XXXVII FESTIVAL DELLA VALLE D’ITRIA FASCINAZIONI, SFIDE, VISIONI: LA COSCIENZA DEL POTERE I titoli operistici della XXXVII edizione del Festival della Valle d'Itria disegnano un itinerario nella storia del teatro musicale dal XVII al XX secolo: da Cavalli a Krenek, dalla Scuola pugliese-napoletana di Tritto a Rossini e Kongold. Cinque opere di raro o rarissimo ascolto, tra cui una prima ripresa mondiale in tempi moderni e due prime assolute italiane: Aureliano in Palmira di Rossini, con la parte di Arsace restituita a un interprete maschile, secondo la volontà originaria dell’Autore, che scrisse l’opera per la fulgida voce di Giovanni Battista Velluti, di cui ricorre il 150° anniversario della morte; Il novello Giasone di Francesco Cavalli riadattato da Alessandro Stradella, prima esecuzione mondiale dopo lo straordinario rinvenimento del manoscritto autografo creduto perso, che riporta alla luce il più acclamato capolavoro del XVII secolo nella versione rivisitata in chiave “modernista” da Stradella; l’inedito dittico con Der Ring des Polycrates di Korngold e Das geheime Königreich di Krenek, che riaccosta i due musicisti protagonisti di una delle più accese querelle della storia del teatro musicale novecentesco, quella che nel 1927 divise la Germania tra i fautori avanguardisti di Krenek e i puristi depositari della tradizione, che inneggiavano a Korngold. Ai giovani artisti della neonata Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” sarà invece affidata un’opera gioiello della Scuola pugliese-napoletana, Il convitato di pietra di Giacomo Tritto, autore mai fin d’ora approdato al Festival della Valle d’Itria, la cui “commedia in musica” risulta nei libri di storia dell’opera come la prima realizzazione in musica del mito di Don Giovanni di cui sia rimasta testimonianza. Il ricco e variegato cartellone del prossimo XXXVII Festival della Valle d'Itria si tratteggia come un’esplorazione che percorre lo spazio del mito, Dal fascino esotico della città di Palmira e della mitica regina Zenobia all’epopea degli Argonauti di Giasone alla ricerca del vello d’oro; dalle suggestioni oniriche della fiaba del regno segreto di Krenek, nel quale il Re senza nome, depresso e in crisi esistenziale, consegna la corona al Folle, che si rivela il più saggio dei precettori, fino alla mitica vicenda di Policrate, leggendario tiranno di Samo, e del suo anello, simbolo della più sfacciata fortuna e di quanto questa, senza la conoscenza diretta ed esorcizzante del sacrificio, possa attirare le più grandi sventure. Don Giovanni, infine: l’archetipico detentore della forma probabilmente più antica, pericolosa e ambigua forma di potere, quello del fascino e della seduzione irresistibile, con annessi vapori sulfurei. Segue quindi le tracce del mito - con le dimensioni visionarie e fascinose del suo spazio fuori dal tempo – il percorso che si snoda a Martina Franca la prossima estate. Ma non è tempo, il nostro, per organizzare fughe dal presente e dalle responsabilità a cui ci chiama la realtà. E’ il momento, invece, di recuperare a pieno titolo e con lucida convenzione la vocazione civile del fare teatro, valorizzandone l’aspetto di luogo deputato all’incontro di coscienze, intelligenze e sensibilità le più diverse: lo spazio della “polis” nel quale una collettività ragiona su se stessa - sulle proprie origini e sulla consapevolezza delle proprie traiettorie verso il futuro - con il linguaggio tipico della coscienza mitica, quella dell’emozione condivisa. Catartica, non evasiva. Il tema del XXXVII Festival della Valle d’Itria – “la coscienza del potere” – ci riporta quindi al teatro dell’impegno, etico e civile; e le opere scelte stimolano una riflessione, quanto mai opportuna in un momento di gravissima crisi, sul valore della cultura nella nostra società. E la “coscienza del potere”, intesa sia come consapevolezza che come assunzione di responsabilità etica, è qui