IL CORPO MIGRANTE TRA CAMBIAMENTO CULTURALE E PROCESSI DI AGENCY: UNA LETTURA DELLE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI. Federica de Cordova* e Paolo Inghilleri** 1. Introduzione Il lavoro che presentiamo riguarda dati raccolti all’interno di una ricerca-azione finanziata dalla Commissione Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, volta ad elaborare azioni di contrasto verso le pratiche di mutilazione genitale femminile (MGF)1. A partire dagli elementi emersi dalla ricerca intendiamo identificare aspetti generali delle strategie identitarie che si attivano nel momento del confronto con il contesto socioculturale italiano, con particolare attenzione ai processi di autodeterminazione che tali modalità di definizione del sé comportano. 2. La ricerca-azione La ricerca nel suo complesso si propone di analizzare la pratica delle mutilazioni genitali femminili in un contesto di migrazione al fine di delineare strategie e linee-guida operative su cui strutturare azioni di sensibilizzazione, formazione ed intervento nel rispetto dei processi di identificazione e integrazione dei soggetti coinvolti. Nello specifico, gli obiettivi riguardano la rilevazione dell’incidenza della pratica sul territorio milanese e la definizione di rappresentazioni, vissuti, credenze e aspettative di donne, uomini immigrate/i e dei loro figli rispetto alla pratiche tradizionali di circoncisione femminile. Un ulteriore obiettivo consiste nella sperimentazione di pratiche di intervento “dal basso” attraverso la formazione di rappresentanti delle comunità quali agenti di prevenzione e moltiplicatori sociali. In parallelo, l’indagine si svilupperà tra operatori sociosanitari del territorio, al fine di far emergere le loro conoscenze riguardo alla tematica, le prassi adottate, gli eventuali punti di forza e di debolezza. Il confronto tra gli elementi emersi dagli operatori e le informazioni tratte dalla popolazione ci consentirà, infine, di definire punti chiave utili ad elaborare linee guida per lo sviluppo di buone prassi di approccio al tema. I dati proposti in questa sede riguardano, tra tutti, uno specifico obiettivo: analizzare i processi di modificazione del sé in ambito migratorio, di cui le pratiche tradizionali di mutilazione genitale rappresentano il punto di osservazione. Ci muoviamo, infatti, dall’ipotesi che esse configurino un ordine culturale specifico, vissuto come “naturale”. Tale ordine simbolico non riguarda esclusivamente il corpo, ma determina una specifica modalità di stare, sentire e conoscere il mondo (Boddy, 1988, 1982). In questo senso la circoncisione femminile è elemento fondante un ordine simbolico preciso che riguarda tutti i membri appartenenti al gruppo: uomini o donne, giovani o adulti, circoncisi o meno. Il processo di migrazione implica il confronto con il corpo “altro” (quello delle “altre”, ma anche il proprio) e di conseguenza, in termini più generali, un riaggiustamento del sé che passa per la riattribuzione di senso a tali pratiche del corpo. Nell’ambito di questi riaggiustamenti identitari, focalizzeremo l’attenzione sui livelli di autodeterminazione e capacità di agency che essi implicano, per vedere se il cambiamento induce un aumento della complessità dell’informazione culturale interna, o se invece impoverisce gli * Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale – Università degli Studi di Verona – [email protected] Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente – Università degli Studi di Milano – paolo. [email protected] ** 1 Si tratta della ricerca-azione “Sister’s care” sviluppata nel corso del biennio 2008/09 in collaborazione tra Università degli Studi di Milano, Cooperativa Sociale Kantara di Milano e Università degli Studi di Verona. 1 strumenti culturali del soggetto e dunque le sue capacità di agire in maniera autodeterminata nei contesti. 