una lettura delle mutilazioni genitali femminili.

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IL CORPO MIGRANTE TRA CAMBIAMENTO CULTURALE E PROCESSI DI
AGENCY: UNA LETTURA DELLE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI.
Federica de Cordova* e Paolo Inghilleri**
1. Introduzione
Il lavoro che presentiamo riguarda dati raccolti all’interno di una ricerca-azione finanziata dalla
Commissione Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, volta ad elaborare azioni
di contrasto verso le pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF)1.
A partire dagli elementi emersi dalla ricerca intendiamo identificare aspetti generali delle strategie
identitarie che si attivano nel momento del confronto con il contesto socioculturale italiano, con
particolare attenzione ai processi di autodeterminazione che tali modalità di definizione del sé
comportano.
2. La ricerca-azione
La ricerca nel suo complesso si propone di analizzare la pratica delle mutilazioni genitali femminili
in un contesto di migrazione al fine di delineare strategie e linee-guida operative su cui strutturare
azioni di sensibilizzazione, formazione ed intervento nel rispetto dei processi di identificazione e
integrazione dei soggetti coinvolti. Nello specifico, gli obiettivi riguardano la rilevazione
dell’incidenza della pratica sul territorio milanese e la definizione di rappresentazioni, vissuti,
credenze e aspettative di donne, uomini immigrate/i e dei loro figli rispetto alla pratiche tradizionali
di circoncisione femminile. Un ulteriore obiettivo consiste nella sperimentazione di pratiche di
intervento “dal basso” attraverso la formazione di rappresentanti delle comunità quali agenti di
prevenzione e moltiplicatori sociali. In parallelo, l’indagine si svilupperà tra operatori sociosanitari
del territorio, al fine di far emergere le loro conoscenze riguardo alla tematica, le prassi adottate, gli
eventuali punti di forza e di debolezza. Il confronto tra gli elementi emersi dagli operatori e le
informazioni tratte dalla popolazione ci consentirà, infine, di definire punti chiave utili ad elaborare
linee guida per lo sviluppo di buone prassi di approccio al tema.
I dati proposti in questa sede riguardano, tra tutti, uno specifico obiettivo: analizzare i processi di
modificazione del sé in ambito migratorio, di cui le pratiche tradizionali di mutilazione genitale
rappresentano il punto di osservazione. Ci muoviamo, infatti, dall’ipotesi che esse configurino un
ordine culturale specifico, vissuto come “naturale”. Tale ordine simbolico non riguarda
esclusivamente il corpo, ma determina una specifica modalità di stare, sentire e conoscere il mondo
(Boddy, 1988, 1982). In questo senso la circoncisione femminile è elemento fondante un ordine
simbolico preciso che riguarda tutti i membri appartenenti al gruppo: uomini o donne, giovani o
adulti, circoncisi o meno. Il processo di migrazione implica il confronto con il corpo “altro” (quello
delle “altre”, ma anche il proprio) e di conseguenza, in termini più generali, un riaggiustamento del
sé che passa per la riattribuzione di senso a tali pratiche del corpo.
Nell’ambito di questi riaggiustamenti identitari, focalizzeremo l’attenzione sui livelli di
autodeterminazione e capacità di agency che essi implicano, per vedere se il cambiamento induce
un aumento della complessità dell’informazione culturale interna, o se invece impoverisce gli
*
Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale – Università degli Studi di Verona – [email protected]
Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente – Università degli Studi di Milano – paolo. [email protected]
**
1
Si tratta della ricerca-azione “Sister’s care” sviluppata nel corso del biennio 2008/09 in collaborazione tra Università degli Studi di
Milano, Cooperativa Sociale Kantara di Milano e Università degli Studi di Verona.
1
strumenti culturali del soggetto e dunque le sue capacità di agire in maniera autodeterminata nei
contesti.
