la val taro dal monte lama all`anno 1000

INDICE
 TAVOLA CRONOLOGICA
 LA VALTARO DAL MONTE LAMA ALL'ANNO 1000
- Ligures montani piratae, qui Alpium asperrima colunt
- Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, dai boschi, dall'arse fucine stridenti
 DAI MALASPINA AI LANDI
- La fama che la vostra casa onora grida, i segnori e grida la contrada
- D'aquile questo è il nido, e non di galli
 DOPO IL 1682…
- Per queste selve e risonar sintese, la gloria di Farnese
- Lui folgorante in solio vide il mio genio, e tacque
- Compiano è la più bella, Strela è sua sorella
 APPENDICE
- Gallenga, le sue prigioni
 TAVOLA DELLE IMMAGINI
 BIBLIOGRAFIA
 RINGRAZIAMENTI
TAVOLA CRONOLOGICA
• 85.000-35.000 anni fa. - Paleolitico.
• 12.000-8.000 anni fa. - Mesolitico e Neolitico.
• 5.000 anni fa. - Età del Rame: la lavorazione del diaspro sul monte Lama.
• 1600-1200 a.C. - Età del Bronzo: l'antica popolazione dei Liguri.
• 200-300 a.C. - I Liguri e l'espansione romana.
• 110 d.C. - La Tabula Alimentaria Traianea di Veleia.
• 568-569 d.C. - L'epoca longobarda.
• 612 d.C. - S. Colombano di Bobbio
• 774 d.C. - L'epoca carolingia.
• 843 d.C. - Il Regnum Italicum.
• 950-951 d.C. - La Marca Obertenga.
• 1021 d.C. - Campoplano.
• 1141 d.C. - Il castello, i Malaspina, Piacenza.
• 1154 d.C. - Federico Barbarossa.
• 1174 d.C. - La Battaglia Legnano.
• 1189 d.C. - L'autorità piacentina.
• 1216 d.C. - L'arrivo dei Landi.
• 1257-1298 d.C. - Ubertino Landi.
• 1312 d.C. - La prima investitura imperiale.
• 1335 d.C. - I Visconti.
• 1405 d.C. - I Visconti confermano l'investitura dei feudi di Compiano e Bardi ai Landi.
• 1429-1439 d.C. - La parentesi viscontea.
• 1439-1447 d.C. - Nicolò Piccinino.
• 1454 d.C. - Francesco Sforza conferma l'investitura a Manfredo Landi
• 1468 d.C. - Manfredo Landi e il Matrimonio con Antonia Maria Fieschi
• 1491 d.C. - I Landi di Compiano, di Bardi, di Rivalta
• 1495 d.C. - La Battaglia di Fornovo
• 1519 d.C. - Carlo V d'Asburgo imperatore
• 1530 d.C. - La comparsa di Agostino Landi
• 1532 d.C. - Agostino e Giulia Landi
• 1547 d.C. - La congiura contro Pier Luigi Farnese
• 1551-1552 d.C. - Principi Sovrani del Sacro Romano Impero
• 1555-1563 d.C. - Manfredo Landi
• 1595 d.C. - L'alleanza dinastica con Monaco
• 1599 d.C. - Il Convento delle Agostiniane di Compiano
• 1608 d.C. - Il Monte di Pietà per le granaglie
• 1610-1630 d.C. - Le zecche di Bardi e Compiano
• 1616 d.C. - Il Collegio Notarile
• 1619 d.C. - Federico Landi Commissario Imperiale per i feudi italiani
• 1627 d.C. - Maria Polissena e Gian Andrea II Doria
• 1630 d.C. - Maria Polissena ultima principessa di Valditaro
• 1682 d.C. - Ranuccio II Farnese duca di Parma e di Piacenza
• 1738 d.C. - La morte del feudo imperiale
• 1748 d.C. - Il ramo dei Borbone di Parma
• 1776-1814 d.C. - Napoleone
• 1814-1847 d.C. - Maria Luigia d'Austria
• 1847-1859 d.C. - Il ritorno dei Borbone
• 1861 d.C. - L'Unità d'Italia
• 1900-1962 d.C. - Il Collegio del S. Cuore
• 1966-1987 d.C. - Lina Angela Luisa Raimondi Gambarotta
• 1987 d.C. - Il Museo Gambarotta
• 2002 d.C. - Il Museo Internazionale Massonico
• 2012 d.C. - Il Museo Eno-gastronomico
I
LA VALTARO DAL MONTE LAMA
ALL’ANNO 1000
LIGURES MONTANI PIRATAE,
QUI ALPIUM ASPERRIMA COLUNT
Guardando oggi i piccoli borghi sparsi nell’angolo di Appennino emiliano situato tra Liguria e
Toscana risulta difficile credere che le prime tracce di presenza umana in queste zone risalgano alla
Preistoria. I boschi che ricoprivano interamente monti e vallate erano attraversati nel Paleolitico
Medio (85.000-35.000 anni fa) da “bande” (gruppi di pochi individui) nomadi di cacciatori e
raccoglitori che ottenevano sostentamento da prodotti che la natura offriva loro. Fondamentale per
la sopravvivenza risultava allora la scelta della sede per l’insediamento costituito da accampamenti
all’aperto o ripari naturali come grotte. La postazione doveva garantire infatti sia una vicinanza ai
valichi montani, utilizzati dalla selvaggina, sia agli affioramenti rocciosi di diaspro la cui roccia
veniva utilizzata per la realizzazione di primi utensili litici, di cui sono importanti testimonianze i
ritrovamenti archeologici sul Monte Lama (tra le province di Parma e Piacenza) .
Il numero degli insediamenti, soprattutto in prossimità dei corsi d’acqua e dei passi, andò
aumentando nel corso del Mesolitico (12.000-8.000 anni fa) quando l’instaurarsi di un clima postglaciale favorì un maggiore sfruttamento delle risorse naturali, sino a giungere, 7000 anni fa, ad un
importante cambiamento nella modalità di utilizzo da parte dell’uomo delle risorse naturali.
Con l’avvento del Neolitico, infatti, oltre ad utensili in pietra levigata comparvero le prime forme di
agricoltura e allevamento. Reperti risalenti a tale epoca (asce, coltelli, raschiatoi in pietra) sono stati
rinvenuti in diverse località dell’Alta Val Taro e Val Ceno, ma fu nei millenni successivi che
l’industria litica assunse un particolare significato.
Proprio durante l’Età del Rame (5.000 anni fa) la lavorazione del diaspro sul Monte Lama diventò
più raffinata portando alla realizzazione di semilavorati (punte di freccia, lame di pugnali) che
venivano poi utilizzati anche come merce di scambio con le vicine tribù liguri della costa, in una
forma di primitivo commercio.
Reperti importanti sono inoltre pervenuti dall’Età del Bronzo (1600-1200 a.C.), quando l’Italia nord
occidentale e la Francia meridionale erano abitate dall’antica popolazione dei Liguri. Si trattava di
gruppi di pastori seminomadi che vivevano in accampamenti stagionali di capanne, sfruttavano
zone adibibili a pascolo, oltre che ottimali per la caccia, e praticavano una prima rudimentale forma
di agricoltura. I loro insediamenti sorgevano in punti strategici sopraelevati, a volte in parte ricavati
artificialmente spianando terreno, ma sempre in prossimità di sorgenti o torrenti.
Arroccati sulle montagne i Liguri riuscirono a mantenere il controllo del territorio per diversi secoli,
costituendo nel III sec a.C un importante ostacolo all’espansione romana nell’Appennino. Li
troviamo citati nelle opere di Strabone, Diodoro e Tito Livio che li descrivono come un popolo
forte, tenace e scaltro in particolare nel combattimento: praticavano una sorta di guerriglia,
ricorrendo ad agguati e scomparendo quando sopraffatti. Una delle ultime tribù ad essere sconfitta
fu quella dei Veleiati (insediati nel territorio oggi della provincia di Parma e Piacenza) il cui
assoggettamento a Roma si ebbe solo nel 157 a.C., in seguito a una battaglia vinta dalle legioni
comandate dal Proconsole Mario Fulvio Nobiliare, probabilmente avvenuta nelle vicinanze del
Monte Penna (sul confine tra Liguria ed Emilia-Romagna).
La più importante testimonianza circa la strutturazione dei territori in epoca romana ci è giunta
grazie al ritrovamento nel 1747 presso Veleia (vicino Piacenza) della Tabula Alimentaria Traianea.
L’iscrizione bronzea risale al 110 d.C. e oggi è conservata presso il Museo Archeologico di Parma.
Riporta un’applicazione dell’Institutio Alimentaria voluta da Traiano per regolamentare prestiti
ipotecari tesi a incrementare la produzione agricola e aiutare bambini indigenti. La Tabula descrive
una serie di obbligazioni a proprietari terrieri con relativa collocazione dei fondi, quindi l’assetto
organizzativo dei paesi: i villaggi, Vici, con i loro territori circostanti risultavano raggruppati nel
Pagus al cui interno si trovava un centro fortificato, il Castelum. Alcuni toponimi riportati fanno
riferimento a località in Alta Val Taro, come ad esempio saltus Bituniae (Bedonia), Tarsuneo
(Tarsogno), Albes (Alpe), pagus Velvius (come possibile riferimento al Monte Pelpi).
Dal II sec. al V sec. il fenomeno delle invasioni barbariche colpì l’Impero e decretò nel 476 d.C. la
fine dell’Impero Romano d’Occidente e l’inizio dell’epoca medievale.
Malgrado non ci siano giunti documenti relativi alle aree in esame, si può pensare che in tali
circostanze le persone dalle città della pianura si siano ritirate sulle montagne per sfuggire alle
scorrerie.
Contemporaneamente iniziò nel IV-V sec., grazie all’opera del Vescovo di Piacenza S. Savino, la
diffusione del cristianesimo, così che con il trascorrere del tempo l’ordinamento ecclesiastico, con
la nascita della “Pieve” generalmente situata nel Castelum, si sarebbe sovrapposto a quello
precedente assumendo anche carattere amministrativo.
DAGLI ATRII MUSCOSI, DAI FORI CADENTI,
DAI BOSCHI, DALL’ARSE FUCINE STRIDENTI
Nel V-VI sec. si assistette, a causa delle carestie e delle pestilenze, a uno spopolamento
dell’Appennino in cui rimasero solo pochi villaggi assediati dai boschi, ma sul finire del VII sec. si
ebbe con la stirpe Longobarda una ripresa degli insediamenti. Il popolo longobardo, proveniente
dalla Pannonia, era infatti in cerca di nuovi territori da abitare per cui si stabilì in Italia in modo
definitivo e, se all’inizio in esso prevalse un atteggiamento violento e barbarico, quasi subito iniziò
a fondersi con la popolazione locale abbracciando la fede cristiana. Nel 568-569 d.C. la discesa di
Alboino in Italia pose fine quindi al tentativo di riconquista dell’Imperatore Giustiniano e nel 572
d.C. Pavia venne eletta capitale del regno. L’Italia si trovò divisa tra Longobardi (territori del nord e
centro-sud) e Bizantini (nella “Romània”: Emilia-Romagna, Liguria, parte del Lazio, regioni del
sud). Le valli di Taro e Ceno si trovavano tra le zone di influenza dei primi, come dimostrato da un
giudicato longobardo della prima metà del VII sec. con cui il Re Adaloaldo stabiliva i confini tra
Parma e Piacenza (nel documento si fa riferimento al Monte Specchio, il Fiume Taro, il Rio Gotra).
