal sostegno degli angloamericani. Era bene, quindi, chiudere la vertenza, eliminare ogni focolaio di tensione sul fronte
occidentale, rafforzare il possesso di fatto di Capodistria e rivolgere le proprie attenzioni verso il
blocco orientale; passi ritenuti necessari per completare l’edificazione della via jugoslava al
socialismo e rendere più salda la presa del regime all’interno del paese.
Nel ragionamento di Tito, era presente ovviamente anche un altro lato della medaglia: se la
Jugoslavia aveva dovuto prendere atto dell’impossibilità di andare oltre il controllo della Zona B,
allo stesso modo per gli Italiani non sarebbe mai stato possibile sperare di avere qualcosa in più di
della Zona A. Per Belgrado, esisteva un rapporto di reciprocità tra le rinunce jugoslave e quelle
italiane: al sacrificio di Trieste da parte di Belgrado doveva corrispondere quello italiano di
Capodistria e ogni eventuale modifica della linea di demarcazione doveva essere effettuata sulla
base di un’equa compensazione territoriale10. Solo l’accettazione di tale assioma avrebbe permesso
9
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e una delegazione di rappresentanti degli
Sloveni della Zona A del TLT, alla presenza del vicepresidente del Consiglio Esecutivo federale, Edvard Kardelj,
Belgrado, 8 novembre 1953, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Anche: D. BOGETIĆ, Jugoslavija i Zapad, cit., pp. 124
ss.; N. TROHA, Yugoslav Proposal for the Solutions of the Trieste Question Following the Cominform Resolution, in
Yugoslavia in the Cold War, a cura di J. FISCHER, A. GABRIĆ, L. GIBIANSKII, E. S. KLEIN, R. W. PREUSSEN, Lubiana
2004, pp. 161 ss.
10
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e una delegazione di rappresentanti degli
Sloveni della Zona A del TLT,, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
la reale e concreta distensione dei rapporti, la pacificazione tra i due popoli e l’avvio di una sincera
collaborazione politica. Era per altro la posizione che la dirigenza jugoslava aveva posto alla base di
alcuni, difficili, tentativi di negoziato diretto, operati dalle diplomazie dei due paesi all’inizio degli
anni cinquanta per trovare una soluzione di compromesso alternativa alla costituzione del TLT. Il
regime di Tito, già messo sotto pressione dalle manovre sovietiche e cominformiste, si sarebbe
trovato in grande difficoltà se, alla rottura con il blocco orientale e con il movimento comunista
internazionale, fosse seguita non tanto la rinuncia a Trieste, quanto la perdita di Capodistria e dei
territori del TLT occupati dalle forze jugoslave. La cessione all’amministrazione italiana della Zona
A (fatto già di per sé grave agli occhi dell’opinione pubblica jugoslava, ma dipendente solo in
minima parte dalla volontà di Belgrado, che non ne deteneva il controllo) era il limite massimo
verso cui Tito era disposto a spingersi, per non correre il rischio di dar adito a reazioni interne
eccessive e pericolose per la stabilità del suo regime (al cui slittamento dal campo sovietico verso
quello occidentale sarebbe stata senz’altro imputata la perdita di Trieste). Ne conseguiva, quindi,
l’indisponibilità a qualsiasi concessione nella Zona B cui non fosse corrisposto un bilanciamento
territoriale di pari importanza nella Zona A11.
La reciprocità dei sacrifici territoriali e la compensazione territoriale, però, erano principi che la
politica e la diplomazia italiane di quell’epoca non erano ancora pronte ad accogliere. Nel corso dei
contatti diplomatici di quegli anni, le proposte di accordo italiane non avevano contemplato la
spartizione del TLT lungo la linea di demarcazione, ma l’annessione dell’intero territorio in cambio
di numerose e vantaggiose concessioni a Trieste, di corrispettivi in campo economico e di “lieve
modifiche territoriali lungo la linea etnica”. Era evidente che l’impostazione italiana era del tutto
antitetica a quella di Belgrado. Partendo dal presupposto che l’Italia aveva conservato in linea
teorica la propria sovranità sull'intero TLT (dato che quest’ultimo non era ancora stato costituito), il
governo italiano considerava la Zona A (controllata dagli alleati anglo-americani) come acquisita ed
era disposto a discutere soltanto della Zona B. Per la politica italiana rinunciare anche ad una parte
limitata della Zona B, soprattutto alle cittadine della fascia costiera, dopo aver perso gran parte
dell’Istria e dalla Venezia Giulia alla fine della guerra, avrebbe costituito un grande sacrificio,
mentre per gli Jugoslavi – secondo il ragionamento italiano, del tutto astratto e teorico - qualsiasi
ipotesi di spartizione della Zona B avrebbe rappresentato un vantaggio, perché avrebbero acquisito
11
Appunto sul colloquio tra il ministro degli Affari Esteri, Edvard Kardelj, e il ministro italiano a Belgrado, Enrico
Martino, Belgrado, 12 gennaio 1950; Appunto sul colloquio tra il vice ministro degli Esteri, Leo Mates, e il ministro
italiano a Belgrado, Enrico Martino, Belgrado, 2 aprile in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 23, f. 71. Anche: Guidotti a
Sforza, Roma, 25 gennaio 1950; Sforza a Tarchiani, Roma 28 febbraio, 1950; Martino a Sforza, Belgrado, 3 aprile
1950, in DDI, s. XI, vol. III, d. 569 e vol. IV, dd. 49 e 96.
territori di cui, in linea di principio, non avevano la titolarità12. Ciò che a Roma si faceva fatica a
capire e ad accettare era che per la dirigenza jugoslava l’Italia non era nelle condizioni di stabilire
quali e quante concessioni fare; Trieste non poteva essere considerata già di fatto tornata nella
disponibilità delle autorità italiane; solo dopo l’intesa tra i due paesi per la spartizione del TLT, i
dirigenti italiani avrebbero potuto affermare di aver recuperato il controllo della Zona A, persa a suo
tempo come tutto il TLT a causa della sconfitta militare. Non era l’Italia che concedeva una parte
del suo territorio, ma era la Jugoslavia che accettava di trattare su base paritaria il nuovo assetto
dell’intero TLT, rendendosi disponibile a compromessi e intese in cui le eventuali rinunce dovevano
essere reciproche e di pari consistenza. Di fronte alle insistenze italiane per una soluzione basata
sulla spartizione del TLT lungo la “linea etnica continua” (divisione che non solo avrebbe lasciato
buona parte del gruppo sloveno della Zona A sotto l’amministrazione italiana, ma che avrebbe
impedito alla Slovenia di avere il proprio accesso a mare a Capodistria), a Belgrado ci si rese conto
che non era il caso di continuare i contatti diretti con il governo di Roma13.
L’intesa del 1954, per la divisione del TLT lungo la linea di demarcazione14 tra
l’amministrazione italiana e quella jugoslava, era giunta, quindi, dopo il fallimento di ogni tentativo
di compromesso tra le due parti; una soluzione ottenuta, evidentemente, non al termine di contatti
diretti e negoziati bilaterali, ma grazie al decisivo intervento politico e diplomatico degli angloamericani, che da tempo l’avevano individuata come l’unica soluzione capace di tenere insieme gli
interessi dell’alleato italiano e dell’amico jugoslavo, e di liberare i governi di Londra e Washington
dalla responsabilità di amministrare la Zona A e dal peso della disputa italo-jugoslava per Trieste.
Tra Roma e Belgrado, però, la freddezza e le difficoltà delle relazioni politiche non erano state certo
cancellate o attenuate da quello che era stato sostanzialmente un congelamento della questione
triestina. Le classi dirigenti dei due paesi erano rimaste arroccate sulle proprie posizioni: da una
parte, il governo di Belgrado desiderava che da parte italiana si riconoscessero formalmente la
chiusura della vertenza e l’estensione della sovranità jugoslava sulla Zona B; dall’altra parte, il
governo di Roma ribadiva la natura pratica e provvisoria del Memorandum d’intesa del 1954, nella
speranza – o meglio nell’illusione - di poter recuperare una parte maggiore del TLT15.
12
Tarchiani a Sforza, Washington, 10 aprile 1950; Martino a Sforza, Bled, 5 luglio 1950, in DDI, s. XI, vo. IV, dd. 111
e 309; Appunto sul colloquio tra l’ambasciatore Marko Ristć, e l’ambasciatore italiano, Antonio Meli Lupo di Soragna,
Belgrado, 17 agosto 1951, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 23, f. 76; C. SFORZA, Cinque anni a Palazzo Chigi. La
politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, 1952, pp. 383-384; J.-B. DUROSELLE, Le conflit de Trieste, cit., pp. 325
ss.
13
J.-B. DUROSELLE, Le conflit de Trieste, cit., pp. 335-340.
14
È bene ricordare che la linea di demarcazione tra Zona A e Zona B (tratto interno al TLT della nota «linea Morgan»,
che alla fine della guerra aveva diviso in due zone di occupazione tutta la Venezia Giulia italiana) non seguiva alcun
criterio particolare, geografico, militare, etnico, economico, storico o amministrativo.
15
Brevi note sullo “Status” di Trieste (Zona A) e della Zona B, appunto “riservatissimo”, cit., in ACS, AAM, b. 77, f.
215, s.f. 1.
2. Segnali di miglioramento:verso la normalizzazione dei rapporti tra Roma e Belgrado..
A ben vedere, la posizione jugoslava nei confronti dell’Italia era rimasta sostanzialmente
immutata fin dall’immediato dopoguerra; in buona sostanza, Belgrado era determinata a far valere il
differente status di paese vincitore di una guerra globale combattuta dalle forze progressiste
jugoslave contro il disegno egemonico e le velleità di potenza delle potenze fasciste. I rapporti di
forza tra i due paesi erano cambiati, perché l’Italia, paese sconfitto e responsabile dell’aggressione
ai danni delle popolazioni jugoslave, non si trovava più nella condizione di poter pretendere o
imporre alcunché, come era accaduto nel periodo interbellico nelle tante questioni che avevano
diviso le due sponde adriatiche. Alla politica italiana, quindi, non restava che prendere coscienza il
prima possibile di questo capovolgimento di posizioni, a meno di non voler mantenere
perennemente acceso il clima di ostilità e continuare ad alimentare le contrapposizioni e le rivalità.
Come aveva scritto Kardelj a Tito nel 1946, a commento dell’invito giunto a Belgrado da parte
degli alleati di trovare un accordo con l’Italia per risolvere la questione di Trieste, la dirigenza
jugoslava non era certo aliena dall’entrare in contatto diretto con i responsabili della politica
italiana, ma doveva essere chiaro che era l’Italia a dover dimostrare un atteggiamento amichevole e
disponibile16; in poche parole, erano i responsabili politici italiani che dovevano far sapere a che
cosa erano pronti a rinunciare per ottenere la sovranità su Trieste17. Per anni, quindi, Belgrado era
rimasta in attesa che in Italia si formasse o emergesse una classe dirigente disposta a voltare pagine
nelle relazioni tra i due paesi, prendendo atto della irrimediabilità della sconfitta e dell’arretramento
dell’italianità lungo i confini nord-orientali; una classe dirigente in grado di saper sfruttare a pieno
tutte le potenzialità dell’amicizia tra le due sponde dell’Adriatico e di considerare la collaborazione
con la Jugoslavia una risorsa importante per la difesa degli interessi nazionali, anche a costo di
qualche sacrificio doloroso; una classe dirigente pronta a fare un passo indietro nelle questioni
territoriali per farne molti di più in avanti in tanti altri settori.
Naturalmente, l’intesa del 1954, con la sua interpretazione volutamente ambigua, aveva
contribuito a far calare d’intensità la disputa italo-jugoslava, favorendo un parziale processo di
normalizzazione in alcuni settori dei rapporti bilaterali18. Con la progressiva internazionalizzazione
dei processi economici, la separazione tra le due coste adriatiche era risultata sempre più artificiale
e non del tutto corrispondente agli interessi di entrambi i paesi. I reciproci legami economici, così
forti in regioni, come quelle adriatiche, così vicine e complementari, avevano aperto un primo varco
16
Kardelj a Tito, 9 ottobre 1946, l., in AJ, CK SKJ, DCK, b. 2, f. 83. Sui tentativi di accordo diretto tra Roma e
Belgrado nella seconda metà del 1946, si veda: Duroselle, pp. 240-244.