3. La metodologia In base alla rappresentatività numerica sul territorio milanese e alla diffusione che tali pratiche hanno nei territori d’origine, sono state individuate tre comunità target: eritrea, egiziana, nigeriana. Coerentemente con i presupposti metodologici della ricerca-azione si è strutturato il lavoro secondo un’ottica di co-costruzione di senso (Hamilton, 1980; Yin 1989); cioè si procede attraverso un graduale coinvolgimento dei soggetti appartenenti alle comunità target con strumenti di indagine ad imbuto (dai più generali e impersonali ai più approfonditi e specifici, dal questionario all’intervista in profondità) avviando un processo di negoziazione e coinvolgimento del maggior numero di soggetti possibile. Questo modalità di indagine ci consentirà di raccogliere informazioni a livelli di profondità e in contesti differenti. In tal modo dovrebbe essere possibile dar conto sia dei diversi livelli che intervengono a definire i comportamenti e gli atteggiamenti riguardanti le pratiche tradizionali di circoncisione (sanitari, estetici, morali, identitari ecc.) secondo un modello multifattoriale, sia della molteplicità di contesti di vita in cui il soggetto che agisce è immerso (famiglia, lavoro, rete sociale italiana, rete sociale d’origine ecc.). Particolare valore assumono le occasioni meno strutturate dell’indagine, in cui è più probabile attivare processi di negoziazione di significato tra ricercatore e soggetti: una modalità di lavoro così definita non mira ad escludere elementi conflittuali o contraddittori, quanto ad esprimere i punti di vista molteplici e simultanei che in un preciso momento alimentano il tema (Guba, 2000; Lincoln, Guba, 1990). Nel complesso, la ricerca prevede la raccolta di dati attraverso questionari, interviste per aree, focus-group, osservazione partecipante, con l’attenzione a favorire processi in direzione bottom-up. A questo scopo, figura fulcro è quella dei mediatori linguistico-culturali (MLC) che, lavorando in costante connessione con il ricercatore, favoriscono il coinvolgimento diretto ed attivo delle comunità target, facilitando così dinamiche di consapevolezza e cambiamento più profonde e durature (Castiglioni, 1997; Luatti, 2006). Questa postura è particolarmente importante trattando un argomento come quello delle MGF, decisamente culture-sensitive. La parte dell’indagine qui sviluppata si basa sulla formazione svolta con un gruppo di mediatori linguistico culturali esperti, composto da cinque donne (due egiziane, due nigeriane, una eritrea) e un uomo (con doppia nazionalità eritrea/etiope), strutturata in sei incontri della durata di quattro ore ciascuno. Il gruppo era guidato da una équipe di quattro ricercatori di formazione psicologica e antropologica, che ricoprivano ogni volta (due per incontro) il ruolo di conduttore e osservatore. I contenuti affrontati riguardavano: 1) definizioni internazionali e locali delle MGF: elementi comuni e differenziazioni; 2) distribuzione geografica e normativa in Europa e in Africa; 3) corpo come oggetto sociale; 4) trauma, identità e MGF; 5) il corpo come oggetto del diritto; 6) metodologia della ricerca: l’uso del questionario, dell’intervista e dell’osservazione partecipante nella ricerca psicosociali; 7) MGF come elemento del progetto di sviluppo di comunità. E’ emersa una alta motivazione personale a lavorare su questa tematica, che ha inevitabilmente richiesto ai singoli MLC di mettersi in gioco personalmente e avviare un lavoro su di sé. Questo è stato giudicato dai protagonisti elemento determinante per il raggiungimento degli obiettivi formativi. Il gruppo di lavoro così costituito si è rivelato un interessante punto di osservazione sulle dinamiche identitarie innescate dalla migrazione, attraverso testimoni privilegiati. La particolare condizione instauratasi all’interno del contesto formativo e dalla possibilità del confronto intra/internazionale, oltre che maschile/femminile, ha consentito di osservare e attivare processi di consapevolezza e di analisi tra i partecipanti stessi, che sono stati fondamentali per dare più in generale indicazioni sullo sviluppo della ricerca. Il gruppo si è così trasformato, parzialmente, in sei focus group con testimoni privilegiati , da cui sono emersi degli elementi che considereremo in relazione a specifiche ipotesi teoriche. 2 4. Elementi emergenti Riassumiamo per aree gli elementi principali emersi dai focus group. 4.1 Relazione tra pratiche tradizionali e identità. Tutti i soggetti partecipanti ai focus group evidenziano come il nucleo fondamentale delle pratiche escissorie consista nella loro natura “tradizionale”. Per questo motivo esse sono fortemente legate a precise connotazioni identitarie che, comunque, variano da gruppo a gruppo. Tale caratterizzazione è ciò che dà origine a quanto viene definita la “complessità della questione MGF”, e il motivo per cui, da parte dei MLC, il lavoro con la comunità sulle pratiche di circoncisione femminile viene spesso definito come “difficile, delicato, complesso”. L’essere segnati nel corpo (così come scegliere il corpo segnato) è marchio