1 - Scuola di Medicina e Scienze della Salute

Laurea in Fisioterapia
CORSO INTEGRATO DI ECONOMIA SANITARIA – 3° ANNO
BIOETICA
(prof. Venanzio Marrone - 2008)
Settore F22B -
1. ORIGINE DELLA BIOETICA
La bioetica trova la sua origine negli Stati Uniti nella seconda metà
degli anni sessanta.
Infatti, in quei tempi, si discuteva animatamente sui problemi etici derivanti
in particolare dalla sperimentazione sull’uomo, a motivo dell’abuso che se ne
faceva in campo medico (si pensi ad es. all’iniettazione di cellule tumorali vive in
pazienti anziani senza il loro consenso praticata al
Jewish Chronic Disease
ospital di Brooklyn (1963), o all’inoculazione di virus per lo studio dell’epatite
in alcuni bambini handicappati ricoverati in ospedale al Willowbrook State
Hospital di New York (1965-71). Tali pratiche facevano tornare in mente a non
pochi studiosi la sperimentazione selvaggia praticata nei campi di concentramento
nazisti.
Nel 1969 sorge lo Hastings Center a New York ad opera di Daniel
CALLAHAN e Willard GAYLIN, con lo specifico compito di studiare e
formulare norme soprattutto nel campo della ricerca e della sperimentazione in
ambito biomedico. In questi anni giungeva alla Gorgetown University di
Washington André E. HELLEGERS, ostetrico-ginecologo olandese, che si
occupava di fisiologia fetale, con lo scopo di dare inizio ad un
programma di
ricerca interdisciplinare di Bioetica.
Dai corsi universitari vennero raccolti e pubblicati nel 1970 due volumi: The
patient as persona e Fabricated man, considerati le prime pubblicazioni che
lanciarono la Bioetica in America.
Agli inizi degli anni settanta compare per la prima volta l’uso del termine
“bioetica”.
A coglierne il messaggio profondo e
fu l’oncologo Van Rensselaer
POTTER, nell’articolo The science of survival (1970) e con il saggio Bioethics:
bridge to the future (1971).
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Il Potter parte dalla constatazione di una situazione di allarme per la
sopravvivenza dell’intero ecosistema, e di una preoccupante situazione critica del
rapporto tra il progresso della scienza e la società. C’è il dubbio che l’umanità
possa sopravvivere proprio per l’effetto del progresso scientifico.
La sopravvivenza della vita umana e dell’intero ecosistema della terra è a
rischio, perché legata alla profonda spaccatura tra l’ambito del sapere scientifico e
quello umanistico. Il sapere scientifico, infatti, distingue nettamente i valori etici
(ethical values),
appartenenti alla
cultura umanistica, dai fatti biologici
(biological facts). E’ questa distinzione, secondo Potter, che sta alla base di quel
processo scientifico-tecnologico indiscriminato e che mette in pericolo l’umanità e
la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.
Per evitare la catastrofe finale è necessario riavvicinare la cultura
umanistico-morale e quella scientifica, attraverso un “ponte”: la BIOETICA.
L’etica, a sua volta, deve estendere la sua influenza non soltanto sull’uomo,
ma soprattutto sulla biosfera nel suo insieme, ossia su ogni intervento scientifico
dell’uomo sulla vita in generale.
Compito della bioetica, allora, è quello di unire l’”etica” e la “biologia”,
i valori etici e i fatti biologici per la sopravvivenza dell’intero ecosistema: di
insegnare, cioè, a come “usare la conoscenza” (knowledge
howe to use
knowledge) in ambito scientifico-biologico.
Non è sufficiente tener conto dell’ “l’istinto” alla sopravvivenza
dell’umanità; è necessario fondare una
“scienza” della sopravvivenza: la
Bioetica.
Alla base della nascita della Bioetica sono necessari due presupposti: 1. che
la scienza biologica si ponga domande etiche; 2. che l’uomo si interroghi sulla
rilevanza morale del suo intervento indiscriminato sulla vita. Occorre superare la
tendenza pragmatica del mondo moderno che applica immediatamente il sapere
senza alcuna mediazione né razionale né morale. E se si considera che a volte il
potere biotecnologico è concentrato nelle mani di pochi, l’applicazione di ogni
conoscenza
scientifica
potrebbe
aver
delle
conseguenze
imprevedibili
sull’umanità.
Potter, tuttavia, se da un lato esprimeva l’urgenza di una nuova scienza con
le finalità indicate, dall’altro non ne aveva definito i problemi etici specifici, ed il
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termine lasciava aperto un significato molto ampio, con contenuti non ancora
chiari.
2. DEFINIZIONE DI ‘BIOETICA’
Una prima definizione della Bioetica ci viene data dalla Encyclopedia of
Bioethics, una prima edizione del 1978 curata da Wilhelm T. REICH.. Essa
recita così: “studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze
della vita e della salute esaminata alla luce di valori e di principi morali”.
L’ambito delle scienze della vita e della salute comprende, perciò, la
considerazione della biosfera oltre che della medicina. Gli interventi possono
essere quelli riferiti non soltanto alle professioni mediche, ma anche a quelli delle
popolazioni, ad es. quelli relativi ai problemi demografici ed ambientali.
La specificità di questo “studio sistematico” è costituita dal riferimento a
valori e principi morali, perciò alla definizione di criteri, giudizi e limiti di liceità
o illiceità, e, pertanto, non poteva essere ricondotto né alla deontologia medica, né
alla medicina legale, né alla semplice considerazione filosofica (come si pensava
prima di Potter).
Nell’edizione del 1995, REICH dà alla definizione di bioetica una maggiore
ampiezza, definendola come “lo studio sistematico delle dimensioni morali –
inclusa la visione morale, le decisioni, la condotta, le linee guida ecc. – delle
scienze della vita e della salute, con l’impiego di una varietà di metodologie
etiche in una impostazione interdisciplinare”.
In un convegno internazionale svoltosi a ERICE, in Sicilia (febbraio 1991)
che aveva per tema New trends in forensic haematology and genetics. Bioethical
problems, un gruppo di studio venne invitato ad elaborare un documento, detto
appunto “Documento di Erice”, sull’oggetto della Bioetica ed il rapporto tra
questa disciplina e la deontologia e l’etica medica, a seguito di varie polemiche
sul ruolo della Bioetica all’interno dei cultori della medicina legale.
In tale documento la competenza della bioetica fu riconosciuta in questi
quattro ambiti:
a) i problemi etici delle professioni sanitarie;
b) i problemi etici emergenti nell’ambito delle ricerche sull’uomo anche se
non direttamente terapeutiche;
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c) i problemi sociali connessi con le politiche sanitarie (nazionali ed
internazionali), alla medicina occupazionale ed alle politiche di pianificazione
familiare e controllo demografico;
d) i problemi relativi all’intervento sulla vita degli altri esseri viventi
(piante, microrganismi ed animali) e in generale ciò che si riferisce all’equilibrio
dell’ecosistema.