17
P. NENNI, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, Milano 1981, 22 novembre 1946.
18
Appunto sui negoziati con gli italiani, “segreto n. 1646”, a cura della Direzione Economica della Segreteria di Stato
per gli Affari Esteri, Belgrado, 19 settembre 1955; Appunto sul colloquio tra il sottosegretario di Stato, Anton Vratuša,
e l’ambasciatore italiano a Belgrado, Gastone Guidotti, Belgrado, 2 luglio 1957; in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245.
nel muro di ostilità e incomprensioni, che per anni aveva diviso Roma e Belgrado, spingendo i due
paesi a firmare una serie di trattati quali l’accordo di Udine del 1955, che regolava il traffico di
persone e merci fra la regione triestina e le zone limitrofe, l'accordo sulla pesca in Adriatico del
1958 e numerosi protocolli di cooperazione nel campo culturale e scientifico19. Tra la fine degli
anni Cinquanta e l’inizio degli Sessanta, quindi, nonostante la freddezza e la difficoltà delle
relazioni politiche e diplomatiche20, numerosi erano stati i successi raggiunti nell’ambito della
collaborazione economica: gli scambi commerciali avevano raggiunto uno sviluppo tale da fare
dell’Italia il mercato più importante per i produttori jugoslavi e il secondo partner fra gli
esportatori; il traffico nelle zone di confine era arrivato a far registrare sette milioni di transiti
individuali; i governi di Roma avevano sostenuto, insieme ad altri paesi del blocco occidentale, la
riforma monetaria ed economica jugoslava con un prestito internazionale; la cultura e la lingua
italiana era tornata ad essere attivamente presente nel mondo accademico e culturale jugoslavo21. In
buona sintesi, il rapido intensificarsi dei legami settoriali tra i due paesi non aveva fatto altro che
sottolineare l’ineluttabilità e la convenienza dei rapporti interadriatici, al di là delle divisioni
politiche ed ideologiche22.
Il rilancio delle relazioni economiche e commerciali, però, non era stato accompagnato da un
significativo miglioramento dei rapporti politici, a causa del permanere “di ostacoli e di situazioni
fortemente negative”23. Lo sviluppo della partnership economica aveva rappresentato la diretta
conseguenza dell’impostazione data dai governi italiani e jugoslavi dell’epoca ai rapporti bilaterali,
basata sulla completa separazione delle questione economiche da quelle politiche più complicate;
un’impostazione fortemente voluta da alcuni ambienti economici e industriali della penisola
italiana, interessati a trarre vantaggio dalla prossimità delle due coste adriatiche; e condivisa anche
dai responsabili politici jugoslavi, che non volevano concedere alcun vantaggio negoziale ai
dirigenti italiani, nel timore che da parte del governo di Roma si facesse valere la posizione di
maggiore forza acquisita in campo economico o si tentassero di sfruttare le difficoltà della
19
Sui negoziati che portarono alla conclusione dei vari accordi italo-jugoslavi della seconda metà degli anni Cinquanta,
si veda l’abbondante documentazione in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245.
20
Appunto sul colloquio tra il vicepresidente del Consiglio Esecutivo Federale, Edvard Kardelj, e l’ambasciatore
italiano a Belgrado, Gastone Guidotti, Belgrado, 26 aprile 1956, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245; Appunto sul
colloquio tra J. Brilej e l’ambasciatore italiano a Belgrado, Francesco Cavalletti, Belgrado, 14 aprile 1959, Appunto
sul colloquio tra il sottosegretario di Stato, Srdja Prica, e l’ambasciatore italiano a Belgrado, Francesco Cavalletti,
Belgrado, 15 aprile 1959, ivi, b. 246.
21
Nota informativa sull’Italia, s. d. (ma ottobre 1958) in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144; Rapporto sulla Jugoslavia, s.
d. (ma 1967-1968), in ACS, AAM, b. 85. Sulle relazioni commerciali italo-jugoslave nel dopoguerra, si veda: M.
CAPRIATI, Gli scambi commerciali tra Italia e Jugoslavia dal dopoguerra al 1991, in F. BOTTA, I. GARZIA (a cura di),
Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Roma-Bari 2004, pp. 165-173.
22
Appunto sul colloquio tra il sottosegretario di Stato, Veljko Mičunović, e l’ambasciatore italiano a Belgrado,
Francesco Cavalletti, Belgrado, 11 febbraio 1960, AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 246
23
Colloqui italo-jugoslavi. Panorama generale, appunto a cura dell’Ufficio del Consigliere Diplomatico presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, s. d. (ma 1960), in ACS, PCM – UCD, b. 27
Jugoslava nei rapporti con i paesi del campo sovietico24. I problemi più gravi, come il definitivo
assetto del TLT, la sistemazione dei confini settentrionali e il trattamento delle rispettive minoranze
nazionali, erano stati solo provvisoriamente rimossi, senza essere risolti.
Certamente, i contatti politici – anche di vertice - non erano mancati in quegli anni. Numerosi
erano stati gli incontri e gli scambi di visite tra alcune delle massime autorità politiche ed
istituzionali dei due paesi, che in questo modo avevano percorso le prime tappe di avvicinamento
“nel difficile cammino” per il passaggio “dalla fase dei rapporti normali a quella dei rapporti di
buon vicinato”25. Nel novembre del 1959, il sottosegretario agli Esteri, Alberto Folchi, si era recato
in Jugoslavia in visita ufficiale, “prima personalità politica di alto livello” dell’Italia repubblicana a
compiere tale passo, elevando i contatti ufficiali tra i due governi dal livello dei colloqui tra
ambasciatori a quello degli esponenti di governo; un anno dopo, nel dicembre del 1960, era stata la
volta del segretario di Stato per gli Affari Esteri, Koca Popović, ad andare a Roma per una serie di
incontri con il suo omologo italiano, Antonio Segni, nel corso dei quali erano stati sottolineati
l’ottimo andamento e i proficui risultati della collaborazione economica; nel giugno del 1961, lo
stesso Segni aveva restituito la visita, incontrando a Belgrado il presidente Tito, con cui prese atto
dei rapporti cordiali ormai stabiliti tra i due paesi e del contributo che Roma e Belgrado stavano
concretamente assicurando alla pace e alla stabilità europee; infine, nel giugno del 1962, aveva
avuto luogo il viaggio ufficiale in Italia del vicepresidente della Federazione socialista jugoslava,
Aleksandar Ranković, nel corso del quale era stata rinnovata la reciproca soddisfazione per la
“feconda collaborazione” esistente tra i due paesi e per il consolidamento di un fattiva partnership
economica e commerciale, basata sulla mutua fiducia e sul mutuo rispetto26.
Era evidente che la normalizzazione e lo sviluppo dei rapporti bilaterali erano stati determinati
anche da considerazione di tipo politico, che andavano al di là dei ragionamenti economici e delle
opportunità commerciali (il cui peso era stato, comunque, preponderante)27. Nei piani dei governi di
Roma, la collaborazione con Belgrado era funzionale non solo alla difesa degli interessi
24
Nota informativa sull’Italia, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144; Considerazioni generali sui problemi italojugoslavi, appunto a cura dell’Ufficio del Consigliere Diplomatico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, s. d.
(ma 1960), in ACS, PCM – UCD, b. 27.
25
Appunto per S. E. il Ministro (Antonio Segni), a firma di Giovanni Fornari (Direzione Generale Affari Politici del
MAE, Ufficio II), Roma 28 luglio 1961, in ACS, PCM – UCD, b. 27.
26
La documentazione relativa all’organizzazione e allo svolgimento delle visite di Stato che ebbero luogo tra la fine
degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta si trova in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Per quanto riguarda, le
visite di Folchi nel 1959 e di Popović nel 1960, si veda anche: Cavalletti a Pella, Belgrado, 20 novembre 1969, t.sso n.
4052/2390, con allegato l’appunto sulle conversazioni tra Folchi e il sottosegretario agli Esteri, Mičunović; Riassunti
dei colloqui tra il ministro degli Affari Esteri italiano, Antonio Segni, e il segretario di Stato per Affari Esteri jugoslavo,
Koca Popović, Roma, 2 e 3 dicembre 1960, in ACS, PCM – UCD, b. 27.
27
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e l’ambasciatore italiano a Belgrado,
Gastone Guidotti, Belgrado, 4 maggio 1956, 28 aprile 1956, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
strettamente italiani, ma anche a quelli dell’intero campo occidentale; la partnership italiana,
facendo da “contrappeso” alle iniziative dell’Unione Sovietica e degli altri paesi dell’Europa
orientale, riavvicinatisi al regime di Tito dopo la morte di Stalin e il conseguente processo di
destalinizzazione28, avrebbe contribuito in maniera decisiva al rafforzamento di una Jugoslavia non
allineata, la cui autonomia rispetto al blocco sovietico era considerata di fondamentale importanza
per la sicurezza del quadrante mediterraneo e meridionale dell’Europa occidentale. Per i dirigenti di
Belgrado, invece, oltre alla “grande opportunità” di rilanciare la collaborazione con un’economia
complementare come quella italiana, il riavvicinamento tra le due sponde adriatiche avrebbe
permesso alla politica jugoslava di “rafforzare le forze democratiche” italiane, nella speranza di
assistere ad un ricambio della classe dirigente italiana; un passo ritenuto necessario per migliorare il
clima politico generale e renderlo più favorevole alla causa jugoslava29. Tito, infatti, pur avendo
intrapreso un percorso autonomo nell’applicazione del socialismo, non aveva abbandonato
l’impegno nella costruzione di un movimento internazionale unitario dei lavoratori. Secondo quanto
detto dal leader jugoslavo a Tullio Vecchietti, capo di una delegazione del Partito socialista italiano
(PSI), recatasi in Jugoslavia nell’aprile del 1957, dopo la morte di Stalin e la fine della fase più
acuta della contrapposizione Est-Ovest, le classi lavoratrici si trovavano di fronte a una
“responsabilità storica”: favorire la pace nel mondo. In ogni paese, erano presenti e attive varie
forze progressiste, chiamate a lavorare concretamente per la pace e a seguire l’esempio della
Jugoslavia e degli altri paesi non allineati impegnati a puntellare e a sostenere la coesistenza
pacifica tra il campo occidentale e quello sovietico, unica via in grado di ridurre l’antagonismo che
avrebbe potuto portare i due blocchi alla guerra e alla catastrofe nucleare. Belgrado era disposta a
collaborare con le forze di sinistra di tutto il mondo determinate a difendere la pace e a rafforzare la
coesistenza tra popoli e Stati appartenenti a sistemi politici ed economici differenti30.
Dall’applicazione locale e adriatica del pensiero di Tito, ne derivava il tentativo di sostenere, anche
attraverso il miglioramento dei rapporti bilaterali, le forze democratiche e progressiste in Italia nella
convinzione che uno spostamento a sinistra della politica italiana avrebbe fatto del governo di Roma
un partner più affidabile e disponibile.
28
V. MICIUNOVICH, Diario dal Cremlino. L’ambasciatore jugoslavo nella Russia di Krusciov (1956/1958), Milano
1979, pp. 55 ss.; B. HEUSER, Western «Containment» Policies, cit., pp. 200 ss.; L. M. LEES, Keeping Tito Afloat, cit.,
pp. 155 ss.; R. LUBURIĆ, Pomirenje Jugoslavije i SSSr-a 1953-1955, Podgorica, 2007.
29
Appunto per Tito in vista del colloquio con l’ambasciatore italiano a Belgrado, Gastone Guidotti, 28 aprile 1956, in
AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
30
Colloquio con la delegazione del Partito socialista italiano, Brioni, 1° aprile 1957, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
Sull’impegno di Tito per la coesistenza pacifica tra i blocchi e sulla politica estera jugoslava nella seconda metà degli
anni Cinquanta: D. BOGETIĆ, Nova strategija spoljne politike Jugoslavije 1956-1961, Belgrado, 2006.