La penetrazione longobarda delle due valli nel VII sec. è comunque testimoniata, oltre che da
documenti dell’epoca, da ricerche linguistiche che evidenziano radici germaniche in alcuni termini
dialettali, nell’onomastica e nella toponomastica della zona.
Altro momento cardine nella diffusione del Cristianesimo si ebbe proprio in quel contesto, nel 612
d.C., quando giunse in Italia al termine dei suoi viaggi il monaco irlandese San Colombano. Dopo
aver attraversato le Alpi, a Milano ottenne la protezione del Re Agilulfo e della Regina Teodolinda
e sostenne un loro riavvicinamento alla chiesa di Roma nell’ambito dello Scisma Tricapitolino. Il
desiderio del Santo di portare il vangelo tra villaggi ancora pagani collimò allora con l’idea dei
sovrani longobardi che vedeva nell’Appennino un caposaldo per l’espansione verso la Liguria
bizantina. A San Colombano fu perciò affidata la missione di portare il Cristianesimo in quelle
regioni con la concessione di fondare un monastero sulle pendici del Monte Penice, a Bobbio. La
donazione era piuttosto esigua, ma negli anni successivi la morte del Santo il Cenobio di Bobbio
divenne uno dei centri culturali dell’Italia settentrionale e il suo patrimonio fondiario crebbe sino a
dare vita a un feudo monastico (dal nucleo centrale costituito da Val Trebbia, Val d’Aveto, Valle
Staffora e Val Tidone si portava sino alla Toscana e alla Liguria a sud e sino alle Langhe e alle
porte di Torino a nord, con diverse proprietà sparse nell’Italia Settentrionale). Una concessione
regia del 747 d.C. documenta come i suoi possedimenti raggiungessero il Monte Maggiorasca
avvicinandosi sempre di più alle alte Valli del Taro e del Ceno. Fu in quel periodo che sorsero
ovunque abbazie, chiese, oratori, xenodochi (tra VIII-X sec. numerosi pellegrini e soldati
attraversavano le vallate dell’Appennino alla volta della Toscana e di Roma) e gli enti clericali
assunsero sempre maggiore importanza anche nell’organizzazione della vita economica.
La fine del Regno Longobardo fu sancita nel 774 d.C. dalla discesa in Italia dei Franchi guidati da
Carlo Magno. La sua incoronazione a Imperatore, la notte di Natale dell’800 d.C., vide la nascita
dell’Impero Carolingio e da quello, nell’843 d.C. con il Trattato di Verdun (che divideva i territori
tra i suoi discendenti), sorse il Regnum Italicum. Con la dinastia carolingia si ebbe l’inserimento del
sistema feudale, così che la grande proprietà, che si stava ampliando secondo un modello fondiario,
costituì un polo d’attrazione per piccoli e medi proprietari. Gli uomini liberi, sino ad allora alla base
della società, si trasformarono in coloni dipendenti all’interno della corte (un nucleo in cui
abitavano servitori, mantenuti dal signore, che lavorano terreni padronali). La stessa espansione si
ebbe per i domini ecclesiastici, tant’è che tra le principali aziende del Monastero di Bobbio è
annoverata negli inventari del 862 d.C. e del 883 d.C. la corte di “Turris”, odierna Borgo Val di
Taro.
In tale contesto l’economia agricola trovò grande impulso allo sviluppo, ma il fenomeno interessò
soprattutto collina e pianura dove gli spazi ampi permisero ai poderi di estendersi, mentre la
montagna, con i prati scoscesi e le gole, non costituì un terreno ideale. In alto sui monti, dove
dominavano boschi popolati da pastori, boscaioli e cacciatori perciò la piccola e media proprietà in
parte sopravvisse in un quadro economico primitivo.
Sul finire del IX sec. gli equilibri si modificarono nuovamente quando la minaccia degli Ungari
travolse l’Europa occidentale. Questo popolo, che dalle steppe dell’Est era sceso nelle regioni
dell’attuale Ungheria, compì diverse incursioni e razzie nei territori dell’Impero Carolingio
distruggendo e trucidando interi villaggi. In Italia dal Friuli dilagò nella Pianura Padana e i suoi
saccheggi giunsero sino alle porte di Piacenza. Le città allora si spopolarono e i loro abitanti in fuga
cercarono rifugio sulle montagne fortificando paesi, costruendo castelli e dando il via ad un
fenomeno talmente intenso da essere poi definito “incastellamento dell’Appennino”. Ne è un
esempio la Rocca di Bardi edificata proprio in quell’epoca in comproprietà dal Vescovo di Piacenza
e dalle famiglie dei “Conti di Bardi” (l’atto d’acquisto da parte del Vescovo Everardo di metà dello
sperone roccioso su cui era stato recentemente edificato un fortilizio è datato 898 d.C.).
La situazione fu aggravata per il sovrapporsi della minaccia portata dai Normanni e delle scorrerie
dei Saraceni. Proprio per far fronte ai continui assalti degli ultimi re Berengario II operò nel 950951 d.C. una riorganizzazione dell’area ligure e Liguria orientale, parte della Toscana, Lombardia
ed Emilia occidentale furono riunite nella Marca Obertenga retta da Oberto I Marchese di Milano e
Conte di Luni. Pertanto entrò a farvi parte anche la Val Taro quale “Comitato Torosiano”.
Tutte queste circostanze contribuirono a dare inizio al declino del Feudo monastico di Bobbio che
oltre a godere di protezione papale e imperiale da quel momento risultò difeso dalla dinastia
Obertenga, a cui sarebbero poi passati diversi feudi con l’affievolirsi del potere degli abati. Da
ricordare in tale contesto tra i discendenti della famiglia il ramo dei Malaspina i cui esponenti si
fregiavano del titolo di “Principi di San Colombano”.
Con la fine del “Secolo di ferro” e l’arrivo del nuovo millennio tuttavia l’incremento della
popolazione portò ad uno sviluppo dei centri urbani e in essi ad una vita attiva e articolata associata
alla ripresa e allo sviluppo delle attività artigianali. Nacquero nuovi ceti sociali e i cittadini si
riunirono per liberarsi degli antichi vincoli feudali mentre l’indebolirsi in Italia dell’autorità
imperiale, di cui era investito un sovrano tedesco, divenne sempre più evidente sino all’avvento
delle autonomie comunali. Molte città iniziarono a porre sotto il proprio controllo le zone
circostanti e a svilupparsi come organismi autonomi pur non essendolo mai del tutto, in quanto
comunque assoggettate a strutture più vaste rette da grandi feudatari, re o imperatori.
La costruzione di fortezze e castelli si mantenne durante tutto quel periodo non più con un
preponderante finalità difensiva, ma soprattutto per dominare villaggi e possedimenti.
II
DAI MALASPINA AI LANDI
LA FAMA CHE LA VOSTRA CASA ONORA,
GRIDA I SEGNORI E GRIDA LA CONTRADA
Una data certa per l’instaurarsi di un primo insediamento sul colle di Compiano non è pervenuta e
le ricerche toponomastiche danno diverse interpretazioni circa l’origine del nome. Alcuni studiosi lo
fanno risalire alla dicitura “Castrum cum campo plano” (quindi “Campoplano” poi “Cumplano”)
con cui il paese risulta indicato nei documenti più antichi, mentre secondo altri si tratterebbe di una
formazione prediale dal nome gentilizio Campilius (“Fundus Campilianus”).
Malgrado si possa facilmente supporre fosse presente un abitato in epoca romana, se si considera la
posizione strategica sulla vallata e il fatto che questa fosse sicuramente popolata, non sono stati
ancora rinvenuti reperti che possano confermare l’ipotesi. Lo stesso è per tutto il periodo alto
medievale, anche se si può forse identificare “Compiano” nella fortezza Kastron Kampas citata
nella “Descriptio orbis romani” del geografo Giorgio Cipro che descrive un sistema di fortificazioni
a ridosso dell’Appennino utilizzate dai Bizantini nel VI sec. come difesa contro i Longobardi
(iniziavano a ovest nella zona di Borgo Val di Taro per poi portarsi a est fino a Reggio).
Si deve giungere all’XI sec. per avere notizie del borgo in un documento del 1021 d.C. in cui
l’imperatore Corrado conferma all’abate del monastero di S. Paolo del Mezzano (vicino a Bobbio)
il possesso di “Campoplano” e di un mercato presso quella corte, senza tuttavia far riferimento a un
castello. Certo è che nell’XI sec. il paese si presentava come un centro importante, fortificato e sede
del potere giurisdizionale su parte della valle.
Per ciò che riguarda il castello le prime informazioni certe risalgono invece al 1141 d.C. anno in cui
la famiglia Malaspina cedette il maniero al Comune di Piacenza, anche se la struttura difensiva
iniziale può esser fatta risalire all’epoca precedente il Mille. Molto probabilmente infatti, malgrado
non si abbiano dati precisi a riguardo, la prima fortificazione fu innalzata ex novo o rafforzando un
presidio addirittura precedente nel IX sec., quasi contemporaneamente alla Rocca di Bardi, come
risposta all’invasione ungara.
Alla metà del X sec. poi la Val Taro era entrata a far parte della Marca della Liguria orientale difesa
dagli Obertenghi i cui discendenti, tra essi anche i Malaspina, avrebbero ereditato i numerosi feudi.
Non c’è perciò da stupirsi se nel XII sec. troviamo diverse fortezze sparse nell’Appennino in mano
alla famiglia dei “Principi di San Colombano”.
Inoltre, la collocazione della vallata sul confine tra Parma, Piacenza e Pontremoli con valichi che
danno accesso alla Toscana rendeva in quei secoli la zona un importante punto di passaggio per le
milizie e questo aveva attirato l’attenzione della nuova realtà politica comunale piacentina. Mentre
il potere dell’imperatore tedesco in Italia si affievoliva, il 15 Luglio 1141 Guglielmo e Obizzo, figli
di Adalberto detto “il Malaspina”, si trovarono nella condizione di dover cedere, con un contratto
stipulato solennemente nel Palazzo Vescovile di Piacenza, i loro diritti su Castello e territorio al
Comune per poi riottenerli a titolo di feudo.
L’accodo fu osteggiato dai Compianesi per diversi anni fino alla resa, sancita da un trattato firmato
il 15 Agosto 1145, dopo che da Piacenza furono inviate truppe comandate dai Consoli Mantegazzi e
Fulgosio. Questo comunque non risolse definitivamente la situazione perché i Malaspina per quasi
tutto l’XI sec. cercarono di riappropriarsi dei loro vecchi possedimenti. L’autorità piacentina fu
inoltre continuamente contrastata dagli altri signori locali e ciò, unito allo spirito indipendentista
degli abitanti, avrebbe reso le valli un rifugio per ghibellini e una fonte di continua preoccupazione
per Piacenza.
Nel 1164 perciò Obizzo I Malaspina richiese e ottenne da Federico I l’investitura dei feudi paterni,
tra cui anche quello Compiano, per il sostegno e l’aiuto resi all’imperatore. Nel 1152
l’incoronazione del Barbarossa aveva infatti riportato una figura forte a capo dell’Impero e se nel
1154, alla prima venuta in Italia di Federico per riconfermare la sua autorità sulle entità comunali
sempre più autonome, i Malaspina avevano combattuto contro l’imperatore, nel 1167 già avevano
cambiato schieramento a favore di quest’ultimo.
La loro fedeltà si sarebbe dimostrata importante anche qualche anno più tardi, nel 1167, quando il
Barbarossa e il suo esercito di ritorno da Roma, dopo l’ennesima discesa nella penisola, colpiti dalla
pestilenza si trovarono bloccati in Lunigiana dalle milizie di Parma, Piacenza e Pontremoli. I
Comuni, che mal tolleravano le imposizioni imperiali e stavano iniziando ad organizzare una
resistenza, avevano deciso di approfittare del momento di debolezza delle truppe avversarie.
