Responsabile editoriale: Roberto De Meo Redazione: Patrizia Vallario Tavole cartografiche: Stefano Benini Traduzione: Luigi Sanvito Immagine di copertina: © Stephen Mulcahey / Arcangel Images Titolo originale: The Caesar’s Legion. The epic saga of Julius Caesar’s elite tenth legion and the armies of Rome Copyright © 2002 by Stephen Dando-Collins. ALL RIGHTS RESERVED www.giunti.it © 2015 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia ISBN 9788809819429 Prima edizione digitale: settembre 2015 RINGRAZIAMENTI La stesura di questo libro non sarebbe stata possibile senza l’immenso aiuto che mi è stato fornito nel corso di molti anni dal personale di innumerevoli biblioteche, musei ed enti di ricerca storica sparsi per tutto il mondo. A tutti questi addetti vanno i miei più sentiti ringraziamenti: né loro né io, all’inizio, sapevamo quali risultati avrebbe prodotto la mia passione per la storia romana. Un grazie di cuore anche a coloro che hanno letto il manoscritto nelle sue diverse fasi di sviluppo, fornendomi preziosi suggerimenti. Più in particolare, la mia riconoscenza va a tre persone, per il ruolo che hanno giocato nella stesura e nella pubblicazione di questo libro. Anzitutto, devo ringraziare Stephen S. Power, senior editor alla John Wiley & Sons, per l’entusiasmo, l’incoraggiamento, la lungimiranza e il talento professionale. In secondo luogo, devo molto al mio meraviglioso agente letterario di New York, Richard Curtis, che per molti anni ha sostenuto e orientato le mie aspirazioni, propiziando un felice matrimonio con un’eccellente casa editrice. È stato Richard a suggerirmi di dividere il mio massiccio manoscritto dedicato a tutte le legioni dell’antica Roma in una serie di monografie che raccontassero in forma autonoma le vicende di ciascuna delle principali unità dell’esercito romano. Senza di lui, La legione di Cesare non avrebbe mai visto la luce. In quest’epoca sempre più dominata dalle fredde tecnologie informatiche, vi assicuro che nell’Upper East Side esiste ancora un uomo che incarna tutte le qualità «vecchio stile» che uno scrittore sogna di trovare in un agente letterario. Per un autore, come il sottoscritto, che si avvale della tecnologia ed è in prima linea nella rivoluzione dell’editoria elettronica, Richard era e rimane un autentico gentiluomo della vecchia scuola. Infine, c’è Louise, mia moglie da quasi vent’anni. Louise ha condiviso con me una vita complicata e frenetica senza mai lamentarsi; al contrario, incoraggiandomi continuamente. Come posso descrivere il ruolo che ha giocato nella stesura di questo libro, e nell’affinamento delle mie doti letterarie? Penso che Tacito, nell’Agricola, mi offra le parole per esprimerlo al meglio. Lo storico romano descrive la relazione tra sua suocera Domizia e suo suocero Agricola con parole che sembrano rispecchiare il mio rapporto con Louise in questi vent’anni: «Domizia e Agricola hanno vissuto in un accordo perfetto, sostenuto da affetto e altruismo. In un’unione di questo tipo, tuttavia, una buona moglie merita più della metà delle lodi, proprio come una cattiva consorte merita più della metà dei rimproveri». NOTA DELL’AUTORE La legione di Cesare vuole colmare una lacuna nella produzione saggistica in materia, narrando dettagliatamente la storia di una singola unità dell’antico esercito romano. Il mio libro costituisce il frutto di trent’anni di ricerche sulle forze armate dell’antica Roma; un lavoro che si è focalizzato soprattutto sulle più importanti tra le cinquanta legioni di epoca augustea e postaugustea create tra l’84 a.C. e il 231 d.C. Per nostra fortuna, abbiamo a disposizione le opere di molti storiografi dell’antichità. Costoro hanno tramandato ai posteri le cronache delle guerre, delle campagne, delle battaglie e delle scaramucce, svelandoci il carattere e le azioni dei principali condottieri delle legioni romane. Penso ad autori come Giulio Cesare, Appiano, Plutarco, Tacito, Svetonio, Polibio, Cassio Dione, Giuseppe Flavio, Plinio il Giovane, Seneca, Livio, Arriano, senza i quali questo libro non sarebbe stato neppure concepibile. Grazie alle fonti classiche e moderne (per le quali rinvio alle appendici di questo volume), esiste materiale sufficiente per dare alle stampe ponderosi tomi sulla Quattordicesima Gemina Martia Victrix, la legione che sconfisse Boadicea (o Budicca, com’è chiamata ai giorni nostri); sulla Terza Augusta, che salvò la vita all’apostolo Paolo; sulla Sesta Victrix, che rapì Cleopatra e fu alla base della celebre quanto lapidaria osservazione di Giulio Cesare Veni, vidi, vici («Venni, vidi, vinsi»); e sulla Dodicesima Fulminata, che si guadagnò nome e fama nella battaglia di Marco Aurelio contro i germani così vigorosamente rievocata nel film Il gladiatore. E questi sono solo pochi esempi tra i tanti. Ciò premesso, non c’è dubbio che la legione più famosa in epoca romana sia stata la Decima legio, non a caso descritta come «famosa in tutto il mondo» quando partecipò all’offensiva in Giudea nel 67 d.C. Costituita personalmente da Giulio Cesare, la Decima svolse un ruolo di primo piano in tutte le sue battaglie, dal sanguinoso esordio in Spagna alla conquista delle Gallie e all’invasione della Britannia, senza tralasciare la partecipazione alla guerra civile contro Pompeo Magno, che sfociò nell’ascesa di Cesare a dittatore di