Tuttavia, i risultati di tale intensa attività politica ed economica non erano stati sufficienti a far
compiere alle classi dirigenti dei due paesi quel passo decisivo, che avrebbe potuto portare alla
chiusura delle pendenze confinarie, al superamento di problemi appartenenti a stagioni ormai
passate e alla definitiva pacificazione tra le popolazioni adriatiche. Netta era la sensazione che tra
Roma e Belgrado si fosse fatta di necessità virtù, decidendo di approfondire materie e temi, su cui
vi era unanimità di vedute e di intenti, e il cui sviluppo nell’immediato avrebbe potuto essere utile e
vantaggioso ad entrambe le classi dirigenti. Ma la risoluzione dei problemi più gravi, quelli che più
di tutti avevano contribuito a scavare un solco profondo tra i due paesi, era stata volutamente
rinviata, in attesa che maturassero tempi e condizioni più favorevoli. Si era determinata, in pratica,
una sorta di variante adriatica della coesistenza pacifica, dettata, da una parte, dalla necessità di
favorire la crescita economica dei due paesi e la stabilizzazione dell’area adriatica, e, dall’altra
parte, dalla parallela impossibilità di porre fine al contenzioso territoriale31.
La chiave dei rapporti bilaterali o, per essere più precisi, la sostanza delle riserve che permanevano
nelle relazioni fra i due paesi continuava a risiedere nel valore da attribuire alla sistemazione
territoriale raggiunta nell’ottobre del 1954 a Londra: “provvisorietà o definitività”? Gli Jugoslavi,
pur non avendo più sollevato ufficialmente la questione proprio per non compromettere i risultati
raggiunti negli altri ambiti della collaborazione adriatica, avevano sempre desiderato che da parte
italiana si riconoscessero formalmente la chiusura della vertenza e l’estensione della sovranità
jugoslava sulla zona B del mai nato TLT; e avevano continuato a guardare con sospetto le reticenze
e le riserve dei dirigenti italiani, fermi nel ribadire la natura pratica e provvisoria dell’intesa del
195432. Come aveva chiarito il segretario di Stato, Popović, in una conversazione con Segni nel
dicembre del 1960, la provvisorietà della linea di demarcazione rappresentava una “finzione
giuridica”, che riguardava soltanto l’Italia; tuttavia, dal punto di vista politico, era una “cattiva tesi”,
perché si ripercuoteva negativamente sui rapporti bilaterali, creando e alimentando una “atmosfera
di diffidenza” tra i due paesi33.
3. L’Italia del centro-sinistra: la porta verso occidente di una Jugoslavia a metà del guado.
Secondo i dirigenti jugoslavi, il rilancio degli scambi economici e la normalizzazione dei rapporti
bilaterali rappresentavano dei risultati sicuramente rilevanti, ma ancora parziali e incompleti. Senza
la chiusura della questione di Trieste e degli altri contenziosi lasciati in eredità dal conflitto, non era
possibile dar vita ad una nuova fase delle relazioni italo-jugoslave, caratterizzata da una concreta
31
Berio a Saragat, Belgrado, 31 marzo 1964, t.sso n. 1102, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s.f. 1.
Considerazioni generali sui problemi italo-jugoslavi, appunto, cit., in ACS, PCM – UCD, b. 27.
33
Brevi note sullo “Status” di Trieste (Zona A) e della Zona B, appunto “riservatissimo” cit., in ACS, AAM, b. 77, f.
215, s.f. 1.
32
amicizia politica e da una stretta collaborazione internazionale. Nelle considerazioni dei
responsabili politici jugoslavi, la mancata sistemazione delle vertenze territoriali dipendeva
esclusivamente dalla scelta dei governi italiani di mantenere la provvisorietà della soluzione
adottata nel 1954. Conseguentemente, il governo di Belgrado rimase in attesa di un cambiamento
della politica italiana e di un rinnovamento della classe dirigente nazionale tali da poter trasformare
la coesistenza tra i due paesi in una vera e propria distensione, capace di chiudere il lungo
dopoguerra adriatico e rimuovere l’ultimo impedimento al riavvicinamento e alla pacificazione tra i
due paesi.
Fu per questo, quindi, che a Belgrado venne accolta con estremo favore la formazione in Italia del
primo governo di centro-sinistra organico nel dicembre del 1963. Entrato – come è noto progressivamente in crisi il centrismo, a causa della sensibile erosione del consenso elettorale della
DC, partito di maggioranza relativa e perno delle coalizioni che avevano guidato il paese nel
secondo dopoguerra, la classe politica italiana tentò di rilanciare l’azione di governo e di attuare un
ampio piano di riforme (in grado di regolamentare e indirizzare la notevole crescita economica del
paese verificatasi negli anni del cosiddetto boom) dando vita un’alleanza tra la Democrazia cristiana
e il Partito socialista italiano, con la partecipazione dei socialdemocratici e dei repubblicani.
L’incarico di formare e guidare l’esecutivo venne affidato al principale protagonista dell’apertura a
sinistra, il leader democristiano Aldo Moro, segretario del partito dal 1959; a suggello dell’alleanza
di centro-sinistra, la vicepresidenza del Consiglio dei Ministri venne assegnata all’altro artefice
dell’ingresso del PSI nell’area di governo, il leader socialista, Pietro Nenni, alla guida del partito dal
1949; mentre Giuseppe Saragat, segretario e fondatore del Partito socialdemocratico, convinto
sostenitore della partecipazione italiana all’Alleanza atlantica, fu nominato ministro degli Esteri,
come segno di continuità rispetto ai consolidati indirizzi di politica estera del paese e di
rassicurazione nei confronti degli altri governi occidentali sulla lealtà internazionale del nuovo
esecutivo34.
La dirigenza jugoslava giudicò positivamente la nascita in Italia di una nuova maggioranza
parlamentare spostata a sinistra, ritenendo la nuova coalizione di governo un interlocutore
maggiormente pronto “a discutere costruttivamente” sui vari problemi in agenda nei rapporti
bilaterali e più disponile ad avviare un dialogo “per una più ampia collaborazione politica”35.
All’interno del nuovo esecutivo, infatti, erano confluite forze e personalità politiche considerate da
tempo amiche di Belgrado, attente alle realizzazioni e ai progressi del socialismo jugoslavo, e
34
Sull’esperienza e l’azione dei governi di centro-sinistra, soprattutto dal punto di vista della politica internazionale, si
veda: F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica estera del centro-sinistra 1963-1968, Bari, 2011.
35
Appunto sulla politica jugoslava, Roma, 3 gennaio 1964, “Visto da Tito”, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Anche:
Ducci a Saragat, Belgrado 16 giugno e 25 luglio 1964, t.sso n. 2128, in ACS, AAM, b. 77 f. 215, s.f. 1, e t.sso n. 2638,
ivi, b. 66, f. 2.
sensibili alle esigenze di sicurezza e di crescita economica della vicina Federazione balcanica. In
particolare, la presenza di Saragat alla Farnesina (e di lì a breve al Quirinale, dopo l’elezione a
presidente della Repubblica nel dicembre 1964) non poteva che suscitare apprezzamenti all’interno
del gruppo dirigente jugoslavo. Il leader socialdemocratico, in linea con la sua posizione contraria
all’avanzata della potenza sovietica in campo internazionale e alla subordinazione delle forze
riformiste e progressiste nazionali al movimento comunista, si era schierato dalla parte di Belgrado
e di Tito all’epoca dell’espulsione dei comunisti jugoslavi dal Cominform e della rottura politica tra
il blocco sovietico e la Federazione jugoslava; la lotta per l’autonomia politica e ideologica condotta
dal gruppo dirigente titoista non poteva che essere guardata con favore da colui che, proprio in
nome dell’autonomia rispetto al Partito comunista italiano e in opposizione alla strategia dei fronti
popolari, non aveva esitato nel 1947 a provocare la scissione all’interno del Partito socialista
italiano, all’epoca legato al PCI dal patto d’unità d’azione, dando vita ad una nuova formazione
politica36. Dopo la sistemazione data alla questione di Trieste con il memorandum di Londra del
1954, Saragat aveva sottolineato la “lungimiranza” dei dirigenti jugoslavi, che nel tempo avevano
saputo cambiare posizione e atteggiamento, chiudendo di fatto il problema, ma aprendo, allo stesso
tempo, “la strada per un’ampia collaborazione” tra i due paesi37. In una conversazione con il
sottosegretario di Stato agli Esteri, Anton Vratuša, nel febbraio del 1957, il leader del PSDI aveva
dichiarato che a Belgrado si poteva contare sulla sua amicizia sincera e disinteressata, e che grande
era il suo desiderio di contribuire alla crescita delle relazioni interadriatiche e al miglioramento dei
rapporti bilaterali38.
Divenuto ministro degli Esteri nel governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro, Saragat fu
senz’altro conseguente alle dichiarazioni d’amicizia e le profferte di collaborazione39. Il
responsabile della Farnesina, nei pochi mesi in cui rimase in carica, si spese personalmente affinché
da parte italiana non si frapponessero ostacoli di alcun tipo al rafforzamento dei rapporti con
Belgrado. Nel novembre del 1964, al suo collega di governo, il democristiano Emilio Colombo, che
– in qualità di ministro del Tesoro - gli aveva segnalato una serie di pendenze finanziarie e di
esposizioni creditizie con la Jugoslavia, per le quali si rendeva necessaria “una presa di posizione
ferma e precisa”40, Saragat fece notare che gli aiuti finanziari concessi a Belgrado venivano
accordati tenendo conto anche di interessi precipuamente politici. Il leader socialdemocratico
36
Incontro con Saragat presso l’ambasciatore Černej, appunto del sottosegretario di Stato Anton Vratuša per Tito,
Belgrado, 1° marzo 1957, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245. Su Saragat, si veda: M. DONNO, Socialisti democratici.
Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1954), Soveria Mannelli, 2009; R. MARRAS, Giuseppe Saragat e la politica estera,
«Affari Esteri», 1988, n. 80.
37
Incontro con Saragat presso l’ambasciatore Černej, cit., in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245.
38
Ibidem.
39
R. DUCCI, I Capintesta, Milano 1982, pp. 27-28.
40
Colombo a Saragat, lettera, Roma, 14 ottobre 1964, in ACS, AAM, b. 77 f. 215, s.f. 1
ricordò al responsabile del Tesoro che il sostegno dell’economia jugoslava, attuato attraverso il
consolidamento di precedenti crediti e altre operazioni finanziarie, era stato compiuto nel quadro di
un “intervento collettivo” di altri paesi occidentali, i quali avevano considerato di “prioritario
interesse politico” incoraggiare Belgrado a sviluppare la propria struttura economica “secondo
forme che [erano] molto più vicine all’economia di mercato che gli schemi di pianificazione rigida
di stampo «staliniano»”41:
L’intervento – proseguiva Saragat42 – ci è costato un certo sacrificio, ma a parte il fatto che esso non è stato
più rilevante del sacrificio compiuto, nel complesso, per i citati paesi latino-americani [Argentina, Brasile e
Venezuela], vorrei ricordare che la nostra politica di collaborazione con la Jugoslavia ci ha portati non
soltanto ad occupare il primo posto nel suo commercio estero, ma anche a creare l’unica «frontiera» aperta tra
il mondo socialista ed il mondo occidentale: è, questo, un risultato politico cui i nostri alleati attribuiscono la
maggiore importanza e che, mi pare, valeva la pena di pagare con qualche concessione.
Durante la permanenza di Saragat alla Farnesina, inoltre, vennero avviati i contatti e i preparativi
che nel novembre del 1965 portarono Moro a Belgrado, primo presidente del Consiglio dei Ministri
italiano a recarsi in visita ufficiale in Jugoslavia. Nel corso di tali preparativi, il leader del PSDI
diede la propria approvazione alla proposta di concludere con Belgrado un trattato di non
aggressione e di cooperazione economica, avanzata da Mario Toscano, all’epoca capo del Servizio
Studi della Farnesina e consigliere del ministro. Il progetto di Toscano, discusso anche con
l’ambasciatore jugoslavo a Roma Ivo Vejvoda, avrebbe dovuto rappresentare “un metodo indolore”
per risolvere de facto il contenzioso territoriale e rimuovere l’ultimo ostacolo per un “radicale
miglioramento” delle relazioni bilaterali. L’eventuale approvazione dell’accordo da parte del
Parlamento italiano, con l’impegno a non ricorrere all’uso della forza nelle controversie bilaterali,
avrebbe comportato la presa d’atto, sia pur indiretta e non esplicita, della situazione creatasi dopo il
1954 e avrebbe eliminato le ultime residue preoccupazioni nutrite a Belgrado nei riguardi della
politica italiana. Nonostante l’iniziativa avesse il sostegno di Saragat e del direttore degli Affari
Politici alla Farnesina, Giovanni Fornari, furono Moro e Nenni a sollevare dubbi e perplessità sulla
sua concreta utilità; in particolare, era il presidente del Consiglio a temere che i tempi in Italia non
fossero ancora sufficientemente maturi, per poter affrontare un dibattito parlamentare sulle
pendenze ancore in essere con il vicino Stato jugoslavo, e che, alla fine, l’intera operazione si
potesse rivelare dannosa e controproducente43.