Fondamentale risultò quindi l’aiuto di Obizzo Malaspina che scortò l’Imperatore a Pavia attraverso
i suoi possedimenti nell’Appennino (Val d’Aveto, Val Trebbia, Val Staffora). Nella sua “Cronica”
Fra Salimbene da Parma narra che durante il viaggio attraverso quelle terre il Barbarossa abbia
chiesto al marchese Malaspina come potesse sopravvivere in una così “aspra contrada” e che la
risposta fu “venando et volando” (“di caccia e rapina”), per sottolineare la povertà della zona.
Solo alcuni mesi più tardi tuttavia Obizzo cambiò nuovamente partito quando i Comuni, desiderosi
di riaffermare i diritti ottenuti nei decenni precedenti, si coalizzarono nella “Lega Lombarda” e
divennero una realtà difficile da sottomettere. Federico fu quindi costretto a ritornare in Italia, ma
questa volta venne pesantemente sconfitto nel 1174 a Legnano, in una battaglia campale a cui
parteciparono anche le truppe compianesi dei Malaspina come parte dell’esercito di Piacenza. Alla
Pace di Costanza nel 1184 l’Imperatore dovette infine riconoscere ai Comuni alcuni diritti
amministrativi, politici e giudiziari.
Tuttavia l’esercito di Piacenza e quello dei Malaspina continuarono comunque a scontrasi nelle
ultime decadi del XII sec. nel tentativo di far valere i reciproci diritti sulla Val Taro. Nel 1180 e poi
ancora nel 1186 il Comune inviò spedizioni armate contro il Marchese e i suoi figli che stavano
tramando per rimpossessarsi dei territori. In particolare la seconda volta i soldati si portarono sino
alla Pieve di Compiano e, anche se non attaccarono direttamente il casello, incendiarono diversi
paesi limitrofi. Le contese si protrassero negli anni e al danno prodotto dalla guerra si sommò quello
causato dalla carestia finché nel 1189, grazie alla mediazione di Papa Clemente III, i Malaspina
lasciarono definitivamente i loro possedimenti a Piacenza per ritirarsi nei loro feudi in Liguria e
Toscana.
Il Comune di Piacenza mantenne quindi l’autorità sulla valle sino alla metà del XIII sec. creando un
sistema amministrativo e giuridico, ma dovette sempre affrontare l’ostilità della popolazione e dei
signori
locali,
mentre
si
profilava
all’orizzonte
l’avvento
dei
Landi.
D’AQUILE QUESTO E’ IL NIDO, E NON DI GALLI
Nell’Italia del XIII sec. lo scontro tra guelfi e ghibellini si inasprì quando sulla scena europea si
delineò la figura di Federico II di Svevia, erede per linea materna del Regno di Sicilia e per
discendenza paterna degli Hohenstaufen a capo del Sacro Romano Impero. Lo Stato Pontificio al
centro della penisola si ritrovò quindi minacciosamente schiacciato tra i due domini svevi e questo
diede adito ad una continua lotta tra il potere imperiale e quello ecclesiastico.
I Comuni dell’Italia settentrionale, che da sempre mal tolleravano l’autorità tedesca, divennero
teatro dello scontro tra filopapali e filo imperiali, passando di volta in volta in mano all’una o
all’altra fazione. In tale contesto si inserisce la storia della città di Piacenza, della famiglia Landi e,
con essa, della Valtaro.
I Landi, anche conosciuti all’epoca come De Andito, facevano parte da tempo dell’aristocrazia
piacentina, ma la loro importanza crebbe nel 1200 con gli eventi che li portarono a dimostrare
un’incrollabile fedeltà alla casa imperiale. A Piacenza nei primi anni del 1230 a capo dei ghibellini
si trovava Guglielmo Landi, personaggio di spicco che aveva rivestito in precedenza il ruolo di
podestà di Vicenza e di Milano. Furono i suoi continui intrighi contro i nobili a capo del Comune a
farlo cacciare dalla città nel 1236, ma l’esilio non pose fine alle congiure del Landi che continuò a
ordire piani al sicuro nei suoi possedimenti appenninici. Dal 1216 infatti la casata aveva iniziato ad
acquistare diversi terreni e castelli in Valceno, un rifugio ideale in vallate i cui abitanti avevano
conservato uno spirito indipendente e non avevano mai accettato di buon grado il governo
comunale.
La famiglia Landi rientrò a Piacenza solo nel 1251 quando una rivolta popolare riportò in auge il
partito ghibellino, e con Giannone e Ubertino rispettivamente figlio e nipote di Guglielmo. Ubertino
Landi seppe sfruttare la situazione che si era venuta a creare e, con intelligenza e fermezza, costruì
le basi su cui si erse nei secoli successivi il casato: mentre l’Italia comunale si schierava con
Manfredi, figlio di Federico II, egli consolidò la propria posizione, acquistando nuovi beni ed
estendendo il suo dominio in Valtaro e Valceno. Nel 1257 acquistò per 600 lire dal Comune di
Piacenza le giurisdizioni di Torresana (Borgotaro), Bardi, Compiano, Bedonia e tutto ciò che un
tempo era appartenuto ai marchesi Malaspina. Il suo potere era senza dubbio temuto se anche i suoi
alleati nello stesso anno fomentarono l’assedio della sua residenza a Piacenza e lo costrinsero alla
fuga. Ubertino in tale circostanza si rifugiò presso la corte dello stesso Manfredi di Svevia, di cui
nel frattempo aveva sposato la figlia Isabella e di cui godeva il favore. Infatti, dopo esser stato nel
1250 podestà di Siena per volontà della dinastia sveva, venne insignito in quel periodo dal sovrano
della Contea di Venafro in Puglia. Il legame con la nobile famiglia, che sarà sempre ricordato nel
motto landiano Svevo sanguine laeta, fece sì che i Landi ne seguissero le sorti nella seconda metà
del secolo.
Quando nel 1265 il Papato, sempre più preoccupato, chiese a Carlo I d’Angiò, fratello del re di
Francia, di scendere in Italia contro gli svevi, Piacenza ritornò in mano al partito guelfo. Ubertino
mantenne l’antica posizione filoimperiale ed inviò entrambi i figli, Corrado e Galvano, alla
Battaglia di Benevento dove furono catturati dagli angioini dopo la caduta di Manfredi, al quale
erano rimasti fedeli.
Il Regno di Sicilia era ora nelle mani di Carlo I. I ghibellini rivolsero quindi le loro speranze
all’ultimo esponente degli Hohenstaufen, Corrado IV, che nel 1267 partì dalla Germania alla
conquista dell’Italia meridionale. Il Landi appoggiò la sua discesa lungo la penisola fino alla
disfatta definitiva nella Battaglia di Tagliacozzo ad opera delle schiere di Carlo I.
Il potere dei guelfi era quindi incontrastato; per Ubertino iniziò un periodo di continui scontri con la
comunità piacentina che lo portarono a barricarsi nei castelli di Compiano e Montarsiccio tra gli
alleati più fidati. Accordi di pace vennero raggiunti solo nel 1276 quando la classe mercantile
comunale non poté più tollerare l’insicurezza lungo i valici appenninici e obbligò Piacenza a
intavolare delle trattative con il signore di Valtaro e Valceno. La storia del Landi tuttavia era ormai
prossima alla fine, che sarebbe sopraggiunta nel 1298. Malgrado il conte fosse riuscito a ottenere la
giurisdizione delle vallate di Taro e Ceno non riuscì a vedere coronato il desiderio di esserne
investito a titolo di feudatario dall’imperatore. L’autonomia dei feudi di Bardi e Compiano venne
riconosciuta da Piacenza solo nel secolo seguente, quando la storia dei Landi si sarebbe intrecciata a
quella viscontea.
Sul finire del XIII sec. si delineò nel panorama italiano il crescente potere dei Visconti signori di
Milano e futuri vicari imperiali. I Landi, che sull’Appennino controllavano alcune delle principali
vie di comunicazione tra le regioni settentrionali e centrali, furono costretti a raffrontarsi con i
tentativi espansionistici della nuova autorità milanese.
La famiglia, percependo il cambiamento che stava per sopraggiungere, da un lato si propose come
uno dei capisaldi del potere visconteo nel piacentino, dall’altro si mosse per ottenere il
riconoscimento della propria autonomia. L’impero, una prima volta nel 1212 con Enrico VII di
Lussemburgo e una seconda volta nel 1327 con Ludovico il Bavaro, acconsentì alle richieste dei
Landi che vennero investiti dei feudi di Borgotaro, Bardi, Compiano. In tal modo venivano
raggiunti due importanti traguardi: come feudatari imperiali i Landi risultavano soggetti solo
all’imperatore, mentre per i possedimenti si stabiliva una separazione territoriale, fiscale e
giurisdizionale dal distretto piacentino.
I Visconti tuttavia nel 1335 estesero i loro domini a Valtaro e Valceno e l’autorità landiana venne
nuovamente limitata dalla politica dei signori di Milano, che prevedeva un ridimensionamento dei
diritti feudali. Fu istituito un Pretore di Compiano con il compito di governare e amministrare le
valli. Il potere dei Landi, seppur limitato, comunque resistette. Il ‘300 fu quindi segnato da un
progressivo inasprimento dei rapporti con l’autorità viscontea che, non potendo controllare tutte le
fonti di malcontento, si trovò costretta nel 1380 a concedere ai feudi almeno la separazione fiscale.
D’altra parte i Visconti non potevano trascurare che i Landi avevano conservato un’indefessa
fedeltà al partito ghibellino e che li avevano appoggiati alla morte del duca Gian Galeazzo,
avvenuta nel 1402. Nel 1405, dunque, Giovanni Maria Visconti, che deteneva l’alto dominio sulla
zona, confermò a Galvano Landi tutti i diritti sulle giurisdizioni di Bardi, Compiano e Borgotaro,
elevando inoltre Compiano al titolo di Contea. Venne quindi riconfermato il distacco della
giurisdizione da Piacenza, già ottenuto con i precedenti diplomi imperiali.
La dipartita di Gian Galeazzo Visconti e la successione al Ducato di Milano del figlio tredicenne
Giovanni Maria segnò l’inizio della crisi dello stato visconteo e favorì il riaffermarsi del potere
delle famiglie nobili locali. Nell’Appennino oltre al consolidamento delle proprietà landiane si
assistette a una ripresa da parte dei Fieschi delle antiche pretese. La famiglia ligure, guelfa,
discendente dalla stirpe obertenga, dal XIII sec. aveva attuato una politica tesa al controllo dei
valichi tra Liguria, Toscana ed Emilia, che l’aveva contrapposta ai Landi. I dissapori con la casata
viscontea ne avevano limitato le mire per tutto il ‘300, ma con il nuovo secolo e la decadenza dello
stato milanese rispolverò i vecchi piani mai abbandonati: unire Borgotaro e Pontremoli per il
controllo del Passo del Bratello e della Cisa. Nel 1414, approfittò della situazione e occupò
Borgotaro, dando inizio a una diatriba con i Landi che avrebbe attraversato tutto il XIV e XV sec.