declinata su tre rigogliose ancorché ambigue fonti di ispirazione artistica: fascinazioni, sfide, visioni. Non vi è “potere” che non sappia affascinare, anche nella più occulta definizione di affascino; non vi è possibilità di definire e condizionare scelte e percorsi collettivi senza saper lanciare, vincendone almeno la maggior parte, continue sfide; non c’è, infine, possibilità di detenere a lungo il potere se non si è in grado di esprimere e suggerire visioni in grado di accendere e illuminare la coscienza della collettività. I protagonisti delle produzioni operistiche sono, nella più pura e nobile tradizione martinese, soprattutto giovani brillanti e talentosi, desiderosi di farsi conoscere e apprezzare anche in italia e al pubblico internazionale che accorre in Valle d’Itria; accanto a loro, con loro, nomi illustri e gloriosi del teatro e della musica internazionali, e altri astri ancora giovani ma già affermati. Limitandoci per ora a registi e direttori: Giacomo Sagripanti, brillantissima bacchetta emergente nel panorama dei nuovi direttori italiani, dirigerà l’opera rossiniana inaugurale, la cui regia è affidata a Timothy Nelson, trentenne americano definito dalla stampa statunitense “il futuro dell’opera lirica”, al suo debutto italiano. Roman Brogli-Sacher, affermato direttore esperto di repertorio tedesco ,dirigerà il dittico novecentesco, mentre Diego Fasolis, dopo il trionfo della Rodelinda della scorsa edizione, torna a Martina per Cavalli/Stradella, insieme alla sua orchestra di strumenti antichi I barocchisti, con la regista francese Juliette Deschamps. Analogo percorso tematico percorre la sezione concertistica del Festival, che allinea – per la prima volta nella storia del Festival – ben tre prestigiosi concerti sinfonici con l'Orchestra Internazionale d'Italia, due dei quali anche corali, con il Coro di Bratislava, oltre al tradizionale programma di musica sacra. Uno dei tre programmi sinfonici sarà interamente dedicato al 150mo anniversario dell'Unità d'Italia, e si tratterà di una grande festa musicale intorno all'identità nazionale italiana, che trova proprio nella musica una delle ragioni culturali più profonde di una unità "spirituale" prima ancora che politica. A ben vedere, anche questa serata celebrativa riconduce a pieno titolo al tema del festival, costituendo l'unità nazionale italiana una delle più ambiziose sfide e grandiose visioni della moderna storia europea. Il concerto sarà l'occasione per ascoltare, insieme a brani popolari ed emblematici dell'italianità in musica e alla brillantissima rapsodia Italia di Casella, la "prima esecuzione assoluta" di una nuova commissione del Festival della Valle d'Itria, “Rapsodia italiana”, affidata al giovane compositore italiano Francesco Cilluffo, già acclamato a New York per la sua opera “Il caso Mortara”, che prosegue con convinzione sul cammino dell'impegno per la musica contemporanea già avviato lo scorso anno. Quello per la musica di oggi – naturale compimento del catalogo del novecento classico – è un impegno organico e programmatico, che trova ulteriore e ancora più compiuta conferma nel programma della sezione "Novecento e oltre", particolarmente ricca di proposte musicali e culturali nel solco del tema del Festival 2011. Tra gli appuntamenti spiccano pagine meravigliose e poco o affatto eseguite quali, tra le altre, Das Lied von der Erde di Mahler nella versione Schönberg, l’opera breve in un atto Il dittatore di Krenek in un'inedita versione cameristica appositamente predisposta e affidata a un giovane compositore italiano, Il tribuno di Kagel, oltre a un'opera-gioco di Paul Hindemith – Costruiamo una città - che sarà realizzata e interpretata da un gruppo di bambini condotti nella preparazione dell'opera nel corso dei mesi che precedono il Festival, segno concreto dell’impegno profuso dal Festival nella formazione di nuovo pubblico. Infine, Martina Franca e l’Europa. Il