indiscusso dell’appartenenza e dell’adesione al gruppo, e a tutto quell’insieme di valori, costumi, credenze che nel tempo quello specifico insieme ha contribuito a sviluppare e preservare. Questa “complessità” della questione escissoria si riflette in una multidimensionalità di intervento. Occorre tener presente che sono possibili azioni molteplici su piani paralleli, sviluppate su tre livelli differenti per profondità: - dell’informazione - delle rappresentazioni mentali - dei processi affiliativi Ci sono argomenti ritenuti cruciali per aprire un confronto sulla tematica delle MGF: le tematiche della verginità, della riproduzione, dell’essere “donna adatta”, del malessere e benessere del corpo e della sua condizione di “normalità”. Profondamente connessa alla tematica identitaria, emerge la questione del linguaggio. I partecipanti stessi, nelle proprie lingue e dialetti utilizzano vocabolari assai elaborati e differenziati a seconda dei contesti e degli stati soggettivi che esprimono, per parlare di questo argomento. Esistono posizioni disomogenee non solo tra chi è portatore della cultura escissoria e chi no, ma tra le stesse donne e uomini africani, così come tra noi occidentali. Le parole per descrivere i fatti del corpo non sono neutre, richiamano ad appartenenze comuni, processi di riconoscimento, valorizzazione, o invece a profonde differenze, svalutazione e umiliazione.2Si sottolinea quindi l’importanza di impostare il lavoro con una particolare attenzione al linguaggio, alla terminologia adoperata e al significato profondo che i singoli termini assumono nei differenti contesti. Il confronto aperto e non giudicante delle moltitudini significanti coinvolte, senza una gerarchia di verità o di “giustezza”, contribuisce alla condivisione di un linguaggio comune e consente il rispetto delle diverse posizioni e dei diversi “tempi”. “Non se ne parla perché è naturale”: con questa frase le donne giustificano il rifiuto, spesso riscontrato, di parlare di questi temi con gli occidentali, nel modo in cui essi lo propongono. Nella loro esperienza, il mondo “altro”, esterno, le pone davanti ad una realtà diversa, inaccessibile. Per trovare le parole necessarie ad esprimere questa “naturalità” modificata, occorre del tempo. 4.2 I processi di cambiamento identitario in prospettiva orizzontale Tutti i soggetti riportano come estremamente significativo un momento specifico in cui c’è il passaggio dalla consapevolezza della pratica escissoria come “naturale” a qualcosa di “diverso”. Spesso, ma non sempre, questo momento è dato dall’incontro con i servizi sanitari italiani. Il 2 Ricordiamo come la questione terminologica sia stata oggetto di accese e lunghe dissertazioni anche in ambito internazionale. La dizione “mutilazioni genitali femminili” è quella ufficiale voluta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme al Inter African Committee, che rifiuta la dizione di “circoncisione femminile” comunemente adottata nei paesi d’origine della pratica. Questo è stato uno dei più recenti passi da parte dell’organizzazione delle Nazioni Unite verso la condanna e una politica di eliminazione di tali pratiche. (WHO, 1994, “Who leads public health action for thr elimination of female genital mutilation”, Press Release WHA/5; WHO, 1993, “World health assembly calls for the elimination of harmful tradutional practices”, Press Release WHA/10). 3 momento del confronto con il corpo “diverso” viene definito come traumatico, carico di sofferenza. E’ questo l’aspetto che più colpisce le donne, che si chiedono il “perchè” di tale sofferenza. Tutti ribadiscono la necessità di trovare momenti e spazi di elaborazione di questi stati soggettivi, che necessitano di “essere detti”, anche se è un percorso lungo e doloroso. Le stesse partecipanti si mostrano in fasi diverse rispetto a tale elaborazione. Tuttavia, è proprio a partire dallo scontro con il sentirsi diversi che, affermano i partecipanti, si avviano inevitabilmente processi di cambiamento e di maggiore consapevolezza. In parecchi descrivono questo movimento di passaggio come “occasione per vedersi in un altro modo” e richiede di affrontare questioni assai complesse che schematizziamo nelle domande dei partecipanti ai focus: □ I valori tradizionali sono ancora validi qui? □ Esiste il rischio di mistificare il valore della tradizione per giustificare qualcosa di negativo? □ Cambiare significa occidentalizzarsi o esistono altre vie? □ Non si può “buttar tutto via”: cosa si può