41
Saragat a Colombo, lettera, Roma, 16 novembre 1964, in ACS, AAM, b. 77 f. 215, s.f. 1
Ibidem.
43
Notizie sul trattato di non aggressione, proposto da Toscano e avallato da Saragat e Fornari, sono in: Appunto per Tito
in vista del colloquio con l’ambasciatore italiano, Alberto Berio, Belgrado, 21 marzo 1964, AJ, APR, KPR (I-3-A), b.
144, f. 44/26; R. DUCCI, I Capintesta, cit., pp. 27-28. Anche: L. MONZALI, Mario Toscano e la politica estera italiana
nell’era atomica, Firenze, 2011, p. 181; F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., p. 103.
42
La proposta di accordo, al di là della mancata attuazione, denotava la ferma volontà di Saragat di
migliorare le relazioni politiche con Belgrado. Era opinione del leader socialdemocratico –
condivisa anche da Tito e dai dirigenti jugoslavi - che l’Italia e la Federazione socialista jugoslava,
pur essendo paesi con regimi, istituzioni e assetti economici e sociali assai differenti, e con “un
passato difficile, se non tragico”, erano ormai avviati inevitabilmente lungo la via della
collaborazione e dell’amicizia: era interesse dell’Italia – secondo Saragat - avere al suo confine
orientale un paese indipendente, pronto a difendere “con coerenza e forza” la propria autonomia,
così come era interesse della Jugoslavia avere lungo la propria frontiera occidentale un paese
democratico, “desideroso di entrare in buoni rapporti con tutti quei governi interessati alla pace”44.
Il fondatore del PSDI, quindi, riteneva che fosse giunto il momento di chiudere la vertenza
territoriale e regolarizzare definitivamente la situazione confinaria tra i due paesi, riconoscendo una
volta per tutte “le implicazioni territoriali” derivanti dal memorandum di Londra del 1954; al
contrario di Moro, Saragat era sicuro che ormai la grande maggioranza dell’opinione pubblica
italiana, ad eccezione di una minima percentuale di simpatizzanti dell’estrema destra (quantificati
dall’esponente del PSDI in un 5% della popolazione), desiderasse mantenere stabilmente rapporti di
buon vicinato con la Jugoslavia e approvasse “l’orientamento” del tutto favorevole alla
collaborazione e all’amicizia tra le due sponde dell’Adriatico45.
L’impegno del leader socialdemocratico non venne mai meno, neanche dopo la sua elezione alla
Presidenza della Repubblica: nel 1969 fu il primo capo di Stato italiano a visitare la Jugoslavia e nel
1971 ricevette - anche in questo caso per la prima volta nella storia dei rapporti tra i due paesi - il
presidente jugoslavo, Tito, al Quirinale46. Per la dirigenza jugoslava, Saragat e il PSDI
rappresentarono un costante punto di riferimento, a cui rivolgersi non solo per favorire il dialogo tra
i due governi, ma anche per superare le polemiche, le incomprensioni e gli incidenti che
caratterizzarono il lungo negoziato che portò alla chiusura della questione di Trieste con gli accordi
di Osimo del 197547.
44
Nota stenografica delle colloquio tra le delegazioni di Stato della Repubblica Socialista Federativa di Jugolavia e
della Repubblica italiana, presso la sede della Segreteria di Stato per gli Affari Esteri, Belgrado, 3 ottobre 1969, in AJ,
APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/46.
45
Appunto sul colloquio tra il presidente della Repubblica, Tito, e il Presidente della Repubblica italiana, Giuseppe
Saragat, Roma, 23 marzo 1971, in AJ, APR, KPR (I-2-48/1), b. 90.
46
Sui due incontri ufficiali tra Tito e Saragat nel 1969 e nel 1971, si veda: Nota stenografica delle colloquio tra le
delegazioni di Stato della Repubblica Socialista Federativa di Jugolavia e della Repubblica italiana, cit., in AJ, APR,
KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/46; Appunto sul colloquio tra il presidente della Repubblica, Tito, e il Presidente della
Repubblica italiana, Giuseppe Saragat, cit., in AJ, APR, KPR (I-2-48/1), b. 90. Sulla visita di Saragat in Jugoslavia, si
veda anche la documentazione preparatoria in: ACS, AAM, b. 127, f. 5.
47
La linea di Saragat favorevole alla chiusura della vertenza territoriale per rilanciare definitivamente la collaborazione
politica era condivisa anche da altri esponenti del PSDI, come Mario Tanassi e Mauro Ferri, che tra il 1964 e il 1972 si
alternarono alla direzione del partito dopo la nomina di Saragat a ministro degli Esteri e la sua successiva ascesa al
Quirinale. Sia Tanassi, che Ferri si dichiararono convinti a tal punto dell’importanza della collaborazione con Belgrado
da essere disposti a far cadere ogni rivendicazione italiana sulla zona B e chiudere la questione confinaria con la
Altrettanto positivo fu il giudizio della dirigenza di Belgrado in merito all’entrata del Partito
socialista italiano nell’area di governo. I responsabili politici jugoslavi, infatti, facevano grande
affidamento sugli sviluppi che avrebbero potuto avere i buoni rapporti stabiliti nel corso degli anni
con i socialisti italiani, destinati sempre più – a loro parere – “ad incarnare”, insieme alle altre forze
socialiste e socialdemocratiche europee, il progresso sociale e politico in Occidente48.
In realtà, i rapporti tra la politica jugoslava e i socialisti italiani (in particolare, i rapporti con il
leader storico del socialismo italiano, Pietro Nenni) non erano stati sempre chiari e lineari.
Nell’immediato dopoguerra, il leader socialista aveva auspicato che i problemi politici e territoriali
potessero essere risolti attraverso il metodo della trattativa diretta tra Roma e Belgrado, per
impedire strumentalizzazioni e interferenze da parte delle grandi potenze, le cui divisioni e rivalità
avrebbero potuto ripercuotersi negativamente su un problema locale, come quello di Trieste e del
confine italo-jugoslavo49. Tuttavia, nei pochi mesi in cui era stato alla guida del Ministero degli
Esteri, tra l’ottobre 1946 e il gennaio 1947, nel secondo governo De Gasperi, Nenni si era distinto
per un atteggiamento e una linea d’azione che agli occhi dei dirigenti jugoslavi erano sembrati
“piuttosto critici” verso la loro politica50. A Belgrado, il motivo dell’irrigidimento del leader
socialista era stato attribuito all’intesa di massima per la sistemazione del confine orientale,
raggiunta all’inizio del novembre 1946 da Tito con il leader del Partito comunista italiano, Palmiro
Togliatti51. Indubbiamente, Nenni si era sentito “scavalcato ed esautorato” dall’iniziativa dei due
leader comunisti, basata essenzialmente sul riconoscimento della italianità di Trieste in cambio
della cessione di Gorizia e Monfalcone alla Jugoslavia; un’iniziativa che aveva reso del tutto inutili
i tentativi di Nenni di revisione consensuale delle decisioni prese dalle potenze alleate per il confine
orientale italiano, da attuare attraverso una “Locarno dell’est” italo-jugoslava52. Secondo gli
jugoslavi, però, la reazione negativa del leader socialista non era dovuta solo all’evidente
spartizione sic et simpliciter del TLT, trasformando la situazione de facto stabilità dall’intesa del 1954 in situazione di
diritto e ponendo fine alla provvisorietà giuridica della sistemazione decisa con il memorandum di Londra. Si veda:
Appunto del colloquio tra il segretario di Stato agli Esteri, Mirko Tepavac con il segretario generale del Partito
socialdemocratico italiano, Mauro Ferri, e il vicesegretario Antonio Cariglia, Belgrado, 20 aprile 1971, “segreto” n.
414273, in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1971), b. 59, f. 3. Anche: M. BUCARELLI, La “questione jugoslava” nella
politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1991), Roma, 2008, p. 42.
48
Ducci a Saragat, Belgrado 16 giugno 1964, cit., in ACS, AAM, b. 77 f. 215, s.f. 1. Anche: F. IMPERATO, Aldo Moro e
la pace nella sicurezza, cit., F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp. 102-103.
49
La posizione di Nenni nelle relazioni italo-jugoslave (1946-1954), rapporto “segreto” n. 46/69 dell’Ambasciata
jugoslava in Italia, Roma, 8 febbraio 1969, in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1969), b. 68, f. 3.
50
Appunto per Tito in vista dell’incontro con il segretario generale del Partito socialista italiano, Pietro Nenni,
Belgrado, 7 dicembre 1969, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13.
51
Sull’intesa di massima tra Tito e Togliatti, si rimanda a: P. KARLSEN, Frontiera rossa, cit. pp. 151 ss.; M. GALEAZZI,
Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Roma 2005, pp. 78 ss.
52
La posizione di Nenni, cit., in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1969), b. 68, f. 3; Appunto per Tito in vista dell’incontro
con Nenni, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13. Sul progetto di “Locarno dell’Est”, anche: P. NENNI, Tempo
di guerra fredda, cit., p. 294.
indebolimento del suo ruolo agli Esteri e al fallimento delle sue proposte, ma anche – e soprattutto –
alla assoluta contrarietà di Nenni rispetto alla soluzione territoriale prospettata da Tito e Togliatti, e
ai timori di possibili ripercussioni di politica interna. A Belgrado, si riteneva che l’opposizione del
leader socialista alla cessione di Gorizia e la contemporanea richiesta di far svolgere un plebiscito
almeno in Istria occidentale fossero dipese da una certa “intolleranza nazionalista” combinata “con
la preoccupazione politica che la questione di Trieste [potesse essere] utilizzata per interessi
partitici e per popolarità personale”53. Al di là delle percezioni, fondate o meno, dei rappresentanti
jugoslavi, era chiaro che Nenni, in quel momento, per Belgrado non rappresentasse l’interlocutore
più adatto per una soluzione delle controversie territoriali favorevole agli interessi jugoslavi.
Negli anni successivi alla firma del trattato di pace, i rapporti tra i dirigenti jugoslavi e i socialisti
italiani non erano migliorati. In occasione della rottura tra Tito e Stalin, Nenni e il PSI, ancora legati
alla strategia unitaria con il Partito comunista, non si erano certo distinti per aver preso le difese del
gruppo dirigente titoista; né le critiche rivolte da Nenni all’establishment jugoslavo in occasione
della caduta e dell’epurazione di Milovan Đilas e di Vladimir Dedjier a metà degli anni cinquanta
avevano contribuito a migliorare le relazioni tra la classe politica jugoslava e i socialisti italiani54.
Solo dopo la rottura tra il PSI e il PCI e la presa di distanza del partito dalla politica sovietica
seguite ai fatti d’Ungheria del 1956, si era verificato un riavvicinamento tra il Partito socialista e la
dirigenza di Belgrado. Erano stati gli esponenti del PSI a compiere il primo passo, inviando una
delegazione in Jugoslavia nel 1957 (composta da Tullio Vecchietti, Dario Valori e Vittorio Foa),
nella speranza di dare inizio a una proficua collaborazione con i comunisti jugoslavi e con le
autorità di Belgrado. Nel corso della visita, i rappresentanti del PSI, guidati da Vecchietti, all’epoca
direttore dell’organo di partito «Avanti!», avevano avuto modo di esprimere direttamente a Tito la
loro ammirazione e il loro apprezzamento per le “forme così interessanti e originali di
decentramento e autonomia” con cui era stato sviluppato il socialismo jugoslavo. Altrettanto
positivo era il giudizio del PSI sulla politica di piena indipendenza e di equidistanza rispetto ai
blocchi attuata dalla Jugoslavia (e dall’India) in ambito internazionale: la scelta di Belgrado –
dichiarava Vecchietti – non era “neutralismo egoistico”, ma “impegno per la pace e la coesistenza
tra i blocchi”, e rappresentava un esempio per quelle forze democratiche e quei movimenti
riformisti interessati alla pace nel mondo. I socialisti italiani – proseguiva il rappresentante del PSI seguivano “con grande interesse e solidarietà” il lavoro di Tito (e Nehru), che avrebbe dovuto essere
“il lavoro di tutte le forze progressiste e del movimento dei lavoratori di tutto il mondo”55.
