Peter Eisenman _House 11a
Susanna Pisciella
L’opera di Peter Eisenman costituisce un prezioso strumento di studio poiché impone una
pratica tanto fondamentale quanto trascurata dal nostro comune fare di architetti: la
ricerca dei fondamenti dell’architettura, la consapevolezza dell’iconologia della forma.
In Peter Eisenman s’incrociano due traiettorie, la provenienza ebraica e la formazione
classica e il suo posizionarsi nel punto di convergenza produce l’incontro tra due potenze
culturali che fino ad allora non si erano mai realmente confrontate sul piano della forma.
Laddove la forma costituisce il nucleo centrale della riflessione eisenmaniana, in quanto
rappresenta il linguaggio fondamentale dell’architettura.
La forma diviene la sostanza attraverso la quale Peter Eisenman compie il passaggio da un
sistema di pensiero, quello tradizionale occidentale greco-cristiano, a un altro, quello
ebraico. La decodificazione di questa operazione è possibile solo mettendo a sistema
l’opera progettuale con l’intera opera teorica, che è il luogo in cui si costruisce la matrice
iconologica, il senso della forma. Tuttavia solo la sovrapposizione di tutti gli scritti è in
grado di rivelare la natura di questa sostituzione, che è costantemente dissimulata e che si
configura come l’atto di dislocazione della metafisica occidentale attraverso la
dimostrazione dialettica dell’inadeguatezza dell’iconologia greco-cristiana nei confronti
della contemporaneità.
La nota dichiarazione della fine del classico, della fine della validità dei tre principali valori
del classico -storia, ragione e rappresentazione- ha un suono neutro e non può essere
compresa nella sua reale portata se si ignorano i contorni del concetto eisenmaniano di
‘classico’. Il classico cui fa riferimento non è qualcosa di astratto ma costituisce
precisamente la modalità ininterrotta del pensiero che ha influenzato l’architettura dal XV
secolo a oggi. In altre parole il classico rappresenta l’intera tradizione occidentale a partire
dall’abbandono della struttura teocentrica del pensiero per via dell’instaurarsi
dell’antropocentrismo. Spezzare questa modalità è lo scopo congiunto dei suoi scritti e dei
suoi progetti e la struttura ebraica del pensiero diviene lo strumento per compiere il
grande ritorno a una dimensione teologico-gnoseologica dell’architettura.
Per orientarsi all’interno della geografia teorica di Peter Eisenman occorre tenere presenti
alcuni punti fondamentali: innanzitutto l’Occidente eisenmaniano si articola in due ambiti
principali che sono la tradizione greco-cristiana da una parte e la tradizione ebraica
dall’altra. C’è un terzo polo, il più importante, che è la contemporaneità, la quale diviene il
punto d’incontro tra le due istanze, il tempo maturo per sostituire la prima con la seconda.
Per quanto riguarda l’architettura occidentale, la quasi totalità della tradizione è contenuta
nell’ambito greco-cristiano in quanto l’ebraismo, per sua costituzione e struttura
gnoseologica, ha estromesso da sé l’estetica intesa come la intende la tradizione grecocristiana; ha estromesso il valore totalizzante che l’Occidente riserva all’immagine. Lo
stesso valore, nell’ebraismo, è assunto dal testo. La dislocazione della metafisica
occidentale si configura, nell’opera eisenmaniana, come la de-legittimazione del principale
strumento conoscitivo greco-cristiano, l’immagine, a favore del testo, il principale
dispositivo conoscitivo ebraico.
L’ebraismo per Peter Eisenman non costituisce solo una naturale istanza culturale, ma quel
preciso sistema del sapere in grado di rompere con lo spazio classico, gerarchico, ordinato,
chiuso, euclideo che ha significato tradizionalmente l’affermazione e la rappresentazione
del pensiero greco-cristiano in architettura. Sostituendo l’iconologia dell’immagine con
l’iconologia del testo -ArchText-, Peter Eisenman traduce all’interno della forma
l’inconciliabilità che è alla base delle culture: la presenza del sistema greco-cristiano e
l’assenza del sistema ebraico, che sono le due modalità alla base delle due strutture
teologiche.
Il fatto che Peter Eisenman per giungere alla forma abbia risalito interamente le radici
della propria cultura consente di affermare che ha elaborato il primo vero linguaggio
ebraico dell’architettura e, poiché raccoglie tutti i caratteri originari della teologia ebraica,
si può affermare con un ossimoro che ‘fonda’ la prima ‘tradizione’ architettonica ebraica.
In queste pagine alcune immagini della House 11a testimoniano come la casa divenga per
Peter Eisenman il tema architettonico ideale per destabilizzare l’antropocentrismo alla base
del classico, proprio a partire dalla destabilizzazione dell’essere dell’uomo nel mondo come
abitante. Spezzare il nesso essere-abitare significa mettere in crisi tutta la tradizione
occidentale e questo è il progetto sotteso dalla serie delle Houses, che possono
considerarsi la prima grammatica iconologica ebraica in architettura. Le Houses operano il
passaggio da una metafisica della presenza –del radicamento, del possesso, dell’identità- a
una metafisica dell’assenza –dello spaesamento, dell’instabilità, del dubbio-. Spostano il
senso della casa da luogo funzionale all’abitare a strumento di conoscenza; da spazio per il
corpo a spazio per l’anima. La casa eisenmaniana, a partire dalla House I, mette in atto un
processo di messa in crisi del soggetto che trascende i confini architettonici e apre
all’autentica dimensione del progetto eisenmaniano: la sostituzione della struttura del
pensiero.
L’opera di Peter Eisenman offre un insegnamento forse unico nella storia dell’architettura:
se non si tengono costantemente vive le connessioni che legano il linguaggio
dell’architettura –la forma- e l’iconologia da cui proviene in relazione al sapere
contemporaneo, si rischia di finire travolti dalla storia. Ne è testimonianza il modo in cui la
cultura architettonica occidentale ha riassorbito il linguaggio eisenmaniano come qualcosa
di neutro, senza tentare di cogliere sotto la sua superficie la pericolosa sfida che ci
rivolgeva.