mantenere e cosa non serve delle pratiche tradizionali di circoncisione? □ La situazione è la stessa per adulti e bambini? La posizione dei figli che nascono in Italia è la stessa dei genitori? E’ giusto che essi “credano” nelle stesse cose? Di nuovo, si sottolinea la necessità che queste domande trovino spazio per essere espresse liberamente, senza posizioni predeterminate. Lo stesso contesto originario può essere sentito come non adatto, in quanto poco aperto ad un discorso che rischia di apparire sovversivo dell’ordine consolidato. La possibilità di rappresentare le diverse posizioni rappresenta strumento di consapevolezza e cambiamento importante, tenendo comunque in mente che all’interno di ogni gruppo nazionale/etnico, così come tra gruppi diversi, esistono posizioni, credenze e idee tra loro fortemente contraddittorie. E’ in questo modo che si può pensare al cambiamento di sé non necessariamente come “occidentalizzazione”. Notiamo infine come la comunità di riferimento e di influenza “occidentale” che fa da orizzonte ai migranti, non sia esclusivamente quella italiana, ma spesso esiste una dimensione europea, se non allargata al nord America con cui, in maniera più o meno diretta, essi si confrontano attraverso una solida rete sociale di amicizie e parentele. 4.3 I processi di cambiamento identitario in prospettiva verticale: di madre in figlia Ulteriore elemento emergente, legato alla sofferenza derivante dal confronto, consiste nel fatto che la consapevolezza del corpo “non naturale” mette in crisi il ruolo femminile, come figlia e come madre. La donna mette in dubbio un modello generale di accudimento e protezione, rivisita in qualche modo la figura materna (o più in generale, tutte quelle figure femminili accudenti e protettrici) così come mette in dubbio la propria capacità di madre di guidare la prole nelle “scelte giuste” e si chiede se è in grado di “capire” il mondo in cui i propri figli crescono. Questo aspetto sembra diventare particolarmente acuto nella fase preadolescenziale e adolescenziale dei figli, e dà adito a prese di posizione estremamente diverse nella coppia genitoriale, che vanno dal ritorno radicale e rigido ai modelli della cultura originari, all’impotenza del “lasciar fare” perché non si hanno strumenti. Torna il tema della necessità di definire un modello per “essere adatti”. 4.4 Strumenti culturali di mediazione I componenti del gruppo hanno infine identificato una serie di elementi offerti dal contesto che possono agire da “mediatori” nei processi di cambiamento. Particolare attenzione è stata data agli strumenti legislativi, presenti sia nei paesi d’origine che in Italia, che in qualche modo limitano o impediscono del tutto le pratiche tradizionali escissorie. Sembra emergere una tensione tra l’ordinamento legislativo e la prassi sociale, che spesso si trovano in contraddizione (specialmente per quel che riguarda i paesi d’origine). In molte occasioni, sembra che la legge sociale sia primaria rispetto al livello giuridico, sebbene questo orientamento pare diventare più debole nel momento in cui si vive in Italia, almeno all’interno del gruppo incontrato. Nel paese d’origine la “pena della 4 tradizione” (esclusione sociale, anomia) viene frequentemente percepita come peggiore di quella giuridica. Lo strumento giuridico in Italia viene considerato utile, ma non unico; in particolare perché, enfatizzando una separazione tra corpo fisico e corpo sociale, facilita un cambiamento sul piano delle informazioni e delle rappresentazioni sociali. Tuttavia, viene da alcuni giudicato come troppo “invadente” quando riguarda la regolamentazione del corpo delle donne adulte (es. reinfibulazione). All’interno di questo gruppo è poi emerso un dato specifico, inerente al ruolo tecnico del mediatore linguistico culturale di fronte ad un tema culturalmente “forte”: la necessità di essere consapevoli di quale modello si veicola rispetto alle pratiche tradizionali diventa tanto più importante quanto più il proprio è anche un ruolo pubblico, istituzionale, all’interno della propria comunità. In questo senso lo spazio della mediazione non rimane semplicemente quello dell’azione concreta, ma diviene fortemente simbolico. Questa “interiorizzazione” della dimensione simbolica viene vissuta da alcuni mediatori con problematicità, occasione di timore e confusione, ma anche come un’opportunità per rifondare un nuovo ordine valoriale personale e collettivo. Riprenderemo questo tema nella parte conclusiva del lavoro. 