L’insegnamento
scientifico
della Bioetica viene configurato in tre
distinti momenti: la bioetica generale, la bioetica speciale e la bioetica clinica.
a) La bioetica generale, che si occupa delle fondazioni etiche, è il
discorso sui valori e sui principi originari dell’etica medica e sulle fonti
documentarie della bioetica (diritto internazionale, deontologia, legislazione). In
pratica, una vera e propria filosofia morale nella sua parte fondamentale ed
istituzionale.
b) La bioetica speciale, che analizza i grandi problemi, affrontati
sempre sotto il profilo generale, tanto sul terreno medico quanto sul terreno
biologico: ingegneria genetica, aborto, eutanasia, sperimentazione clinica, ecc.
Sono le grandi tematiche che costituiscono le colonne portanti della bioetica
sistematica e che, ovviamente, devono essere risolte alla luce dei modelli e dei
fondamenti che il sistema etico assume come basilari e giustificativi del giudizio
etico. Questa, pertanto, non può fare a meno di collegarsi con le conclusioni della
bioetica generale.
c) La bioetica clinica o decisionale (legata ai Comitati etici) esamina, nel
concreto della prassi medica e del caso clinico, quali siano i valori in gioco o per
quali corrette vie si possa trovare una linea di condotta senza modificare tali
valori: la scelta o meno di un principio o di una criteriologia di valutazione
condizionerà la valutazione del caso e non si può, a nostro avviso, separare la
bioetica clinica da quella generale, pur riconoscendo che i casi concreti presentano
sempre o quasi una pluralità di aspetti da valutare.
3. I MODELLI DI RIFERIMENTO DELLA BIOETICA
E’ diventato perciò centrale, specialmente in questi ultimi anni, al di là
dell’esame dei singoli problemi di bioetica, la discussione sulla bioetica, per
chiarire quali possano essere i valori ed i principi su cui fondare il giudizio etico
ed affermare una distinzione giustificativa del lecito e del non lecito.
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Cognitivismo e non-cognitivismo: la legge di Hume
La cosiddetta “legge di Hume” (David HUME, filosofo e storico scozzese,
Edimburgo, 1711-1776), costituisce un punto importante nell’attuale dibattito
etico e bioetico, in quanto ha diviso gli eticisti e bioeticisti in due opposti
schieramenti: i “cognitivisti” e i “non cognitivisti”.
Questa legge deriva da un’osservazione contenuta nell’opera Treatise of
Human Nature di D. Hume ed è ripresa dalla filosofia analitica contemporanea e
da George Moore (filosofo inglese), che la definì come “fallacia naturalistica”.
Tale legge afferma che esiste “una grande divisione” tra l’ambito dei fatti
naturali e quello dei valori morali. I fatti sono conoscibili e si possono descrivere
con il verbo all’indicativo e sono dimostrabili scientificamente, mentre i valori e
le norme morali sono semplicemente presupposti e danno luogo a giudizi
prescrittivi indimostrabili. Tra l’essere (ove l’essere viene indicato con i fatti
osservabili) e il dover essere (ossia i relativi giudizi che ne diamo), non sarebbe
perciò né possibile, né legittimo, il passaggio o l’inferenza: non si può passare dal
“è” (is) al “si deve” (ought), o dal ”essere” (sein) al “dovere” (sollen).
I “non-cognitivisti” ritengono che i valori non possono essere oggetto di
conoscenza e di affermazioni qualificabili come “vere” o “false”.
Al contrario, i “cognitivisti” ricercano una fondazione razionale e
“oggettiva” ai valori e alle norme morali.
Giustificare l’etica e, quindi, la Bioetica, vuol dire allora discutere anzitutto
sulla possibilità di superare la “grande divisione” o “fallacia naturalistica”.
Tutto il problema sta nel significato che si dà al la parola “essere” usata per
indicare la “fattualtà” conoscibile. Se per “essere” si intende la mera fattualità
empirica, certamente la legge di Hume è giustificata: per il fatto, ad esempio, che
molti uomini rubano, uccidono o bestemmiano, non si può certo concludere che il
furto, l’omicidio o la bestemmia siano moralmente leciti; e se vogliamo
dimostrare che
questi rappresentano degli illeciti, dobbiamo ricorrere ad un
criterio che non sia la semplice indagine sui fatti.
Ma l’idea di “essere” sottostante ai fatti può essere intesa non in modo
semplicemente empirico, ma più profondo e comprensivo, come “essenza” o
“natura”, e cioè in senso “metafisico”. Allora il dover essere può trovare un
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fondamento nell’essere, in quell’essere che ogni soggetto cosciente è chiamato a
realizzare.
Così, il termine “uomini” può essere inteso in senso empirico (in tal modo
l’espressione indica gli individui che rubano e quelli che non rubano, che
uccidono e che non uccidono e così via). Ma può essere pensata anche in senso
più profondo e onnicomprensivo la “essenza” dell’uomo o la “natura” umana
propria della persona razionale o la “dignità dell’uomo”. Allora si può - e si deve
– trovare una fondazione razionale, per cui tra chi ruba e chi non ruba possa
essere stabilita una differenza sul piano morale. Ma questa semplice osservazione
presuppone l’istanza metafisica, la necessità e la capacità per la nostra mente di
andare “oltre” il fatto empirico e di cogliere in profondità la ragione d’essere delle
cose e la “verità” dei comportamenti, la loro conformità alla dignità della persona.
Sarebbe fallimentare ragionare di Bioetica se non ci fosse neppure la
speranza di fondarla su basi razionali e solide, ossia sulla verità. E’ faticoso il
cammino per raggiungere un fondamento veritativo al comportamento morale ed
ai valori, ma vale la pena percorrerlo. L’”etica senza verità” rappresenta un
bicchiere vuoto davanti a uno che brucia di sete.
Etica descrittiva e modello sociobiologista
Un primo tentativo di dare fondamento alla norma etica basato sui fatti
empirici (in contrapposizione a Hume) e con il risultato di relativizzare valori e
norme, è rappresentato da pensatori d’orientamento sociologico-storicistico. Si
tratta di una
proposta etica puramente descrittiva (C.DARWIN. M. WEBER,
H.J. HEINSENK, E.O. WILSON; anche studiosi di Antropologia culturale ed
Ecologisti).
Secondo tale prospettiva, la società nella sua evoluzione produce e
cambia valori e norme, che sono funzionali allo sviluppo così come gli esseri
viventi nella loro evoluzione biologica hanno sviluppato certi organi in vista della
funzione e, in definitiva, per il miglioramento della propria esistenza.
Si viene ad affermare che, come il cosmo e le varie forme di vita nel
mondo sono state soggetti ad evoluzione, anche le società si evolvono, e che
dentro questa evoluzione biologica e sociologica i valori morali devono cambiare.
La
spinta evolutiva proveniente dall”egoismo biologico” o istinto di
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conservazione di sé, trova forme sempre nuove di adattamento. All’interno di
questo, il diritto e la morale sarebbero delle espressioni culturali di quelle forme.