Roma. La Decima legione marciò per Marco Antonio e Augusto; con Corbulone sconfisse duramente i parti; con Vespasiano represse la rivolta ebraica; con Tito si impossessò del tempio di Gerusalemme. Infine, espugnò Masada. Durante le ricerche per questo libro, ho dovuto affrontare e chiarire una serie di questioni controverse della storia legionaria, come la singolare unicità delle strutture di comando in Egitto e Giudea. Ma l’aspetto più illuminante in assoluto ha riguardato quello che in termini moderni chiameremmo il fattore della rafferma. Le legioni di Roma erano reclutate in massa, mentre coloro che sopravvivevano erano congedati altrettanto in massa alla fine del periodo di servizio (in origine dopo sedici anni; più tardi, dopo venti). Durante questo arco di tempo, le perdite non erano sostituite da nuovi soldati. La possibilità di raffermarsi (cioè di rinnovare il periodo di servizio) spiega perché alcune specifiche unità venissero sostanzialmente annientate in questa o quella battaglia, salvo poi risorgere con nuovi effettivi: in certi casi si trattava di legioni composte da reclute, ma in altri casi i ranghi erano costituiti da legionari che avevano usufruito della rafferma, con un’età compresa tra i trentanove e i cinquantanove anni, e ormai prossimi al congedo definitivo. Per ulteriori approfondimenti sul tema, rinvio all’appendice Il fattore della rafferma. C’è poi la questione delle date e dei nomi. Per quanto riguarda il primo punto, ho scelto di utilizzare il calendario romano, che inizialmente presentava una variazione di due mesi in meno rispetto al nostro. I nomi dei luoghi sono riportati nella loro dizione originale, con l’aggiunta, laddove possibile, di quella moderna, così che i lettori possano facilmente identificarli. Per quel che concerne i nomi delle persone, ho preferito attenermi alla dizione più conosciuta ai giorni nostri, rinunciando a qualunque tecnicismo filologico: Antonio anziché Antonius, Giulio Cesare anziché Gaius Caesar, Ottaviano invece di Caesar, Pilato piuttosto che Pilatus, Vespasiano al posto di Vespasianus ecc. Nel XIX e nel XX secolo, molti studiosi trovavano opportuno definire le legioni «reggimenti», le coorti «battaglioni», i manipoli «compagnie», i centurioni «capitani», i tribuni «colonnelli», e i legati «generali». Per quanto mi riguarda, ho mantenuto nella narrazione termini come legione, coorte, manipolo e centurione, considerando che si tratta di vocaboli ormai familiari al lettore moderno. Tuttavia, alcuni termini antichi sono assai meno conosciuti. Questa circostanza mi ha spinto ad alcuni aggiustamenti, in modo da facilitare la comprensione del testo. Di conseguenza, ho tradotto «legato» come «generale» o «generale di brigata»; «tribuno» come «colonnello» (laddove l’ho ritenuto necessario); «pretori» come «generali di divisione», e (sempre dove l’ho ritenuto necessario) «consoli» come «generali di corpo d’armata». Sono consapevole che questo approccio al tema dei gradi militari potrà non piacere agli accademici (in fondo – lo ammetto – è come tenere il piede in due scarpe), ma ho preferito anteporre la chiarezza divulgativa al rigore filologico. Questa è la storia dei soldati della Decima legione, militi che contribuirono in misura decisiva alla grandezza di Roma; uno o due uomini straordinari e moltissimi altri assolutamente ordinari, ma spesso capaci di imprese incredibili. Sotto molti aspetti, non erano diversi da noi. Eppure è lecito chiedersi chi, al giorno d’oggi, sarebbe in grado di fare (o anche solo di iniziare a fare) quello che hanno fatto loro, di sopportare quello che hanno sopportato loro, di realizzare quello che hanno realizzato loro. NOTA DEL TRADUTTORE Nel testo originale, l’Autore utilizza il moderno sistema anglosassone per definire pesi e distanze. Dunque, miglia, piedi, pollici, iarde, libbre etc. Nella traduzione italiana, abbiamo precisato volta per volta le corrispondenti unità di misura secondo il sistema in vigore nel nostro Paese: ad esempio, cinque piedi e quattro pollici = circa un metro e sessantacinque centimetri. Tuttavia, in alcuni passaggi, allo scopo di mantenere intatta la scorrevolezza del testo, abbiamo tradotto i pesi e le misure originali direttamente in chili e metri, senza fare alcun riferimento ai loro equivalenti anglosassoni. C’è poi un’osservazione che riguarda il miglio: considerando che si tratta di un termine il cui significato è ormai abbondantemente conosciuto anche in Italia, abbiamo ritenuto superfluo tradurlo sempre in chilometri. Qui, per completezza, aggiungiamo soltanto che un miglio terrestre è pari a circa un chilometro e seicentodieci metri. [L.S.] 1. IL RISCHIO DELLA DISFATTA Era un gran giorno per morire. E prima che il sole fosse tramontato, 34 000 uomini avrebbero perso la vita in questa valle. I militi della Decima legio non si facevano illusioni. Sapevano che molti di loro sarebbero caduti nella battaglia ormai imminente. Tuttavia, per dei romani, non c’era nulla di più glorioso di una morte sul campo. E se gli uomini di questa legione dovevano morire, probabilmente non esisteva un luogo migliore, o un giorno più adatto, per andare incontro alla propria sorte, sul suolo di casa, sotto un cielo di un azzurro perfetto. Neppure un alito di vento sfiorava i legionari della Decima inquadrati nei loro ranghi, mentre