5. Discussione Gli elementi fin qui emersi possono condurre ad una serie di ipotesi e riflessioni teoriche generali riguardanti il cambiamento identitario. La complessità dell’appartenenza. Secondo Paul Farmer (2006; 1999) ogni gruppo produce meccanismi sociali che definiscono precisamente la suddivisione delle risorse tra i suoi membri e le modalità di accesso ad esse. Si tratta, in termini generali, di modalità specifiche sia concrete sia simboliche, variabili da gruppo a gruppo, di spartizione del potere. Attraverso queste strutture ogni membro accede ad una precisa collocazione all’interno della società di appartenenza. Non si tratta semplicemente di ruoli concreti, ma più in generale di un orizzonte che definisce profondamente ciò che è pensabile, esperibile e attraverso quali modalità. “Il gruppo che ci precede (…) è un gruppo che ci sostiene e ci mantiene in una matrice di investimenti e di cure, predispone dei segni di riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli oggetti, offre mezzi di protezione e di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti. Nel gruppo si realizzano azioni psichiche che sostengono o limitano rappresentazioni, affetti” (Kaes, 2005:20). Questi meccanismi vengono introiettati e incorporati da ogni membro appartenente. In alcuni casi ciò comporta un processo di violenza strutturale, un meccanismo di costruzione sociale dell’emarginazione, della dipendenza, della sofferenza e dell’assoggettamento che vengono naturalizzati e resi invisibili (Quaranta, 2006). L’incorporazione di queste strutture avviene ad un livello così precoce e primario da apparire “naturale”, eliminandone cioè la connotazione di costruzione sociale. In questo modo la violenza strutturale non viene manifestamente agita da attori specifici ed identificabili, ma viene “naturalmente” riprodotta dallo stesso processo sociale, nel suo divenire: ogni individuo, nel momento in cui assume un’identità di genere, ruoli, posizioni, compiti, contribuirà a reiterare quel meccanismo (Dalal, 2002; Nguyen 2006; 2005). La sofferenza. L’esito di questo tipo di violenza prende la forma della sofferenza sociale (Das et al., 2001; 2000; Kleinman et al., 1997), una sorta di “squilibrio”, di non corrispondenza tra ordine simbolico ed esperienza soggettiva dei membri del gruppo. In questo senso, la sofferenza sociale è intesa come “rottura” dell’esperienza (Kleinman et al. 1997). Il corpo biologico è, fin dall’inizio della vita, terreno su cui la cultura e la società inscrivono il proprio marchio e il proprio funzionamento. Esso, con i suoi segnali, nel suo sviluppo, nelle manifestazioni di benessere e di malessere, non appartiene più al mero dominio biologico, ma diviene, momento per momento, espressione della complessità dei processi storici e sociali del gruppo che rappresenta. Rinunciare al proprio corpo, definito attraverso le pratiche tradizionali, significa abbandonare all’improvviso la propria iscrizione all’interno di un determinato ordine simbolico significante. Il contesto socioculturale costituisce il substrato entro cui il soggetto può sperimentare il proprio esistere; esso crea il singolo soggetto nominandolo. Ciò accade su due dimensioni: la prima è quella 5 del pensiero e del linguaggio, la seconda si sviluppa sul piano delle rappresentazioni, del desiderio e degli interdetti (Kaes, 2007). Questi precedenti “sociopsichici” del soggetto hanno influenza sia in senso verticale, rispetto alla capacità di riconoscersi in un processo di filiazione-affiliazione, sia in termini orizzontali nel costruire legami e agire sulla realtà circostante. La relazione madre-figlia. Ipotizziamo che le pratiche di MGF rappresentino la manifestazione di un caso di violenza strutturale, in particolar modo nella situazione del migrante. Quando il contesto sociale in cui il corpo segnato si manifesta cambia radicalmente rispetto a quello in cui le pratiche sono sorte, il meccanismo di costruzione sociale diventa più esplicito e quindi più cosciente, originando quella sensazione di spaesamento e sofferenza che le donne e gli uomini a più riprese riportano. Ci sembra che questa manifestazione sia particolarmente osservabile nell’ambito di ciò che abbiamo precedentemente definito il passaggio transgenerazionale madre/figlia (cfr. 4.3). La possibilità di uno psichismo individuale si fonda nella trama di alleanze stabilite precedentemente al sé. Tuttavia, questa promessa o garanzia di esistenza a priori (Kaes li definisce “garanti