3. La metodologia
In base alla rappresentatività numerica sul territorio milanese e alla diffusione che tali pratiche
hanno nei territori d’origine, sono state individuate tre comunità target: eritrea, egiziana, nigeriana.
Coerentemente con i presupposti metodologici della ricerca-azione si è strutturato il lavoro secondo
un’ottica di co-costruzione di senso (Hamilton, 1980; Yin 1989); cioè si procede attraverso un
graduale coinvolgimento dei soggetti appartenenti alle comunità target con strumenti di indagine ad
imbuto (dai più generali e impersonali ai più approfonditi e specifici, dal questionario all’intervista
in profondità) avviando un processo di negoziazione e coinvolgimento del maggior numero di
soggetti possibile. Questo modalità di indagine ci consentirà di raccogliere informazioni a livelli di
profondità e in contesti differenti. In tal modo dovrebbe essere possibile dar conto sia dei diversi
livelli che intervengono a definire i comportamenti e gli atteggiamenti riguardanti le pratiche
tradizionali di circoncisione (sanitari, estetici, morali, identitari ecc.) secondo un modello
multifattoriale, sia della molteplicità di contesti di vita in cui il soggetto che agisce è immerso
(famiglia, lavoro, rete sociale italiana, rete sociale d’origine ecc.). Particolare valore assumono le
occasioni meno strutturate dell’indagine, in cui è più probabile attivare processi di negoziazione di
significato tra ricercatore e soggetti: una modalità di lavoro così definita non mira ad escludere
elementi conflittuali o contraddittori, quanto ad esprimere i punti di vista molteplici e simultanei
che in un preciso momento alimentano il tema (Guba, 2000; Lincoln, Guba, 1990).
Nel complesso, la ricerca prevede la raccolta di dati attraverso questionari, interviste per aree,
focus-group, osservazione partecipante, con l’attenzione a favorire processi in direzione bottom-up.
A questo scopo, figura fulcro è quella dei mediatori linguistico-culturali (MLC) che, lavorando in
costante connessione con il ricercatore, favoriscono il coinvolgimento diretto ed attivo delle
comunità target, facilitando così dinamiche di consapevolezza e cambiamento più profonde e
durature (Castiglioni, 1997; Luatti, 2006). Questa postura è particolarmente importante trattando un
argomento come quello delle MGF, decisamente culture-sensitive.
La parte dell’indagine qui sviluppata si basa sulla formazione svolta con un gruppo di mediatori
linguistico culturali esperti, composto da cinque donne (due egiziane, due nigeriane, una eritrea) e
un uomo (con doppia nazionalità eritrea/etiope), strutturata in sei incontri della durata di quattro ore
ciascuno. Il gruppo era guidato da una équipe di quattro ricercatori di formazione psicologica e
antropologica, che ricoprivano ogni volta (due per incontro) il ruolo di conduttore e osservatore. I
contenuti affrontati riguardavano: 1) definizioni internazionali e locali delle MGF: elementi comuni
e differenziazioni; 2) distribuzione geografica e normativa in Europa e in Africa; 3) corpo come
oggetto sociale; 4) trauma, identità e MGF; 5) il corpo come oggetto del diritto; 6) metodologia
della ricerca: l’uso del questionario, dell’intervista e dell’osservazione partecipante nella ricerca
psicosociali; 7) MGF come elemento del progetto di sviluppo di comunità.
E’ emersa una alta motivazione personale a lavorare su questa tematica, che ha inevitabilmente
richiesto ai singoli MLC di mettersi in gioco personalmente e avviare un lavoro su di sé. Questo è
stato giudicato dai protagonisti elemento determinante per il raggiungimento degli obiettivi
formativi. Il gruppo di lavoro così costituito si è rivelato un interessante punto di osservazione sulle
dinamiche identitarie innescate dalla migrazione, attraverso testimoni privilegiati. La particolare
condizione instauratasi all’interno del contesto formativo e dalla possibilità del confronto
intra/internazionale, oltre che maschile/femminile, ha consentito di osservare e attivare processi di
consapevolezza e di analisi tra i partecipanti stessi, che sono stati fondamentali per dare più in
generale indicazioni sullo sviluppo della ricerca.
