Giobbe ovvero i cortocircuiti della fede

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Chiesa Avventista di Firenze
Sabato 1.10.2016
Predicazione nr.8, Pastore Luca Faedda
Giobbe ovvero i cortocicuit della fede
Testo biblico: Giobbe 10,8-13: “Le tue mani mi hanno formato, m’hanno fato tuto quanto, eppure mi distruggi!
Ricordat che mi hai plasmato come argilla, tu mi fai ritornare in polvere! Non mi hai colato forse come il late e fato
rapprendere come il formaggio? Tu mi hai rivestto di pelle e di carne, mi hai intessuto d’ossa e di nervi. Mi hai
concesso vita e grazia, la tua provvidenza ha vegliato sul mio spirito, ed ecco quello che nascondevi in cuore!”.
Vorrei provare a raccontarvi Giobbe attraverso l’immagine del cortocircuito. In senso figurativo un
cortocircuito è lo scontro tra due realtà che assolutamente non dovrebbero incontrarsi, due mondi
incompatibili carichi di energie che quando si toccano creano un aumento di corrente e di temperatura che
possono perfino far scoppiare un incendio. Questa immagine mi è venuta in mente quando ho scoperto che
secondo Ellen White, Giobbe sarebbe stato scritto da Mosé nel deserto mentre era in fuga dall’Egitto e
mentre scriveva il racconto della creazione. E’ molto interessante il contrasto tra i due libri: se in Genesi
leggiamo di Dio che crea un mondo in cui tutto è buono, in Giobbe c’e una storia in cui tutto è male che
distrugge la vita. Questo è Giobbe: nei primi due capitoli del libro le ricchezze, gli animali, tutto quanto
quello che Giobbe aveva messo da parte in tutta una vita, viene rubato, bruciato o ucciso in un giorno solo.
Quello si era alzato la mattina e gli sembrava un giorno come un altro e invece i suoi servi tornano uno dopo
l’altro dicendogli: “tutto è andato distrutto...solo io sono rimasto per venirtelo a raccontare!” e quando
quello ancora stava parlando, dice Giobbe 1,18, “ne giunse un quarto a dire: tutti i tuoi figli e le tue figlie
sono morti in un drammatico incidente”, e Giobbe non fa nemmeno in tempo a disperarsi che una malattia
tremenda lo colpisce e lo riempie di piaghe e ferite. I primi capitoli di Giobbe e Genesi ci lasciano entrambi
a bocca aperta: nella Genesi ammiriamo la perfezione del creato e del Creatore che al capitolo 1 versetto 31
si congratula con se stesso constatando che “Tutto è molto buono!”, in Giobbe fissiamo quest’uomo atterrato
nella cenere tutto concentrato a contenere le sue stesse ferite, e restiamo a bocca aperta mentre piangendo
maledice se stesso e dice: “perisca il giorno che io nacqui e la notte in cui si disse è stato concepito un
maschio” “Perché dar vita all’infelice?” …Perché creare e far morire?
Il libro di Giobbe può essere letto come il tentativo di rispondere a questa domanda universale: se Dio è
amore ed è vita e se è anche onnipotente nel senso che ha tutta la potenza nelle sue mani, allora perché lascia
che nella creazione ci sia spazio per tanta sofferenza? Come possono coesistere Dio e il male? Le risposte a
questa domanda possono creare veri e propri cortocircuiti della fede.
Il primo cortocircuito della fede viene quando diciamo che Dio manda il male, e questa è la posizone
degli amici di Giobbe. Elifaz, Bildad e Zofar si sono inventati quella che io chiamo la matematica di Dio.
Secondo loro Dio manda il bene e il male e lo fa secondo la formula che Eliu spiega al capitolo 34: “Dio
rende all’uomo secondo le sue opere” e al capitolo 4 Elifaz svolge il calcolo spiegando che: “nessun giusto
muore perché Dio distribuisce il bene e il male giustamente: punisce i malvagi e soccorre chi è fedele”.
Quindi caro amico Giobbe se stai male significa che hai peccato (Elifaz 22), e allora ti meriti quello che ti è
capitato perché Dio è giusto.
Vi prego non ditelo mai, non dite mai che se non sei guarito è perché non hai pregato abbastanza, che forse
questo è il metodo di Dio per farti capire che devi cambiare qualcosa, perché questo ragionamento consola
solo chi guarda il dolore da fuori, è la consolazione degli egoisti che credono di poter essere giusti e di poter
controllare Dio e le sue benedizioni con le loro buone azioni. Infatti, in questa matematica spiega Elifaz al
capitolo 5 e 22 se chiedi perdono a Dio avrai pace e ti sarà resa la felicità: convertiti, vedrai che
funziona!
E qui Giobbe s’infiamma, prima di tutto perché è innocente di fronte a Dio. L’autore lo chiarisce dal primo
versetto del capitolo 1, usa quattro termini, che il quattro in ebraico simboleggia la completezza, per
descrivere la bontà totale di Giobbe: “è integro, retto, teme Dio e fugge il male” perdipiù “è il più grande
uomo d’Oriente” e al versetto 9 Dio stesso si vanta “del suo servo Giobbe”.
E allora i conti non tornano: Il nostro giudice matematico dev’essersi sbagliato, e non so voi ma quando
mi guardo intorno a me viene questo sospetto.
