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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – SECONDA SEZIONE CIVILE,
SENTENZA 6 novembre 2015, n.22701
A cura di SARA VARAZI
La Cassazione torna ad affermare: “in claris non fit interpretatio”
La pronuncia in esame si inserisce nel vivacissimo dibattito in ordine alla validità o meno,
nel nostro ordinamento, del brocardo latino in claris non fit interpretatio, in forza del quale laddove
il tenore letterale di una determinata clausola contrattuale sia chiaro non residuerebbe spazio per
alcuna operazione ermeneutica.
La questione, in sostanza, attiene alla graduazione dei criteri ermeneutici a disposizione
dell’interprete nel procedimento di individuazione del significato giuridicamente rilevante delle
disposizioni contrattuali.
L’attività ermeneutica e i criteri a disposizione dell’interprete
L’attività interpretativa è volta all’individuazione del significato sostanziale delle parole e
dei segni utilizzati al fine di manifestare la volontà contrattuale. Ciò, all’esito di un apprezzamento
obiettivo da parte del giudice degli elementi rilevanti a tal fine e in applicazione delle regole
interpretative.
La necessità dell’attività interpretativa sorge dalla circostanza per cui i segni utilizzati dai
contraenti, ossia le parole contenute nel testo contrattuale, ben possono essere oscuri, oppure non
esprimere, almeno apparentemente, alcun significato, o ancora essere polisemantici. Allo stesso
modo all’interno del contratto possono esservi vere e proprie antinomie, ossia clausole in aperto
contrasto fra loro, in quanto incompatibili.
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In tutti questi casi, dunque, spetta all’interprete individuare il giusto significato da attribuire
alla convenzione contrattuale.
Il codice civile detta una serie di norme sull’interpretazione del contratto agli art. 1362 e ss.
L’individuazione di specifici e graduati criteri, idonei a vincolare e a rendere controllabile
l’attività ermeneutica, nel disegno codiscistico da vita a un modulo interpretativo finalizzato alla
chiarificazione del senso dell’atto mediante la graduale applicazione di ciascun strumento
interpretativo.
Una prima macro divisione sussiste fra i criteri di c.d. interpretazione soggettiva e i criteri di
c.d. interpretazione oggettiva.
Al primo gruppo appartengono tutte quelle regole ermeneutiche che tendono a dare rilevanza
alla comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole, e impongono,
dunque, di avere riguardo al comportamento complessivo delle stesse (art. 1326, 2 comma c.c.), di
procedere all’interpretazione sistematica delle clausole nel loro complesso e nel loro reciproco
interagire; nonché di ritenere le espressioni, per quanto generali, comunque non idonee a
comprendere oggetti diversi da quelli su cui le parti si erano proposte di contrattare, così come di
considerare le espressioni esemplificative non come limiti ma come espressioni chiarificatrici e di
attribuire, in caso di espressioni polisemantiche, il significato più conveniente alla natura o
all’oggetto del contratto (1369 c.c.)
Al secondo gruppo, invece, appartengono i criteri suppletivi cui fare ricorso laddove in
applicazione di quelli suddetti, la volontà delle parti rimanga oscura e si fondano su canoni legali
improntati sostanzialmente alla conservazione dell’atto (1367 c.c.), alla tipicità (1368 c.c.) nonché
all’equità (1370 e 1371 c.c.).
Da ultimo, l’art. 1366 c.c. impone un criterio di carattere generale per l’interpretazione del
contratto, da alcuni autori inserito nel gruppo dei criteri di interpretazione oggettiva, ossia
l’interpretazione secondo buona fede.
Il caso e il principio di diritto affermato
Il caso di specie, oggetto della sentenza in esame, attiene a un contratto intercorrente fra una
società ed un professionista per la progettazione di una struttura destinata a campeggio su di un
terreno.