Nelle condizioni evolutive attuali, in cui ormai compare una nuova
situazione dell’uomo nel cosmo e nel mondo biologico, si dovrebbe immaginare
un nuovo sistema di valori, perché quello precedente non è più adatto a
configurare l’”ecosistema” che si viene ad instaurare. La vita dell’uomo, di
conseguenza, non sarebbe diversa dalle varie forme di vita e dall’universo, con cui
vive in simbiosi. In questa visione, l’etica avrebbe una funzione di mantenere in
equilibrio l’evoluzione della vita, l’equilibrio della mutazione dell’adattamento e
dell’”ecosistema”. Così l’uomo viene ridotto (“riduzionismo”) ad momento
storicistico e naturalistico del cosmo.
.Questa visione conduce al relativismo di ogni etica e di ogni valore umano,
immergendo ogni vivente nel gran fiume di un’evoluzione, che ha, sì, nell’uomo il
suo vertice, ma non inteso come vertice definibile e come punto di riferimento
stabile, ma anch’esso soggetto di mutazione in senso attivo e passivo. Si tratta
insomma di una ideologia eraclitiana, ove non è dato di riconoscere nessuna unità
stabile e nessuna universalità di valori, nessuna norma sempre valida per l’uomo
di tutti i tempi.
Se fosse vera questa ideologia, perché di ideologia si tratta, anche i più
atroci delitti che la storia riconosce, da quelli di Gengis Khan a quelli di Hitler,
sarebbero delitti soltanto per noi che viviamo in questo tempo, delitti postumi e
non delitti contro l’uomo. Sarebbe vano e in ogni caso provvisorio lo sforzo di
definire i “diritti dell’uomo”.
Alla luce di questo modello sono valutati come meccanismi necessari
all’evoluzione ed al progresso della specie umana quelli dell’”adattamento” e
della “selezione”. L’adattamento all’ambiente, all’ecosistema,
delle qualità più idonee
e la selezione
al progresso della specie portano a giustificare
l’eugenismo sia negativo che positivo.
Oggi
che
l’umanità
ha
raggiunto
la
capacità
di
dominare
scientificamente i meccanismi dell’evoluzione e della selezione biologica
attraverso l’ingegneria genetica, è giustificabile, per i seguaci di questa teoria,
l’ingegneria genetica selettiva, migliorativa ed alterativa, non soltanto per le
specie animali ma anche per l’uomo.
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Bisogna pensare che, se è ovvio che alcuni elementi culturali e di
costume sono soggetti ad evoluzione, è altrettanto ovvio che l’uomo rimane
uomo, diverso, per natura e non soltanto per complessità neurologica, da ogni
altro vivente, e che il bene e il male non sono commutabili, né false e vere allo
stesso tempo le leggi dell’essere, quelle della scienza e quelle della morale. La
morte, il dolore, la sete di verità, la solidarietà e la libertà non sono elaborazioni
culturali, ma fatti e valori che accompagnano l’uomo in tutte le stagioni storiche.
Il modello soggettivista o liberal-radicale
Molte correnti di pensiero confluiscono oggi nel soggettivismo morale: il
neoilluminismo, il liberalismo etico, l’esistenzialismo nichilista, lo scientismo
neopositivista, l’emotivismo, il decisionismo, (con autori quali: H. KELSEN, K.
POPPER, A.J. AYER, C.L. STEVENSON, J.P. SARTRE, H. MARCUSE, U.
SCARPELLI, ed Altri). Queste correnti di pensiero partono dal presupposto che i
valori morali non sono conoscibili (sono i “non cognitivisti”).
L’assunto principale loro è che la morale non si possa fondare né sui fatti,
né sui valori oggettivi o trascendenti, ma soltanto sulla “scelta” autonoma del
soggetto.
Il principio di autonomia viene così ad assumere il senso forte. L’unica
fondazione dell’agire morale è la scelta autonoma. L’orizzonte eticosociale è
rappresentato dall’impegno per la liberazione della società. L’unico limite è quello
della libertà altrui (ovviamente quella di chi è in grado di avvalersi della libertà).
Si prende come punto di riferimento supremo ed ultimativo la libertà: è
lecito ciò che si ha liberamente voluto, accettato e che non lede la libertà altrui. E’
il messaggio scaturito con forza innovativa dalla rivoluzione francese.
Certamente in questa visione c’è una porzione di verità, ma non tutta la
verità dell’uomo e neppure tutta la verità della libertà. Si parla di liberalizzazione
dell’aborto, di scelta libera del sesso del nascituro o dell’adulto che vuole
“cambiare sesso”, di libertà alla richiesta di fecondazione medicalmente assistita
anche per la donna sola, nubile o vedova che sia, di libertà della sperimentazione
o della ricerca libertà di decidere sul momento della morte, di suicidio come
enfasi di libertà, ecc.
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Si tratta in realtà di una libertà dimezzata: è libertà per alcuni, solitamente
per chi può farla valere ed esprimerla (chi difende la libertà del nascituro?). Si
tratta di “libertà da” vincoli e costrizioni e non di “libertà per” un progetto di vita
e di società che sia giustificato in senso finalistico.
Si tratta in altre parole di libertà senza responsabilità.
I cultori del soggettivismo etico e decisionismo si trovano in difficoltà,
tuttavia, di fronte alla necessità di proporre una norma sociale, specialmente di
fronte a chi, in omaggio al principio di autonomia, non accettasse
un’autolimitazione. Si tratta di rinuncia alla fondazione “razionale” della morale
e di fatto, specialmente nei confronti di chi non gode dell’autonomia morale (feto,
embrione, morente), il liberalismo etico ha finito per scivolare verso la
legittimazione della legge del più forte.
Modello pragmatico-utilitarista
Questo modello vuole cercare un punto di incontro tra soggettivismo
sul piano sociale e intersoggettività sul piano pragmatico, elaborando diverse
formule di “etica pubblica”, molto diffusa nei Paesi anglosassoni, ma finisce col
diventare una sorta di soggettivismo della maggioranza (M. MORI, E.
LECALDANO, tra gli autori italiani, promotori di una riflessione filosofica
“laica”)
Tutti questi indirizzi di pensiero hanno in comune il rifiuto della metafisica
e la sfiducia conseguente nei confronti del pensiero di poter raggiungere una
verità universale e, pertanto, una norma valida sul piano morale.
Il principio base è quello del calcolo delle conseguenze dell’azione sulla
base del costo/beneficio.
Diciamo subito che questo rapporto ha validità quando è riferito ad uno
stesso valore ed a una stessa persona in senso omogeneo e subordinato, cioè
quando non viene assunto come principio ultimo, ma come fattore di giudizio da
riferire alla persona umana ed ai suoi valori (così, ad es. la decisione del chirurgo
o del medico sulla scelta della terapia valutata in base ai danni o “rischi” e
benefici per la vita del paziente). Ma tale principio non può essere usato in modo
ultimativo e fondativo, “bilanciando” beni fra loro disomogenei, coma quando si
confrontano i costi in denaro con la vita umana (utilitarismo).