scrutavano l’esercito di Gneo Pompeo dall’altro lato della valle e del fiume. L’armata avversaria aveva preso posizione a cinque miglia di distanza, sui pendii di Munda, una città collinare dell’Andalusia nei pressi dell’odierna Osuna, a sudest di Cordova. Il sole era sorto nel cielo sereno, illuminando una dolce mattina, quella del 17 marzo del 45 a.C. Dopo sedici anni di battaglie in Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Germania, Albania, Grecia, Nord Africa, e dopo aver invaso due volte la Britannia, la Decima legione di Giulio Cesare aveva fatto ritorno al punto di partenza: di nuovo in azione sul suo territorio natio, pronta a misurarsi nello scontro campale che avrebbe posto fine alla più sanguinosa guerra civile di Roma, oppure alla carriera di Cesare, e forse alla sua vita. Adesso la Decima comprendeva meno di 2000 effettivi, un numero ben lontano dai 6000 legionari che Cesare aveva personalmente reclutato nel 61 a.C. Due terzi dei ranghi erano caduti nel corso degli anni. I sopravvissuti, la cui età oscillava tra i trentatré e i trentasei anni, attendevano di essere congedati quello stesso mese. Ancora una battaglia, aveva promesso Cesare ai suoi veterani ispanici, e poi sarebbe stato felice di mandarli a casa. I legionari avrebbero ricevuto un supplemento di paga e appezzamenti di terreno. Riconosciuta da amici e nemici come la migliore unità militare di Cesare, la Decima legione costituiva tradizionalmente l’ala destra dell’esercito del condottiero, ancora fermo e in silenzio. La Quinta legione – un’altra unità ispanica – copriva l’ala sinistra dello schieramento. Lo spazio tra le due estremità era occupato da uomini della Terza, della Sesta, della Settima, della Ventunesima e della Trentesima legione. Come la Decima, anche queste forze si presentavano a ranghi ridotti: la Sesta legione, per esempio, aveva potuto schierare solo qualche centinaio di uomini. In tutto, Cesare disponeva di circa 30000 tra legionari e ausiliari, inquadrati in ottanta coorti, o battaglioni. C’erano poi 8000 cavalieri, distribuiti tra i due fianchi: la più grande forza di cavalleria che Cesare avesse mai messo in campo. I cavalli scalpitavano inquieti, fiutando l’odore della paura nell’aria del primo mattino. Al centro dello schieramento della Decima, a cavallo con elmo e corazza e attorniato dal suo stato maggiore, il cinquantaquattrenne Giulio Cesare indossava il paludamentum, il vistoso mantello scarlatto dei generali romani. Mentre le truppe rimanevano in attesa, Cesare si consultò rapidamente con il comandante della cavalleria, Nonio Asprenate, mettendo a punto gli ultimi dettagli tattici. Dopodiché Asprenate si allontanò a cavallo e raggiunse con i suoi uomini la posizione che gli era stata assegnata – quasi certamente sull’ala destra –, mentre il suo vice, il colonnello Arguezio, disponeva le proprie forze sull’ala sinistra. Cesare impartì un ordine. Accanto a lui, un attendente a cavallo inclinò la bandiera rossa del generale verso il fronte di battaglia. Un trombettiere disarmato suonò il segnale dell’avanzata a passo di marcia. Lungo tutto lo schieramento, le trombe delle singole unità ripeterono il segnale. Le aquile delle legioni e i vessilli delle unità più piccole si inclinarono verso il nemico. Le truppe, disposte in tre linee di 10000 uomini ciascuna, si mossero ordinatamente. Cesare aveva sperato di attirare i suoi avversari su un terreno pianeggiante, ma le truppe nemiche non sembravano volersi muovere; al contrario, mantenevano la loro posizione sulla collina, aspettando che fosse l’esercito di Cesare a farsi sotto. Il generale al comando dell’armata avversaria era Gneo Pompeo. Figlio maggiore di un famoso generale, Pompeo Magno, e nipote di un altro, non aveva ancora trent’anni e non possedeva una reputazione militare particolarmente brillante. Pochi anni prima aveva assicurato a suo padre un successo navale nell’Adriatico, seguito tuttavia da una disastrosa operazione via terra in Libia. In tempi più recenti, aveva guidato le sue truppe in una sofferta ritirata attraverso la Spagna sudoccidentale, mentre Cesare lo incalzava da vicino. Le sue esperienze di comando si fermavano lì. Malgrado questi limiti evidenti, tuttavia, era pur sempre l’erede di Pompeo Magno e si trovava in Spagna, dove il suo defunto padre era ancora onorato; una circostanza che poteva fare la differenza. Inoltre, aveva ai suoi ordini come vicecomandanti due dei migliori generali di Pompeo Magno, uno dei quali, per di più, era stato l’aiutante di Cesare per nove anni e conosceva bene come pensava e come combatteva. Mentre suo fratello minore Sesto presidiava Cordova, la capitale della provincia iberica, Gneo aveva radunato ed equipaggiato un imponente esercito, forte di circa 50 000-80 000 uomini. Poche delle sue unità, tuttavia, erano di prim’ordine. Nove delle sue tredici legioni erano nuove di zecca, costituite da giovani inesperti frettolosamente raccolti nella Spagna occidentale e nel Portogallo. Di conseguenza, il peso della battaglia sarebbe ricaduto in gran parte sulle sue quattro legioni di veterani. Gneo contava soprattutto sulla Prima legione, il reparto d’élite di suo padre, l’equivalente della Decima di Cesare. Questa unità aveva combattuto le battaglie più importanti della guerra civile ma, a differenza dell’imbattuta Decima