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Nel corso dello svolgimento del rapporto professionale, in seguito ad alcune vicissitudini
che avevano portato a una stasi della prosecuzione dell’attività e in particolare dell’interruzione da
parte della società del procedimento per l’ottenimento dei permessi amministrativi necessari, su
istanza del professionista veniva stipulato un atto con il quale allo stesso veniva riconosciuta una
determinata somma da corrispondere ratealmente, nonché un saldo da corrispondere “al rilascio
della concessione edilizia da parte dell'Amministrazione Comunale”.
Il contrasto interpretativo verte sulla qualificazione giuridica di suddetta clausola. Difatti,
secondo il ricorrente, tale clausola prevedrebbe l’introduzione di un termine, mentre secondo parte
resistente si tratterebbe di condizione sospensiva, non realizzatasi, che renderebbe, dunque, non
dovuta la somma.
In particolare, fra i motivi addotti a fondamento del ricorso per Cassazione vi è la violazione
e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in ragione della mancata indagine sulla reale intenzione delle
parti, essendosi limitata la Corte di Appello a tener conto di quello che è stato supposto essere il
senso letterale delle parole, qualificando, dunque, l’oggetto della clausola quale condizione e non
quale termine. Inoltre, è contestata anche la violazione dell’art. 1363 c.c., in quanto la clausola
suddetta non sarebbe stata interpretata in comparazione con le altre parti del contratto, finendo per
attribuirle un senso incompatibile ed estraneo rispetto all’accordo considerato nel suo complesso.
Infine, sarebbe stato violato il canone di interpretazione secondo buona fede, di cui sopra.
La Suprema Corte, nella sentenza in epigrafe, argomenta l’infondatezza del ricorso sotto due
profili.
Innanzi tutto, evidenzia come le contestazioni in relazione alla qualificazione giuridica della
clausola, quale termine e condizione, attengono ad una questio ermeneutica passibile di ricorso per
Cassazione solo laddove si contesti la violazione dei criteri legali in materia di interpretazione o un
vizio di motivazione, non potendosi mediante il sollevamento del vizio di violazione di legge invece
sostanzialmente proporre soltanto una diversa interpretazione.
In altre parole, “quella data dal giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione
possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni” ne discende
che non sia contestabile, in sede di legittimità, quell’interpretazione che comunque si muova
nell’area delle possibili interpretazioni individuabili all’esito dell’applicazione dei criteri
ermeneutici a disposizione.
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Sotto altro profilo, la Corte ribadisce quanto affermato da copiosa giurisprudenza in tema di
graduazione dei criteri ermeneutici, per cui “il criterio del riferimento al senso letterale delle
parole adoperate dai contraenti si pone come strumento di interpretazione fondamentale e
prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni adoperate nel contratto siano di chiara e
non equivoca significazione, la ricerca della comune volontà resta esclusa, restando superata la
necessità del ricorso agli ulteriori criteri contenuti nell'art. 1362 c.c. e ss., i quali svolgono una
funzione sussidiaria e complementare”
Le posizioni a confronto
Secondo un primo orientamento, più risalente, ma largamente maggioritario in
giurisprudenza, dovrebbe riconoscersi validità al brocardo latino in claris non fit interpretatio.
Secondo questa impostazione, l’art. 1326 c.c., nella parte in cui impone di non limitarsi al
senso letterale delle parole, non intenderebbe svilire il ruolo del criterio di interpretazione letterale,
bensì ne ribadirebbe il carattere fondamentale e prioritario nella ricostruzione della volontà delle
parti.
Dunque, solo laddove le espressioni letterali non fossero chiare, precise e univoche sarebbe
allora ammesso il ricorso alle altre regole ermeneutiche integrative.
Tale impostazione muove dal presupposto che in caso di chiarezza del testo nel suo tenore
letterale non vi sarebbe alcun bisogno di procedere a un’interpretazione dello stesso, essendo
quest’ultima uno strumento a cui ricorrere solamente in caso di significati problematici ed oscuri.
Secondo un diverso orientamento, invece, nel momento in cui l’operazione ermeneutica è
diretta ad accertare il significato del contratto, essa deve essere compiuta in ogni caso, anche a
fronte di testi apparentemente chiari, essendo ben possibile che il significato letterale non
corrisponda al significato concreto ed effettivo obiettivizzato dalle parti nel contratto.