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Il vecchio utilitarismo, derivante dall’empirismo di Hume, riduceva il
calcolo dei costi/benefici alla valutazione “piacevole/spiacevole” del singolo
soggetto. Il neoutilitarismo, di BENTHAM e MILL, si riassume nel triplice
precetto: massimizzare il piacere, minimizzare il dolore, ampliare la sfera delle
libertà personali per il maggior numero di persone.
Ed è su questi parametri che viene elaborato il concetto di “qualità della
vita” (quality of life) e contrapposto da alcuni al concetto di sacralità della vita. La
qualità della vita è valutata appunto in rapporto alla minimizzazione del dolore e
spesso dei costi economici.
Sono state proposte alcune formule per valutare l’efficacia e l’utilità
delle cure o la convenienza dell’impiego di fondi economici per la cura di certe
malattie: l’ACB (analisi costi/benefici), l’ACE (analisi costi/efficacia), il QALY
(quality/adjusted life years). Queste formule finiscono di includere, fra i fattori
decisivi dell’intervento terapeutico e dell’assegnazione delle risorse in
comparazione con il costo delle cure, i fattori economici e lo stesso recupero della
produttività da parte del paziente.
Queste formule, come molte altre, inventate per le singole categorie di
pazienti (il neonato malformato,il malato di tumore) mettendo a confronto fattori
disomogenei (salute e produttività; terapia e disponibilità di fondi), finiscono per
decretare il rifiuto delle terapie o dell’assistenza, in nome della non produttività
della spesa o di un concetto di qualità della vita basato semplicemente sulla
valutazione di fattori biologici o economici.
Per moderare l’utilitarismo dell’atto, si è tentato di introdurre qualche regola
di beneficialità più ampia, quale quella di “equità” o del minimo assistenziale
(ossia con l’utilitarismo della norma). Le regole di “imparzialità”, di
“osservazione neutrale”, di “estensione sociale dell’utilità” o il “calcolo felicifico
sociale”, di “minimo etico”, non valgono ad annullare una situazione di
relativismo e di assenza di un fondamento veritativo della norma.
In questo terreno della ricerca della felicità e della qualità della vita si
giunge, con alcuni autori, alla riduzione della categoria di persona a quella di
essere senziente, in quanto soltanto questo è capace di sentire piacere e dolore.
Le conseguenze sono: a. la non considerazione nell’ambito della tutela degli
interessi degli individui ‘insensibili’, ossia non dotati della facoltà sensitiva (quali
gli embrioni, quantomeno sino allo stadio della formazione della strutturazione
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nervosa, gli individui in coma vegetativo, ecc.); b. la giustificazione
dell’eliminazione di individui senzienti per i quali la sofferenza eccede (o è
prevedibile che ecceda) sul piacere o di individui che provocano negli altri
quantitativamente più dolore che gioia (gli handicappati, i feti malformati, i
morenti, ecc.…); c. la giustificazione di interventi anche soppressivi sulla vita
umana con la sola condizione che si eviti la sofferenza (liceità dell’aborto, anche
in stadi avanzati della gestazione, purché con pratiche indolori per il feto)” (L.
PALAZZANI-E. SGRECCIA).
Se da un lato, dunque, l’utilitarismo esclude dal rispetto alcuni esseri
umani, dall’altro lato, paradossalmente, giunge alla parificazione tra animali ed
esseri umani, sulla base della capacità di “sentire”, dunque di percepire il piacere e
il dolore (Peter SINGER, Practical ethics, 1979).
In un orizzonte utilitaristico la vita umana viene valutata in ordine alla
presenza/assenza della sofferenza ed in ordine ai criteri economicistici della
produttività o non produttività della spesa.
Un indirizzo di “etica pubblica”, analogo per certi aspetti (benché
presenti alcune divergenze) all’utilitarismo, è costituito dal contrattualismo,
anch’esso imperniato sul criterio dell’accordo intersoggettivo stipulato dalla
comunità etica e, cioè, da quanti hanno la capacità e facoltà di decidere (così H.T.
ENGELHART, The Foundations of bioethics (1986). Per questo autore il
consenso sociale della “comunità etica” giustifica la sottovalutazione di quanti
non fanno ancora parte della comunità (embrioni, feti e bambini), i cui diritti
dipenderebbero pertanto dagli adulti e, in definitiva, non sono considerati persone.
Così pure vengono ad essere sottovalutati a livello di “non più persone”, quanti
non hanno più un inserimento sociale, come i malati privi di relazione sociale o i
dementi non recuperabili.
In definitiva la concezione della persona umana finisce per essere una
concezione sociologica.
Nell’ambito di questo panorama di etica intersoggettiva vanno ricordate le
correnti di pensiero che si rifanno alla fenomenologia (M. SCHELER, N.
HARTMANN, D. GRACIA, …) e all’etica della comunicazione (K.O. APEL, J.
HABERMAS), oppure al cosiddetto principialismo di BEAUCHAMP e
CHILDRESS.
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Il modello personalista
Questo modello è in grado di fondare l’oggettività dei valori e delle
norme.
L’uso del termine “persona” deriva da due fonti. Una prima, costituita
dall’idea stoica di “ruolo” (compito) che l’uomo ricopre nella sua vita (pròsopon,
=viso, persona); ad essa fa riferimento il significato giuridico del termine latino
“persona”. Una seconda, d’origine cristiana ( a cui fa riferimento l’uso in teologia
nelle controversie trinitarie), per tradurre il termine
“ypòstasis”(in latino
substanzia= supporto), in quanto opposto a “physis” (natura), “ousìa” (essere).
Il primo ad usare il termine “persona” come pròsopon ma in prospettiva
trinitaria fu IPPOLITO (+235), teologo e scrittore cristiano, ripreso ed
elaborato da TERTULLIANO (2°-3° sec. d.C.): persona non sta ad indicare
un’apparenza esteriore o un semplice ruolo, ma l’oggetto di un giudizio di
esistenza, la presenza effettiva e manifesta di qualcuno che esiste in se stesso,
una realtà individuale e distinta (contro ogni riduzione della persona ad un
essere “funzionale”.
BASILIO DI CESAREA (330 c.a-379) distingue ousia e ypostasis, e
caratterizza la persona per la sua sussistenza irriducibile e insieme per la sua
apertura all’altro.
AGOSTINO D’IPPONA (354-430), invece, usa il termine per
considerare la “singolarità” dell’individuo (qualunque singolo uomo).egli è tale
in quanto mens (pensiero, mente).
S. BOEZIO (480 c.a – 526) se ne serve per definire “persona”: naturae
rationalis individua substantia” (una individua sostanza di natura razionale).
Ma RICCARDO DA SAN VITTORE (+1173) corregge: “rationalis natura
individua existentia” (un individua esistenza di natura razionale).