Sia Fieschi che Landi dovevano tuttavia ancora commisurarsi con il duca Filippo Maria Visconti
succeduto al fratello nel 1412. Il nuovo signore di Milano, sospettoso, paranoico, ma abile uomo
politico, cercò di estendere il suo dominio in Italia settentrionale, il che lo portò inevitabilmente allo
scontro con Firenze la cui importanza stava crescendo. Nel 1429 le sue truppe, comandate da
Nicolò Piccinino, occuparono Calestano, Borgotaro e Pontremoli, sottraendole ai Fieschi che si
erano schierati con i fiorentini. Nello stesso anno il Visconti, dopo aver accusato i Landi di
tradimento, prese possesso di Bardi e Compiano considerandoli pertinenze della Camera ducale, per
poi investirne della signoria lo stesso Piccinino dieci anni più tardi. Il condottiero sarebbe mancato
nel 1444 e nel 1447 Filippo Maria l’avrebbe seguito, dando occasione ai Landi di riappropriarsi del
feudo.
Alla morte del duca, Manfredo Landi si mosse alla riconquista del patrimonio dei suoi antenati, ma i
Granello, antica famiglia della Valtaro, lo precedettero e si insediarono nel castello di Compiano
con l’appoggio dalla Repubblica di Genova, che intravedeva la possibilità di controllare la zona.
Manfredo decise quindi di muoversi in uno scacchiere politico più ampio cercando aiuto e
contemporaneamente fornendo supporto a Francesco Sforza.
Il vuoto lasciato dell’ultimo discendente dei Visconti fu difatti occupato nel 1447 da un gruppo di
nobili milanesi che, preso il potere, istituì il governo della Repubblica Ambrosiana. Alcune città, tra
le quali Piacenza, rivendicarono la loro autonomia nei confronti della nuova autorità e trovarono
un’alleata in Venezia, che guardava con interesse verso l’area lombarda. I capitani di Milano
assoldarono lo Sforza per riportare ordine ma egli, se in prima istanza accettò, quasi subito si rivolse
contro la neonata Repubblica rivendicando il titolo di duca di Milano in quanto marito di Bianca
Maria Visconti, figlia di Filippo Maria. Nel 1450 Francesco Sforza, sconfitti i veneziani, entrò
finalmente a Milano vittorioso e, memore dell’appoggio dei Landi degli anni precedenti, garantì
loro il suo sostegno nel riottenere Compiano e liquidare le consorterie locali e, nel 1454, gli
riconfermò le investiture conferite ai suoi avi. La stima degli Sforza nei confronti di Manfredo si
mantenne anche negli anni seguenti, prova ne è il fatto che questi nel 1481 entrò a far parte del
Consiglio segreto, il più alto organo con funzione di tribunale civile e militare del Ducato di
Milano.
Forse proprio in virtù di tale legame con il duca e per ampliare la loro influenza alla corte sforzesca,
ma soprattutto per appianare gli antichi rancori, i Fieschi decisero di giungere ad un accordo con i
Landi. Nel 1468 Manfredo Landi sposò in seconde nozze Antonia Maria Fieschi che portava con sé
una ricca dote basata sulla rendita dei feudi di Borgotaro e Varese Ligure, con il vincolo che, nel
caso i proventi fossero risultati insufficienti, i domini sarebbero passati alla dinastia landiana. Gli
scontri erano comunque destinati a riaccendersi alla morte di Antonia Maria. Nel 1478 Gianluigi
Fieschi si riappropriò di Varese e invase la Valtaro per rivendicare Borgotaro, occupata da
Manfredo l’anno precedente. Seppur sconfitto il Fieschi ripeté l’impresa nel 1479 e fu nuovamente
ricacciato al di là del Passo del Centocroci; in tale occasione giunse però ad assediare il Castello di
Compiano. Borgotaro ritornò alla stirpe ligure solo nel 1488 per volontà del Duca di Milano, che
risolse la diatriba in favore dei Fieschi come riconoscimento per l’appoggio prestatogli nel
rafforzare la sua influenza su Genova.
I Landi intanto avevano esteso i loro possedimenti alla Val Nure con l’acquisto nel 1483 di Ferriere.
Ciò ebbe conseguenze importanti dopo la morte di Manfredo nel 1488, quando i figli per
amministrare meglio i vari possedimenti decisero di dividerli. Nel 1491 Corrado ottenne Rivalta e
Niviano, Federico Bardi e Ferriere, mentre a Pompeo andarono Compiano e Caselle Po. La storia
della famiglia si divise irrimediabilmente, perché se Compiano e Bardi si sarebbero riunite nel XVI
sec.,
Rivalta
seguì
dal
quel
momento
un
diverso
destino.
Alla porte del ‘500 il Rinascimento italiano, sorto dalla quiete seguita alla Pace di Lodi, stipulata
nel 1454 dopo un lungo periodo di scontri tra Francesco Sforza e la Serenissima, fu sconvolto dalla
discesa in Italia di Carlo VIII.
Gli stati italiani non erano né in grado di trovare un accordo solidale, né abbastanza forti perché uno
potesse predominare sull’altro. Le ricche corti italiane cominciarono così a rappresentare un bottino
ambito per le potenze d’Oltralpe. Nel 1494 il re di Francia Carlo VIII di Valois, discendente di
Carlo d’Angiò, si mosse verso la penisola per rivendicare il Regno di Napoli, sottratto agli angioini
nel 1442 da Alfonso d’Aragona. L’esercito francese raggiunse Napoli e la occupò, ma i principi
italiani, preoccupati, si coalizzarono con Papato, re di Spagna, Imperatore del Sacro Romano
Impero e fondarono la Lega antifrancese. Carlo VIII tentò allora di rientrare il prima possibile in
patria, ma il 6 Luglio 1495 fu affrontato e sconfitto a Fornovo dalle schiere della Lega e ripiegò
verso la Francia mentre Ferdinando II d’Aragona riconquistava Napoli.
Tali eventi risultarono particolarmente significativi in quanto pronostici di un periodo storico in cui
l’Italia divenne teatro di continue contese tra le principali casate europee a cui andarono a
sovrapporsi le aspirazioni espansionistiche dello Stato Pontificio. Iniziarono le Guerre d’Italia.
I francesi infatti ritornarono nel 1499 con il successore di Carlo VIII, Luigi XII, che sconfisse gli
Sforza e si impossessò di Milano rivendicando il Ducato in quanto erede di Valentina Visconti,
figlia di Gian Galeazzo Visconti. L’Italia nord-occidentale entrava nella sfera del dominio francese.
Nell’Appennino ciò rappresentò un vantaggio per i Fieschi, che erano tenuti in gran considerazione
per l’influenza che il casato aveva sempre avuto sul quadro politico genovese. La famiglia lo sfruttò
per consolidare il proprio potere. I Landi, d’altra parte, indeboliti dalla precedente divisione tra
Bardi, Compiano e Rivalta, assunsero inoltre una posizione anti-francese: Pompeo Landi fu
condannato per aver ordito una congiura nei confronti di Luigi XII e, seppur assolto, fu costretto nel
1500 a inviare a Parigi come osteggio uno dei figli.
Qualche anno dopo il re di Francia rivolse desiderio e armi anche contro il Papato, che rispose
fondando la Santa Lega. Nel 1512 questa riuscì a cacciare i francesi dalla penisola. A Milano
rientrarono gli Sforza, ma fu solo un breve interludio perché il Ducato nel 1515 cadde nelle mani di
Francesco I, nuovo reggente di Francia che aveva invaso l’Italia. I Landi non si opposero
apertamente al sovrano, ma consapevoli del timore che dilagava nei confronti dell’atteggiamento
egemonico francese rafforzarono le antiche tendenze ghibelline e le alleanze filo asburgiche,
prevedendo il futuro cambiamento dello scacchiere europeo.
Nel 1519 Carlo V d’Asburgo venne eletto imperatore del Sacro Romano Impero. Sul suo regno non
tramontava mai il sole: ai possedimenti asburgici e borgognani ottenuti per discendenza paterna
sommava l’eredità avuta dalla madre nel 1516, che comprendeva il Regno di Spagna e i territori
italiani del Regno di Sicilia e di Napoli, conquistato dagli aragonesi nel 1504. La Francia era sotto
assedio e lo scontro inevitabile, soprattutto considerando il desiderio di Carlo di realizzare una
monarchia universale.
Nel 1521 Francesco I cercò di spezzare l’accerchiamento in cui si trovava attaccando i domini
asburgici; fu però sconfitto e cacciato da Milano. Ebbe inizio una fase di scontri che si concluse con
la disfatta definitiva dei francesi a Pavia nel 1525 e con la successiva Pace di Cambrai, in cui il re di
Francia abbandonava le sue pretese nella penisola a favore della Spagna e di Carlo V. Tale
supremazia fu riconosciuta anche dal papa che incoronò l’Asburgo re d’Italia e imperatore.
Le circostanze vollero che nel ramo della famiglia Landi di Bardi sorgesse in tal frangente la figura
di Agostino, che diede una svolta decisiva alle sorti della casata. Il nuovo signore seppe avvalersi,
con l’arrivo del potere degli Asburgo, dei legami filo-imperiali che i Landi da sempre coltivavano.
Il suo prestigio crebbe per tutta la prima metà del XVI sec., ma doveva essere già notevole nel 1530
se alla cerimonia di incoronazione di Carlo, tenutasi a Bologna, fu l’unico rappresentante della
nobiltà piacentina ad essere invitato. Il sovrano aveva inoltre soggiornato nel suo palazzo a
Piacenza quando si era trovato nella città emiliana.
Agostino ebbe una personalità decisa e intraprendente che lo portò ad affermarsi e a restaurare il
potere landiano. La condizione economica del feudo lasciatogli dal padre non era tra le migliori: per
far fronte alle difficoltà, infatti, nel 1509 era stata venduta la proprietà di Ferriere. Per questo
motivo e per incrementare il suo potere decise di riunire Bardi e Compiano. Ciò fu possibile grazie
al matrimonio con la cugina Giulia, avvenuto nel 1532, dopo aver ricevuto la dispensa papale e
dopo che si era stabilito che la fanciulla portasse in dote il castello di Compiano con i relativi
possedimenti. L’impero riconobbe l’unione dei due feudi con un diploma del 1536 in cui confermò
ad Agostino i privilegi su Compiano che erano stati dei suoi predecessori. Era solo il primo passo
verso il consolidamento dell’autorità dei Landi su Valtaro e Valceno. Negli anni che seguirono
Agostino e Giulia governarono prestando particolare attenzione alla creazione di un solido sistema
per il controllo dell’economia e della gestione degli affari pubblici. Tra gli interventi più importanti
sono da ricordare l’acquisto di tutti i diritti sulla curia di Bedonia che ancora vantava il Vescovo di
Piacenza (1534), la revisione dell’estimo dei terreni (1537), la promulgazione di una nuova legge
relativa all’elezione di pubbliche cariche (1540), l’acquisizione degli ultimi diritti nella zona di S.
Maria del Taro, a ridosso del Passo del Bocco (1552). Nel 1541 risolse inoltre a proprio favore una
disputa con il comune di Piacenza, che aveva cercato di mettere in discussione l’autorità landiana su
quei territori.
I due coniugi in quel periodo collaborarono proficuamente nella gestione del feudo, in quanto
Agostino teneva in grande considerazione l’opinione della moglie. Il 10 Agosto 1546, però, Giulia
morì dopo aver dato alla luce il settimo figlio. Sicuramente questo fu un momento difficile per
Agostino che, sebbene descritto come un uomo spietato, doveva amare la moglie teneramente e
sinceramente. Risulta commovente una lettera scritta nel 1551 in cui descrive l’incontro con lo
spirito della consorte che gli era apparso, una pagina ricca d’affetto degna di un allievo del
cardinale Pietro Bembo quale lui era.