Il gruppo si è così trasformato, parzialmente, in sei focus group con testimoni privilegiati , da cui
sono emersi degli elementi che considereremo in relazione a specifiche ipotesi teoriche.
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4. Elementi emergenti
Riassumiamo per aree gli elementi principali emersi dai focus group.
4.1 Relazione tra pratiche tradizionali e identità.
Tutti i soggetti partecipanti ai focus group evidenziano come il nucleo fondamentale delle pratiche
escissorie consista nella loro natura “tradizionale”. Per questo motivo esse sono fortemente legate a
precise connotazioni identitarie che, comunque, variano da gruppo a gruppo. Tale caratterizzazione
è ciò che dà origine a quanto viene definita la “complessità della questione MGF”, e il motivo per
cui, da parte dei MLC, il lavoro con la comunità sulle pratiche di circoncisione femminile viene
spesso definito come “difficile, delicato, complesso”. L’essere segnati nel corpo (così come
scegliere il corpo segnato) è marchio indiscusso dell’appartenenza e dell’adesione al gruppo, e a
tutto quell’insieme di valori, costumi, credenze che nel tempo quello specifico insieme ha
contribuito a sviluppare e preservare. Questa “complessità” della questione escissoria si riflette in
una multidimensionalità di intervento. Occorre tener presente che sono possibili azioni molteplici su
piani paralleli, sviluppate su tre livelli differenti per profondità:
- dell’informazione
- delle rappresentazioni mentali
- dei processi affiliativi
Ci sono argomenti ritenuti cruciali per aprire un confronto sulla tematica delle MGF: le tematiche
della verginità, della riproduzione, dell’essere “donna adatta”, del malessere e benessere del corpo e
della sua condizione di “normalità”.
Profondamente connessa alla tematica identitaria, emerge la questione del linguaggio. I partecipanti
stessi, nelle proprie lingue e dialetti utilizzano vocabolari assai elaborati e differenziati a seconda
dei contesti e degli stati soggettivi che esprimono, per parlare di questo argomento. Esistono
posizioni disomogenee non solo tra chi è portatore della cultura escissoria e chi no, ma tra le stesse
donne e uomini africani, così come tra noi occidentali. Le parole per descrivere i fatti del corpo non
sono neutre, richiamano ad appartenenze comuni, processi di riconoscimento, valorizzazione, o
invece a profonde differenze, svalutazione e umiliazione.2Si sottolinea quindi l’importanza di
impostare il lavoro con una particolare attenzione al linguaggio, alla terminologia adoperata e al
significato profondo che i singoli termini assumono nei differenti contesti. Il confronto aperto e non
giudicante delle moltitudini significanti coinvolte, senza una gerarchia di verità o di “giustezza”,
contribuisce alla condivisione di un linguaggio comune e consente il rispetto delle diverse posizioni
e dei diversi “tempi”. “Non se ne parla perché è naturale”: con questa frase le donne giustificano il
rifiuto, spesso riscontrato, di parlare di questi temi con gli occidentali, nel modo in cui essi lo
propongono. Nella loro esperienza, il mondo “altro”, esterno, le pone davanti ad una realtà diversa,
inaccessibile. Per trovare le parole necessarie ad esprimere questa “naturalità” modificata, occorre
del tempo.
4.2 I processi di cambiamento identitario in prospettiva orizzontale
Tutti i soggetti riportano come estremamente significativo un momento specifico in cui c’è il
passaggio dalla consapevolezza della pratica escissoria come “naturale” a qualcosa di “diverso”.