Festival della Valle d’Itria ha imboccato la strada di una sempre più decisa apertura internazionale della propria attività: il dittico novecentesco Korngold/Krenek sarà frutto di una coproduzione italo-tedesca con il Teatro dell’Opera di Lubecca, mentre la fortunata produzione dello scorso anno del Gianni di Parigi di Donizetti approderà al prestigioso Festival di Wexford, in Irlanda, il prossimo autunno: si tratta di una significativa conferma dei valori espressi dalle produzioni artistiche del Festival della Valle d’Itria che, per la prima volta, vedrà continuare a vivere – su un palcoscenico lontano – una propria creatura. Un segno che invita all’ottimismo. Gioachino Rossini Aureliano in Palmira Dramma serio per musica in due atti Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 26 dicembre 1813 La prima scaligera di Aureliano in Palmira - affidata a un cast stellare ma non in forma la sera del debutto - fu un mezzo fiasco, e viene ricordata dalla storia dell’opera per il presunto litigio tra Velluti (il celebre castrato interpete del personaggio di Arsace) e Rossini che, irritato dall’eccesso di fioriture belcantistiche improvvisate dal divo, avrebbe da allora deciso di stenderle di proprio pugno. E’ più probabile che Rossini, che da sempre aveva scritto per esteso i suoi abbellimenti, desiderasse un canto morbido ed espressivo, evitando acrobatismi che ne snaturassero, tradendone lo spirito, la linea melodica. Al di là di un episodio di colore, più che di sostanza storica, Aureliano rappresenta un felice momento di maturazione di molti stilemi del Rossini comico e serio, giunto con L'italiana in Algeri e Tancredi ad un primo livello di perfezione formale, ed allinea pagine di grande ispirazione con punte, come notava Rodolfo Celletti, di sublime eleganza. Rossini doveva essere consapevole del valore dell’ispirazione di questa partitura, una delle poche rossiniane di cui non si possiede autografo: non a caso, ad esempio, la sinfonia introduttiva, passata dapprima all'Elisabetta regina d’Inghilterra, divenne in seguito quella celeberrima del Barbiere di Siviglia, mentre la cabaletta di Arsace, "Non lasciarmi in tal momento", fornì più di uno spunto per la cavatina di Rosina, "Una voce poco fa". L'opera, un lungo e commovente inno al valore della fedeltà ai propri sentimenti, valori e ideali che si oppongono all’invasione del potere di Roma, non restò in repertorio a lungo, nonostante l'impegno e la passione di Velluti, che la propose più volte sui palcoscenici d'oltralpe. La prima rappresentazione in tempi moderni ha avuto luogo nel settembre 1980 a Genova, la seconda, una decina d’anni dopo, a Lucca. La rappresentazione del Festival della Valle d’Itria sarà però la prima in tempi moderni con il ruolo di Arsace affidato, come alla prima scaligera del 1813, a un interprete maschile in registro di contraltista. Erich Korngold Der Ring des Polycrates Opera in un atto, op. 7 Prima rappresentazione: Monaco di Baviera, Teatro Nazionale, 28 marzo 1916 Prima rappresentazione in Italia Ernst Krenek Der geheime Königreich Märchenoper (opera fiaba) in un atto, op. 50 Prima rappresentazione: Wiesbaden, 1928 Prima rappresentazione in Italia Coproduzione con Theater Lübeck Dodici anni separano il debutto sulle scene tedesche delle due opere scelte a comporre questo inedito dittico di due prime italiane. I due lavori raccontano molto del teatro musicale mitteleuropeo dell’inizio del secolo scorso, e rimandano ad una delle querelle più significative del Novecento, esplosa nel 1927 nel cuore della Germania. Il moravo Erich Korngold si formò a Vienna nel primo ventennio del XX secolo: allievo precocissimo di Zemlinsky, approdò al teatro nel 1916 col dittico di atti unici Der Ring des Polykrates e Violanta, affidato alla bacchetta di Bruno Walter. Si trattò di un debutto sensazionale, e il giovanissimo Erich fu salutato in termini di “miracoloso talento