Nel campo della politica estera Agostino non venne mai meno all’amicizia con Carlo V. Il suo
appoggio all’impero fu tale che nel 1547 partecipò alla congiura che portò alla morte di Pier Luigi
Farnese, malgrado avesse rivestito per il duca di Parma il ruolo di ambasciatore a Venezia (1546) e
Genova (1447). Nel contesto dello scontro franco-asburgico dei primi del ‘500 il Papato aveva
infatti avanzato le proprie pretese su Parma e Piacenza, alle quali da tempo aveva volto la sua
attenzione. Le due città erano quindi ricadute nel dominio pontificio e nel 1545 Alessandro Farnese,
papa Paolo III, aveva istituito il Ducato di Parma e Piacenza e ne aveva investito il figlio Pier Luigi.
La situazione costituì fonte di preoccupazione per Carlo V e per i nobili locali, l’autonomia dei
quali fu fortemente ridotta dal nuovo signore. Alcuni ghibellini piacentini decisero di intervenire. Il
10 settembre Agostino Landi, Giovanni Anguissola, Gerolamo Pallavicino e Gian Luigi
Confalonieri, con il benestare di Ferranante Gonzaga, governatore imperiale a capo del Ducato di
Milano, penetrarono nelle camere del duca a Palazzo Farnese a Piacenza e dopo averlo pugnalato ne
gettarono il cadavere dalla finestra. Le conseguenze furono terribili: le truppe milanesi del Gonzaga
con il pretesto di riportare la pace occuparono la città in nome dell’imperatore, ma il figlio di Pier
Luigi, Ottavio, non si rassegnò e si barricò a Torrechiara. Ebbe così inizio uno scontro che sarebbe
durato dieci anni, la Guerra di Parma.
Nel 1551 il Farnese, che non era ancora riuscito ad avere la meglio, cercò l’alleanza della Francia.
Di nuovo Agostino ebbe occasione di dimostrare la sua lealtà impedendo il passaggio di truppe
farnesiane sul suolo di Bardi e Compiano. In particolare viene ricordata nei documenti dei Landi la
disfatta di otto compagnie di francesi provenienti dal Piemonte che tentarono di attraversare le
nostre valli per raggiungere Ottavio; l’evento fu commemorato con versi poetici:
D'Aquile questo è nido, e non di Galli.
Così Agostin dicea, con ferro in mano,
Quando sul Franco fulminò in quel piano.
Il Farnese rientrò in possesso di Parma e Piacenza solo dopo essersi arreso ad una alleanza con la
Spagna nel 1556 con il trattato di Gant, ma dovette inviare il suo unico erede come ostaggio alla
corte madrilena e rinunciare a qualsiasi vendetta verso gli esecutori dell’assassinio del padre, cosa
che fece solo in apparenza, continuando nel profondo a serbare rancore. Il confronto con i Landi
avrebbe segnato tutta l’epoca successiva.
Il segno della stima di Carlo V per l’indefesso impegno di Agostino giunse tra il 1551-1552 con
quattro diplomi imperiali:
- il primo, il 25 maggio 1551, conferì ad Agostino i territori imperiali di Bardi e Compiano
come feudi nobili, onorifici, antichi, gentili, aviti;
- il secondo, sempre il 25 maggio 1551, investì Agostino del Principato di Valditaro;
- il terzo, il 22 ottobre 1551, confermò l’elevazione di Compiano a Contea (già operata dai
Visconti) e vi aggiunse il titolo di baronia, mentre Bardi venne innalzato a marchesato,
confermò inoltre la piena autorità di Agostino sui possedimenti con esercizio della pena
capitale;
- il quarto, l’8 aprile 1552, assegnò la qualifica di illustre e il diritto di battere moneta.
Con ciò Agostino, come “Princeps Vallis Tari et Ceni” poté per primo in Italia fregiarsi del titolo di
principe sovrano del Sacro Romano Impero.
Era nato lo Stato Landi, direttamente dipendente dall’impero, separato non solo da Piacenza, ma
anche dal Ducato milanese nel cui ambito durante i secoli precedenti Bardi e Compiano erano
sempre ricadute. Risulta significativo in tal senso il testo del giuramento sostenuto dai procuratori
compianesi nel riconoscere i diritti della nuova autorità: unico signore e padrone era il conte e
barone Landi, nessun altro ad eccezione dell’imperatore.
Nel 1551 Agostino ottenne anche la nomina a senator miles all’interno del Senato milanese,
l’organo che aveva sostituito il Consiglio Segreto. Quest’ultima carica era più che altro onorifica,
ma gli consentì di intrecciare rapporti con l’aristocrazia e organizzare il matrimonio della figlia
Porzia con Ludovico Gallarati, importante esponente della nobiltà ducale.
All’interno della realtà statuale landiana era rientrato inoltre con il diploma del 25 maggio il
territorio di Borgotaro, precedentemente appartenuto ai Fieschi. L’illustre famiglia ligure di
tradizione guelfa, con l’avvento del potere asburgico, si era trovata isolata e abbandonata dagli
antichi alleati. Nel 1547, nel tentativo di restaurare l’influenza francese a Genova, era stata
l’ideatrice di una congiura nei confronti di Andrea Doria, quindi del potere imperiale. L’atto non
raggiunse il risultato sperato, il Doria sopravvisse e Carlo V sancì la caduta dei Fieschi come
feudatari con relativa requisizione di tutte le loro proprietà. Borgotaro fu perciò occupato dalle
truppe imperiali e fu scelto come governatore il conte Agostino (1548), che venne poi nel 1551
investito del borgo. Da subito le relazioni tra i borgotaresi e il Landi non furono delle migliori. La
condotta del principe verso i nuovi sudditi fu intransigente, tanto che su consiglio del duca di
Milano, che vedeva Borgotaro come un covo di guelfi ribelli, abbattè la cinta muraria posta a
protezione del paese. Gli abitanti non perdonarono mai tale atto e l’ostilità che ne derivò non si
sarebbe mai sopita. Le azioni di Agostino in quegli anni contestuali alla Guerra di Parma si
rivolsero anche contro possibili gruppi farnesiani insiti nella zona valtarese. Il nuovo principe
giunse a cacciare oltre il confine ottanta uomini sospettati di collaborare con il duca di Parma e a
operare veri e propri rastrellamenti tra i signorotti borgotaresi. In un racconto dell’epoca si riporta
che agli arrestati prima di essere giustiziati fu chiesto di spogliarsi in modo da non rovinare i vestiti
di cui si sarebbero impossessati gli armigeri del Principe.
Una delle poche persone verso cui Agostino in quel periodo manifestò reverenziale timore fu la
devota Margherita Antoniazzi da Cantiga (nel comune di Bardi), donna di grande carisma,
spiritualità e carità cristiana, fulcro di fervore religioso per la popolazione grazie ai numerosi
miracoli che le vennero attribuiti. A lei il signore di Compiano, tanto temuto e spietato, elargì
diverse donazioni per la realizzazione di una chiesa intitolata alla Beata Vergine attorno a cui venne
fondata un piccola comunità monastica.
Il primo principe di Valditaro morì nel 1555 a Milano, avvelenato forse per ordine di Ottavio
Farnese.
L’anno dopo Carlo V, logorato da decenni passati a lottare per mantenere il dominio in Europa, si
ritirò dopo aver diviso il regno tra i suoi due figli: a Filippo furono assegnate Spagna, Paesi Bassi e
possedimenti italiani, a Ferdinando i territori austriaci e il titolo di imperatore.
Ciò ebbe riflessi sulla politica landiana, perché malgrado l’investitura imperiale dei feudi la
famiglia cercò sempre di più l’appoggio spagnolo. Manfredo Landi, che successe al padre Agostino
nella reggenza dello stato appenninico, ne fu un esempio con il suo diretto impegno nella Battaglia
di S. Quintino nel 1557 quando il Regno di Francia, che aveva mantenuto vivi nel corso degli anni
gli scontri con gli Asburgo per la supremazia in Italia, fu definitivamente sconfitto. La
partecipazione all’impresa gli valse il riconoscimento della corte madrilena: Filippo II Re di Spagna
lo nominò Governatore di Lodi e gli fu concessa in sposa Giovanna Hernandez di Cordova e
d’Aragona, discendente dei re del Portogallo. A pochi giorni dalle nozze nel 1563, però, il principe
fu “sorpreso da micidial morbo a Rosas in Catalogna”, dove morì senza aver avuto occasione di
consumare il matrimonio.
Il governo di Bardi, Compiano e Borgotaro passo nelle mani di Claudio Landi, secondogenito di
Agostino. Il nuovo signore perseguì gli interessi landiani prendendo in moglie la vedova del fratello
e sostituendolo nell’amministrazione di Lodi, dove si trasferì, lasciando la gestione dei feudi allo
zio Giulio Landi, a cui anche Manfredo li aveva spesso affidati. Il terzo principe di Valditaro, di
indole molto diversa da quelle dei predecessori, non può certo essere ricordato per le sue qualità
diplomatiche. Il suo carattere irascibile e altezzoso contribuì a far precipitare il rapporto già critico
con la comunità borgotarese. Tra il 1550 e il 1578, oltre alla demolizione delle mura del borgo, i
Landi dimostrarono in più occasioni la loro predilezione per i sudditi di Compiano e Bardi a scapito
degli abitanti di Borgotaro, che avevano un’annosa tradizione di fedeltà alla fazione guelfa dei
Fieschi. Su di essi non solo gravavano continue imposizioni di tasse, molto spesso non necessarie
dato che il casato dei Landi era tra i più benestanti del piacentino (Agostino nel 1539 si era potuto
permettere un suo ritratto realizzato da Tiziano), ma anche forti limitazioni dei loro diritti civici e
commerciali. La situazione sfociò in una rivolta di Borgotaro nel gennaio 1578 dopo l’ennesimo
incremento delle imposte. L’impresa fu in parte fomentata da Ottavio Farnese, mosso dall’atavico
odio verso gli assassini del padre oltre che dal desiderio di ampliare i domini del Ducato di Parma, i
cui confini per un lungo tratto combaciavano con quelli dei feudi Landi. Claudio tentò una
riconquista armata del paese, ma fallì per l’intervento delle truppe farnesiane che, su richiesta della
popolazione, occuparono la città proclamandosi difensori dei domini temporali del Papato. Parma e
Piacenza erano infatti pertinenze dello Stato Pontificio e Borgotaro venne quindi rivendicata come
feudo della Chiesa in quanto parte della antica giurisdizione piacentina. La contesa coinvolse
direttamente il papa e l’imperatore e non si giunse ad una soluzione fino alla morte dell’ultimo
esponente della stirpe Landi, anche se a Borgotaro si insediò un governatore farnesiano e perciò
entrò di fatto a far parte del Ducato di Parma.
Gli effetti della disattenzione di Claudio al problema borgotarese non si limitarono alla perdita del
borgo: per difendere Compiano e Bardi da un’ulteriore avanzata di Ottavio, il Principe Landi fu
costretto a chiedere aiuto a Firenze, il cui governo gravitava nell’orbita spagnola, e quindi ad
accettare e mantenere, con grandi spese, un contingente di truppe medicee all’interno dei suoi feudi.
Le mire espansionistiche del duca di Parma infatti divennero evidenti nel 1578, con la condanna in
contumacia di Claudio Landi, accusato di lesa maestà per aver cospirato contro la vita del Farnese.
Ottavio confiscò tutti i beni del principe nel parmense, oltre al palazzo di famiglia a Piacenza
malgrado sia Spagna che impero ne avessero riconosciuto la piena innocenza.