Spesso, ma non sempre, questo momento è dato dall’incontro con i servizi sanitari italiani. Il
2
Ricordiamo come la questione terminologica sia stata oggetto di accese e lunghe dissertazioni anche in ambito internazionale. La
dizione “mutilazioni genitali femminili” è quella ufficiale voluta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme al Inter African
Committee, che rifiuta la dizione di “circoncisione femminile” comunemente adottata nei paesi d’origine della pratica. Questo è stato
uno dei più recenti passi da parte dell’organizzazione delle Nazioni Unite verso la condanna e una politica di eliminazione di tali
pratiche. (WHO, 1994, “Who leads public health action for thr elimination of female genital mutilation”, Press Release WHA/5;
WHO, 1993, “World health assembly calls for the elimination of harmful tradutional practices”, Press Release WHA/10).
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momento del confronto con il corpo “diverso” viene definito come traumatico, carico di sofferenza.
E’ questo l’aspetto che più colpisce le donne, che si chiedono il “perchè” di tale sofferenza. Tutti
ribadiscono la necessità di trovare momenti e spazi di elaborazione di questi stati soggettivi, che
necessitano di “essere detti”, anche se è un percorso lungo e doloroso. Le stesse partecipanti si
mostrano in fasi diverse rispetto a tale elaborazione.
Tuttavia, è proprio a partire dallo scontro con il sentirsi diversi che, affermano i partecipanti, si
avviano inevitabilmente processi di cambiamento e di maggiore consapevolezza. In parecchi
descrivono questo movimento di passaggio come “occasione per vedersi in un altro modo” e
richiede di affrontare questioni assai complesse che schematizziamo nelle domande dei partecipanti
ai focus:
□ I valori tradizionali sono ancora validi qui?
□ Esiste il rischio di mistificare il valore della tradizione per giustificare qualcosa di negativo?
□ Cambiare significa occidentalizzarsi o esistono altre vie?
□ Non si può “buttar tutto via”: cosa si può mantenere e cosa non serve delle pratiche
tradizionali di circoncisione?
□ La situazione è la stessa per adulti e bambini? La posizione dei figli che nascono in Italia è
la stessa dei genitori? E’ giusto che essi “credano” nelle stesse cose?
Di nuovo, si sottolinea la necessità che queste domande trovino spazio per essere espresse
liberamente, senza posizioni predeterminate. Lo stesso contesto originario può essere sentito come
non adatto, in quanto poco aperto ad un discorso che rischia di apparire sovversivo dell’ordine
consolidato. La possibilità di rappresentare le diverse posizioni rappresenta strumento di
consapevolezza e cambiamento importante, tenendo comunque in mente che all’interno di ogni
gruppo nazionale/etnico, così come tra gruppi diversi, esistono posizioni, credenze e idee tra loro
fortemente contraddittorie. E’ in questo modo che si può pensare al cambiamento di sé non
necessariamente come “occidentalizzazione”. Notiamo infine come la comunità di riferimento e di
influenza “occidentale” che fa da orizzonte ai migranti, non sia esclusivamente quella italiana, ma
spesso esiste una dimensione europea, se non allargata al nord America con cui, in maniera più o
meno diretta, essi si confrontano attraverso una solida rete sociale di amicizie e parentele.
4.3 I processi di cambiamento identitario in prospettiva verticale: di madre in figlia
Ulteriore elemento emergente, legato alla sofferenza derivante dal confronto, consiste nel fatto che
la consapevolezza del corpo “non naturale” mette in crisi il ruolo femminile, come figlia e come
madre. La donna mette in dubbio un modello generale di accudimento e protezione, rivisita in
qualche modo la figura materna (o più in generale, tutte quelle figure femminili accudenti e
protettrici) così come mette in dubbio la propria capacità di madre di guidare la prole nelle “scelte
giuste” e si chiede se è in grado di “capire” il mondo in cui i propri figli crescono. Questo aspetto
sembra diventare particolarmente acuto nella fase preadolescenziale e adolescenziale dei figli, e dà
adito a prese di posizione estremamente diverse nella coppia genitoriale, che vanno dal ritorno
radicale e rigido ai modelli della cultura originari, all’impotenza del “lasciar fare” perché non si
hanno strumenti. Torna il tema della necessità di definire un modello per “essere adatti”.
