Quel che resta del `sogno americano`

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PENSIERO
LIBERO di Vittorio Lussana
Quel che resta
del ‘sogno americano’
Le immagini degli aeroporti americani rimasti bloccati sotto la neve stanno facendo il giro del
pianeta come a segnalare il fatto che, in quanto a inefficienza, tutto il mondo è Paese. Ma
l’idea che resta degli Stati Uniti dopo le gelate, le bufere e i migliaia di voli cancellati in pochi
giorni rappresenta, in fondo, l’immagine stessa del mondo occidentale, che continua ad attraversare una crisi recessiva che indebolisce fortemente il settore dei servizi – che negli Usa
rappresenta un comparto mastodontico – senza che si riesca a intravedere una robusta svolta espansiva o di effettivo rilancio. La questione si aggira intorno a un’economia basata, sin
dalle origini, su una libertà d’impresa protetta dalle regole del capitalismo più avventuroso,
maggiormente affrancato da vincoli di ogni sorta. Ciò ha permeato quasi ideologicamente
l’intera vita sociale americana, per la cui difesa gli Stati Uniti si sono impegnati in diverse
guerre che assicurassero, col pretesto della difesa di valori morali e di principio, nuovi sbocchi sui mercati mondiali alle sue imprese. Ma la verità storica che emerge, sotto il profilo
della politica economica, è quello di un sistema alla fin fine alquanto fragile, soggetto a ricorrenti crisi che hanno sostanzialmente infranto, se non del tutto annientato, il vecchio mito del
‘sogno americano’. Certamente, alcune correzioni periodiche a un modello di capitalismo che
ciclicamente ha dimostrato i propri limiti – nonostante abbia i suoi cantori e cultori un po’
ingenui in tutto il mondo – ha determinato un ruolo sempre più protezionistico dello Stato
in economia, regolamentato in svariati modi a seconda delle fasi. I consumatori sono obiettivamente tutelati dai rischi di prodotti finali qualitativamente bassi o scarsamente fruibili
sotto il profilo delle prestazioni, soprattutto se paragoniamo il sistema statunitense al modello italiano, nel quale vengono studiate sempre nuove soluzioni per vessare o addirittura truffare il cittadino comprimendo allo stremo la curva di domanda. Tuttavia, il declino dell’impero americano che era sorto alla fine del XIX secolo sembra ormai essere definitivamente
avviato, anche se l’Europa sembra, al momento, ancora non accorgersene. Non si tratta solamente di andare a rinverdire ingenuamente il vecchio detto: “Il denaro non dà la felicità”,
bensì di comprendere e di accettare come l’attuale fase di ripiegamento economico statunitense, che al momento non sembra riuscire a fornire risposte adeguate, in termini di competitività, rispetto a Paesi come la Cina, l’India e il Brasile o anche alla solide organizzazioni
produttive e industriali di Giappone e Germania, riveli la validità delle critiche socialiste del
passato, poiché il sogno americano ha sempre volutamente ignorato fattori di successo, individuali e collettivi, che spesso si richiamano a fattori ‘altri’, totalmente esogeni, come la coesione sociale e culturale (Giappone), la sfortunata collocazione geografica di un Paese (Italia
meridionale), lo stato di benessere collettivo di una comunità (Svizzera), di una regione (i
distretti industriali del Triveneto) o di uno Stato (Germania), fattori genetici fortemente viziati da pregiudizi edonistici, come per esempio i vantaggi o gli svantaggi derivanti dal possesso o meno di attributi fisici come la bellezza, la tendenza comportamentale all’estroversione
o, viceversa, alla timidezza di un singolo individuo. Sono questi i fattori che hanno reso non
del tutto attuabile il sogno americano, come testimoniato, a suo tempo, dall’intelligente commedia di Arthur Miller intitolata: “Morte di un commesso viaggiatore”. Non si tratta più, a
questo punto, di dover delineare un modello produttivo alternativo, come nell’utopica ottica
comunista di Marx ed Engels, bensì di riuscire a correggere il sistema di produzione capitalistico verso finalità diverse, come per esempio la tutela ambientale, la qualità della vita dei
singoli cittadini, il risparmio e l’efficienza energetica, i potenziali pericoli derivanti dal cosiddetto ‘global warming’. Alla fine, insomma, viene fuori che l’etica capitalistica individuale
rappresenta solamente un punto di partenza, perché non esiste una ‘mano invisibile’ in grado
di regolare l’economica, distribuire le risorse, assicurare un robusto innalzamento della
domanda di beni e servizi. Alla fine è lo Stato, inteso come interesse generale, ad avere una
funzione di indirizzo capace di tenere in equilibrio ogni tipo di sistema, di proteggere i consumatori, di assicurare che vengano abbattute le varie barriere d’entrata che si formano sui
mercati nei confronti di chi potrebbe mettere a rischio determinate posizioni dominanti, vera
causa dell’ingessamento dei prezzi verso l’alto e dei continui processi di concentrazione tra
gruppi industriale e finanziari che si arroccano in difesa dei privilegi acquisiti. La nuova frontiera, insomma, non è più quella della ricchezza individuale che determina il benessere collettivo, bensì una nuova economia sociale di mercato, in cui l’imprenditore assuma ruoli
sociali, oltre che produttivi, precisi e specifici. Questa è la sfida che l’Unione europea potrebbe vincere un giorno, questo il nuovo obiettivo da raggiungere, il vero sogno da realizzare. Gli
Stati Uniti non vogliono rinunciare al proprio ruolo di prima potenza economia del pianeta?
Fatti loro: alla lunga saranno costretti a farlo. A patto che l’Unione europea riesca a trovare
una sintesi politica dei forte, stabile e, soprattutto, attuabile. Quella, appunto, delineata da un
innovativo sistema economico, sociale e di mercato.
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