53
Appunto per Tito in vista dell’incontro con Nenni, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13.
La posizione di Nenni, cit., in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1969), b. 68, f. 3; Appunto per Tito in vista dell’incontro
con Nenni, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13.
55
Colloquio con la delegazione del Partito socialista italiano, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
54
Naturalmente, Tito e la dirigenza jugoslava accolsero con soddisfazione il sensibile
riavvicinamento dei socialisti italiani, che andava ad inserirsi perfettamente nel disegno di Belgrado
di collaborare con le varie forze progressiste e riformiste, europee ed extraeuropee, e con i governi
retti da tali forze, nel tentativo di creare un movimento unitario internazionale, evidentemente
alternativo a quello egemonizzato da Mosca, anche se non necessariamente in aperto contrasto56. A
Belgrado, comunque, non erano sfuggiti i motivi di fondo del nuovo indirizzo filo-jugoslavo
intrapreso dal gruppo dirigente socialista. Dopo la fine della strategia d’unità d’azione con il PCI,
Nenni e il PSI si erano ritrovati in una pozione di parziale isolamento all’interno del socialismo e
della socialdemocrazia europei; era evidente, quindi, la ricerca di sponde alternative e di nuovi
alleati, in grado di risollevare il ruolo e il prestigio dei socialisti italiani e di accreditare Nenni come
uno dei massimi leader europei del socialismo indipendente e della sinistra non comunista57.
Il processo di riavvicinamento era stato completato dalla visita in Jugoslavia effettuata dallo stesso
Nenni nel dicembre del 1959, durante la quale era emersa la più ampia e completa sintonia tra il
leader socialista e Tito, soprattutto in relazione agli orientamenti e alle questioni della politica
internazionale. Entrambi avevano dichiarato di interpretare il principio della coesistenza tra i
blocchi, come un principio “attivo, dinamico e non statico”. La Jugoslavia, insieme ai governi e alle
forze politiche, che, via, via, la stavano seguendo sulla strada del non allineamento, non difendeva
solo i propri interessi, “ma gli interessi di uno sviluppo progressista del mondo”. A tal proposito,
Nenni aveva sottolineato la necessità di concepire un nuovo modo di fare politica internazionale,
per dare spazio e voce a una pluralità di soggetti e di attori della politica internazionale. Era
convinzione del segretario del PSI che il cambiamento degli assetti di politica internazionale, basati
sulla contrapposizione ormai immobile e statica tra i blocchi, si sarebbe potuto verificare solo
permettendo alle forze politiche minoritarie e alle piccole potenze di emergere, “dato che i partiti
maggioritari e le grandi potenze [erano] chiaramente per la conservazione dello status quo”58. Si
trattava, in breve, della teorizzazione della «terza via», tanto in politica interna, dove il PSI si
presentava come alternativa democratica alle maggiori forze politiche, la DC e il PCI, quanto in
campo internazionale, dove era la Jugoslavia a candidarsi come paese leader del nascente
movimento dei non allineati.
Dopo la formazione del governo di centro-sinistra, l’amicizia tra il PSI e dirigenti jugoslavi si
consolidò ulteriormente. Per Belgrado, la presenza di esponenti socialisti nell’esecutivo guidato da
Aldo Moro significava che l’orientamento della politica italiana, ormai in massima parte favorevole
56
Ibidem.
Appunto per Tito in vista dell’incontro con Nenni, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13.
58
Appunto sul colloquio tra il presidente Tito e il segretario generale del Partito socialista italiano, Pietro Nenni,
Belgrado, 11 dicembre 1959, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/13.
57
all’amicizia jugoslava, difficilmente avrebbe potuto essere cambiato o ribaltato. La collaborazione
tra le due sponde adriatiche ne sarebbe uscita ulteriormente rafforzata, essendo divenuta – nelle
considerazioni degli osservatori jugoslavi - una “costante” della politica italiana, nonostante la
persistenza, ormai sempre più residuale, di “elementi negativi”, considerati “rigurgiti
dell’estremismo di destra, reduci dell’irredentismo, espressione di alcuni ambienti militari o di
quelli più conservatori della chiesa cattolica”. L’ingresso del PSI nell’area di governo rappresentava
una delle migliori garanzie non solo per lo sviluppo democratico della società italiana, ma anche per
il consolidamento e il definitivo miglioramento delle relazioni interadriatiche59.
La conferma della solidità dei legami venne nel giugno del 1964, pochi mesi dopo la nascita del
centro-sinistra, quando una nuova delegazione del PSI si recò a Belgrado per incontrare Tito e i
massimi vertici della Federazione jugoslava. La missione era guidata dal nuovo segretario del
partito, Francesco De Martino, e dal direttore dell’«Avanti!», Riccardo Lombardi60. Oltre ad un
ampio e condiviso giro d’orizzonte su vari temi di politica internazionale, e ad un confronto sul
grado di attuazione delle riforme economiche e sociali all’interno dei due paesi, i colloqui – in
particolare quelli con Tito - furono incentrati sull’ottimo stato dei rapporti bilaterali, “un concreto
esempio della coesistenza pacifica e il risultato della lotta per la democrazia e il socialismo”61. A tal
proposito, il leader jugoslavo volle sottolineare il ruolo determinante che i socialisti italiani
avrebbero potuto avere per risolvere le ultime controversie esistenti tra i due paesi:
Da un po’ di anni – dichiarò Tito a De Martino e a Lombardi62 - abbiamo stabilito buoni rapporti con l’Italia,
ma ora, dopo l’ingresso dei socialisti al governo, tali rapporti devono migliorare ulteriormente. Adesso anche
voi condividete una parte di responsabilità nello sviluppo delle nostre relazioni […]. L’andamento dei
rapporti economici è positivo, lo stato delle relazioni culturali è soddisfacente, così come quello dei rapporti
politici, l’intesa reciproca è buona. Nonostante ciò alcune questioni di confine sono ancora in attesa di
risoluzione, anche se, a mio parere, potrebbero essere sistemate molto facilmente.
De Martino non poté che apprezzare le parole di Tito, condividendone la visione di politica
internazionale e il giudizio sullo stato dei rapporti bilaterali. Per il segretario del PSI, il principio
della coesistenza pacifica avrebbe dovuto rappresentare “l’essenza e il fondamento” delle relazioni
italo-jugoslave. Così come l’allentamento della tensione internazionale aveva permesso ai socialisti
di andare al governo e di collaborare con partiti, le cui visioni politiche erano differenti da quelle
del PSI, allo stesso modo il miglioramento del clima politico internazionale avrebbe consentito una
più facile e rapida soluzione delle questioni bilaterali. I socialisti – dichiarò De Martino – si
59
Nota informativa in vista del viaggio in Jugoslavia della delegazione del Partito socialista italiano dal 10 al 14
giugno 1964, “Visto da Tito”, Belgrado 10 giugno 1964, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/28.
60
Sulla visita in Jugoslavia di De Martino e Lombardi e sugli incontri che ebbero con le autorità jugoslave, si veda la
documentazione in: AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/28.
61
Appunto sul colloquio tra il presidente Tito e la delegazione del Partito socialista italiano, Brioni, 14 giugno 1964, in
AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144, f. 44/28.
62
Ibidem.
sarebbero impegnati affinché l’Italia contribuisse ad un ulteriore allentamento delle tensioni
internazionali, iniziando dalla soluzione delle questioni ancora pendenti con la vicina Federazione
jugoslava63. Era evidente come anche per il PSI il punto centrale della questione di Trieste e dei
rapporti con Belgrado non fosse più l’aspetto territoriale, ma quello della collaborazione politica da
preservare e rafforzare, anche prendendo atto di una situazione ormai cristallizzata e difficilmente
mutabile: la perdita di Capodistria e della Zona B dell’ex TLT.
Il deciso orientamento filo-jugoslavo ormai intrapreso dai socialisti italiani emerse nettamente nel
maggio del 1969, in occasione della nuova visita in Jugoslavia di Nenni, tornato alla Farnesina per
alcuni mesi tra il dicembre del ‘68 e l’agosto del ’69 nel governo Rumor64. Il viaggio avveniva a
meno di un anno dalla «primavera di Praga» e dall’enunciazione della «dottrina Brežnev»;
avvenimenti che misero in allarme il governo di Belgrado, alle prese con il riemergere dei problemi
nazionali interni e preoccupato per un’eventuale applicazione di tale dottrina al caso jugoslavo. La
violenta soluzione della crisi cecoslovacca imposta dall’Unione Sovietica e l’affermazione da parte
del segretario generale del PCUS della necessità di assoggettare gli interessi di ogni singolo Stato
socialista a quelli del movimento comunista internazionale destarono preoccupazione anche tra i
responsabili politici italiani, che si affrettarono a fornire garanzie e assicurazioni a Belgrado65.
Lungi dal voler approfittare delle difficoltà e delle debolezze jugoslave, ma interessati invece a
preservare e consolidare il ruolo della Federazione jugoslava come necessario baluardo territoriale e
ideologico tra l’Italia e i paesi del blocco sovietico, i dirigenti italiani comunicarono al governo di
Belgrado che l’Italia non avrebbe tentato di trarre alcuno vantaggio da eventuali spostamenti verso i
confini orientali delle truppe jugoslave di stanza lungo la frontiera con l’Italia66.
Nenni fu tra i politici italiani più preoccupati e attivi, essendo pienamente convinto della necessità
di aiutare la Jugoslavia socialista e non allineata a rimanere integra e indipendente. Per il leader
socialista, la vera frontiera orientale italiana era quella della Federazione jugoslava con le vicine
democrazie popolari e non quella a ridosso di Gorizia e Trieste: la difesa degli interessi italiani
passava, quindi, per la salvaguardia politica e territoriale della Jugoslavia. Nei colloqui con Tito e
63
Ibidem.
Sulla visita di Nenni in Jugoslavia nel 1969 si veda la documentazione in: AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/43.
Inoltre; P. NENNI, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Milano 1983, pp. 331-334. Anche il diario del capo di
gabinetto di Tito e consigliere per le questioni economiche: M. VRHUNEC, Šest godina s Titom (1967-1973), Zagabria
2001, pp. 62 ss.
65
M. BUCARELLI, La “questione jugoslava”, cit., pp. 35-39.
66
Prica a Tepavac, t. n. 578 (copia) “Visto dal presidente Tito”, Roma, 2 settembre 1968, in APR, KPR (I-5-B), box
247. Notizie della garanzia italiana alla Jugoslavia anche in: Rapporti e contenzioso italo-jugoslavi, appunto contenuto
in Documentazione per la visita di Stato in Jugoslavia del presidente della Repubblica, Saragat, 2-6 ottobre 1969,
“Riservato” a cura della Segreteria Generale del Ministero degli Affari Esteri, in ACS, AAM, b. 127, f. 5. Anche: G. W.
MACCOTTA, La Iugoslavia di ieri, cit., pp. 231-232; ID., In ricordo di Giuseppe Medici e Giovanni Fornari, in «Affari
Esteri», 2001, n. 159, p. 185. Inoltre. S. MIŠIĆ, Jugoslovensko-italijanski odnosi i čehoslovenska kriza 1968. godine, in
1968 – Četrdeset godina posle, a cura di «Institut za Noviju Istoriju Srbije», Belgrado, 2008, pp.293 ss.
64
con i vertici politici jugoslavi, in particolare con Mirko Tepavac, all’epoca segretario di Stato per
gli Affari Esteri, il responsabile della Farnesina dichiarò apertamente che i problemi di confine
ancora irrisolti non erano niente in confronto a quelli derivanti da un eventuale attacco alla
Jugoslavia. La maggior parte degli Italiani sapeva benissimo che era molto più importante
assicurare la sopravvivenza della Federazione jugoslava, perché rappresentava la migliore garanzia
della sicurezza italiana67. «Finché dall’altra parte c’è la Jugoslavia – scriveva il leader socialista nel
suo diario - è una cosa, sarebbe tutt’altra cosa se ci fosse l’Unione Sovietica»68.