metapsichici del soggetto”) può essere mantenuta solo a condizione che l’individuo aderisca alle condizioni che quell’alleanza sociale prescrive. La dimensione del desiderio e del bisogno individuale dovranno di conseguenza sforzarsi di trovare una connessione rispetto al suo essere membro di un insieme di soggetti interrelati, all’interno del quale si trova a svolgere le funzioni di anello di trasmissione, di erede, di attore (Kaes, 2005). Ecco allora che il processo per cui la possibilità di essere soggetto psichico e sociale, insieme all’attivarsi di una trasmissione psichica transgenerazionale, si basa sulla capacità di riconoscere la propria derivazione da altri. Ci sembra questo un punto cruciale. Infatti, la consapevolezza emergente dallo svelamento dei meccanismi di violenza strutturale impliciti nelle pratiche di MGF mette in crisi proprio questo contratto di alleanza, che fonda lo psichismo e la capacità di trasmissione transgenerazionale. Inoltre, la specifica condizione femminile, che ha l’onere del ruolo riproduttivo dentro il gruppo, fa sì che la donna portatrice di MGF venga in questa circostanza improvvisamente e brutalmente estromessa da qualsiasi genealogia. Da una parte, la possibilità di vedere la pratica escissoria come una mutilazione scardina la figura materna protettrice, accudente e amorevole, sgretolando il legame primario di fiducia verso l’alto; parallelamente, il proprio ruolo materno si disintegra, perdendo tutti quei parametri definiti di ciò che è bene o male, e sciogliendo così anche la possibilità di connessione verso il basso. Secondo Kaes (2007), l’individuo deve perseguire delle priorità per star bene: assicurare un’origine, stabilire una continuità, assicurare un posto nel gruppo. Ogni rottura di questo contratto provoca esperienze dolorose di tradimento, di mancata eredità o di “diseredamento”. L’immagine di un corpo nuovo, diverso, rompe l’equilibrio tra ordine simbolico e corporeità e svela l’arbitrarietà dell’affiliazione; la violenza del trauma non è più organizzata e rimane questione esclusivamente individuale, al di fuori di ogni organizzazione simbolica, poderoso fardello che impedisce la vicinanza a qualsiasi alterità. In questa condizione, il soggetto è privato della capacità di autodeterminarsi, proprio perché gli è impossibile inscriversi in un ordine, affiliarsi. Il cambiamento. I membri dei gruppi appartenenti alla cultura escissoria sembrano trovarsi di fronte ad un dilemma. Esiste un processo di assoggettamento, passivo, di subordinazione al potere e alle sue norme. L’adeguamento ad esso comporta l’accettazione della violenza strutturale nella forma della circoncisione femminile. L’affiliazione al gruppo offre però sicurezza e una precisa collocazione nell’ordine simbolico: ciò permette di esistere ed essere riconosciuti nella propria identità e di dare senso al mondo. Inoltre, è solo a partire da questa condizione (dell’essere identificati e affiliati) che si possono sviluppare processi attivi di soggettivazione e di acquisizione di potere3 (Butler, 2005). Nell’attimo stesso in cui si viene assoggettati, si creano dunque le condizioni per un soggetto autodeterminato e attivo. Abbandonare i segni di iscrizione nel gruppo, consente sì di porsi al di fuori dei meccanismi sociali della violenza strutturale, ma anche al di fuori di una capacità di agency e autodeterminazione. 3 Definiamo “potere” l’insieme di relazioni e di strategie attraverso cui ci si colloca, e si è collocati, all’interno di un campo significante. 6 In realtà, dai focus sembra che la condizione di migrante sia in sé un rischio e una forza contemporaneamente. Se, come abbiamo visto, il confronto mette a nudo i meccanismi di costruzione sociale del sé e della sua immagine, con tutta la carica di violenza associata, è proprio questa nuova posizione che potenzialmente mette il soggetto nella condizione di rifondarsi, attraverso due ordini simbolici nuovi, quello del gruppo d’origine (rivisitato) e quello del gruppo ospitante. In questo nuovo quadro, l’individuo può sperimentare strategie di superamento delle dinamiche di alienazione sopra descritte, tessendo nuove configurazioni di affiliazione che si muovono tra dimensioni significanti diverse. A questo punto possiamo interpretare in maniera nuova e positiva l’esito della violenza sociale, la sofferenza che comporta l’azione di mutilazione sul corpo, e possiamo pensarla come costruzione sociale che apre la strada a un discorso autodeterminato, resistente