4.4 Strumenti culturali di mediazione
I componenti del gruppo hanno infine identificato una serie di elementi offerti dal contesto che
possono agire da “mediatori” nei processi di cambiamento. Particolare attenzione è stata data agli
strumenti legislativi, presenti sia nei paesi d’origine che in Italia, che in qualche modo limitano o
impediscono del tutto le pratiche tradizionali escissorie. Sembra emergere una tensione tra
l’ordinamento legislativo e la prassi sociale, che spesso si trovano in contraddizione (specialmente
per quel che riguarda i paesi d’origine). In molte occasioni, sembra che la legge sociale sia primaria
rispetto al livello giuridico, sebbene questo orientamento pare diventare più debole nel momento in
cui si vive in Italia, almeno all’interno del gruppo incontrato. Nel paese d’origine la “pena della
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tradizione” (esclusione sociale, anomia) viene frequentemente percepita come peggiore di quella
giuridica. Lo strumento giuridico in Italia viene considerato utile, ma non unico; in particolare
perché, enfatizzando una separazione tra corpo fisico e corpo sociale, facilita un cambiamento sul
piano delle informazioni e delle rappresentazioni sociali. Tuttavia, viene da alcuni giudicato come
troppo “invadente” quando riguarda la regolamentazione del corpo delle donne adulte (es.
reinfibulazione).
All’interno di questo gruppo è poi emerso un dato specifico, inerente al ruolo tecnico del mediatore
linguistico culturale di fronte ad un tema culturalmente “forte”: la necessità di essere consapevoli di
quale modello si veicola rispetto alle pratiche tradizionali diventa tanto più importante quanto più il
proprio è anche un ruolo pubblico, istituzionale, all’interno della propria comunità. In questo senso
lo spazio della mediazione non rimane semplicemente quello dell’azione concreta, ma diviene
fortemente simbolico. Questa “interiorizzazione” della dimensione simbolica viene vissuta da
alcuni mediatori con problematicità, occasione di timore e confusione, ma anche come
un’opportunità per rifondare un nuovo ordine valoriale personale e collettivo. Riprenderemo questo
tema nella parte conclusiva del lavoro.
5. Discussione
Gli elementi fin qui emersi possono condurre ad una serie di ipotesi e riflessioni teoriche generali
riguardanti il cambiamento identitario.
La complessità dell’appartenenza. Secondo Paul Farmer (2006; 1999) ogni gruppo produce
meccanismi sociali che definiscono precisamente la suddivisione delle risorse tra i suoi membri e le
modalità di accesso ad esse. Si tratta, in termini generali, di modalità specifiche sia concrete sia
simboliche, variabili da gruppo a gruppo, di spartizione del potere. Attraverso queste strutture ogni
membro accede ad una precisa collocazione all’interno della società di appartenenza. Non si tratta
semplicemente di ruoli concreti, ma più in generale di un orizzonte che definisce profondamente ciò
che è pensabile, esperibile e attraverso quali modalità. “Il gruppo che ci precede (…) è un gruppo
che ci sostiene e ci mantiene in una matrice di investimenti e di cure, predispone dei segni di
riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli oggetti, offre mezzi di protezione e
di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti. Nel gruppo
si realizzano azioni psichiche che sostengono o limitano rappresentazioni, affetti” (Kaes, 2005:20).
