Barbara Pizzo DI MANI GIUNTE Fossero state mani che s’accarezzano. Le guardavo, sempre attenta a che il mio sguardo non fosse còlto (avvertito; visto no: non avrebbe potuto nemmeno quello), che in qualche modo non gravasse, non infastidisse lei, quasi sempre seduta sul divano accanto alla tv, incapace tuttavia di trovare un poco di quiete anche quando la forza vigile cedeva finalmente un istante appena al sonno, senza saper concedere tregua mai a muscoli e nervi. Erano lì con una tensione, come una muta violenza in qualche modo insinuatasi non si sa quando né perché, che poco si addiceva a quelle mani un tempo più lisce e che fino a non troppo tempo prima avevano saputo, addirittura desiderato, a volte, accarezzarmi. Non erano più nemmeno in grado di ricordarlo. No, non soltanto la circostanza. Neppure il gesto. Ancora più nodose e bianche, sembravano, di quelle di una qualsiasi poco più che sessantenne, come se proprio quello sfregare, quell’implacabile andare venire venire andare e stringere graffiare e tormentare, le avesse piano piano consumate, un poco come avviene ai piedi delle statue dei santi, nelle chiese, apparentemente toccati dalla medesima inerzia, dalla stessa insensibilità, o di quelli di una bambolina di cera, cui qualche volta, anche per la sua statura contenuta, pur proporzionata, poteva somigliare. Erano l’unica cosa, ormai, l’ultima che rimaneva a Giuliana. Con furia nervosa una all’altra aggrappava. Forse tentando di ricordare di esserci.