TOMMASO D’AQUINO (1225-1274): “persona è ciò che è sussistente
in una natura razionale”. L’uomo in quanto persona non è l’essere, ma ha
l’essere, e riceve l’essere “per partecipazione” (in modo “analogico”) da colui
che è Ipsum esse per se subsistens (Dio). In questa analogia c’è il
riconoscimento della “dignità”. La persona, pertanto, non si identifica o si
oggettivizza con o nell’individuo. Il fine supremo dell’uomo è Dio. Il vivere
per gli altri porta all’alienazione, ma il vivere per Dio porta alla pienezza
dell’esistenza.
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Il NOVECENTO è stato il secolo del “personalismo” e di
“personalismi” . Esso si caratterizza come secolo dei diritti; come epoca delle
personologie (connotate di una pluralità di correnti di pensiero); reazione
all’idealismo assoluto (che ha portato ad un secolo di morte); il confronto
culturale tra il personalismo cristiano, ebraico e musulmano (personalismo
connotato da correnti di ispirazione religiosa) e i personalismi laici
(caratterizzati da tendenze antimetafisiche), che vedono la persona solo in
prospettiva biologica, fisica, neurologica, psicologica e sociologica.
C’è un rischio di considerare il personalismo come un’etichetta che è
applicata a diversi prodotti. Ciò sta ad indicare una complessità e forse anche
l’ambiguità del concetto di persona (effetto del pluralismo!). Bisognerebbe
chiarire sempre a “quale personalismo” si fa riferimento, quando si parla di
persona e di personalismo in Bioetica.
La tradizione personalista affonda le sue radici nella ragione stessa
dell’uomo e nel cuore della sua libertà: l’uomo è persona perché è l’unico
essere in cui la vita diventa capace di “riflessione” su di sé, di
autodeterminazione; è l’unico vivente che abbia la capacità di cogliere e
scoprire il senso delle cose e di dare senso alla sue espressioni e al suo
linguaggio cosciente.
Ragione, libertà e coscienza rappresentano, per dirla con K. Popper, una
“creazione emergente”
irriducibile al
flusso
delle leggi
cosmiche ed
evoluzionistiche. Ciò in grazia di un’anima spirituale che informa e dà vita alla
sua realtà corporea e dalla quale
il corpo è contenuto e strutturato. L’io è
irriducibile a cifra, a numero, ad atomo, a cellule, a neuroni. Nell’uomo, l’anima
spirituale struttura e guida e vivifica il corpo. In ogni uomo, in ogni persona
umana, il mondo tutto si ricapitola e prende senso, ma il cosmo nello stesso tempo
è travalicato e trasceso. In ogni uomo sta racchiuso il senso dell’universo e tutto il
valore dell’umanità: la persona umana è una unità, un tutto, e non una parte di un
tutto. La stessa società ha come punto di riferimento la persona umana: la persona
è fine e sorgente per la società.
Il personalismo intende affermare uno statuto oggettivo ed esistenziale
(ontologico) della persona; esso considera la persona come un corpo
spiritualizzato, uno spirito incarnato, che vale per quello che è e non per le scelte
che fa. Il personalismo vede nella persona un’unità, o la unitotalità di corpo e
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spirito che rappresenta il suo valore oggettivo, di cui la soggettività si fa carico, e
non può non farsi carico, sia rispetto alla propria persona sia rispetto alla persona
altrui.
L’unità personale dell’essere umano è, per il personalismo, l’apice della
creazione, la forma più alta di vita. Infatti, si parte da una prima distinzione tra
esseri viventi e non viventi. I primi risultano superiori ai secondi, in quanto capaci
di una attività che li perfeziona.
Tra i viventi si distinguono i vegetali, gli animali e l’uomo. I vegetali
risultano determinati sia nella forma sia nel fine del loro agire. Gli animali invece
sono capaci di scegliere la forma del loro agire attraverso la vita conoscitivosensoriale (possono scegliere ad esempio se scappare dall’uomo o avvicinarsi a
lui), ma sono preordinati nel fine (la permanenza nel proprio habitat naturale).
L’uomo è invece l’unico vivente capace di scegliere liberamente sia la forma
d’esecuzione di un atto, che il fine stesso del suo agire: per questo motivo è una
forma di vita superiore.
4. ALCUNI PRINCIPI DELLA BIOETICA PERSONALISTA
1. Il principio di difesa della vita fisica.
Abbiamo già considerato come la vita corporea, fisica dell’uomo non
rappresenta qualcosa di estrinseco alla persona, ma rappresenta il valore
fondamentale della persona stessa.
Diciamo valore “fondamentale”, perché si deve intendere che la vita
corporea non esaurisce tutta la ricchezza della persona che è anche, e anzitutto,
spirito, e perciò, come tale, trascende il corpo stesso e la temporalità. Tuttavia
rispetto alla persona il corpo è coessenziale, ne è l’incarnazione prima, il
fondamento unico nel quale e per mezzo del quale la persona si realizza ed entra
nel tempo e nello spazio, si esprime e si manifesta, costruisce ed esprime gli altri
valori, compresa la libertà, la socialità e compreso il proprio progetto futuro.
Al di sopra di tale valore “fondamentale” esiste soltanto il bene totale e
spirituale della persona, che potrebbe richiedere il sacrificio della vita corporea
soltanto quando tale bene spirituale e morale non potesse essere raggiunto se non
attraverso il sacrificio della vita e, in questo caso, trattandosi di bene spirituale e
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morale, non potrebbe mai essere imposto da altri uomini, ma esplicarsi come dono
libero.
Nel caso del martire, egli dona la vita legittimamente soltanto quando non ci
sia altra strada per realizzare il bene morale della persona e della società, e in
questo caso, comunque, chi è responsabile di questa situazione è responsabile
della perdita di questa vita. Infine, non è propriamente il martire che realizza la
soppressione della vita, ma sono gli altri; egli è soltanto portato, per la fedeltà
verso il bene superiore, ad esporsi ad un rischio motivato.
Abbiamo fatto cenno a questo caso che sembra a prima vista contraddire al
precetto morale della inviolabilità della vita umana.
Emerge quindi l’importanza di questo principio in ordine alla valutazione
dei vari tipi di soppressione della vita umana: l’omicidio, il suicidio, l’aborto,
l’eutanasia, il genocidio, la guerra di conquista e così via.
E’ necessario forse sottolineare che non si tratta soltanto del rispetto, ma
anche della difesa attiva e della promozione. Le carte dei diritti internazionali che
si occupano dei diritti dell’uomo mettono in primo piano la vita e la sua
inviolabilità.
E’ il caso di ricordare che non è possibile pensare all’ipotesi della
soppressione diretta e deliberata della vita di qualcuno (ma altro è il caso esposto
sopra sull’offerta volontaria di sé al rischio di perdere la vita per il bene morale e
totale della persona stessa e della comunità!) per favorire la vita di altri o le
migliori condizioni politico-sociali di altri; perché la persona è una totalità di
valore e non una parte della società.
Si potrebbe far cenno, a questo punto, anche al valore della vita nei livelli
inferiori, la vita nel regno vegetale, la vita nel regno animale. Tema, questo, a cui i
movimenti ecologisti sono molto sensibili oggi.