compositivo” da molti mostri sacri della musica austro-tedesca. La prima opera, che Korngold aveva composto poco più che adolescente, si avvaleva del libretto di Leo Feld da un dramma di Heinrich Teweles, che prende il titolo dalla nota ballata di Schiller. Si tratta di un’opera di ambientazione salottiera e di carattere solo apparentemente moralistico: a una lettura più approfondita sembra piuttosto affrontare, mascherato sotto quello del potere inscalfibile dell’amore, il tema della paura del confronto con la realtà e della conseguente tentazione di rifugiarsi in un mondo ideale e idealizzato che, per sfuggire alle prove della vita, finisce con il negarla. L’abilità compositiva, la ricchezza e la facilità del flusso melodico, la sorprendente padronanza dell’orchestrazione che adotta Strauss come padre putativo e assoluto modello di riferimento, fanno di Korngold un unicum della storia della musica austriaca e tedesca, al quale i difensori della grande tradizione teutonica si rivolsero quale baluardo della “purezza delle origini” contro gli attacchi della contaminazione della musica cosiddetta “di consumo” o di diversa matrice culturale, come il jazz. Storico rimane lo scontro tra i sostenitori di Korngold e dell’opera della sua compiuta maturità, Das Wunder der Heliane, e quelli dell’avanguardia e dell’apertura alle forme nuove che spingevano dai confini dell’impero musicale. Questi ultimi salutarono Ernst Krenek e il suo capolavoro Jonny spielt auf quale vessillo ed emblema delle nuove linfe del teatro musicale e della possibilità di comunicare con il pubblico contemporaneo: Jonny sbaragliò le scene ed ebbe più di quattrocento repliche in tutta la Germania. Mentre Korngold edificava monumenti celebrativi del primato compositivo tedesco, l’indifferenza alle tecniche e alla caratterizzazione linguistica del dramma fu il segno distintivo di Ernst Krenek; nelle sue venti opere fece largo uso del serialismo e della dodecafonia, e molte di esse trattano temi di forte impegno politico, arrivando a esprimere una mordente satira nei confronti dell’ascesa dei totalitarismi, come Der geheime Königreich che, insieme a Der Diktator e a Die Ehre der Nation, forma un trittico che ha per tema il potere politico, composto e andato in scena negli anni centrali dell’ascesa hitleriana. Der geheime Königreich, la più significativa e ambiziosa delle tre, che ricorre più delle altre al linguaggio atonale, fu composta in soli due mesi e adotta il modello del racconto fiabesco per affrontare un tema scottante in chiave ironica: il rapporto tra potere e individualità, ovvero tra la responsabilità pubblica e le esigenze dell’interiorità dell’uomo politico; allo stesso procedimento era ricorso Prokofiev, un lustro prima, per le sue Melarance (ma è del 1926 l’applauditissimo debutto europeo dell’opera). Colpisce, ad esempio, il trattamento virtuosistico della voce umana, che raggiunge il vertice con la parte della Regina, affidata a una spericolata tessitura di soprano drammatico di coloratura: quasi un omaggio alla mozartiana Königin der Nacht, suggestione asseverata dalla presenza di tre dame di compagnia della perfida sovrana, alle quali viene assegnato il compito di recuperare la corona affidata dal Re – che ha abdicato al potere, schiacciato dalla rivolta del suo popolo e dal senso di inadeguatezza che lo ha colto - al personaggio del Folle. La Regina vince la corona a carte, soccombe al fascino del capo dei ribelli a cui decide di donarla e viene infine magicamente trasformata in albero. Il Re, a sua volta, si aggira nella foresta incantata con gli abiti del Folle e giunge a riconoscere il segreto della vera saggezza nello spirito libero della Natura. Decisamente originale – e perfettamente attinente alla poetica krenekiana – il ricorso al tempo di danza (tango, minuetto…) evidente soprattutto in alcune tra le scene drammaticamente più incisive dell’opera. Nel dopoguerra