Erano lontani gli anni dell’immediato dopoguerra e delle incomprensioni causate dai problemi
territoriali e dalla questione di Trieste. Per il gruppo dirigente jugoslavo i rapporti con il Partito
socialista italiano, soprattutto alla luce della sua partecipazione al governo, rappresentavano ormai
“uno degli strumenti in grado di influenzare positivamente” non solo i rapporti bilaterali con l’Italia,
ma anche le relazioni internazionali del paese 69.
Tuttavia, per i dirigenti jugoslavi fu subito chiaro che la vera novità della politica italiana, in grado
di cambiare definitivamente l’andamento altalenante dei rapporti tra i due paesi, era la presenza nel
governo di centro-sinistra di Aldo Moro, presidente del Consiglio dei Ministri e leader del
principale partito della coalizione, la Democrazia Cristiana.
Prima del varo del centro-sinistra organico e della sua nomina a capo dell’esecutivo, Moro non
aveva maturato un programma originale di politica estera, né tanto meno aveva mai mostrato di
essere particolarmente interessato al problema delle relazioni con la Jugoslavia. Come è stato
sottolineato nel saggio di Luciano Tosi, il leader democristiano aveva alcuni valori di riferimento e
alcuni principi ispiratori (la pace, la solidarietà internazionale e il dialogo tra i popoli), che, una
volta assunta la responsabilità di governo, tentò di tradurre in indirizzi generali di politica estera.
Senza rinunciare all’ancoraggio atlantico ed europeista, punti fermi e immodificabili dell’impegno
internazionale del paese, la visione delle relazioni internazionali del leader democristiano negli anni
di governo fu costantemente rivolta alla ricerca della pace attraverso il dialogo est-ovest e la
cooperazione tra i popoli, in una cornice, però, che garantisse la sicurezza e l’equilibrio
internazionali: in breve, “la pace nella sicurezza”, sostegno al processo di distensione e
mantenimento dello status quo europeo, senza concessioni al neutralismo e al disimpegno70.
67
Colloqui con Nenni, “appunto segretissimo” di Srdja Prica n. 416157, Belgrado, 27 maggio 1969; Appunto sul
colloquio tra il presidente della Repubblica Tito, e il ministro degli Affari Esteri italiano, Pietro Nenni, Belgrado, 28
maggio 1969, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/43
68
P. NENNI, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Milano 1983, p. 222 e p. 542.
69
Appunto per Tito sull’Italia e le relazioni italo-jugoslave in vista del viaggio del ministro degli Affari Esteri, Pietro
Nenni, Belgrado, 26 maggio 1969, in APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/43.
70
R. DUCCI, I Capintesta, cit., p. 37. Anche: F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp. VIII-IX, e pp.
13-16
L’applicazione concreta dei principi di fondo del leader democristiano alla politica estera del
paese significava, tra le altre cose, chiudere le questioni pendenti dai tempi della guerra con i vicini
jugoslavi e austriaci. Era convinzione di Moro, infatti, che fosse ormai necessario andare oltre gli
schemi della vecchia politica di potenza, per configurare una società internazionale fondata sui
valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della pace, in cui poter porre riparo agli squilibri esistenti
in campo economico, culturale e militare. All’interno di questo processo più ampio e complesso,
anche l’Italia poteva svolgere un ruolo e dare il suo contributo, impegnandosi per la soluzione delle
annose controversie politiche e territoriali con i propri vicini e avviando con essi una stretta
collaborazione politica, primo passo per il superamento degli steccati ideologici e politici che
dividevano l’Europa71. Come è stato sottolineato da uno dei protagonista della politica estera
italiana negli anni di Moro e del centro-sinistra, l’ambasciatore Roberto Ducci, non si era in
presenza tanto di una politica jugoslava o austriaca, quanto di una più ampia e complessiva politica
verso i vicini dell’Italia, considerati non più rivali e nemici, ma i primi interlocutori con cui avviare
“l’opera di pace e distensione”72.
Nel porre come obiettivo finale della politica adriatica del centro-sinistra la pacificazione tra i due
popoli e la fattiva cooperazione tra i due governi, Moro fece sue riflessioni e suggerimenti di alcuni
diplomatici italiani, le cui considerazioni e valutazioni giunsero al politico democristiano tramite il
consigliere diplomatico presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, Gianfranco Pompei. Di
fronte agli inviti provenienti da Belgrado, affinché il nuovo governo di centro-sinistra si facesse
carico della chiusura definitiva delle controversie italo-jugoslave in nome di una amicizia sempre
più forte e sincera73, la diplomazia italiana venne sollecitata a formulare pareri e proposte per la
soluzione delle questioni confinarie e degli altri problemi che ancora dividevano Roma e Belgrado.
La risposta dei diplomatici italiani, interessati a diversi livelli e a vario titolo alle vicende adriatiche,
fu quasi unanime: la posizione jugoslava, per cui la sistemazione data al problema di Trieste con il
memorandum di Londra del 1954 doveva ormai considerarsi definitiva, era sostanzialmente
corretta; non era “lecito”, infatti, rimettere tutto in discussione o procrastinare la presa d’atto
formale della spartizione del TLT, appoggiandosi ad un fatto di natura giuridica e formalistica,
come la mancata nascita del Territorio Libero e l’assenza di ogni riferimento a cessioni di sovranità
da parte italiana nell’intesa del 1954; non si poteva, in buona sostanza, tentare di “vendere una
71
R. GAJA, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna, 1995, pp.
181-182 e pp. 216-217; A. VARSORI, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Roma-Bari 1998, p. 190;
L. MONZALI, La questione jugoslava, cit., pp. 53-55; C. MENEGUZZI ROSTAGNI, La politica estera italiana e la
distensione: una proposta di lettura, in www. dsi.unipd.it / documenti /ProfMeneguzzi.pdf.
72
R. DUCCI, I Capintesta, cit., p. 29.
73
Ducci a Saragat, Belgrado, 25 luglio 1964 e 23 novembre 1964, t.sso n. 2638, e t. in arrivo n. 33707/749 “segreto.
Precedenza assoluta. Visto dal Presidente del Consiglio”; Ducci a Moro, Belgrado, 3 novembre 1965, t.sso n. 5759, in
ACS, AAM, bb. 77 e 78.
seconda volta quello che già era stato venduto”; inoltre, in assenza del consenso jugoslavo, non era
neanche lontanamente ipotizzabile il tentativo di modificare l’assetto stabilito nel 1954 con la forza,
ché nessuno individuo con una “coscienza democratica” avrebbe mai potuto sostenere un’ipotesi del
genere. Bisognava accettare, quindi, che anche quella parte dell’Istria occidentale, compresa nella
zona B del TLT, andasse ad aggiungersi alla lista dei territori persi a causa della guerra e della
sconfitta subita; e bisognava avere la capacità di sottoporre la politica jugoslava condotta fino ad
allora dai governi italiani ad una profonda revisione, per capire, finalmente, che gli interessi
nazionali potevano essere difesi e salvaguardati anche in altro modo: non con l’espansione
territoriale, ma con quella dei commerci, della presenza economica, dell’influenza culturale; non
alimentando il senso di precarietà degli assetti territoriali, ma proiettando stabilità e assicurando la
pace; non dando adito a timori e sospetti a Belgrado, ma legando ancora di più all’Italia la dirigenza
jugoslava, rafforzandone le capacità di resistenza nei confronti delle pressioni del campo sovietico,
sostenendone la “propensione naturale verso l’Occidente” e favorendone il programma di riforme
per la trasformazione in senso liberale della struttura economica; non rimanendo antagonisti di un
paese, che aveva rinunciato ad essere una “potenza avventurosa”, ma collaborando con un paese che
faceva “molta e fortunata politica, in ogni continente e in ogni scacchiere”. Le indicazioni
provenienti dalla diplomazia italiana suggerivano di intavolare le trattative per la chiusura di ogni
controversia con i vicini jugoslavi e di individuare una “soluzione globale”, che non solo tenesse
conto degli aspetti territoriali e confinari, ma che prevedesse anche misure in grado di garantire
concreti vantaggi economici per le popolazioni italiane di confine e di rilanciare lo sviluppo locale,
unico corrispettivo possibile per la perdita definitiva della Zona B74.
Moro fece interamente sue queste riflessioni, che andavano incontro al suo desiderio di pace,
dialogo e stabilità. Naturalmente, il leader democristiano rielaborò le considerazioni dei diplomatici
italiani alla luce della sua sensibilità politica, caratterizzata sempre da estrema cautela e prudenza, e
74
Tra i diplomatici che in vari modi si espressero a favore della chiusura della questione confinaria con la presa d’atto
della spartizione del TLT di fatto stabilita con il memorandum d’intesa del 1954, ricordiamo: l’ambasciatore a Belgrado
in quegli anni, Roberto Ducci, e il suo predecessore, Alberto Berio; l’ambasciatore Riccardo Giustiniani, incaricato
nella primavera del 1964 di condurre negoziati segreti per la sistemazione del confine settentrionale; il capo della
delegazione italiana nel Comitato misto italo-jugoslavo previsto dallo Statuto speciale sulle minoranze contenuto
nell’intesa del 1954, Manlio Castronuovo, e lo stesso consigliere diplomatico di Moro, Pompei. Si veda la seguente
documentazione: Castronuovo a Pompei, appunto del 30 gennaio 1964, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s.f. 1; Berio a
Saragat, Belgrado, 31 marzo 1964, cit.; Giustiniani a Pomepi, l. p. con allegata copia di un appunto di Giustiniani per
Gaja, Roma, 27 novembre 1964, ivi; Questione jugoslava, appunto su una riunione tenutasi il 20 gennaio 1965 alla
Farnesina sotto la presidenza del segretario generale agli Affari Esteri, Attilio Cattani, con la partecipazione
dell’ambasciatore Ducci e di altri funzionari che si occupavano dei problemi relativi ai rapporti italo-jugoslavi, ivi, b.
66, f. 3; Pompei a Moro, l. p., Roma 31 dicembre 1967, ivi, b. 85, f. 248; Ducci a Fanfani, Belgrado 3 ottobre 1967,
Rapporto “segreto”, in Roberto Ducci, a cura del Ministero degli Affari Esteri, Servizio storico e documentazione,
Roma, 1989, pp. 103-110. All’interno della Farnesina erano presenti anche opinioni contrarie alla semplice spartizione
del TLT lungo la linea del 1954, che ritenevano ancora possibile intavolare un negoziato per un eventuale ampliamento
della Zona A, come quelle di Gian Luigi Milesi Ferretti, vicedirettore degli Affari Politici nella seconda metà degli anni
Sessanta (anche con il sostegno e il consenso di Roberto Gaja, direttore degli Affari Politici dal 1964 e poi Segretario
generale dal 1970); si veda: M. BUCARELLI, La “questione jugoslava”, cit., p. 51.
soprattutto tenendo conto delle sue esigenze di politica interna, preso tra gli scatti in avanti verso le
posizioni jugoslave di socialisti e socialdemocratici, le resistenze e gli imbarazzi della DC triestina
(costretta a confrontarsi con un’opinione pubblica locale ferma all’idea della provvisorietà della
soluzione del 1954), e la rumorosa opposizione dell’estrema destra nazionale75. Moro, quindi,
decise di rispondere positivamente alle richieste jugoslave di approfondire i legami tra i due paesi e
di prendere in considerazione la risoluzione definitiva delle varie controversie ancora in essere,
accettando l’invito del governo di Belgrado di recarsi in Jugoslavia in visita ufficiale. Tuttavia, il
leader DC pose al centro dei nuovi contatti non il negoziato sugli assetti confinari, ma il
miglioramento e l’ampliamento della collaborazione politica ed economica, ritenendo necessario
stabilire un clima di buone e fiduciose relazioni politiche a tutti i livelli, come premessa e
preparazione di un’equa soluzione delle vertenze territoriali76. Moro voleva evitare che per ottenere
un successo immediato si finisse per ottenere un peggioramento dei rapporti, a causa di un’opinione
pubblica non sufficientemente matura in alcune sue componenti, ancora legate a fattori “passionali”
e “sentimentali”, che non andavano trascurati. Era necessario, secondo il responsabile di Palazzo
Chigi, presentare l’accordo con la Jugoslavia non come una rinuncia italiana, perché non si poteva
rinunciare a qualcosa che ormai non apparteneva più al paese dai tempi della guerra e del trattato di
pace, ma come l’acquisizione definitiva di un vantaggio politico ed economico, attraverso una
soluzione globale in grado di rilanciare la partnership italo-jugoslava (da affiancare, ovviamente, al
definitivo ritorno di Trieste)77.