Questi meccanismi vengono introiettati e incorporati da ogni membro appartenente. In alcuni casi
ciò comporta un processo di violenza strutturale, un meccanismo di costruzione sociale
dell’emarginazione, della dipendenza, della sofferenza e dell’assoggettamento che vengono
naturalizzati e resi invisibili (Quaranta, 2006). L’incorporazione di queste strutture avviene ad un
livello così precoce e primario da apparire “naturale”, eliminandone cioè la connotazione di
costruzione sociale. In questo modo la violenza strutturale non viene manifestamente agita da attori
specifici ed identificabili, ma viene “naturalmente” riprodotta dallo stesso processo sociale, nel suo
divenire: ogni individuo, nel momento in cui assume un’identità di genere, ruoli, posizioni, compiti,
contribuirà a reiterare quel meccanismo (Dalal, 2002; Nguyen 2006; 2005).
La sofferenza. L’esito di questo tipo di violenza prende la forma della sofferenza sociale (Das et
al., 2001; 2000; Kleinman et al., 1997), una sorta di “squilibrio”, di non corrispondenza tra ordine
simbolico ed esperienza soggettiva dei membri del gruppo. In questo senso, la sofferenza sociale è
intesa come “rottura” dell’esperienza (Kleinman et al. 1997). Il corpo biologico è, fin dall’inizio
della vita, terreno su cui la cultura e la società inscrivono il proprio marchio e il proprio
funzionamento. Esso, con i suoi segnali, nel suo sviluppo, nelle manifestazioni di benessere e di
malessere, non appartiene più al mero dominio biologico, ma diviene, momento per momento,
espressione della complessità dei processi storici e sociali del gruppo che rappresenta.
Rinunciare al proprio corpo, definito attraverso le pratiche tradizionali, significa abbandonare
all’improvviso la propria iscrizione all’interno di un determinato ordine simbolico significante. Il
contesto socioculturale costituisce il substrato entro cui il soggetto può sperimentare il proprio
esistere; esso crea il singolo soggetto nominandolo. Ciò accade su due dimensioni: la prima è quella
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del pensiero e del linguaggio, la seconda si sviluppa sul piano delle rappresentazioni, del desiderio e
degli interdetti (Kaes, 2007). Questi precedenti “sociopsichici” del soggetto hanno influenza sia in
senso verticale, rispetto alla capacità di riconoscersi in un processo di filiazione-affiliazione, sia in
termini orizzontali nel costruire legami e agire sulla realtà circostante.
La relazione madre-figlia. Ipotizziamo che le pratiche di MGF rappresentino la manifestazione di
un caso di violenza strutturale, in particolar modo nella situazione del migrante. Quando il contesto
sociale in cui il corpo segnato si manifesta cambia radicalmente rispetto a quello in cui le pratiche
sono sorte, il meccanismo di costruzione sociale diventa più esplicito e quindi più cosciente,
originando quella sensazione di spaesamento e sofferenza che le donne e gli uomini a più riprese
riportano. Ci sembra che questa manifestazione sia particolarmente osservabile nell’ambito di ciò
che abbiamo precedentemente definito il passaggio transgenerazionale madre/figlia (cfr. 4.3).
La possibilità di uno psichismo individuale si fonda nella trama di alleanze stabilite
precedentemente al sé. Tuttavia, questa promessa o garanzia di esistenza a priori (Kaes li definisce
“garanti metapsichici del soggetto”) può essere mantenuta solo a condizione che l’individuo
aderisca alle condizioni che quell’alleanza sociale prescrive. La dimensione del desiderio e del
bisogno individuale dovranno di conseguenza sforzarsi di trovare una connessione rispetto al suo
essere membro di un insieme di soggetti interrelati, all’interno del quale si trova a svolgere le
funzioni di anello di trasmissione, di erede, di attore (Kaes, 2005). Ecco allora che il processo per
cui la possibilità di essere soggetto psichico e sociale, insieme all’attivarsi di una trasmissione
psichica transgenerazionale, si basa sulla capacità di riconoscere la propria derivazione da altri. Ci
sembra questo un punto cruciale. Infatti, la consapevolezza emergente dallo svelamento dei
meccanismi di violenza strutturale impliciti nelle pratiche di MGF mette in crisi proprio questo
contratto di alleanza, che fonda lo psichismo e la capacità di trasmissione transgenerazionale.