Come è stato autorevolmente osservato in dottrina, anche laddove si affermi che non c’è
bisogno di interpretazione in quanto il contratto ha chiaramente un determinato significato, in realtà
si è comunque interpretato, in quanto si è già scelto tra uno dei possibili significati che naturalmente
ciascuna parola ha.
Ciò non toglie, chiaramente, che più il testo sia chiaro, più il raggio di azione dell’attività
interpretativa si ristringe.
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L’interpretazione letterale, dunque, costituisce secondo questa impostazione, semplicemente
il punto di partenza. Mediante questa prima attività interpretativa, difatti, ci si basa sul significato
espresso dalle parole del testo nella loro connessione sintattica, secondo il senso comune.
Laddove tale senso sia oscuro l’interprete sarà allora necessariamente tenuto a ricorrere agli
ulteriori criteri interpretativi predisposti dal codice, cercando di individuare la comune volontà delle
parti attraverso dati esterni al testo, come ad esempio la complessiva condotta delle parti.
Nel caso in cui, invece, il testo sia chiaro e univoco occorre verificare se sussistano, o meno,
elementi extratestuali capaci di mettere in dubbio l’inequivocabilità del significato letterale e
suggerire, invece, un’altra possibile lettura maggiormente coerente con la “comune intenzione delle
parti”.
Se tali elementi non sussistono l’interprete potrà ritenersi appagato dal tenore letterale e su
questo fondare la propria interpretazione del testo. Se, invece, tali elementi sussistono è fatto
espresso divieto all’interprete di arrestarsi al tenore letterale, dovendo, invece, lo stesso verificare se
suddetti elementi siano tali da poter rovesciare il significato letterale in quanto rappresentativi della
vera volontà comune delle parti.
Quando ciò accada, l’interpretazione del contratto dovrà fondarsi su elementi extra testuali,
anche a fronte di un testo chiaro.
Potrebbe, dunque, dirsi che l’attestarsi su di un dato letterale chiaro costituisca le regola,
mentre lo scostamento dallo stesso l’eccezione.
In questo senso andrebbe, perciò, letto l’art. 1326 c.c. laddove impone di indagare la comune
volontà delle parti senza limitarsi al dato letterale. Nella ricerca della comune intenzione, dunque, il
senso letterale delle parole si pone, semplicemente, quale mezzo prioritario e fondamentale fra gli
strumenti dell’interpretazione, ma non escludente gli altri; ne discende che, laddove il tenore
letterale sia chiaro e non equivoco la ricerca della volontà delle parti non potrà dirsi esclusa ma se
del caso conclusa, laddove l’elemento letterale sia assorbente ed esaustivo in tal senso (Cass. civ.
sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20599).
La giurisprudenza maggioritaria, in cui si inserisce la pronuncia in esame, è, tuttavia, nel
senso dell’assoluta priorità del criterio letterale, per cui “In tema di interpretazione dei contratti, il
criterio del riferimento al senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone - pur nella
ricerca della comune intenzione delle stesse - come strumento di interpretazione fondamentale e
prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni adoperate nel contratto siano di chiara e
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non equivoca significazione, la ricerca della comune volontà resta esclusa, restando superata la
necessita del ricorso agli ulteriori criteri contenuti negli articoli 1362 e seguenti c.c., i quali
svolgono una funzione sussidiaria e complementare” (Cass. Sez. II, 12 novembre 2015, n. 23132).
Secondo alcuni autori, alla base di tale orientamento restrittivo vi sarebbe la percepita
esigenza di ancorare l’attività interpretativa a un criterio chiaro e il più possibile obiettivo quale il
senso comune delle parole, al fine di arginare il potenziale intervento dell’interprete.
Non mancano, tuttavia, in giurisprudenza, sentenze che, abbiano evidenziato come il
disposto dell’art. 1362 c.c. impone l’esegesi del testo, nonché la verifica del se l’ipotesi di comune
intenzione emergente dal dato letterale sia coerente con il resto del contratto, ciò in forza
dell’interpretazione sistematica, nonché della valutazione della condotta complessiva tenuta dalle
parti. In particolare, la disposizione in esame non andrebbe intesa come indicante un valore
recessivo del criterio letterale ma come fonte normativa di esclusione della vigenza del brocardo in
claris non fit interpetratio (Cass., sez. lav., 1 dicembre 2015, n. 24421).