In tale clima la sconsideratezza di Claudio avrebbe potuto portare a sequele più gravi, ma fu
coadiuvato nella gestione degli affari dalla sorella Porzia, donna dalla personalità più seria ed
equilibrata, che tra il 1580 e il 1590, durante le assenze del fratello, gestì lo Stato Landi, ormai
costituito solo da Bardi e Compiano, in veste di governatrice pro tempore.
L’epoca del terzo principe di Valditaro si concluse nel 1589 a Bardi. Il figlio Federico che gli
successe mostrò una personalità molto diversa da quella paterna.
Federico II Landi nacque nel 1573 e sedici anni dopo ereditò dal padre lo Stato Landi diventando il
quarto principe di Valditaro. In lui i feudi trovarono una guida sicura, riflessiva e attenta alla
gestione economica.
Il suo operato nei primi tempi venne affiancato dalla zia Porzia, che era stata un importante punto di
riferimento anche per il suo predecessore. Figure femminili di rilievo comunque accompagnarono e
caratterizzarono tutta la sua esistenza e risultarono fondamentali nel conseguimento del suo
prestigio politico.
Governatrice dello stato nell’ultimo decennio del ‘500 fu infatti la sorella di Federico, Maria Landi.
Il principe in quel periodo risiedeva stabilmente a Milano, di cui la famiglia aveva cittadinanza dal
1575. Lì il casato aveva trasferito la propria residenza urbana dopo la confisca dei beni piacentini
operata da Ottavio Farnese; inoltre vicino Lodi si trovava il feudo di Turbigo, appartenuto ai
Gallarati ed ereditato da Federico grazie a un lascito della zia Porzia, moglie di Ludovico Gallarati.
Il Landi durante i soggiorni milanesi si dedicò agli investimenti economici per rafforzare la
posizione sociale e finanziaria della famiglia. Diede prova di notevole abilità diplomatica nel gestire
il legame con il potere spagnolo che stava diventando particolarmente invadente. Senza venir meno
all’amicizia con la corte madrilena volse lo sguardo verso possibili alleanze con piccoli stati che
rientravano nell’area dell’influenza imperiale. Nel 1595, secondo tale principio, Maria Landi,
principessa di Valditaro, andò sposa ad Ercole I Grimaldi signore di Monaco, mentre nel 1597 lo
stesso Federico prese in moglie Placidia Spinola, esponente di una delle più ricche famiglie
aristocratiche genovesi.
L’unione Landi-Grimaldi ebbe importanti riflessi nella storia di entrambi i casati, Nel 1604
morirono sia Maria che Ercole lasciando tre figli piccoli: due femmine e un maschio, Onorato.
Monaco costituiva un punto strategico per il controllo del Mediterraneo occidentale, rientrando sia
nelle mire francesi che spagnole, ma nel vuoto di potere che si venne a creare Madrid fu più rapida
e insediò una guarnigione nello stato col pretesto di proteggere i diritti dei piccoli Grimaldi.
Federico Landi seppe inserirsi magistralmente nella questione: riuscì ad ottenere la custodia dei
nipoti, a farsi investire dal re di Spagna della reggenza di Monaco in nome di Onorato e a negoziare
una regolamentazione circa la presenza di truppe spagnole sul suolo monegasco. Allo scoccare del
1616 consegnò al nipote la sua eredità statuale preservata.
I gravosi impegni tuttavia non distolsero il principe da una corretta amministrazione dei feudi
appenninici che sotto la sua direzione assunsero i caratteri di un vero e proprio stato autonomo. Nel
1594 liberò le vallate dal peso degli armigeri fiorentini dei Medici, che dall’epoca di Borgotaro
ancora vi si trovavano. Il suo operato, inoltre, vide la fondazione a Compiano di un Monte di Pietà
per garantire nei periodi di carestia la distribuzione delle granaglie necessarie alla semina (1608),
l’attivazione delle zecche di Compiano e Bardi (1610-1630) secondo i diritti ottenuti da Agostino
nel 1552 e l’istituzione, grazie a un diploma imperiale, di un Collegio Notarile con sede a Bardi
(1616) che fece dello stato landiano un elemento di unicità nell’ambito feudale. Si assistette anche a
una revisione delle cariche pubbliche e all’organizzazione di un sistema di truppe deputato alla
protezione e al mantenimento dell’ordine nei territori.
Altri interventi importanti riguardarono la vita spirituale della comunità, come la legittimazione nel
1599 dell’ordine monastico sorto con Margherita Antoniazzi, che venne inquadrato all’interno della
regola agostiniana; per le monche il principe fondò a Compiano un nuovo monastero di cui oggi
purtroppo quasi non rimangono tracce. Inoltre Francescani e Frati Minimi furono introdotti a
Compiano, Bardi e Bedonia dove il Landi affidò loro chiese e conventi.
Gli ostacoli che Federico dovette fronteggiare nel conseguimento delle sue imprese non furono
pochi, ma ebbe la fortuna di avere accanto Placidia Spinola, donna di grande carattere, che lo
coadiuvò nella gestione degli affari famigliari.
L’ostilità dei Farnese si ripresentò con il successore di Ottavio, Ranuccio I. Il duca di Parma istituì
diversi processi contro il Landi accusandolo di vari crimini, tra cui quello di omicidio, nel tentativo,
una volta che fosse stato giudicato colpevole, di farlo decadere dal ruolo di feudatario imperiale e
rivendicare, come era accaduto per Borgotaro, i domini di Compiano e Bardi. Il complotto non
ottenne grandi risultati e il prestigio del Landi non fu intaccato, tanto che nel 1612 fu insignito del
Toson d’oro, importante ordine cavalleresco, e nel 1619 divenne Commissario imperiale per i feudi
italiani, titolo equiparabile a quello di un odierno ambasciatore.
Il dissidio tra le due casate era talmente profondo che non riuscirono ad accordarsi neppure quando
il destino gli fornì l’occasione ideale. Unica erede dei feudi dal 1616, data di morte del primogenito
maschio di Federico, era Maria Polissena principessa di Valditaro della cui grazia si innamorò
Ottavio Farnese, figlio di Ranuccio. Un matrimonio tra i due giovani avrebbe risolto anni di contese
ma, secondo le note del perfetto dramma shakespiriano, le trattative non arrivarono a una
conclusione positiva e il duca di Parma giunse a far imprigionare il povero Ottavio che non si
voleva rassegnare alla perdita dell’amata per cui morì anni dopo in carcere.
Il principe si mosse allora per cercare un’altro marito alla figlia, dal momento che la situazione era
stata complicata da una contemporanea rivendicazione dei territori sostenuta dal ramo dei Landi di
Rivalta, discendenti più prossimi di Federico. Secondo la legge imperiale le donne non potevano
essere inserite nella successione feudale a meno che non intervenisse una specifica deroga
dell’imperatore e in sua vece un marito si assumesse l’impegno del servizio militare che costituiva
un dovere primario per ogni feudatario del Sacro Romano Impero. La scelta politica ricadde su Gian
Andrea II Doria, principe di Melfi, esponente di una casata genovese molto influente. Nel 1627,
dunque, dopo l’arrivo nell’anno precedente del decreto imperiale che permise al Landi di dotare la
figlia dei feudi, i due convolarono a nozze.
Probabilmente, nei piani del signore di Compiano e Bardi, i possedimenti landiani avrebbero dovuto
unirsi a quelli appenninici dei Doria a creare un considerevole centro di potere tra Liguria ed
Emilia, ma ciò non sarebbe mai successo.
Federico Landi morì solamente nel 1661, ma si ritirò dal governo dello stato molto prima, nel 1630,
lasciandolo nelle mani di Maria Polissena e Gian Andrea. La gestione del patrimonio di famiglia
non si modificò molto sotto la loro tutela. Anche il tentativo operato dal Doria di riconquistare
Borgotaro nel 1636 non portò a nulla. Lo stesso Gian Andrea venne a mancare nel 1640 lasciando
tre figli, tra essi Andrea IV Doria-Landi suo successore. Il carattere deciso e autoritario della
principessa Landi ebbe modo di manifestarsi in tale occasione quando in diretto contrasto con la
famiglia del marito riuscì ad ottenere la custodia dei figli, fatto che le portò il risentimento della
stirpe genovese, mentre l’amministrazione dei beni delle due casate rimase separata. Il fato di
Andrea VI non fu molto diverso da quello paterno: morì infatti a solo ventisette anni. Maria
Polissena dovette così confrontarsi con una figura femminile dotata di uno spessore e una volontà
pari ai suoi, la vedova Violante Lomellini, che assunse la direzione dei possedimenti Doria in nome
di Gian Andrea III Doria-Landi suo figlio. Di nuovo non si crearono le condizioni necessarie per
l’unificazione dei feudi landiani con quelli genovesi. La politica della Lomellini si volse tra l’altro
all’ambiente romano e organizzò nel 1671 il matrimonio tra Gian Andrea III e Anna Pamphilj
ultima erede della nota famiglia romana, spostando gli interessi della famiglia sempre più lontano
dall’Appennino.
Nel 1679 perciò con la morte dell’ultima principessa dei Landi di fatto morì anche lo Stato Landi.
III
DOPO IL 1682...
PER QUESTE SELVE E RISONAR SINTESE,
LA GLORIA DI FARNESE
Gian Andrea III Doria-Landi, nipote di Maria Polissena, ereditò dalla nonna nel 1679 i feudi
landiani. Si creavano perciò le condizioni necessarie per poter attuare l’unione dei territori con i
domini appenninici dei Doria. La morte dell’ultima principessa dei Landi tuttavia fornì ai Farnese
l’occasione che attendevano da un secolo per rivendicare il possesso di Bardi e Compiano. Il duca
di Parma espose le sue pretese all’imperatore Leopoldo I d’Asburgo unendo, al contempo, minacce
di guerra e disponibilità a riconoscere sui feudi l’autorità imperiale. La diatriba si inserì nel contesto
della minaccia ottomana su Vienna, momento in cui l’imperatore auspicava la pace in Italia. Gian
Andrea si ritrovò così nella controversia privo dell’appoggio asburgico. Egli inoltre, secondo la
volontà materna, aveva sposato Anna Pamphilj, ultima rappresentante della nota casata romana. La
nascita dei Doria-Landi-Pamphilj aveva pertanto portato alla famiglia nuovi beni, ma anche
interessi lontani dall’ambiente genovese. Tutto ciò condusse il Doria a ritenere “necessaria” la
vendita dei due feudi a Ranuccio II.
Nel 1682, con il versamento di 120.714 ducatoni ai Doria, i Farnese riuscirono a estendere il loro
potere sino agli ultimi valichi dell’Appennino emiliano che mettevano in comunicazione Italia
settentrionale con Liguria e Toscana. Acquisirono inoltre il Collegio Notarile legato al feudo di
Bardi e quindi il diritto di nominare autonomamente notai. Ranuccio Farnese compensava così la
perdita del Ducato di Castro, importante possedimento della famiglia, passato alla Chiesa in quegli
stessi anni.
Al contempo, però, i territori avevano conservato l’investitura imperiale e la proprietà ultima era
rimasta all’imperatore. Alta Valtaro e Valceno mantennero una gestione locale degli affari pubblici,
autonomi e liberi da tassazioni statali, come da ingerenze giudiziarie parmensi. La casata da sempre
guelfa dei Farnese si ritrovò invece costretta a pagare ingenti tributi all’Impero, che necessitava di
cospicui fondi, a sostegno delle imprese belliche intraprese per contrastare la politica offensiva di
Luigi XIV.