Dobbiamo riconoscere che anche questa vita ha un suo valore,
e che
l’equilibrio delle varie forme di vita nel cosmo è legato alla salute e alla
sopravvivenza dell’uomo. Perciò esiste un dovere di mantenere questo equilibrio.
Tuttavia non bisogna
dimenticare che l’uomo
rappresenta un
livello
ontologicamente superiore e trascendente il regno della vita degli esseri inferiori e
perciò le piante e gli animali possono e debbono, per connaturale collegamento
biologico, essere utilizzati dall’uomo.
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L’utilizzazione, però, non vuol dire la rapina, la violenza per la violenza, la
devastazione e la messa in pericolo dell’equilibrio cosmico.
Né la difesa della vita delle piante e degli animali dovranno essere
enfatizzati, come talora avviene, fino al punto di richiedere una posizione
superiore a quella che la società concede alla vita umana o fino al punto
d’impedire l’impiego della vita animale per la sperimentazione chimica e il
progresso della scienza.
Nell’ambito della promozione della vita umana si inserisce il tema della
difesa della salute dell’uomo: il “diritto alla salute”. C’è l’obbligo morale di
difendere e promuovere la salute per tutti gli esseri umani e in proporzione della
loro necessità.
La prima affermazione sembrerebbe ovvia: si può parlare di salute soltanto
di una persona vivente e la salute è una qualità della persona che vive; ma il
problema, come si sa, viene da alcuni inteso in maniera diversa e oggi stravolto,
quando per la salute di qualcuno si mette a rischio e si procura la soppressione
della vita altrui.
Ecco allora l’altra esigenza: che la salute, valore subordinato e conseguente
alla vita, sia promossa per tutti in maniera commisurata alle necessità di ciascuno.
Non si tratta di un “diritto alla salute” che nessuna sanità può garantire, ma
si tratta di “diritto ai mezzi e alle cure indispensabili” per la difesa e la
promozione della salute. Così si pronuncia anche l’Organizzazione Mondiale della
Sanità: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la
salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo alla
alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche ed ai servizi sociali
necessari; ed ha il diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia,
invalidità, vedovanza, vecchiaia e in ogni caso di perdita dei mezzi di sussistenza
per circostanze indipendenti dalla sua volontà”
La stessa costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma il
criterio di uguaglianza fra i diversi popoli nella difesa della salute del singolo
cittadino: “Il possesso del miglior stato di salute di cui ciascuno è capace,
costituisce uno dei diritti fondamentali di tutti gli uomini, quale che sia la loro
religione, razza, opinione politica – la salute di tutti i popoli è condizione
fondamentale per la pace nel mondo”.
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Quello che le carte internazionali non dicono, benché si tratti di un problema
etico ed esistenziale di primaria importanza, è che, insieme al diritto di
promozione della salute occorre educare anche gli individui all’accettazione del
dolore inevitabile e della morte, all’interno di una visione personalista e
trascendente dell’uomo.
La difesa e promozione della salute ha il limite nella morte, che fa parte
della vita, e la promozione della salute ha il limite nella malattia, che va curata e
guarita e, in ogni caso, considerata con atteggiamento attivo anche quando fosse
incurabile.
2. Il principio di libertà e responsabilità
Si può parlare di libertà a tre livelli: la libertà di fare qualcosa, la libertà da
ostacoli, la libertà per raggiungere uno scopo.
Non possiamo esercitare pienamente la nostra libertà se non la esprimiamo a
tutti e tre i livelli: si è veramente liberi se non ci sono pressioni, esterne o interne
alla persona, e se ci si può orientare verso qualsiasi scelta che permette di
raggiungere il proprio fine.
La libertà esiste in vista di un fine, di un valore che si vuole raggiungere:
senza un valore da raggiungere, la libertà sarebbe una nave senza bussola e senza
porto.
I valori da raggiungere possono essere tanti; ma il primo fra tutti è, per il
personalismo, il valore della vita umana.
Essa è il primo dei beni da rispettare e da favorire, e la libertà quindi deve
farsi carico responsabile anzitutto della vita propria ed altrui. Questa affermazione
si giustifica con il fatto che, per essere liberi, bisogna essere vivi, e perciò la vita
è, per tutti, condizione indispensabile per l’esercizio della libertà.
Per quanto ovvia, questa affermazione presenta oggi molte problematiche in
campo di etica medica, a proposito ad es. del “diritto all’eutanasia”, o delle cure
obbligatorie per i malati mentali o dei rifiuti delle terapie per motivi religiosi: non
si ha diritto a disporre, in nome della libertà di scelta, della soppressione della
vita.
Questo principio, più in generale, sancisce l’obbligo morale nel paziente di
collaborare alle cure ordinarie e proporzionate a salvaguardare la vita e la salute
propria e altrui (quella che si dice “alleanza terapeutica” tra medico e paziente).
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Nei casi come quello relativo a pazienti che rifiutano le cure indispensabili alla
vita e alla sopravvivenza, quando il medico in coscienza ritenesse necessario
imporle, il diritto dovrà regolare la procedura per le cure obbligatorie (tipico il
caso di genitori che rifiutano di alimentare il neonato deforme, praticando la
cosiddetta eutanasia neonatale: è evidente l’abuso della libertà dei genitori nei
confronti della vita del neonato).
Lo stesso principio di libertà-responsabilità del paziente, se viene delimitato
dal principio di difesa della vita fisica (che è valore precedente e superiore alla
libertà e che chiama la responsabilità primaria) limita a sua volta la libertà e la
responsabilità del medico, il quale non può trasformare la cura in costrizione in
tutti gli altri casi in cui non è in questione la vita. E’ il problema del “consenso
del paziente”.
C’è un consenso implicito nel momento in cui il paziente si affida al medico
o alla struttura ospedaliera, perché il medico faccia quanto è necessario perla cura
e il recupero della salute. Questo consenso non dispensa, tuttavia, il medico dal
dovere di informare il paziente sull’andamento della terapia e chiedere ulteriore ed
esplicito consenso tutte le volte che si possano dare delle evenienze non previste
(ad es. una cura che comporta un rischio o una menomazione, una terapia di
estremo tentativo di fronte alle altre possibilità risultate inefficaci, o la
sperimentazione di un farmaci).
Bisogna sempre ricordare che la vita e la salute sono affidate
prioritariamente alle responsabilità del paziente e che il medico non ha sul
paziente altri diritti, superiori a quelli che ha il paziente stesso nei propri riguardi.
3. Il principio di totalità o principio terapeutico
E’ uno dei principi basilari e caratterizzanti dell’etica medica.
Esso si fonda sul fatto che la corporeità umana è un tutto unitario, risultante
di parti distinte e fra loro organicamente e gerarchicamente unificate
dall’esistenza unica e personale.