L’impostazione data dal presidente del Consiglio alle relazioni con la Jugoslavia (che rimarrà
sostanzialmente inalterata fino agli accordi di Osimo del 1975) venne portata a conoscenza della
dirigenza jugoslava dall’ambasciatore Ducci, nei primi mesi del 1965, nel corso dei preparativi
della visita di Moro a Belgrado. Secondo il leader DC - a quanto riferiva il diplomatico italiano – la
sistemazione delle questioni territoriali poteva avvenire solo “nel quadro della risoluzione di un
pacchetto di questioni ancora pendenti” (rinnovo dell’accordo sulla pesca, accordi culturali,
economici, finanziari, commerciali, ecc.): solo in questo modo, l’opinione pubblica italiana avrebbe
“ingoiato la pillola amara” della spartizione del TLT e della definitiva perdita della Zona B78. Il
percorso proposto dal governo italiano, che prevedeva il miglioramento del clima politico tra i due
paesi e i due popoli come condizione preliminare per stemperare le tensioni derivanti dalle questioni
75
R. DUCCI, I Capintesta, cit., pp. 27-29; M. BUCARELLI, La “questione jugoslava”, cit., pp. 45-61.
Appunto di Pompei sul colloquio tra Moro e l’ambasciatore jugoslavo, Ivo Vejvoda, Roma 22 settembre 1965, in
ACS, AAM, b. 77, f. 215, s.f. 2. Anche R. DUCCI, I Capintesta, cit., pp. 28-29; F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella
sicurezza, cit., p. 103.
77
M. BUCARELLI, La “questione jugoslava”, cit., pp. 48-49.
78
Appunto sul colloquio tra il sostituto del segretario di Stato agli Affari Esteri, Marko Nikezić, e l’ambasciatore
italiano, Roberto Ducci, Belgrado, 16 febbraio 1965; Appunto sul colloquio tra l’assistente del Segretario di Stato agli
Affari Esteri, Dušan Kvader, e l’ambasciatore italiano, Roberto Ducci, Belgrado, 15 marzo 1965, “Visto da Tito”, AJ,
APR, KPR (I-5-B), b. 246.
76
territoriali, venne sostanzialmente accettato da Belgrado. Da tale decisione prese le mosse una lunga
e tortuosa marcia di avvicinamento, le cui prime e più importanti tappe furono il viaggio di Moro in
Jugoslavia, nel novembre del 1965, e quello del capo del governo federale jugoslavo, Mika Spiljak,
nel gennaio del 1968. Nel corso delle due visite, in linea con l’impostazione voluta dal leader DC,
non vennero affrontati i problemi confinari, ma solo quei temi utili al consolidamento della
cooperazione in campo economico e culturale e al rafforzamento della collaborazione nelle
principali questioni di politica internazionale (Vietnam, Medio Oriente, rapporti Est-Ovest,
disarmo), per suggellare la “comunanza di interessi e di propositi” esistente tra i due paesi in
numerosi settori d’intervento politico ed economico79.
Per la dirigenza jugoslava, la disponibilità di Moro a prendere in considerazione l’avvio di un
processo che avrebbe dovuto portare alla sistemazione definitiva dei confini italo-jugoslavi, sia pur
condizionata al raggiungimento di una soluzione globale di tutte le questioni pendenti tra i due paesi
e subordinata, quindi, all’espletamento di un iter non certo rapido, rappresentava una novità
importante; una novità che si andava ad aggiungere ai segnali di apertura provenienti dalla altre
forze del centro-sinistra, ma con un peso ben diverso, in considerazione del ruolo istituzionale e
dell’importanza politica del leader DC. A Belgrado, la visita di Moro e le frasi da lui pronunciate,
improntate alla distensione, alla solidarietà e alla collaborazione tra le due sponde dell’Adriatico,
furono percepite come “il segno che l’Italia si [era] ormai riconciliata con l’idea che [doveva]
vivere con la Jugoslavia quanto più [poteva] d’amore e d’accordo”. L’ottima impressione che i
vertici politici jugoslavi ebbero del presidente del Consiglio non era dovuta solo all’eventuale
possibilità di porre fine alle vertenze territoriali, ma derivava anche dalla sensazione che il leader
democristiano fosse realmente intenzionato a cambiare la storia delle relazioni italo-jugoslave: la
sua presenza e quella di una maggioranza di centro-sinistra al potere sembravano in grado di far
prevalere definitivamente una nuova visione dei rapporti tra le due sponde dell’adriatico. Moro fu il
politico democristiano con responsabilità di governo che più tentò di dimostrarsi coerente con le
parole di riconciliazione e di apertura, sforzandosi di tenere conto delle necessità jugoslave sia di
ordine politico, che economico80. Quella di Moro apparve, agli occhi della dirigenza jugoslava, una
politica in netta controtendenza rispetto a quella dei suoi predecessori sia alla guida del partito, che
79
Sulle visite di Moro e Spiljak, si vedano: Visita in Jugoslavia 8-12 novembre 1965, Verbali degli incontri dell’8 e 9
novembre 1965, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s. f. 3; Appunto sul colloquio tra il presidente Tito e il presidente del
Consiglio dei ministri italiano, Aldo Moro, Belgrado, 9 novembre 1965, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/31;
Resoconto sommario delle conversazioni italo-jugoslave (8-9 gennaio 1968), «Visto dall’On. Ministro», in ACS, AAM,
b. 66, f. 6. Inoltre: F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp. 104-105, e pp. 205-208
80
Ducci a Fanfani, Belgrado 11 novembre 1965, tt. in arrivo nn. 32866/804 “segreto” e 32878/809 “segreto”; Ducci a
Gaja, Belgrado 24 novembre 1965, l. “riservatissima” (copia) n. 6151, in ACS, AAM, b. 78, f. 215, s.f. 8; Trabalza a
Pompei, s. d. (ma dicembre 1967), l. (copia) “Visto dal presidente del Consiglio”, ivi, b. 85, f. 248; Appunto di Pompei
sul colloquio tra Moro e l’ambasciatore jugoslavo, Srdja Prica, Roma, 2 ottobre 1967 e 13 marzo 1968; Pompei a
Marchiori, Roma, 21 marzo 1968, ivi, b. 66, ff. 5 e 6.
del governo, e in particolare rispetto a quella dell’altro leader di riferimento della DC, Amintore
Fanfani, segretario del partito, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri alla fine degli anni
Cinquanta81. Tornato alla Farnesina nel 1965, dopo l’elezione di Saragat al Quirinale, il politico
aretino fu oggetto di critiche da parte jugoslava non solo per non avere dato alcun seguito alle
timide aperture fatte nel 1958 per la chiusura delle varie vertenze82, ma anche per aver assunto una
posizione sempre più rigida nei confronti di Belgrado, tanto da essere considerato un ostacolo sulla
via del buon vicinato e della collaborazione cordiale tra i due paesi83. Fanfani, oltre a non recarsi in
Jugoslavia insieme a Moro nella visita ufficiale del novembre 1965 e a tentare di impedire la venuta
in Italia del capo del governo federale jugoslavo Spiljak nel 1968, si rifiutò di andare incontro alle
richieste di Belgrado di appoggio e assistenza per superare le gravi difficoltà che la Jugoslavia stava
sperimentando nei rapporti con il Mercato Comune Europeo. Fanfani sembrò voler rallentare, se
non addirittura sabotare, l’opera di riavvicinamento messa in atto da Moro nel corso degli anni
Sessanta84. Al di là delle divergenze di valutazione sui singoli aspetti delle relazioni italo-jugoslave
e al di là anche del peso non indifferente nella vicenda della rivalità politica tra i due leader
democristiani85, Moro e Fanfani in realtà avevano due impostazioni diametralmente opposte dei
rapporti con Belgrado: mentre il primo parlava di un clima di amicizia e di distensione, da
migliorare attraverso l’approfondimento della collaborazione in ogni settore delle relazioni
bilaterali, come necessaria premessa per la soluzione globale dei vari problemi, il secondo faceva
discendere la politica di buon vicinato e di cooperazione dalla chiusura delle molte questioni
81
Sulla politica estera di Fanfani, si vedano: E. MARTELLI, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana
(1958-1963), Milano, 2008; A. GIOVAGNOLI, L. TOSI (a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana,
Venezia, 2010
82
Appunto sul colloquio tra i sottosegretario agli Esteri, Srdja Prica, e l’ambasciatore italiano, Francesco Cavalletti,
Belgrado, 15 ottobre 1958, “Visto da Tito”, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 246.
83
Rapporto per Tito sui rapporti italo-jugoslavi in preparazione della visita del ministro degli Affari Esteri, Pietro
Nenni, Belgrado, 26 maggio 1968, “Visto da Tito”, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/43; Relazione sui rapporti
italo-jugoslavi, 31 gennaio 1969, allegata a Močivnik all’Ufficio II della Segreteria di Stato per gli Affari Esteri, Roma
6 febbraio 1969, t. n. 26/69 “Riservato”, in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1969), b. 66, f. 4. Gli Jugoslavi si lamentarono
anche con i rappresentanti degli Stati Uniti a Belgrado per la scarsa disponibilità di Fanfani nei loro confronti: Tobin a
Rusk, Belgrado, 1° gennaio 1968, t, n, 1933 “Confidenziale”, in NARA, RG 59, Central Foreign Policy Files 19671969, Political and Defense, b. 2841, f. 1. Enzo Bettiza, conoscitore – come è noto - per le sue origine dalmatiche sia
della realtà italiana, che di quella jugoslava, all’epoca giornalista del «Corriere della sera», in un colloquio con un
diplomatico jugoslavo, parlando delle politica di Fanfani nei confronti di Belgrado, descrisse il politico aretino “come
un individuo senza scrupoli, senza principi, con una mentalità fascista”; si veda: Avramov all’Ufficio II della Segreteria
di Stato per gli Affari Esteri, Milano, 14 maggio 1968, t. n. 34 “riservatissimo” in DAMSP, DSIP SFRJ, Italija (1968),
b. 61, f. 2.
84
Moro a Fanfani, Roma, 19 giugno 1965, l. (autografa di Moro); Vinci a Catalano, New York, 7 ottobre 1965, t. in
arrivo n. 29174/684 “Urgente”, “Visto dal presidente del Consiglio”, in ACS, AAM, b, 77, f. 215, s. f., 2; Gaja a Ducci,
Roma 20 maggio 1966, l. “riservata – personale” (copia); Moro a Fanfani, Roma, 1° giugno 1966, l. (copia); Fanfani a
Moro, Roma, 13 giugno 1966, l. “riservata”; Moro a Fanfani, Roma 16 giugno 1966, l. “riservata” (copia) ivi, b. 66 f. 4;
Trabalza a Pompei, Belgrado 9 maggio 1968, l. “personale”, ivi, f. 6; Pompei a Moro, Roma 31 dicembre 1967, l.
“Visto dal Presidente del Consiglio”; Trabalza a Pompei, s. d. (ma dicembre 1967) ivi, b. 85, f. 248.
85
L. MONZALI, Mario Toscano, cit., pp. 186 ss.
irrisolte che toccavano ancora nel vivo “il sentimento nazionale”86. Ne derivò il tentativo, da parte
della dirigenza jugoslava, di stabilire un rapporto diretto e privilegiato con il presidente del
Consiglio e di escludere di fatto il responsabile della Farnesina dalla gestione delle questioni
bilaterali più importanti87.
Era evidente che a Belgrado non si consideravano solo le implicazioni territoriali derivanti dal
miglioramento dei rapporti bilaterali; ma si faceva grande affidamento anche sulle nuove e
importanti opportunità politiche, che la presenza di un governo di centro-sinistra, guidato da un
leader aperto e disponibile all’approfondimento dei legami tra i due paesi, sembrava poter offrire.