Krenek – di cui ricorre nel 2011 il trentennale dalla morte, una buona occasione per richiamare la giusta attenzione sul valore di un musicista ingiustamento trascurato - operò a contatto con le avanguardie, allargando il campo delle sue esperienze sino all’elettronica e all’opera televisiva. Francesco Cavalli/Alessandro Stradella Il novello Giasone Dramma per musica di Giacinto Andrea Cicognini riadattato da Giovanni Filippo Apolloni e Filippo Acciaiuoli partitura di Francesco Cavalli, riadattata da Alessandro Stradella per il Teatro Nuovo di Roma in Tordinona l’anno 1671 edizione critica di M.Beghelli e N.Usula con la consulenza di Lorenzo Bianconi prima rappresentazione assoluta in tempi moderni Dovendo rappresentare a Roma Il Giasone di Cavalli, vale a dire l’opera che dal 1649 spopolava più d’ogni altra fra i nuovi teatri d’opera (e probabilmente la più rappresentativa di tutto il Seicento: una delle prime ad essere diffuse per contrade e palcoscenici europei dalle compagnie della “commedia dell’Arte” italiana), Stradella ne approntò una versione notevolmente rimaneggiata. Con un modernissimo colpo di teatro (non indicato dal libretto a stampa che gli spettatori avevano in mano!), fece iniziare l’opera col Prologo a tutti noto, ma, dopo poche battute del Sole, l’impianto scenografico crolla su se stesso, fra la costernazione di Musica, Poesia e Pittura che se la prendono con l’imperizia dell’architetto-scenografo dello spettacolo. Si decide di andare comunque avanti a celebrare le gesta dell’eroe Giasone, che per l’occasione perde la voce di castrato assumendo un modernissimo timbro baritonale. Anche Medea si caratterizza meglio, diventando prettamente sopranile. Le parti vocali sono dunque spesso riscritte rispetto all’originale, semplicemente adattate o composte ex novo, come quella del protagonista. Il libretto è notevolmente sforbiciato, ma si arricchisce di balli pantomimici e di un intermezzo buffo di nuova composizione. Sparisce il coro. L’orchestra è sempre limitata a tre o quattro parti, senza particolari specificazioni strumentali, da decidere a piacimento del concertatore. La vicenda raccontata è quasi del tutto indifferente al mito classico, e la storia, osservata con divina partecipazione da Apollo e Amore, ruota attorno ai propositi matrimoniali di Giasone, piuttosto disinteressato a recuperare il vello d’oro e a raggiungere il potere da esso simboleggiato, e invece assai coinvolto in affari amorosi, non sempre edificanti. La musica di Cavalli stupisce ancora oggi: se i suoi celebrati recitativi restano il vero culmine espressivo dell’opera, l’invenzione musicale è inesauribile, e lascia ammirati la ricchezza d’idee, sempre perfettamente consone all’azione, che alimenta e fa esplodere di colori i mutevoli umori della drammaturgia. La nuova partitura, a lungo ricercata dagli studiosi di Stradella, è finalmente riemersa e trascritta per una moderna esecuzione. Giacomo Tritto Il convitato di pietra Commedia in musica in un atto di Giambattista Lorenzi Napoli, Teatro dei Fiorentini, 1783 revisione critica di Roberto De Simone con i giovani cantanti dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” Prima trasposizione in musica del mito di Don Giovanni di cui ci sia rimasta testimonianza, del quale emerge prepotentemente il sostrato arcaico, in cui è centrale il tema della profanazione del regno degli estinti. Il protagonista arretra, come personaggio caratterizzato individualmente, di fronte alla debordante ambientazione popolare, che si esprime soprattutto attraverso i personaggi di bassa levatura sociale, tra cui,in primis, Pulcinella: un Leporello napoletano di grande autonomia scenica che si esprime rigorosamente in dialetto e che s’impone come parte principale dell’opera, totalizzando un’aria, un duetto e un terzetto, nonché la presenza costante nelle scene più importanti, nel concertato introduttivo e in quello finale.