Il principio dell’inviolabilità della vita, che abbiamo illustrato come primo e
fondamentale, non viene smentito, ma viene applicato quando, per salvare il tutto
e la vita stessa del soggetto, si debba incidere anche in maniera mutilante sulla
parte dell’organismo. In fondo, in questo principio regge tutta la liceità e
l’obbligatorietà della terapia medica e chirurgica. Il chirurgo che asporta
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un’appendice è giustificato moralmente, ed anche obbligato, nella misura in cui
questa asportazione è necessaria per la salvaguardia dell’organismo. E’ per questo
che il principio si denomina anche come principio terapeutico.
Anzitutto, tale principio terapeutico esige alcune condizioni per essere
applicato: - che si tratti di un intervento sulla parte ammalata o che è diretta causa
del male, per salvare l’organismo sano; - che non vi siano altri modi e mezzi per
ovviare alla malattia; - che vi sia una possibilità buona e proporzionalmente alta
per la riuscita; - che vi sia il consenso del paziente.
Rimane inteso che in questi casi ciò che è in questione non è tanto la vita,
quanto la integrità fisica; ma anche la integrità fisica è un bene molto alto, insito
nella corporeità e, pertanto, è un valore personale che può essere messo in
pericolo o menomato soltanto a vantaggio del bene superiore cui esso è legato.
Il principio terapeutico ha applicazioni peculiari non soltanto nei casi
generali dell’intervento chirurgico, ma anche in casi più specifici quali la
sterilizzazione terapeutica, il trapianto d’organo, la geneterapia.
Questo principio, come abbiamo accennato, è letto da alcuni in senso
organicistico: si può ledere una parte dell’organismo soltanto se ciò giova al
medesimo organismo fisicamente inteso. Altri danno un’interpretazione
estensiva, intendendo per totalità il benessere psicologico o psicosociale, a
prescindere dall’organismo fisico e dalla sua armonica ricomposizione con il
bene spirituale. Altri, infine, e ci sembra che vadano tenuti in conto di migliore
interpretazione, intendono la totalità comprendendovi la totalità fisica, spirituale e
morale della persona, quindi di una totalità personalista, in cui però il bene
dell’organismo fisico venga rispettato. Il corpo perciò non va preso in senso
esclusivo (senza badare al resto), ma in senso unitario, considerando cioè il bene
corporeo nell’insieme del bene spirituale e morale della persona.
4. Principio di socialità e sussidiarietà.
Bisogna innanzitutto distinguere quello che è il principio etico della
socialità da quella che è la forma organizzativa e politica della socializzazione.
Il principio di socialità impegna ogni singola persona a realizzare se stessa
nella partecipazione alla realizzazione del bene dei propri simili.
Nel caso della promozione della vita e della salute, ciò comporta che ogni
cittadino s’impegni a considerare la propria vita e quella altrui come un bene non
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soltanto personale, ma anche sociale, e impegna la comunità a promuovere la vita
e la salute di ciascuno, a promuovere il bene comune promuovendo il bene di
ciascuno.
Il principio di socialità può giungere fino a giustificare il dono dei tessuti e
degli organi, che comporta una certa mutilazione nel donatore, può stimolare il
volontariato assistenziale e può, come è avvenuto pressoché in tutto il mondo, far
sorgere opere assistenziali (ospedali, case di cura, lebbrosari) soltanto per il senso
del servizio fraterno dei sani verso i malati.
Ma in termini di giustizia sociale il principio obbliga la comunità a garantire
a tutti i mezzi per accedere alle cure necessarie, anche a costo dei sacrifici dei
benestanti.
E’ a questo punto, però, che il principio di socialità si salda con quello di
sussidiarietà, per il quale la comunità da una parte deve aiutare di più dove più
grave è la necessità (curare di più chi è più bisognoso di cure e spendere di più per
chi è più malato), dall’altra non deve soppiantare o sostituire le iniziative libere
dei singoli e dei gruppi, ma garantirne il funzionamento.
La socializzazione della medicina come programma di politica sanitaria,
invece, è un modello di organizzazione sanitaria, diverso dalla medicina liberale e
da quella collettivistica, che ha come obiettivo ideale quello di dare a tutti, in
misura uguale, i mezzi gratuiti di cura e assistenza sanitaria, promuovendo nel
contempo il rispetto della libertà dei cittadini e la loro partecipazione attiva. Si
tratta di un modalità di applicazione del principio di socialità, che pone a carico
dello Stato democratico l’onere nell’organizzazione dei servizi sanitari, pur
lasciando liberi i cittadini nella scelta del medico e delle strutture di cura.
5. IL “PRINCIPIALISMO” NORD-AMERICANO
Si tratta dell’etica proposta da T.L. BEAUCHAMP e J.F. CHILDRESS nel
noto saggio Principles of biomedical ethics, pubblicato per dare fondamento ai
principi indicati dal Rapporto della Commissione Belmont (1979), che intendeva
offrire una base etica alla sperimentazione sull’uomo (principio di autonomia, di
beneficialità, di giustizia).
Questi autori hanno così elaborato un “paradigma” etico rivolto a chi opera
in campo sanitario, allo scopo di fornire dei riferimenti pratico-concettuali, che li
possa orientare nelle situazioni concrete. Tale “paradigma”
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costituito
dalla
formulazione dei principi di autonomia, di beneficenza, non maleficenza e di
giustizia, interpretati alla luce dell’utilitarismo.
1. principio di beneficialità
E’ il riferimento ultimo, il vertice, il fine primario della medicina. Esso ha
due componenti distinte: il principio di “non-maleficità, che richiede di non
infliggere alcun male a nessuno, secondo l’antica massima di tradizione
ippocratica “primum non nocere”; e il principio di beneficialità propriamente
detto che va oltre il semplice astenersi dal fare il male ed impegna alle azioni
positive di prevenire il dolore o il male, di rimuoverlo, e di promuovere comunque
il bene. La componente di “non-maleficità” è applicata, ad es. ai problemi
dell’accanimento terapeutico o al rapporto rischi-benefici di ogni intervento
medico. La componente della beneficialità è richiamata nei problemi della terapia
del
dolore,
della
donazione
degli
organi,
in
generale
nell’impegno
diagnostico/terapeutico del medico.
Questo principio può subire delle limitazioni quando si tratti affrontare
problemi in cui l’evitare il male e il fare il bene sono collegati con obbligazioni
sociali di giustizia distributiva. E allora si fa riferimento a quello della giustizia.
2. principio di giustizia
Esso si collega con le espressioni delle formule classiche del “suum cuique
tribuere” e dell’”alterum non ledere”; in parte viene esplicato in termini di
imparzialità nel riconoscimento di alcuni diritti. Il principio di giustizia in bioetica
viene invocato in relazione ad es. alle cure necessarie e doverose per ogni malato,
alle definizione di priorità nella distribuzione dei fondi in campo sanitario, in
generale per la razionalizzazione di tutti gli interventi medici.