Inoltre, la specifica condizione femminile, che ha l’onere del ruolo riproduttivo dentro il gruppo, fa
sì che la donna portatrice di MGF venga in questa circostanza improvvisamente e brutalmente
estromessa da qualsiasi genealogia. Da una parte, la possibilità di vedere la pratica escissoria come
una mutilazione scardina la figura materna protettrice, accudente e amorevole, sgretolando il
legame primario di fiducia verso l’alto; parallelamente, il proprio ruolo materno si disintegra,
perdendo tutti quei parametri definiti di ciò che è bene o male, e sciogliendo così anche la
possibilità di connessione verso il basso. Secondo Kaes (2007), l’individuo deve perseguire delle
priorità per star bene: assicurare un’origine, stabilire una continuità, assicurare un posto nel gruppo.
Ogni rottura di questo contratto provoca esperienze dolorose di tradimento, di mancata eredità o di
“diseredamento”. L’immagine di un corpo nuovo, diverso, rompe l’equilibrio tra ordine simbolico e
corporeità e svela l’arbitrarietà dell’affiliazione; la violenza del trauma non è più organizzata e
rimane questione esclusivamente individuale, al di fuori di ogni organizzazione simbolica, poderoso
fardello che impedisce la vicinanza a qualsiasi alterità. In questa condizione, il soggetto è privato
della capacità di autodeterminarsi, proprio perché gli è impossibile inscriversi in un ordine,
affiliarsi.
Il cambiamento. I membri dei gruppi appartenenti alla cultura escissoria sembrano trovarsi di
fronte ad un dilemma. Esiste un processo di assoggettamento, passivo, di subordinazione al potere e
alle sue norme. L’adeguamento ad esso comporta l’accettazione della violenza strutturale nella
forma della circoncisione femminile. L’affiliazione al gruppo offre però sicurezza e una precisa
collocazione nell’ordine simbolico: ciò permette di esistere ed essere riconosciuti nella propria
identità e di dare senso al mondo. Inoltre, è solo a partire da questa condizione (dell’essere
identificati e affiliati) che si possono sviluppare processi attivi di soggettivazione e di acquisizione
di potere3 (Butler, 2005). Nell’attimo stesso in cui si viene assoggettati, si creano dunque le
condizioni per un soggetto autodeterminato e attivo. Abbandonare i segni di iscrizione nel gruppo,
consente sì di porsi al di fuori dei meccanismi sociali della violenza strutturale, ma anche al di fuori
di una capacità di agency e autodeterminazione.
3
Definiamo “potere” l’insieme di relazioni e di strategie attraverso cui ci si colloca, e si è collocati, all’interno di un campo
significante.
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In realtà, dai focus sembra che la condizione di migrante sia in sé un rischio e una forza
contemporaneamente. Se, come abbiamo visto, il confronto mette a nudo i meccanismi di
costruzione sociale del sé e della sua immagine, con tutta la carica di violenza associata, è proprio
questa nuova posizione che potenzialmente mette il soggetto nella condizione di rifondarsi,
attraverso due ordini simbolici nuovi, quello del gruppo d’origine (rivisitato) e quello del gruppo
ospitante. In questo nuovo quadro, l’individuo può sperimentare strategie di superamento delle
dinamiche di alienazione sopra descritte, tessendo nuove configurazioni di affiliazione che si
muovono tra dimensioni significanti diverse. A questo punto possiamo interpretare in maniera
nuova e positiva l’esito della violenza sociale, la sofferenza che comporta l’azione di mutilazione
sul corpo, e possiamo pensarla come costruzione sociale che apre la strada a un discorso
autodeterminato, resistente all’ordine sociale e simbolico predefinito (Sheper-Hughes, Lock 1987;
Lock 1991). Nel momento in cui il corpo può prendere parola, esprimere la sofferenza del singolo,
quello è il momento di un possibile cambiamento.