Infine, vi è un terzo filone giurisprudenziale, il quale, aderendo all’impostazione dottrinaria
sovra esposta, potrebbe definirsi mediano in quanto non esclude in radice la valenza nel nostro
ordinamento del brocardo in claris non fit interpretatio, bensì lo riferisce ad una chiarezza che va
oltre il semplice tenore letterale. Più in particolare, in sede di interpretazione del contratto il dato
testuale sarebbe di certo fondamentale ma non ex se decisivo al fine della ricostruzione del
contenuto dell’accordo. Il significato sostanziale delle dichiarazioni negoziali, difatti, può
considerarsi individuato solo al termine dell’intero processo interpretativo il quale deve
necessariamente tenere conto anche si tutti gli elementi ulteriori, tanto testuali quanto extra testuali,
individuati dal legislatore. E ciò anche a fronte di espressioni di per sé chiare, soprattutto in
considerazione di come un’espressione prima facie non oscura ben potrebbe rivelarsi tale una volta
collegata alle altre clausole contrattuali o letta alla luce del comportamento complessivo delle parti
(Cass.civ., sez. VI, 20 ottobre 2014, n. 5312). Il brocardo in esame, dunque, renderebbe superfluo
qualsiasi approfondimento interpretativo quando sia l’intenzione delle parti ad essere chiara e non
quando il testo, nel suo significato letterale, non sia oscuro: “Nell'interpretazione del contratto la
regola "in claris non fit interpretatio" non è applicabile in presenza di clausole che, pur chiare se
riguardate in sé, non siano coerenti con l'intenzione delle parti, per come desumibile dalle altre
parti del contratto […] e dalla condotta tenuta dai contraenti nella stipula e nell'esecuzione dei
contratti collegati secondo il criterio della buona fede di cui all'art. 1366 c.c.” (Cass. civ. sez. III, 9
dicembre 2014, n. 25840)
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Secondo questa impostazione, dunque, anche a fronte di un significato letterale chiaro,
l’interprete dopo l’esegesi del testo è comunque tenuto a verificare che quest’ultimo sia coerente
con la causa del contratto, con le intenzioni dichiarate nonché con la condotta complessiva delle
parti.
Conclusioni
La pronuncia in esame, senza particolare riflessione sul punto, si inserisce nell’orientamento
giurisprudenziale ancora maggioritario, il quale ritiene il criterio letterale assolutamente prevalente
nonché assorbente rispetto agli altri ogni qual volta la lettera della clausola da interpretare non
risulti oscura.
Sia in dottrina che in giurisprudenza, invece, non manca chi abbia evidenziato come la
regola di cui all’art. 1326 c.c. così come l’insieme dei criteri adottati dal legislatore indirizzino, al
contrario, l’interprete verso una prioritaria e fondamentale indagine sulla volontà delle parti.
Secondo questa impostazione, dunque, anche volendo ritenersi che la chiarezza lessicale porti a
escludere il ricorso ad ulteriori criteri ermeneutici, ciò dovrebbe ritenersi possibile solo laddove la
suddetta chiarezza possa riferirsi all’evidenza della volontà delle parti, ossia, in altre parole, quando
dal tenore letterale risulti evidente e chiara la volontà delle parti, anche alla luce del complesso della
negoziazione.
Non sarebbe legittimo né rispettoso della norma di cui all’art. 1326 c.c. riconoscere, invece,
rilevanza assoluta al criterio letterale secondo il senso comunemente riconosciuto alle parole senza
alcun riferimento all’accertamento effettivo della volontà delle parti.
Il senso letterale è solo il primo e più accessibile strumento al fine della ricostruzione di
suddetta volontà e non può tramutarsi nel mezzo per escludere l’indagine in ordine alla stessa.
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