legione, era stata costretta ad aprirsi la strada disastro dopo disastro. Accanto alla Prima c’erano anche la Seconda e la legione Indigena, due unità pompeiane che erano passate dalla parte di Cesare, salvo poi ripensarci quando Gneo e Sesto erano arrivati in Spagna l’anno prima. Infine, c’era l’Ottava legione, un’unità molto simile alla Decima e una delle tre legioni di Cesare che in tempi recenti avevano disertato per unirsi alle forze avversarie. Il giovane Gneo aveva accolto con sospetto queste defezioni di massa, al punto che aveva tenuto con sé solo l’Ottava, inviando le altre due unità «voltagabbana» (la Nona e la Tredicesima) a suo fratello a Cordova. Il giorno prima, il giovane Pompeo aveva allestito il proprio campo nella pianura nei pressi di Munda. Cesare era arrivato con le sue legioni dopo il crepuscolo, e si era accampato a cinque miglia di distanza. Nelle prime ore del mattino successivo, Pompeo aveva disposto le sue truppe, in schieramento di battaglia, sui pendii sottostanti la città, determinato a costringere Cesare a uno scontro campale. Gneo aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto, sfruttando il fattore della superiorità numerica prima che i suoi sostenitori si stancassero di ritirarsi e abbandonassero la causa. I suoi consiglieri gli avevano garantito che Cesare avrebbe rapidamente accettato lo scontro. In effetti, non si sbagliavano: l’ordine di prepararsi alla battaglia risuonò per tutto il campo di Cesare poco dopo che gli addetti alle ricognizioni lo avevano svegliato per riferirgli i preparativi di Pompeo vicino a Munda. Dopo aver innalzato i vessilli, le legioni di Cesare si inoltrarono al passo nella pianura, tra il frastuono di 60000 piedi in marcia e il clangore metallico del loro equipaggiamento. La disciplina era rigida. Non una parola. Sui fianchi, la cavalleria seguiva l’avanzata dei legionari. Cesare e il suo stato maggiore cavalcavano subito dietro la prima linea della Decima legione. Mentre avanzavano, gli uomini della Decima tenevano gli occhi bene aperti, decisi a prevenire qualunque trappola. Intorno a loro c’erano solo colline, ma qui, sul fondovalle, il terreno era pianeggiante; un aspetto che avrebbe favorito sia le manovre della fanteria che quelle della cavalleria. Prima di ogni cosa, però, le truppe dovevano coprire cinque miglia per agganciare il nemico. Sul loro percorso c’era un fiumiciattolo poco profondo che tagliava la vallata. Avrebbero dovuto guadarlo e poi attraversare un altro tratto di pianura arida, prima di raggiungere la collina dove si era attestato l’esercito avversario. Forte della possibilità di scegliere il campo di battaglia, il giovane Pompeo aveva optato per le alture. Inoltre, pronta a fornire aiuto in caso di necessità, la città di Munda si ergeva sulla collina alle sue spalle, circondata da alte mura con torri e guarnigioni di difesa. Mentre la distanza tra i due eserciti si riduceva, i legionari della Decima poterono constatare che le ali di Pompeo erano protette da reparti di cavalleria, appoggiati da fanteria leggera e ausiliari (6000 per ogni lato). I soldati della Decima non vedevano l’ora di scoprire l’identità della legione posizionata sul fianco che li fronteggiava, sperando che non si trattasse dei loro fratelli ispanici dell’Ottava. Durante gli ultimi sedici anni, la Decima e l’Ottava avevano affrontato assieme la buona e la cattiva sorte. Non sarebbe stato facile combattere contro vecchi amici, ma lo avrebbero fatto, nel nome di Cesare. Gli uomini della Decima capivano perché i loro scontenti compagni dell’Ottava avessero deciso di defezionare e, come in passato, avvertivano un moto di simpatia nei loro riguardi. Eppure, quando si trattava di passare alle vie di fatto, la lealtà della Decima nei confronti di Cesare era fuori discussione. Quando gli uomini del condottiero ruppero il passo nell’attraversare sguazzando il fiumiciattolo, per poi ricomporsi e continuare ad avanzare a ritmo di marcia, il loro comandante comprese che Pompeo si aspettava che scalasse la collina, dove si sarebbe svolto lo scontro decisivo. A quel punto, del resto, c’era una sola alternativa: o accettare il gioco del nemico, o ritirarsi. Quando la sua prima linea raggiunse la base del pendio, Cesare, inaspettatamente, ordinò alle truppe di fermarsi. Gli uomini obbedirono, aspettando con impazienza di lanciarsi all’attacco. A quel punto, Cesare comandò loro di serrare i ranghi, così da concentrare la forza offensiva su uno spazio più ristretto. La direttiva venne prontamente eseguita. Mentre i legionari cominciavano a spazientirsi della tattica attendista del loro generale, Cesare diede l’ordine di suonare la carica. Le trombe lo stavano ancora eseguendo, quando i vessilli delle sue ottanta coorti si inclinarono verso il nemico. Con un rombo assordante, le truppe si avventarono su per la collina. Con un rombo altrettanto assordante, gli uomini di Pompeo scagliarono i loro giavellotti. Gli attaccanti alzarono gli scudi per proteggersi. I dardi, lanciati dall’alto, saettarono implacabili nell’aria, abbattendosi sulla prima linea di Cesare e trafiggendo gli scudi. Le truppe all’assalto vacillarono per qualche momento, poi riacquistarono lo slancio. Un’altra salva di giavellotti oscurò l’azzurro del cielo, e un’altra, e un’altra ancora. La prima linea di Cesare, senza