3. Principio di autonomia o del rispetto dell’autonomia
Esso implica da un lato di trattare le persone come soggetti autonomi,
dall’altro di tutelarle quando la loro autonomia è ridotta o assente. Poiché la
moralità di un’azione richiede che l’individuo compia delle scelte in modo
autonomo, si richiede che prima di ogni esame dei principi etici di riferimento si
debba chiarire l’autonomia di chi è coinvolta e come possa essere rispettata.
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Le conseguenze pratiche di questo principio si riferiscono alla necessità di
acquisire sempre il consenso informato del soggetto o di valutare chi può decidere
al suo posto. Il concetto di autonomia qui ha un carattere molto concreto, essendo
definito come capacità di una persona di “riflettere sui propri obiettivi e di
decidere da se stessa di agire in conformità con questa riflessione”; in altre parole,
capacità di agire consapevolmente e senza costrizioni.
Secondo questi autori, questi principi etici fondamentali sono condivisi
dalle diverse teorie etiche, e avrebbero il compito di guidare le azioni etiche in
medicina.
I giudizi morali particolari, inoltre, implicano l’applicazione di questi
principi alle situazioni concrete.
In altre parole, il giudizio ultimo pratico per un caso particolare (quello che
guida la decisione circa una determinata azione da fare - per es. rifiutare di
partecipare ad una procedura abortiva), deriva dall’applicazione di alcune regole
pratiche che sono generalizzazioni su ciò che si deve o non deve essere fatto in
uno specifico contesto, per uno scopo limitato (nella azione di rifiutare di
partecipare ad una procedura abortiva, la regola sarebbe che è moralmente
sbagliato uccidere intenzionalmente un essere umano). Tali regole, a loro volta,
scaturiscono da criteri più generali, i principi appunto (nel nostro caso il principio
della beneficialità riferito al feto), i quali in ultima analisi sono giustificati dalle
teorie etiche che orientano le scelte, soprattutto quando vi sia un conflitto fra i
principi.
Dal punto di vista dell’etica personalista, questa impostazione lascia gravi
lacune per una convincente fondazione della bioetica.
Quei principi, infatti, mancano di un’antropologia (studio, analisi
dell’uomo) e una ontologia (analisi dell’essere) che li fondi e li giustifichi, cosi
che essi stessi risultano privi di significato: senza definire che cosa è bene e che
cosa è giusto per la persona o che debba intendersi per autonomia dell’individuo,
è ambiguo parlare di beneficialità o di giustizia.
Osservazione conclusiva: l’azione non è mera applicazione estrinseca dei
principi, ma comportamento orientato alla realizzazione del bene proprio e altrui.
I principi forniscono indicazioni generali di comportamento, ma è il valore etico
del bene della persona, come fine ultimo da raggiungere, ciò che conferisce senso
ultimo dell’azione.
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Le situazioni di conflitto e i principi per risolverli
L’esperienza etica non ha a che fare con dati matematici. L’esperienza
morale ha a che fare con situazioni storiche e con soggettività: anche nelle
coscienze più limpide sorgono conflitti di giudizio e perplessità in ordine
all’azione.
La problematica morale ha elaborato e discusso alcuni principi secondari
con cui si possono lumeggiare queste situazioni di conflitto e sono due: il
principio del minor male e il principio del volontario indiretto.
1. Il male minore. La situazione di conflitto per cui ci si trova a scegliere fra
due mali – ove per male si intende anche l’omissione - non si può generalizzare
perché noi non abbiamo l’obbligo di compiere simultaneamente tutti i doveri,
sicché sempre per non ometterne uno, per forza ne dobbiamo omettere un altro
irrecuperabile. Fortunatamente le situazioni di conflitto sono rare, ma esistono. E’
importante, perciò, trovare un principio di priorità o di gerarchia per chiarire le
situazioni.
Anzitutto ci viene incontro una distinzione che consente una prima linea di
precedenza e di gerarchie: la distinzione tra male fisico e male morale.
Poiché il male morale compromette il bene superiore, spirituale, qualora
esista un conflitto di scelta drammatica fra un danno fisico o materiale e il danno
morale, non c’è alcun dubbio che va sacrificato il bene o i beni materiali. Beni
materiali non sono soltanto quelli economici ma anche quelli di tipo sociale
(armonia con gli altri, il posto di lavoro). La stessa vita fisica di fronte
all’imposizione di commettere il male morale è obiettivamente da giudicare come
un sacrificio giustificato (martirio). Né questo equivale a suicidio, perché la colpa
ricade su chi pone questo conflitto.
Quando si tratta di due mali morali, l’obbligo è di rifiutarli entrambi, perché
il male non può essere oggetto di scelta e ciò anche quando, rifiutando quello che
si presenta come male minore, si provocasse un male maggiore. Si porta
l’esempio dell’ingiunzione che si facesse a qualcuno di commettere un furto o
manomettere dei documenti con la minaccia di una violenza sessuale o la morte
di altre persone. Con tutte le attenuanti che si debbono considerare sul pino
soggettivo, dal punto di vista oggettivo il fatto non va compiuto, perché è male;
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quando da un tale rifiuto derivasse una qualsiasi vendetta con un male morale più
grave, questo non sarebbe imputabile a chi ha deciso di compiere il male.
C’è poi l’eventualità di dover scegliere (e perciò di subire) fra i due mali
fisici, uno minore ed uno maggiore. E’ chiaro che l’orientamento è che si possa e
si debba normalmente preferire il male fisico minore, sia che esso riguardi gli
altri, sia che riguardi sé stessi.
Ma si può dare il caso che un soggetto possa lecitamente scegliere il male
fisico maggiore in vista di un ragionevole e proporzionato motivo di ordine
superiore. Ad es. un malato di tumore può rifiutare gli analgesici, subendo un
dolore fisico maggiore, perché vuol mantenere la lucidità mentale per conversare
con i parenti o amici o vuol avere la possibilità di dare senso religioso alla
sofferenza. Con ciò non si annulla la liceità dell’impiego degli analgesici in linea
di massima.
2. L’azione con duplice effetto. Come la terapia farmacologica porta con sé
spesso effetti secondari collegati all’effetto terapeutico principale direttamente
inteso, così capita spesso nell’esperienza morale che ad un’azione buona e, talora,
anche necessaria, siano collegate delle prevedibili conseguenze negative.
Ecco in sintesi gli orientamenti propri di questa situazione.
E’ lecito compiere un’azione (o ometterla deliberatamente), anche quando
questa scelta comporta un effetto cattivo, alle seguenti condizioni:
1. che l’azione perseguita sia in sé buona o quantomeno moralmente
indifferente;
2. che l’intenzione dell’agente sia informata dalla finalità positiva;
3. che l’effetto buono non si ottenga per mezzo dell’effetto cattivo;
4. che ci sia una ragione proporzionatamente grave per permettere che
l’effetto cattivo accada.
Come si può constatare, questi orientamenti o norme partono dal
presupposto che il male non può mai essere fatto oggetto di una scelta diretta e
che il fine buono non può essere raggiunto attraverso azioni cattive.
Siamo quindi all’interno della morale che si giustifica anzitutto per l’oggetto
diretto dell’atto.
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