Su Moro, sul centro-sinistra e, in generale, sul progressivo spostamento in senso filojugoslavo della
maggior parte della politica italiana - completato dal riavvicinamento anche con il PCI, analizzato
da Marco Galeazzi nel suo saggio - i vertici jugoslavi fecero un notevole investimento. La special
relationship con l’Italia del centro-sinistra fu posta da Belgrado al centro di un ampio progetto di
riforma politica e di trasformazione economica e sociale della Federazione jugoslava negli anni
Sessanta, unica via d’uscita – secondo la dirigenza jugoslava dell’epoca – dalla crisi che colpì il
sistema jugoslavo in quel periodo. All’interno della Federazione, infatti, in conseguenza delle
difficoltà economiche per i primi insuccessi dell’autogestione, tornarono a riaffacciarsi quei
contrasti nazionali, che erano già stati causa dell’indebolimento e della paralisi politica e
istituzionale della Jugoslavia tra le due guerre mondiali. A lungo andare, la via jugoslava al
socialismo aveva finito per rendere più gravi le differenze economiche e sociali e le divisioni
politiche e culturali tra i vari gruppi nazionali che componevano la Federazione, alimentando
polemiche e contrapposizioni nella gestione e nella distribuzione del reddito nazionale (prodotto per
la maggior parte in Slovenia e in Croazia e convogliato soprattutto nelle aree di sottosviluppo del
Sud del paese) e nell’impostazione della politica federale in generale88.
La comparsa delle prime crepe nella coesione nazionale e le disfunzioni dell’autogestione furono
affiancate (in un rapporto di causa-effetto reciproco) dalle difficoltà in campo internazionale,
determinate dai cambiamenti della politica internazionale, in particolare nei rapporti tra le due
superpotenze89. Il passaggio dalla coesistenza competitiva alla distensione e il dialogo diretto
stabilitosi tra Mosca e Washington sembravano avere provocato, tra le altre cose, anche un certo
86
Fanfani a Martinelli, Roma, 7 ottobre 1960, l. (copia), in ACS, PCM – UCD, b. 38, f. 8.
Ducci a Gaja, Belgrado 24 novembre 1965, cit., in ACS, AAM, b. 78, f. 215, s.f. 8.
88
Z. VUKOVIĆ, Od deformacija SDB do Maspoka i liberalizma. Moji stenografski zapisi 1966-1972, Belgrado 1989, pp.
11 ss.; J. PIRJEVEC, Il giorno di San Vito. Jugoslavia tragica 1918-1922. Storia di una tragedia, Torino 1992, pp. 363
ss. e pp. 437 ss.; S. BIANCHINI, La questione jugoslava, Firenze, 1996, p. 97 ss.; J. R. LAMPE, Yugoslavia as History.
Twice There was a Country, Cambridge, 2000, pp. 276 ss.; F. PRIVITERA, Jugoslavia, Milano, pp. 96 ss.; M. VRHUNEC,
Šest godina s Titom, cit., pp. 251 ss.
89
F. ROMERO, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, 2009, pp. 174 ss.
87
ridimensionamento del movimento dei non allineati e, conseguentemente, del ruolo internazionale
della Jugoslavia, determinandone la perdita di peso e di importanza nelle considerazioni dei due
blocchi (tendenza interrotta solo parzialmente dalla crisi cecoslovacca del 1968, ma riemersa, poi,
dopo la Conferenza di Helsinki sulla Cooperazione e la Sicurezza in Europa). Non potendo contare
più di tanto sul sostegno politico e sul bacino economico (pressoché inesistente all’epoca) dei non
allineati, e non volendo tornare a integrarsi nel campo sovietico (nonostante la normalizzazione dei
rapporti con l’URSS e le democrazie popolari) per non rinunciare all’autonomia conquistata dopo il
1948, l’unica alternativa rimasta era il rafforzamento dei legami con l’Europa occidentale e con il
Mercato Comune europeo, attraverso la liberalizzazione del commercio e l’attuazione di un vasto
piano di riforme. L’accordo commerciale con la CEE e l’eventuale associazione ad essa erano
considerati come i soli rimedi possibili per rilanciare l’economia del paese, migliorare le condizioni
di vita della popolazione e contenere l’esplosione dei contrasti nazionali90.
La trasformazione in senso liberale del sistema economico non avrebbe rappresentato, però, un
passaggio indolore, comportando un radicale cambiamento degli assetti interni, con inevitabili
ricadute sul sistema dei prezzi, sulla politica finanziaria, sui settori produttivi e sulla struttura
sociale; la necessaria convertibilità della moneta ne avrebbe provocato la svalutazione, seguita
dall’aumento generalizzato dei prezzi; l’apertura alla competizione internazionale, infine, avrebbe
avuto ripercussioni sui livelli occupazionali, per la chiusura delle attività più obsolete91. I costi della
modernizzazione del paese sarebbero stati sicuramente ingenti nell’immediato, ma non facilmente
quantificabili. Fu per questo che non tutta la dirigenza jugoslava condivise l’attuazione di un piano
di riforme così ampio e radicale, dando vita ad una feroce polemica interna. Nel corso degli
Sessanta, i vertici jugoslavi (sia delle istituzione federali e repubblicane, che della Lega dei
comunisti) si divisero tra i riformatori del socialismo in senso liberale e i difensori dell’ortodossia
marxista, tra i sostenitori di una graduale apertura all’economia di mercato e quelli dell’economia
pianificata, tra i fautori del centralismo e i difensori delle autonomie repubblicane. Tito,
inizialmente, sembrò appoggiare le correnti riformatrici e liberalizzanti, rappresentate da una
generazione di politici quarantenni al di fuori della stretta cerchia del gruppo dirigente emerso nel
corso della seconda guerra mondiale al fianco del leader comunista jugoslavo. I segnali di questo
sostegno furono evidenti: l’approvazione e l’attuazione, nel 1965, dopo un lungo braccio di ferro, di
una programma di riforme economiche e finanziarie, il cui obiettivo era la “democratizzazione, lo
90
Relazione del Consiglio esecutivo federale per il 1961, presentata al Parlamento federale il 15 marzo 1962, in ACS,
PCM – UCD, b. 27; Ducci a Fanfani, Belgrado, 14 giugno 1966 e 26 aprile 1967, in Roberto Ducci, cit., pp. 79-84, e
99-102; Trabalza a Fanfani, Belgrado, 29 dicembre 1967, t.sso n, 6086, in ACS, AAM, b. 85, f. 248; Miller al
Dipartimento di Stato, Belgrado, 11 giugno 1965, t. per corriere n. 1133, in NARA, RG 59, Central Foreign Policy
Files 1964-1966, Political and Defense, b. 3033, f. 1.
91
J. R. LAMPE, Yugoslavia as History , cit., pp. 287-288; M. CAPRIATI, Gli scambi commerciali, cit., pp. 169-170.
sviluppo
e l’inserimento
della Jugoslavia nella divisione internazionale del
lavoro”;
l’allontanamento dal potere, nel 1966, di Aleksandar Ranković, responsabile del Ministero
dell’Interno e strenuo oppositore delle riforme economiche e politiche; l’arrivo ai vertici federali e
repubblicani di alcuni dei maggiori esponenti delle correnti riformatrici, come Mika Spiljak, capo
del governo federale, Marko Nikezić, segretario di Stato agli Affari Esteri, Miko Tripalo, segretario
del Partito comunista croato, Savka Dabčević-Kučar, presidente del Consiglio esecutivo croato, e
Stane Kavčić, presidente del Consiglio esecutivo sloveno. Avvenimenti che, nel loro insieme,
diedero l’impressione di un’autentica svolta liberale e riformatrice, cui fece seguito un periodo di
grande fermento politico e culturale, caratterizzato da una libertà di espressione e di pensiero senza
precedenti, prodromo – secondo alcuni – anche di un possibile cambiamento politico in senso
pluralista e democratico92.
In questo contesto di trasformazione complessiva del sistema jugoslavo e di progressiva
integrazione con l’Occidente, il ruolo dell’Italia era considerato di fondamentale importanza, non
solo per l’entità e il volume degli scambi tra i due paesi, ma anche per la presenza al governo di
forze e leader politici considerati amici della Jugoslavia e sensibili ai problemi della Federazione.
L’Italia avrebbe dovuto fare da tramite con il Mercato Comune Europeo e con l’Europa occidentale
in generale, diventando la “porta dell’Occidente” di una Jugoslavia liberalizzata sul piano
economico e aperta al commercio internazionale. Per i riformisti jugoslavi, giunti al potere nel corso
degli anni Sessanta, il sostengo italiano nel percorso di avvicinamento alla CEE era considerato
esiziale per la riuscita sia dell’integrazione della Jugoslavia nell’Europa occidentale, sia per il
successo delle riforme interne93. A un certo punto della vicenda politica jugoslava, la special
relationship con l’Italia, nonostante un passato fatto di ostilità e contrapposizioni, sembrò
rappresentare la soluzione a molti dei problemi del paese: rafforzamento e miglioramento dei
rapporti con la CEE, rilancio dell’economia nazionale, sostengo all’attuazione del programma di
riforme, stabilizzazione dei confini e salvaguardia dell’indipendenza politica. Oltre alle mutate
circostanze internazionali, merito di questo capovolgimento delle relazioni italo-jugoslave fu la
presenza di una nuova classe dirigente, sia in Italia, con la formazione del centro-sinistra organico,
sia in Jugoslavia, con l’emergere dei riformisti, che non nascondevano di sentirsi più vicini per
92
Sulle conseguenze interne determinate dalla caduta di Ranković, si vedano le considerazioni dei diplomatici italiani
in: Appunto sulla politica interna jugoslava, allegato a Documentazione per la visita di Stato in Jugoslavia del
presidente della Repubblica, Saragat, 2-6 ottobre 1969, “Riservato”, a cura della Segreteria Generale del Ministero
degli Affari Esteri, in ACS, AAM, b. 127, f. 5; Elbrick al Dipartimento di Stato, Belgrado, 9 giugno 1966, t. per
corriere n. 858 “Confidenziale”, e 7 luglio 1966, tt. nn. 0534, 05390, 05291, 05292, 05549, in NARA, RG 59, Central
Foreign Policy Files 1964-1966, Political and Defense, b. 3033, f. 2. Anche: A. RANKOVIC, Dnevnicke zabeleske,
Belgrado 2001, pp. 69 ss.; S. BIANCHINI, La questione jugoslava, cit., pp. 105 ss.
93
Memorandum del colloquio tra Mika Spiljak e l’ambasciatore statunitense, C. Burke Elbrick, Belgrado, 23 gennaio
1968, in NARA, RG 59, Central Foreign Policy Files 1967-1969, Political and Defense, b. 2840, f. 2; Tobin a Rusk,
Belgrado, 1° gennaio 1968, t. n. 1933/2 “Confidenziale”, ivi, b. 2841, f. 1. Anche: Trabalza a Fanfani, Belgrado, 20 e
29 dicembre 1967, t.ssi nn. 5949 “Visto dal Presidente del Consiglio”, e 6086, in ACS, AAM, b. 85, f. 248.
impostazione e formazione ai socialisti italiani, che non agli esponenti politici delle democrazie
popolari.
In sede di conclusione, tuttavia, va detto che il bilancio di questa special relationship non fu del
tutto positivo o, meglio, non fu così positivo come si attendeva. L’appoggio italiano in sede di
negoziati CEE non fu così fermo e deciso, come avrebbero desiderato gli Jugoslavi94. Alla fine
degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, i dei due paesi furono attraversati da numerose
crisi interne (politiche, economiche e sociali in Italia, nazionali e interetniche in Jugoslavia), che
misero in estrema difficoltà le rispettive classi dirigenti: in Italia, si concluse la stagione del centrosinistra organico e ne iniziò un periodo di grande instabilità e di grave debolezza politica;
all’interno della Federazione, di fronte al montare delle proteste di massa e delle rivendicazioni di
maggior autonomia da parte dei vari gruppi nazionali, Tito decise di non sostenere più le correnti
riformatrici, epurando la generazione dei quarantenni e imponendo un parziale ritorno all’ortodossia
marxista. Il risultato fu un graduale allentamento dei legami politici tra i due paesi, che rallentò
notevolmente la soluzione delle vertenze territoriali, giunta solo nel 1975, dopo una serie di
negoziati fallimentari, numerose polemiche, crisi politiche e incidenti diplomatici95, e in un contesto
diverso rispetto a quello immaginato dagli esponenti del centro-sinistra e dai riformisti jugoslavi: la
definitiva sistemazione territoriale non era più parte di una più ampia strategia di collaborazione
politica tra due paesi in crescita o in transizione, ma solo la stanca chiusura di un annoso e ormai
ingombrante problema.
94
95
F. IMPERATO, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp. 206-208.
M. BUCARELLI, La “questione jugoslava”, cit., pp. 51-75.
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