fiato e ancora lontana dal nemico, con i cadaveri dei commilitoni che giacevano a mucchi, fu costretta a fermarsi. Anche le unità alle sue spalle fecero lo stesso. L’intero attacco subì una pericolosa battuta di arresto. Per la prima volta nella sua carriera, Cesare si trovò di fronte al rischio di una disfatta: una disfatta autentica, non una sanguinosa sconfitta come a Gergovia, Dyrrhachium, Ruspina, o come le schermaglie fra le colline spagnole delle ultime settimane. Cesare aveva infranto ogni regola: solo un dilettante avrebbe potuto far marciare le sue truppe per cinque miglia, per poi costringerle a guadare un corso d’acqua e avventarsi su una collina a passo di carica. Un dilettante, o un uomo che si era abituato a vincere troppo facilmente, che aveva sottovalutato i suoi avversari, che non frenava la sua impazienza di chiudere la partita della guerra civile una volta per tutte. Se adesso le truppe di Pompeo si fossero scagliate giù dalla collina, lo schieramento di Cesare – compresa la celebre Decima legione – quasi certamente non avrebbe retto. I soldati, non importa se reclute o veterani, sarebbero fuggiti per salvarsi la vita. Dopo essere smontato rapidamente da cavallo, Cesare sottrasse lo scudo a uno stupito legionario della retroguardia della Decima, quindi si fece largo tra le sue truppe, su per il pendio, fino alla prima linea in frantumi. Il suo stato maggiore, con il cuore in gola, scese da cavallo e si affrettò a seguirlo. Togliendosi l’elmo con la mano destra e gettandolo via così che chiunque potesse riconoscerlo, Cesare raggiunse l’avanguardia dello schieramento di attacco. A questo punto, secondo lo storico Plutarco, il condottiero si rivolse alle sue truppe, accennando col capo alle decine di migliaia di giovanissime reclute dell’esercito pompeiano, e poi esclamò: «Non vi vergognate a permettere che il vostro generale venga sconfitto da quei ragazzini?». Nel silenzio generale, Cesare lusingò i suoi uomini, li rimproverò, li incoraggiò. Eppure non uno dei legionari, ansimanti, coperti di sangue e grondanti sudore, avanzò di un passo. Più in alto, le truppe di Pompeo assistettero a questo spettacolo ridendo. A quel punto, secondo la ricostruzione dello storico Appiano, Cesare si girò e disse ai suoi ufficiali: «Se oggi falliremo, sarà la fine della mia vita, come pure delle vostre carriere». Quindi sguainò la spada e si avviò su per la collina, verso le linee di Pompeo, precedendo i suoi uomini di parecchi metri. Un ufficiale inferiore dell’esercito di Pompeo gridò e diede l’ordine ai suoi uomini – quelli nel raggio di azione di Cesare – di lasciar partire una raffica di dardi nella sua direzione. Stando ad Appiano, duecento giavellotti volarono verso la solitaria, inerme figura del condottiero. I soldati della Decima seguirono la scena trattenendo il respiro. Nessuno poteva sopravvivere a un simile tiro di sbarramento, neppure un uomo notoriamente fortunato come Giulio Cesare… 2. ALLA RICERCA DELLA GLORIA Nella primavera del 61 a.C., il personale del palazzo governativo di Cordova aspettava trepidante l’arrivo del nuovo governatore della provincia della Betica, detta anche «Spagna ulteriore». Probabilmente molti di questi funzionari avevano già servito sotto di lui otto anni prima, nel 69 a.C., quando era stato questore della provincia e suo capo amministratore contabile, agli ordini del governatore dell’epoca, il generale di divisione Antistio Vetere. Costoro avevano imparato a conoscerlo come un uomo dalla memoria eccezionale e con una straordinaria sensibilità ai dettagli. Il suo nome era Gaio Giulio Cesare, e all’età di trentotto anni stava per intraprendere una carriera che lo avrebbe consegnato per sempre alla storia. Quel giorno, un generale di piccola statura, magro e dal viso affilato scese da una lettiga e salì la scalinata del palazzo. Quasi certamente riconobbe gli uomini che non vedeva da otto anni, e li salutò per nome. Lo scorrere del tempo aveva diradato la sua capigliatura. Secondo Svetonio, Cesare, consapevole della sua crescente calvizie, si spazzolava i capelli in avanti, così da mascherarla in qualche modo (peraltro con scarso successo), e prese presto l’abitudine di indossare un parrucchino. Più tardi, durante le occasioni ufficiali, avrebbe esibito la corona di foglie di alloro che gli era stata conferita, con altri emblemi onorifici, dal senato. La sua carnagione era pallida e delicata, e sembrava che, nonostante tutto il tempo passato all’aperto, non si sarebbe mai scurita. Appiano afferma che il viaggio via terra di Cesare da Roma alla Spagna durò ventiquattro giorni. Qualcun altro si sarebbe concesso un periodo di riposo dopo tre settimane di cammino, ma l’impazienza era un segno distintivo del carattere di Giulio Cesare, che fremeva all’idea di lasciare la sua impronta sull’orbe terracqueo. Solo l’anno precedente, all’età di trentasette anni, era stato nominato pretore, una carica che, in termini militari moderni, equivaleva a quella di generale di divisione. Molti dei suoi contemporanei avevano raggiunto il pretorato otto anni prima di lui. Quanto al suo grande rivale, Pompeo Magno, era diventato un famoso generale all’età di ventitré anni. Cesare, oltretutto, aveva sempre davanti agli occhi l’esempio di Alessandro Magno, il re macedone che aveva conquistato gran parte del