all’ordine sociale e simbolico predefinito (Sheper-Hughes, Lock 1987; Lock 1991). Nel momento in cui il corpo può prendere parola, esprimere la sofferenza del singolo, quello è il momento di un possibile cambiamento. L’autodeterminazione. Possiamo pensare allo psichismo come processo complesso composto da dimensioni differenti (Kaes, 2007): □ comune: parte che si basa sul contratto di fedeltà col gruppo e preclude all’esistenza del soggetto; □ singolare: spazio intrapsichico, privato; □ condivisa: parte del singolare che si allea con possibili insiemi variabili di “altri”. Ci sembra che, nel momento della sofferenza e della estromissione dai meccanismi genealogici, il funzionamento psichico sia pervaso dalla dimensione singolare; le altre assumono una collocazione esterna ed estranea al sé, che di fatto le rende inaccessibili e contribuisce al vissuto di estraneamento e di impossibilità di condivisione, tipico del trauma. La capacità di agire attivamente su sé e sui contesti è ridotta al minimo. Lo sviluppo di nuovi meccanismi filiativi e affiliativi, con la parallela espansione del mondo psichico, è quindi fondamentale per riattivare il contatto con un proprio mondo interno complesso, e riprendere la capacità di agire in base a degli scopi autodeterminati. Nel contesto dei focus group abbiamo incontrato soggetti con percorsi diversi rispetto al processo di ricdefinizione di sé; loro ci hanno indicato alcune strategie possibili, che prevedono gradi differenti di autodeterminazione. In particolare, ci sembra interessante focalizzare l’attenzione su alcuni artefatti che possono contribuire alla ricostruzione di processi affiliativi e comportamenti autodeterminati. Uno è l’artefatto giuridico. A prescindere dalla posizione personale che i singoli soggetti assumono di fronte alla possibile sanzione e regolamentazione delle mutilazioni genitali femminili, il fatto che gli Stati (quelli ospitanti come quelli d’origine) abbiano legiferato al riguardo obbliga le persone a riconfigurare le proprie rappresentazioni. La legge in sé, spesso, non solo non è condivisa, ma neanche conosciuta, in maniera specifica. Tuttavia trasforma “l’oggetto” MGF, ne media le modalità di comunicazione. Da questo punto di vista, rappresenta un artefatto “forte” di tutto il peso istituzionale che veicola. La sensazione è che la legge non venga subita passivamente, ma possa invece servire come “modello” per essere altro; non nella forma precisa che essa prescrive (molti sono i distinguo e le eccezioni sollevate), ma per introdurre e appropriarsi di rappresentazioni di sé nuove. Un’altra questione riguarda la figura del mediatore linguistico-culturale che, particolarmente di fronte ad argomenti così culturalmente sensibili, diventa simbolo di un modello di contatto culturale e assurge esso stesso ad artefatto, trascendendo la dimensione personale. Esso incarna e incorpora, nei gesti, nelle parole, la possibilità di un terzo polo, dentro la comunità di origine, ma fondato anche in un altrove e pure esso significante. Di fronte alle questioni riguardanti la circoncisione femminile, il MLC trasforma quindi il momento dell’azione in momento di simbolizzazione e pensiero. Il conflitto e la differenza diventano strumenti per esprimere quella dimensione intrapsichica che abbiamo definito condivisa, capace cioè di rappresentare il soggetto in 7 connessione ordinata tra il mondo simbolico originario e quello vissuto nel presente. In questo spazio “potenziale” può emerge un processo di nominazione della nuova realtà, anche problematica e conflittuale, che caratterizza l’esperienza del qui ed ora. Due punti sono fondamentali in questo processo: la creazione di un linguaggio nuovo, nato dal confronto sui valori e sui significati soggettivi; la possibilità della condivisione dell’esperienza, degli affetti e delle cognizioni tra gli individui, nelle loro diversità. Su questa base è possibile ricostruire quei precedenti sociopsichici e culturali che garantiscono, al di là della dimensione personale, l’esistenza psichica e sciale di un soggetto autodeterminato. 8 Bibliografia Boddy J. (1988) “Spirits and Selves in Northern Sudan: the Cultural Therapeutics of Possession and Trance”. American Ethnologist. 15(1): 4-27 Boddy J. (1982) “Womb as Oasis: The symbolic context of Pharaonic Circumcision in Rural Northern Sudan”. American Ethnologist, 9(4): 682-698 Bouhris R.H., Moise L.C., Perreault S., Senécal S. 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