Forse sotto sotto l’abbiamo pensato che la sofferenza è troppa, e che magari non ho fatto niente per
meritarmi una malattia terminale, o per perdere tutto sotto le macerie di un terremoto. Che ci è cascato
addosso più di quanto abbiamo meritato.
E allora il libro di Giobbe mi dice che la fede può essere anche rivoltarmi contro il Dio che non capisco.
Al capitolo 19 e 22 Giobbe grida ai suoi amici “sappiatelo … chi mi ha fatto torto è Dio! Per questo grido
violenza! E il mio lamento è una rivolta!
Il poema centrale del libro di Giobbe è tutto un processo contro questo giudice spietato e inflessibile non
solo perché ha sbagliato i conti, ma perché Giobbe non lo riconosce più e fate conto che lo stesso nome
Giobbe significa: Dov’è il mio Dio personale? Dov’è il Dio che conoscevo? Giobbe non riconosce il Dio
della giustizia retributiva che usa il dolore come strumento per regolare i conti con l’uomo, quel Dio è un
giudice che punisce più di quanto l’uomo abbia peccato e soprattutto non è il Creatore Paterno che Giobbe
aveva conosciuto e a cui Giobbe al capitolo 10 ricorda: “Tu hai fatto coagulare come latte le mie cellule nel
grembo di mia madre, che hai tessuto pelle nervi e ossa … e ora mi lasci andare? Tu mi hai dato vita e
grazia”. Il Dio di Giobbe è un Dio che insieme alla vita dona l’Hesed, che è la misericordia, la compassione,
la possibilità di avere con lui un intimità meravigliosa è Dio che dà pienezza e valore enorme alla vita
umana. L’Hesed è l’unica operazione ammissibile nella matematica di Dio! Chi lo dimentica rischia di far la
fine degli amici di Giobbe a cui Dio stesso dirà al capitolo 42: “voi avete parlato male di me! Chiedete
scusa!” Il secondo cortocircuito della fede lo combina chi dice che Dio permette il male per fare il test
della fede, e questa è la posizione del narratore che nella cornice narrativa costituita dai primi due capitoli e
dall’ultimo fa incontrare Dio e il male all’interno di una sfida nei cieli. Non è tanto importante il fatto che
sia Dio stesso al capitolo 1 versetto 8 a provocare Satana dicendogli: “hai visto il mio servo Giobbe com’è
integro e retto e giusto in tutta la terra?” e Satana che di nome si chiama Accusatore abbocca e rilancia,
“ma sei sicuro che Giobbe ti resterebbe fedele anche se gli togliessi tutto?” e allora Dio e Satana si
accordano, fissano le regole del gioco: “togligli tutto ma non la vita!” e Giobbe manterrà la fede, sarà una
fede incendiaria e arrabbiata ma ce la farà e alla fine, superata la prova e fatta bella figura con Satana,
Giobbe vince in premio il doppio di tutto quello che aveva perso. Qui il lettore s’infiamma perché Satana
sta davanti a Dio in mezzo ai suoi figli dice il capitolo 1 versetto 6, perché Dio ci chiacchiera e lo sfida e si
lascia tentare dal gioco a chi ha il servo più fedele salvo poi pentirsi perché “mi hai tentato contro un uomo
senza motivo … però va bene egli è in tuo potere!” dice Giobbe 2,3 e 6. Io non credo in questo Dio
giocatore compulsivo che scommette con la mia pelle mettendo la mia vita nelle mani dell’Avversario per
vedere se resisterò e continuerò ad amarlo perché qui non c’è amore ma al massimo un po’ troppo
machismo! Ed è bellissimo che noi avventisti parliamo del gran conflitto proprio per dire che non esiste
nessun dialogo tra Dio e Satana, nessun equilibrio, sfida o gioco nessun test per vedere da che parte sto…
Qua c’è una guerra e io sono una vittima collaterale. Siamo quei bambini che restano sotto le macerie delle
bombe e che fanno vergogna sia ai buoni che ai cattivi e se guerra dev’essere l’unico Dio in cui posso
credere è quello che lotta con i denti e con le unghie per avere la mia vita perché gli è preziosa! Per questo
Giobbe disperato mentre implora “pietà, pietà di me!”, al capitolo 19 versetto 25 grida: “Ma io so che il mio
salvatore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere”. Il termine ebraico per salvatore è Go’el: colui che
riscatta. Era il parente, il tutore o l’alleato che si alzava in soccorso dell’innocente su cui si era abbattuta
troppa sofferenza. Eccoci qua, mi piace pensare che l’unico posto dove Dio incontra il male è quando manda
suo figlio a recuperarci nel mezzo della battaglia, è lui il Go’el! Gesù è il salvatore che si alza sulla polvere e
tra la polvere per venire a recuperare la vittima innocente, è la sua vita data per me nel mezzo di questa
missione di recupero, è la sua morte che porta il dolore dritto dritto dentro il costato di Dio. Questo è l’unico
Dio in cui posso credere e sperare, è il Dio ferito di Gesù Cristo che rinuncia alla sua superpotenza
distaccata e riconosce che al momento e da solo non può cancellare il male, ma lo stesso accetta la sfida,
corre il rischio, scende in campo e lotta accanto a me perché sa che la verità è dalla sua parte.
E allora mi unisco a Giobbe e so che un giorno, forse quando sarà distrutto questo corpo, anche senza la
mia carne, vedrò Dio e i miei occhi lo contempleranno.
Il cuore dal desiderio mi si consuma!
Questo è il Dio che mi accende la fede.
Amen
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