mondo conosciuto quando non aveva ancora trent’anni. Svetonio ci riferisce che il generale romano, durante il suo primo incarico in Spagna, mentre ammirava una statua di Alessandro Magno a Cadice, si lamentò con il suo seguito che Alessandro, alla sua età, aveva già fondato un impero. Deciso a recuperare il tempo perduto, Cesare incaricò subito il suo capo di stato maggiore, Lucio Cornelio Balbo, di arruolare una nuova legione nella Spagna ulteriore. Balbo, che era di Cadice, gli ricordò che c’erano già due legioni di stanza nella provincia – l’Ottava e la Nona –, acquartierate una accanto all’altra nei pressi di Cordova. Cesare, solitamente bene informato, non poteva ignorare tale circostanza, tantomeno che entrambe le unità erano state costituite in Spagna da Pompeo quattro anni prima. Sia l’Ottava che la Nona, infatti, erano le ultime delle sette legioni che Pompeo, forte dell’approvazione senatoriale, aveva creato nel 65 a.C. Ciò nonostante, i progetti di Cesare richiedevano tre legioni; di conseguenza, insistette per l’immediata costituzione di un nuovo reparto nella provincia ispanica. Ben presto gli ufficiali reclutatori si sparpagliarono per tutta la Betica (grosso modo l’attuale Andalusia), arruolando migliaia di giovani. Nel giro di qualche giorno, le reclute furono radunate a Cordova. Seguendo la numerazione adottata da Pompeo, Cesare diede alla nuova unità il numero dieci. Nacque così la Decima legio. Come emblema della Decima fu scelto il toro, un simbolo molto popolare in Spagna, allora come oggi: sarebbe apparso sullo scudo di ciascun soldato della legione, come pure sui vessilli dell’unità. I romani credevano fermamente nei poteri dello zodiaco e nelle capacità predittive degli oroscopi, al punto che il segno astrologico corrispondente alla data di nascita di un reparto era mostrato in tutte le sue insegne. Tuttavia, nel caso della Decima legione, che sembra essersi costituita a marzo, l’emblema avrebbe dovuto essere il pesce dell’omonima costellazione, oppure l’ariete. Cesare si interessò personalmente alla nomina dei sei tribuni della Decima, tutti giovani colonnelli tra i diciassette e i vent’anni, come pure a quella degli ufficiali inferiori, i sessanta centurioni della legione. Entro trent’anni il ruolo del tribuno sarebbe cambiato, ma per il momento i tribuni nominati da Cesare si sarebbero divisi il comando dell’unità. A rotazione, uno di loro sarebbe stato il comandante in capo, mentre ciascuno degli altri cinque avrebbe avuto ai suoi ordini due delle dieci coorti (battaglioni) della Decima. Tutti costoro appartenevano all’ordine equestre, una classe di cavalieri la cui importanza era seconda solo a quella del senato romano. Naturalmente, i membri dell’ordine equestre provenivano da famiglie molto agiate e influenti, che avevano assicurato loro un’ottima educazione. Dal punto di vista di Cesare, tuttavia, la spina dorsale dell’esercito era il centurione; non a caso, sarà proprio su questa figura che farà particolare affidamento nel corso della sua carriera. Durante i sanguinosi scontri in Gallia, una decina di anni più tardi, avrebbe incoraggiato i suoi centurioni chiamandoli per nome a uno a uno. E ben presto, oltre ai loro nomi, avrebbe imparato a riconoscere anche i loro punti di forza e di debolezza. Insomma, Cesare pensava che il proprio futuro fosse nelle mani dei centurioni. Se costoro si fossero comportati bene, tutta la legione si sarebbe comportata bene. E se la legione si fosse comportata bene, la reputazione dei suoi generali sarebbe salita alle stelle. I centurioni nominati da Cesare per la Decima provenivano dall’Ottava e dalla Nona legione. Il capo centurione era l’ex centurione «semplice» con la maggiore anzianità di servizio; tutti gli altri, divisi in undici gradi intermedi, provenivano direttamente dai ranghi delle truppe. Non era insolito per un legionario essere promosso centurione dopo quattro anni di servizio come soldato semplice. I centurioni controllavano le vite dei loro uomini, facendo rispettare la disciplina con metodi talvolta brutali. Tacito racconta di un centurione di stanza nei Balcani durante il I secolo d.C., che era stato soprannominato dalle sue truppe «Portatemene un altro!», perché quando spezzava il suo bastone sulla schiena di un legionario indisciplinato, ruggiva affinché gliene procurassero subito uno nuovo. E così, adesso Cesare aveva la sua Decima legio. Sei tribuni, tutti giovani e di buona famiglia. Sessanta centurioni, tutti provenienti dai ranghi dell’esercito. E 5940 fra soldati e sottufficiali. Ai tempi di Cesare, infatti, le dieci coorti di una legione contavano ciascuna seicento uomini. Ogni legionario era un coscritto tra i diciassette e i vent’anni, che avrebbe prestato servizio per un sedicennio. L’altezza media era di cinque piedi e quattro pollici (circa un metro e sessantacinque); un modesto dato fisico che dipendeva soprattutto dal regime alimentare in auge tra i legionari, basato essenzialmente sul pane. La carne e le verdure erano considerati meri integratori, mentre le patate, i pomodori, le banane e il caffè erano del tutto sconosciuti. Eppure, a dispetto della loro bassa statura, i legionari di Roma erano combattenti di prim’ordine. Dopo un duro addestramento al mestiere delle armi, potevano marciare per venticinque miglia al giorno portandosi