L’autodeterminazione. Possiamo pensare allo psichismo come processo complesso composto da
dimensioni differenti (Kaes, 2007):
□ comune: parte che si basa sul contratto di fedeltà col gruppo e preclude all’esistenza del
soggetto;
□ singolare: spazio intrapsichico, privato;
□ condivisa: parte del singolare che si allea con possibili insiemi variabili di “altri”.
Ci sembra che, nel momento della sofferenza e della estromissione dai meccanismi genealogici, il
funzionamento psichico sia pervaso dalla dimensione singolare; le altre assumono una collocazione
esterna ed estranea al sé, che di fatto le rende inaccessibili e contribuisce al vissuto di
estraneamento e di impossibilità di condivisione, tipico del trauma. La capacità di agire attivamente
su sé e sui contesti è ridotta al minimo. Lo sviluppo di nuovi meccanismi filiativi e affiliativi, con la
parallela espansione del mondo psichico, è quindi fondamentale per riattivare il contatto con un
proprio mondo interno complesso, e riprendere la capacità di agire in base a degli scopi
autodeterminati.
Nel contesto dei focus group abbiamo incontrato soggetti con percorsi diversi rispetto al processo di
ricdefinizione di sé; loro ci hanno indicato alcune strategie possibili, che prevedono gradi differenti
di autodeterminazione. In particolare, ci sembra interessante focalizzare l’attenzione su alcuni
artefatti che possono contribuire alla ricostruzione di processi affiliativi e comportamenti
autodeterminati.
Uno è l’artefatto giuridico. A prescindere dalla posizione personale che i singoli soggetti assumono
di fronte alla possibile sanzione e regolamentazione delle mutilazioni genitali femminili, il fatto che
gli Stati (quelli ospitanti come quelli d’origine) abbiano legiferato al riguardo obbliga le persone a
riconfigurare le proprie rappresentazioni. La legge in sé, spesso, non solo non è condivisa, ma
neanche conosciuta, in maniera specifica. Tuttavia trasforma “l’oggetto” MGF, ne media le
modalità di comunicazione. Da questo punto di vista, rappresenta un artefatto “forte” di tutto il peso
istituzionale che veicola. La sensazione è che la legge non venga subita passivamente, ma possa
invece servire come “modello” per essere altro; non nella forma precisa che essa prescrive (molti
sono i distinguo e le eccezioni sollevate), ma per introdurre e appropriarsi di rappresentazioni di sé
nuove.
Un’altra questione riguarda la figura del mediatore linguistico-culturale che, particolarmente di
fronte ad argomenti così culturalmente sensibili, diventa simbolo di un modello di contatto culturale
e assurge esso stesso ad artefatto, trascendendo la dimensione personale. Esso incarna e incorpora,
nei gesti, nelle parole, la possibilità di un terzo polo, dentro la comunità di origine, ma fondato
anche in un altrove e pure esso significante. Di fronte alle questioni riguardanti la circoncisione
femminile, il MLC trasforma quindi il momento dell’azione in momento di simbolizzazione e
pensiero. Il conflitto e la differenza diventano strumenti per esprimere quella dimensione
intrapsichica che abbiamo definito condivisa, capace cioè di rappresentare il soggetto in
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connessione ordinata tra il mondo simbolico originario e quello vissuto nel presente. In questo
spazio “potenziale” può emerge un processo di nominazione della nuova realtà, anche problematica
e conflittuale, che caratterizza l’esperienza del qui ed ora. Due punti sono fondamentali in questo
processo: la creazione di un linguaggio nuovo, nato dal confronto sui valori e sui significati
soggettivi; la possibilità della condivisione dell’esperienza, degli affetti e delle cognizioni tra gli
individui, nelle loro diversità. Su questa base è possibile ricostruire quei precedenti sociopsichici e
culturali che garantiscono, al di là della dimensione personale, l’esistenza psichica e sciale di un
soggetto autodeterminato.
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