Il ramo dei Landi di Rivalta nel frattempo accampava diritti sui due feudi in quanto ultimo
rappresentante della stirpe; il duca di Parma allora nel 1687 decise di cedere loro in cambio il feudo
di Gambaro in Alta Valnure.
Indicative di tutto ciò sono le carte geografiche dell’epoca dove lo stato Landi, indicato come
Status Vallis Tari, è raffigurato con colori e confini che lo delimitano all’interno del Ducato di
Parma e Piacenza. Ancor più importante il fatto che, in seguito alle proteste dei rappresentanti di
Bardi e Compiano, nel 1690 il duca di Parma promulgasse gli Statuti da osservarsi nello Stato di
Bardi, Compiano e pertinenze, che ripristinavano i diritti commerciali di cui godevano le comunità
con i Landi e che lo stesso Ranuccio aveva fortemente limitato nel 1684.
L’attenzione dei Farnese in Valtaro si diresse soprattutto su Borgotaro, già appartenente al ducato
dal 1578, dove furono trasferite le istituzioni. Quando nel 1714 Elisabetta Farnese, nipote di
Ranuccio II, futura regina di Spagna, partì alla volta della penisola iberica per sposare Filippo V
d’Aragona si accomiatò dal suo seguito a Borgo Val di Taro, segno della maggior importanza della
cittadina rispetto ad altre sedi della vallata.
Per Compiano era iniziata la decadenza. Il borgo lontano 60 chilometri da Parma non era al centro
degli interessi della politica farnesiana e nel castello venne insediata una guarnigione militare.
Il lento declino perdurò nel XVIII secolo, quando anche la casata dei Farnese si avviò al tramonto.
Nel 1731 Antonio Farnese duca di Parma morì senza lasciare eredi e l’anno seguente fece il suo
ingresso a Parma e Piacenza il nipote Carlo I di Borbone, figlio di Elisabetta e Filippo V di Spagna.
Il nuovo duca, però, già nel 1734 partiva da Parma alla conquista del Regno di Napoli e di Sicilia e
nel 1735, con gli accordi preliminari del Trattato di Vienna poi confermati nel 1738, gli veniva
riconosciuta la sovranità sui regni dell’Italia meridionale in cambio della cessione del Ducato di
Parma e Piacenza all’Austria.
Carlo VI d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, ottenuti i possedimenti parmigiani si
mosse per attuare infine una reale unità del territorio. Nell’agosto del 1738 stabilì l’annessione di
Bardi, Compiano e Borgotaro al distretto di Piacenza. Valtaro e Valceno, decaduto il titolo di feudi
imperiali, persero l’autonomia di cui avevano goduto per secoli.
Gli equilibri cambiarono nuovamente dopo poco con la morte di Carlo VI e la conseguente Guerra
di successione austriaca, quando diverse potenze europee non accettarono la salita al trono di Maria
Teresa d’Asburgo. Il dissidio si risolse solo nel 1748 con il Trattato di Aquisgrana in cui
all’Arciduchessa d’Austria venne riconosciuto il titolo di Imperatrice consorte del Sacro Romano
Impero, ma tra le clausole vi era la cessione del Ducato di Parma e Piacenza a Filippo di Borbone,
secondogenito del Re di Spagna e Elisabetta Farnese.
L’istaurarsi della dinastia dei Borbone di Parma non modificò l’inesorabile declino di Compiano nel
cui maniero, seguendo la linea precedente, venne istallata una guarnigione di dragoni.
LUI FOLGORANTE IN SOLIO
VIDE IL MIO GENIO, E TACQUE
Nel 1796 ci fu la prima discesa di Napleone in Italia.
Napleone Bonaparte era un giovane generale dell’esercito francese all’epoca impiegato nella guerra
che sul finire del XVIII sec. vedeva contrapposta la Francia rivoluzionaria e le principali monarchie
europee. Nel 1796 gli fu affidato il fronte italiano.
Con la data del 12 Aprile 1796 si da inizio alla prima campagna d’Italia, nella quale si
sottolinearono le sue grandi doti militari e politiche. Pur avendo un esercito inferiore sia
numericamente che logisticamente ottenne la vittoria, sfuggendo alle armate austiache e piemontesi.
Le sue imprese lo portarono nel 1804 a proclamarsi imperatore e a dare vita al primo Impero
francese . Sugli stati italiani che aveva precedentemente sottomesso impose l’autorità di suoi
ufficiali, ma la liguria e l’area dell’appennino di cui Compiano fa parte furono annesse alla Francia
come parte del Dipartimento degli Appennini.
Tale Dipartimento era una suddivisione amministrativa del Primo Impero francese nel territorio
italiano a livello dell'Appennino settentrionale.
Il dipartimento fu istituito 6 giugno 1805 con un decreto imperiale che andava a riorganizzare il
territorio dell'ex-Repubblica Ligure, ed era costituito dalle due Giurisdizioni liguri dell’Entella e del
Golfo di Venere, alle quali fu unito il circondario di Bardi , che fu distaccato dal Ducato di Parma e
Piacenza.
Chivari divenne il capoluogo del dipartimento, mentre Sarzana e Pontremoli divennero
sottoprefetture.
Nel 1812, gli arrondissement, cantoni in cui era suddiviso il Dipartimento, erano così composti:
- Chiavari aveva Borzonasca, Lavagna, Moconesi, Rapallo, Santo Stefano d’Aveto, Sestri Levante e
Varese Ligure.
- Pontremoli aveva Bagnone, Berceto, Borgo Val di Taro, Compiano, Filattiera, Groppoli e
Terrarossa.
- Sarzana aveva Albiano, Calice al Cornoviglio, Fivizzano, Sesta Godano, La Spezia, Lerici,
Levano e Vezzano Ligure. Il suo territorio comprendeva le attuali province di Spezia e parzialmente
quelle di Genova, Massa Carrara e Parma.
La nuova organizzazione del territorio non fu accettata dalla comunità della Val Taro e della Val
Ceno. In particolare per decreto napoleonico in quegli anni vennero chiuse due importanti
istituzioni che risalivano all'epoca landiana: il Convento delle Agostiniane fondato nel 1599 e il
Monte di Pietà.
Lo scontento tra l'altro fu fomentato dai parroci locali che guardavano con timore alle nuove idee
giacobine che si diffondevano.
Tra il 1805 e il 1806 i focolai di malcontento diedero vita ad una vera e propria insurrezione.
La risposta francese fu tempestiva, la ribellione fu sedata i rivoltosi furono fatti prigionieri, in
particolare vennero rinchiusi nel Castello di Compiano 500 parroci che avevano dato appoggio alla
sommossa.
Nel 1814, dopo la sconfitta di Napoleone vennero sciolti tutti gli arrondissement, e Compiano
ricadde nel territori del Ducato di Parma e Piacenza, a capo dei quali subentrò sua Maestà Imperiale
ed Arciduchessa d’Austria Maria Luigia.
Discendente dagli Imperatori del Sacro Romani Impero, l’Austiaca nel 1810 era stata data in sposa
a Napoleone Bonaparte per garantire la pace tra Francia e Austria dopo la sconfitta subita
dall’Austria nella battaglia di Wagram.
Il Ducato di Parma e Piacenza le venne donato in seguito all’esilio di Napoleone all’isola d’Elba,
come ringraziamento della fedeltà che aveva mostrato nei confronti dei viennesi, comportamento
che aveva suscitato le aspre critiche dei francesi.
Giunta a capo del Ducato di Parma e Piacenza, la figura di Maria Luigia fu molto amata dai
parmensi al punto che affettuosamente le attribuirono l’appellativo di “buona duchessa”.
Durante il suo governo Parma fu anche spettatrice dei moti carbonari del 1821 e del 1831.
In quel periodo il castello di Compiano fu destinato a prigione di stato[AP.1].
L’ala deputata ad ospitare i rivoltosi era quella sita al terzo piano della torre nord, collocazione
molto più gradevole rispetto a quella utilizzata in precedenza dal casato Landi infatti, all’epoca del
principato le prigioni erano collocate nelle fondamenta della torre sud-ovest e costituite da tre celle
sovrapposte con quella inferiore priva di finestre.
Il ruolo del castello di Compinao come prigione di stato fu mantenuto anche dopo la morte della
duchessa d’Austria con il rientro dei Borbone nel territorio del ducato e ancora dopo con l’Unità di
Italia, anche se solo per qualche anno.
COMPIANO E’ LA PIU’ BELLA
STRELA E’ SUA SORELLA
Nella seconda metà dell’800 il castello di Compiano divenne proprietà privata. In seguito all’Unità
d'Italia vennero infatti definitivamente chiuse le prigioni di stato. Nel 1891 un ingegnere di
Salsomaggiore, il dott. Magnaghi decise di acquistare la rocca per realizzare una casa di cura. Di
quel periodo il maniero conserva le cicatrici; per illuminare le stanze furono rifatte le finestre sulla
facciata con archi neogotici in cemento armato. Il progetto comunque si arenò quasi subito a causa
della morte del Magnaghi.
Nel 1900 il parroco di Compiano, l’arciprete Angelo Nazzani, subentrò nella proprietà rilevandola
con grandi sacrifici economici. Il suo progetto era quello di adibire il castello a Collegio femminile
e lo diede quindi in gestione alle suore del Cottolengo di Torino. Le consorelle condussero la scuola
dal 1900 al 1962 sopravvivendo alla Grande Guerra e all’occupazione tedesca durante la Seconda
Guerra Mondiale.
Nella metà del secolo scorso, però, il Collegio del S. Cuore di Compiano attraversò un periodo di
difficoltà, che si concluse con la chiusura della struttura, avvenuta nel 1962. Gli elevati costi
gestionali si associarono alla perdita del ruolo primario che il Collegio rivestiva per la popolazione
locale: in questo periodo, infatti, nella vallata sorsero altre sedi scolastiche e le vie di
comunicazione per Parma migliorarono sensibilmente, rendendo più facile l’accesso ai servizi di
istruzione del capoluogo.
Quattro anni più tardi Lina Angela Luisa contessa Raimondi marchesa Gambarotta comprò dalla
Curia di Piacenza[15] l’antico maniero. La signora, che era nata l’8 aprile 1903 a Tortona e aveva
trascorso gran parte della sua vita in Argentina, fece del castello la sua residenza privata.
Appassionata di arredamento, collezionista di opere d’arte, di indole nostalgica e romantica, la
nuova proprietaria operò un restauro che rispecchiava la sua personalità. Gli ambienti da lei creati
raccolgono gli oggetti acquistati durante i numerosi viaggi che caratterizzarono la sua esistenza in
una suggestiva ricostruzione in stile dannunziano.
Quando morì il 20 gennaio 1987 donò la rocca al Comune di Compiano tramite un lascito
testamentario con la clausola che le stanze da lei arredate non fossero modificate negli anni e di
essere inumata al suo interno. Oggi riposa nella cappella del maniero, custode della dimora che
tanto aveva amato.
Nel luglio del 1987 il Comune aprì le stanze della signora al pubblico come area museale, il Museo
Gambarotta.
Nel 2002 in alcune stanze della rocca fu realizzato con la collaborazione del Grande Oriente d’Italia
– Palazzo Giustiniani, il Museo Internazionale Massonico che racchiude una ricca collezione di
cimeli donata dal dott. Flamino Musa a Compiano.
Nel 2012 il Comune di Compiano in collaborazione con Borgo Casale s.r.l decise inoltre di
realizzare il Museo Eno-gastronomico per mettere in risalto l'importanza della tradizione
gastronomica locale non solo a livello economico, ma anche storico e culturale, molto spesso
svalutata o dimenticata.