sulle spalle un peso di un centinaio di libbre (circa cinquanta chili). La riforma dell’addestramento militare, promossa dal console Gaio Mario quarant’anni prima, contemplava corse su lunghe distanze con tutto l’equipaggiamento. Gli uomini della Decima dovevano essere in perfetta forma fisica, non solo perché negli anni a venire avrebbero percorso migliaia di miglia, ma anche perché alcuni dei loro scontri ravvicinati con il nemico non sarebbero certo durati qualche ora, ma giorni interi. Fin dall’inizio, tutte le vecchie competenze «civili» dei giovani della Decima furono utilizzate pienamente. I fabbri si trasformarono in armaioli, i carpentieri si specializzarono nella costruzione delle macchine da guerra e da assedio, i ciabattini si occuparono delle calzature militari, coloro che sapevano leggere e scrivere divennero degli addetti all’amministrazione. E se non avevi una specializzazione, ci pensava l’esercito a dartene una. Potevi lavorare come geniere, o prestare servizio nelle squadre di manutenzione delle strade, o diventare un inserviente alle macchine da guerra. Ma quando le trombe davano il segnale di prepararsi alla battaglia, dovevi inquadrarti immediatamente nella tua coorte come tutti gli altri, armi in pugno e pronto a scendere in azione. Una volta che la Decima legione fu organizzata, equipaggiata e sufficientemente addestrata, Cesare la affiancò all’Ottava e alla Nona (due unità di veterani), ordinando che lasciassero Cordova, attraversassero il Guadalquivir e si dirigessero a nord, verso l’odierno Portogallo. Questa parte della penisola iberica – la Lusitania, come la chiamavano i latini – doveva ancora essere sottomessa all’autorità di Roma. Le sue colline sbarravano il passo ai nuovi conquistatori; le sue tribù resistevano ferocemente a ogni tentativo di penetrazione. Scarsamente armati e organizzati, i gruppi tribali della Lusitania fornivano un’occasione d’oro a un comandante esperto e ambizioso come Giulio Cesare. Non stupisce, quindi, che Cesare avesse preparato meticolosamente la sua campagna. Durante i mesi che seguirono, il condottiero guidò la sua armata di 18000 legionari e diverse centinaia di cavalieri (appoggiati da macchine da assedio, migliaia di carri per le vettovaglie e gli armamenti, bestie da soma e mulattieri) attraverso le vallate del Portogallo. Gli uomini della spedizione presero d’assalto una collina fortificata dopo l’altra, metodicamente, brutalmente, liquidando ogni tentativo di resistenza. Entrando in azione prima dell’alba, i soldati di Cesare ponevano l’assedio alle città della Lusitania che si rifiutavano di arrendersi; poi, dopo essersi lasciati alle spalle solo rovine fumanti, proseguivano fino al prossimo obiettivo, marciando per circa sei ore; infine, a mezzogiorno, si fermavano per allestire il campo dove avrebbero trascorso la notte. Mentre gli ausiliari si procuravano cibo, foraggio e legna da ardere, i legionari estraevano dagli zaini i loro attrezzi e approntavano un campo fortificato – un nuovo campo ogni giorno, quando erano impegnati in una campagna. Protette da reparti di fanteria e cavalleria, le unità che dovevano tracciare o spianare la strada (al comando di un tribuno) precedevano il grosso dell’esercito, sceglievano un sito elevato e lo ripulivano; dopodiché, avvalendosi di specifici indicatori per le strade e le tende, lo delimitavano come sede del nuovo accampamento, secondo un modello che rimarrà inalterato per secoli. Trascorsi pochi mesi, quando il resto dell’armata giungeva in loco, i legionari erano in grado erigere il loro campo praticamente a occhi chiusi. Mentre una coorte proveniente da ciascuna legione montava la guardia, gli altri soldati scavavano una trincea attorno al sito, usando il materiale rimosso per alzare un terrapieno che circondasse tutto il fossato. Polibio, al quale dobbiamo ricostruzioni molto dettagliate dei campi legionari, riporta che di solito il terrapieno era alto dodici piedi (circa tre metri e mezzo), mentre il fossato, altrettanto profondo, era largo tre piedi (quasi un metro). Cesare preferiva che quest’ultimo fosse largo quindici piedi (più di quattro metri). Dopo aver abbattuto il numero necessario di alberi, i legionari munivano il campo di quattro cancelli di legno e di altrettante torri di guardia, che avrebbero bruciato l’indomani prima di riprendere il cammino. I congegni balistici erano collocati lungo il parapetto. Il bestiame, il bottino e i prigionieri occupavano uno spazio di duecento piedi (quasi settanta metri) tra il terrapieno e le tende: una distanza attentamente calcolata per evitare che frecce incendiarie potessero mandare a fuoco gli alloggiamenti del campo. Il praetorium – la tenda del quartier generale di Cesare – veniva allestito per primo, poi veniva il turno delle tende dei suoi vice (compreso il generale Balbo, capo di stato maggiore), seguite dagli alloggi individuali dei tribuni e dei centurioni. Fatto questo, si passava alle officine, alla fureria e al mercato del campo. Per ultime venivano le tende dei soldati, ciascuna delle quali ospitava dieci uomini. In origine queste tende, disposte lungo gli spazi assegnati a ciascuna coorte, erano ricavate da pelli animali, ma a partire dal I secolo le pelli furono accantonate in favore della tela di canapa. Mentre lavorava all’allestimento del campo, un