APPENDICE
GALLENGA,
LE SUE PRIGIONI
Il luogo infernale denominato "Malebolge", malefico ripostiglio, è la prigione, sistema carcerario
esistente sul pianeta Terra. In questo luogo tutto è color ferrigno come il recinto che lo circonda.
Per poter comprendere l’organizzazione carceraria dell’epoca è necessario saperne la sua divisione.
A Parma era composta dalla “casa di Forza” (o di detenzione) e dalla “casa di correzione”, mentre
quella di Piacenza era composta dalla “casa di arresto” e da quella di “correzione”, oltre a prigioni
“sussidiarie” di altri comuni dello stato dei quali faceva parte anche il carcere del forte di
Compiano, amministrato, però, esclusivamente dalle autorità militari.
Un’ importante memoria storica riguardante le prigioni del Castello di Compiano, possiamo
ritrovarla negli scritti dei moti del 1831.
Attorno al 1831 le Leggi Parmensi decretarono che i giovani più turbolenti sarebbero stati portati al
Castello di Compiano per due mesi.
L’atto di accusa che li riguardava, in data 15 Novembre 1822, in cui vengono esposti i dati più
importanti sugli sviluppi della Carboneria nel Ducato Parmense, fa risalire: "che allo scoppiare della
Rivoluzione del Piemonte, tutto si mise in opera ovunque e principalmente nelle montagne
parmigiane e piacentine confinanti col Genovesato e col Piemonte per arruolare gente, approntare
armi e cosi ad un cenno fare irruzione.[16]".
Ancora oggi all’Archivio di Sato, si conservano sei nomi (Rondani, Gasparotti, Ricci, Sidoli, Mori e
Gallenga) dei prigionieri del castello di Compiano.
Invece alla deportazione nel forte di Compiano non furono sei, ma otto, si aggiunsero Pietro
Campanini e Giacomo Dazzo, i quali furono arrestai dopo gli altri.
In altri documenti ancora possiamo trovare una nota di nomi molto più lunga.
Detti i fatti generali della cospirazione, possiamo trovare anche i capi d’accusa di alcuni.
Jacopo Sanvitale:
“il Conte Jacopo Sanvitale era per voce ritenuto appartenere alla Società dei Sublimi Maestri
Perfetti ed alla Carboneria. Esso intervenne a diverse riunioni fattesi in Parma dai senatori per
trattare gli affari della Società e principalmente dei movimenti d’insurrezione che stavano per
succedere.”
“Interrogato, esso non nega di aver professato ed anche esternato talora principi liberali, e di aver
appartenuto alla Massoneria: ma contraddice fermamente di aver appartenuto a qualsiasi altra
Società Segreta e di essere intervenuto ad unioni tali in cui si trattasse di affari politici e molto di
più di movimenti di insurrezione[17]”.
Nell’ Aprile del 1823 viene dichiarata poi la sua innocenza, ma il 30 Aprile 1823 Maria Luigia
firmò un decreto ordinante nel quale in Conte Jacopo Sanvitale “per motivi a noi rappresentati”
fosse chiuso nel castello di Compiano, per rimanervi detenuto “sino a sua nuova disposizione”.
Alcuni giorni dopo, 12 Maggio del 1823, “il detto Sig. Conte sarà coi debiti riguardi condotto nel
forte di Compiano, nel quale godrà della piena libertà in tenuta e potrà essere visitato dalla moglie e
dia figli”.
27 Settembre 1823 Maria Luigia emanò un decreto in cui si metteva immediatamente in libertà il
Conte Jacopo Sanvitaele.
Libero dal Castello di Compiano, però non ebbe vita facile a Parma, infatti fu costretto prima a
ritirarsi nella sua villa di Marore, poi a Fontanellato nell’antica rocca della sua famiglia.
Nel 1831 possiamo ritrovare le prime memorie dei moti sulla “Rivista contemporanea”.
Il Gallenga era “pars magna”, anch’esso detenuto nel forte di Compiano in seguito a turbolente
scolaresche da esso commesse in Parma.
Nel cuore dell’inverno lui e altri suoi sette compagni furono arrestati e deportati al castello di
Compiano, dove scontarono alcune settimane di carcere.
Gallenga nacque a Parma nel 1810, appena ventenne si ritrovò in mezzo ai moti dell’università, egli
era iscritto da due anni alla facoltà di medicina, ma poi si spostò agli studi in lettere e lingue.
Egli organizzò alcune dimostrazioni mute, ma molto eloquenti contro un giovane professore
chiamato a sostituire il Melloni.
Arrestato nella notte tra il 7 e 8 Gennaio venne deportato al forte di Compiano, da dove uscì per
decreto del governo provvisorio il 17 Febbraio.
Si dedicò quindi a organizzare milizie cittadine e a infervorare la gioventù.
Domato il moto insurrezionale il Gallenga dovette prendere la via dell’esilio tra Corsica, Francia,
Marocco, Inghilterra e in America, fino a quando eletto deputato al Parlamento Subalpino per il
collegio di Cavour nella quinta legislatura (1853-1857), poté tornare in Italia, non, però, negli stati
di Parma.
Fu allora, che fermatosi a Torino poté cominciare a pubblicare nella rivista contemporanea, “La
nostra prima carovana”, un’ampia narrazione delle congiure scolaresche, delle agitazioni
universitarie, della parte che egli stesso vi ebbe e della sua breve e non dura prigionia”.
E il pensiero collettivo si propaga e le vibrazioni sono anelli energetici sia di gioia che di dolore.
Gallenga racconta[18]:
“Giungemmo sotto le mura del castello di Compiano. Non fu senza un brivido che ci vedemmo
dinanzi quelle nere torriciuole , a noi destinate ad indefinito soggiorno. Varcammo la soglia, e la
porta ne sonò cupa e sinistra alle spalle…”
“Questa parte dell’edificio era divisa in una lunga fila di ampie celle, o segrete, le cui porte si
aprono su una grande balconata e che prendevano luce da finestre poste in alto dalle quali, se
avessimo avuto la possibilità di salirvi, avremmo potuto vedere la distesa di colline spoglie,
ricoperte di neve che ci allettavano e che brillava al sole come ghiaccio. La cella centrale, rivestiva
di legno, era stata sistemata a mo’ di salotto: vi risplendeva e crepitava un buon fuoco di legna
quando vi entrammo.”…” Dedicammo non poco del nostro tempo a decifrare e commentare le
iscrizioni che i nostri predecessori avevano scritto col gesso e con il lapis sui muri, o incise nei
pannelli nella sala di ritrovo. I cardini infatti delle porte del castello si erano quasi logorati con le
frequenti immissioni di prigionieri di Stato, soprattutto negli ultimi anni del dominio di Napoleone
allorchè, in dissidio con Roma, rinchiuse non meno di cinquecento umili preti dell’Appennino in
quel carcere”…” scritte dei Carbonari nel 1820 i cui nomi avevamo imparato a pronunciare con
segreta venerazione…”
“Il mese di gennaio… il capitano Rodolfi… al termine di un pranzo in cui accettò di essere nostro
ospite ordinò alla guardia di aprire la porta della balconata e ci portò sulle mura di merlate. Il corpo
centrale del castello di Compiano, che ne costituisce il torrione , era circondato da quattro piccole
torri angolari unite fra loro da lunghe balconate coperte a tetto e provviste da lunghe feritoie e di
varchi alla maniera delle fortificazioni medioevali.”… ” Trovai un posto adatto , anche se
pericoloso , in una grossa pietra bianca che sporgeva arditamente dal lato meridionale delle mura e
che pendeva per venti metri sopra il Rivellino, un opera di difesa avanzata costruita secondo i criteri
dell’arte militare e che sorgeva da protezione dalla porta del castello. Su quell’aereo trono mi
scaldavo al sole come una lucertola.”
“ non eran venuti dall’alto né ordini, ne istruzioni che determinassero come noi dovessimo essere
trattati ma il comandante aveva di proprio arbitrio risoluto che a buon conto non dovessimo morir di
fame. Avea perciò permesso o forse ordinato, con la promessa che qualcuno pagherebbe , all’oste
della....miglior taverna soldi che vantasse il villaggio di sotto, di fornirci il vitto a ragione di trenta
soldi il giorno per testa, e ciò fino a che le intenzioni ulteriori della – miglior taverna che vantasse il
villaggio di sotto, di fornirci il vitto a ragione di trenta soldi il giorno per testa , e ciò fino a che le
intenzioni ulteriori della regia clemenza, fossero più chiaramente manifeste.”
TAVOLA DELLE IMMAGINI
• Img 1. Tavola Peutingeriana, Pars IV - Segmentum IV: riprodudione del XII-XIII sec. di
un'antichissima mappa romana su cui sono riportate le principali vie di comunicazione dell'Impero
Romano. Nella parte in foto è riprodotta la zona di Veleia.
• Img 2. Foto Bigliardi Filippo.
• Img 3. Foto Gorreri Greta.
• Img 4. Foto Filiberti Francesca.
• Img 5. Foto Bigliardi Filippo.
• Img 6. Riviera di Genova di Levante, 1662, cartografo Blaeu Williem Janszoon. Tratto da: Samoré
A., La Signoria Landi, Parma, Artegrafica Silva, 2003.
• Img 7. Foto Bigliardi Filippo.
• Img 8. Foto Gorreri Greta.
• Img 9. Autore sconosciuto.
• Img 10. Foto Gorreri Greta.
• Img 11. Foto Adetti Lara.
• Img 12. Foto Adetti Lara.
• Img 13. Foto Adetti Lara.
• Img 14. Foto Adetti Lara.
• Img 15. Compiano nel '600. Tratto da: Natale C., Rulli E., Libro della descritione in rame de i
Stati et Feudi Imperiali di Don Federico Landi…, Compiano, ristampa Compiano Arte Storia, 1977.
• Img 16. Sigillo del Prncipe Federoco Landi. Tratto da: Rizzi Bianchi P., Eccellentissimo Principe,
Parma, Tip. Poligrfica, 1999
• Img 17. Foto Gorreri Greta.
• Img 18. Foto Gorreri Greta.
• Img 19. Tratta da: A.A.V.V., Il premio letterario P.E.N. Club italiano, Milano, Tip. Saronne, 2010.
• Img 20. Mappa dell'Impero Napoleonico, Drioux e Leroy.
• Img 21. Foto Gorreri Greta.
• Img 22. Foto Gorreri Greta.
• Img 23. Foto Gorreri Greta.
• Img 24. Foto Bigliardi Filippo.
• Img 25. Camera centrale della Torre Nord del castello. Sul Muro si possano ancora ammirare le
scritte lasciate dai carcerati. Foto Gorreri Greta.
• Img 26. Camera centrale della Torre Nord del castello. Sul Muro si possano ancora ammirare le
scritte lasciate dai carcerati. Foto Gorreri Greta.
BIBLIOGRAFIA
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RINGRAZIAMENTI
Un grazie particolare al dott. Faganello per la gentile supervisione che ci ha fornito, e per tutto il
materiale che ci ha fatto sempre avere.
Un grazie al geom. Maurizio Sanvido per averci permesso di puntare al successo di tappa. Non
siamo ancora in maglia rosa ma la tappa è nostra!!!
In questo lungo percorso ci hanno inoltre SOPPORTATO e fornito appoggio: Lara, Filippo,
Giulia, Paolo, Matteo, Rachele, Giovanni, Mariarosa e tutti i dipendenti delle biblioteche di Parma
e provincia di cui siamo state l’incubo.
Ultimo, ma non ultimo, un grazie a tutta la letteratura italiana che ci siamo permesse di citare.