legionario poteva liberarsi di scudo, giavellotto, elmo e zaino, ma non di lorica, spada e pugnale. In questo modo, sarebbe sempre stato pronto a scendere in azione nel caso di un improvviso attacco nemico. Chi contravveniva a questa disposizione rischiava la pena di morte. Una volta che l’accampamento era completato – o sbocciato rapidamente come una piccola città, per citare Giuseppe Flavio –, le sentinelle raggiungevano i loro posti e iniziavano un turno di guardia di tre ore, sotto il controllo di quattro soldati della cavalleria legionaria, incaricati di fare rapporto nel caso una sentinella si assentasse o si addormentasse (due condotte punite entrambe con la pena capitale). La spedizione in Lusitania costituì un perfetto «battesimo del fuoco» per le giovani reclute della Decima legione. La fatica quotidiana di allestire un nuovo campo dopo avere marciato per venticinque miglia; la disciplina di ferro e le punizioni brutali; queste e altre esperienze contribuirono al rapido apprendistato militare della Decima, temprandola e indurendola ancora prima che si scontrasse con le tribù del Portogallo. In Lusitania molti legionari uccisero il loro primo uomo, imparando a obbedire agli ordini di Cesare senza fiatare. La rigida disciplina inculcata dai centurioni stava dando i suoi frutti. In quei mesi della primavera e dell’estate del 61 a.C., marciando, scavando fossati, partendo alla carica, abbattendo porte di città e fortezze con gli arieti, appoggiando scale alle mura nemiche e salendoci sopra per scavalcare l’ostacolo, scatenandosi come una tempesta su borghi e villaggi, passando a fil di spada chiunque si parasse loro davanti, i giovani inesperti della Decima si trasformarono in soldati. E la loro legione, in una macchina di morte. Durante quei pochi, roventi mesi, la Decima legione aiutò Cesare a sottomettere le tribù della penisola iberica occidentale tra i fiumi Tago e Duero – entità tribali come i galleci e i lusitani (che avevano dato il nome alla regione) –, e ad aprirsi la strada verso la costa nordoccidentale dell’Atlantico, «l’Oceano», come lo chiamavano i romani. Le città caddero una dopo l’altra, e migliaia di indigeni furono uccisi o fatti prigionieri. Questi ultimi vennero venduti ai mercanti di schiavi che seguivano le legioni. Accanto a loro, le truppe di Cesare erano accompagnate da commercianti e prostitute che si guadagnavano da vivere grazie alle legioni, oltre che da mogli de facto e figli illegittimi dei soldati e dai servitori personali degli ufficiali. Spesso il loro numero superava quello delle truppe alle quali si accodavano. Secondo le regole di saccheggio in uso nell’esercito romano, il bottino di una città espugnata andava diviso tra i legionari. Ma se una città si arrendeva, erano i generali che dovevano decidere in totale autonomia le modalità di distribuzione. A costoro spettava anche il compito di stabilire se i prigionieri andassero giustiziati o venduti come schiavi. Per quanto riguarda i guadagni di quest’ultima attività, Tacito riporta che il denaro ottenuto dalla vendita dei nemici «combattenti» andava ai legionari; mentre quello ricavato dalla vendita dei prigionieri «civili», no. A ogni modo, generali scaltri come Cesare si assicuravano sempre che alle truppe non mancasse mai, in alcuna circostanza, una parte di bottino. Molti prigionieri venduti come schiavi sarebbero morti in condizione servile; ma alcuni di loro, più fortunati, avrebbero riottenuto la libertà grazie a padroni generosi. Spesso erano le volontà testamentarie del proprietario a stabilire che uno o più schiavi fossero liberati. Del resto, i romani più facoltosi potevano contare su almeno 20000 schiavi, divisi tra innumerevoli proprietà; sicché rinunciare a cento o duecento tra costoro non era poi un gran sacrificio. Talvolta capitava che alcuni prigionieri di guerra fossero condannati alla schiavitù per un preciso periodo di tempo, di solito trent’anni. Quanto ai mercanti di schiavi, conducevano un’esistenza pericolosa, accampati in tende prive di difesa all’esterno dei campi fortificati delle legioni. Come testimoniato più volte durante il I secolo, non era raro che gli accampamenti degli schiavisti venissero attaccati e distrutti dai nemici dell’esercito romano. Quando, nell’autunno del 61 a.C., l’Ottava, la Nona e la Decima legione ritornarono vittoriose ai loro quartieri invernali fuori Cordova, con poche perdite e un cospicuo bottino, Cesare non solo fu salutato dalle sue truppe come un magnifico condottiero, ma tornò a Roma con la fama dell’eroe. Dopo appena un anno in Spagna ulteriore, il generale si congedò dalla Decima, andando senza dubbio a salutare di persona tutti i centurioni. Quindi organizzò una parata delle truppe, nel corso della quale, assiso sul tribunal del campo (la piattaforma situata di fronte agli alloggi dei tribuni, utilizzata per tenere discorsi o amministrare la giustizia), ringraziò i soldati delle tre legioni per il loro coraggio e la loro lealtà. Un ringraziamento particolare andò alla Decima, che Cesare considerava ormai la sua legione. Alla luce di quel che accadde in seguito, è probabile che il generale abbia promesso agli uomini della Decima che, se avesse ancora avuto l’opportunità di comandare truppe al servizio di Roma, senza dubbio si sarebbe rivolto a loro, e non solo per utilizzarli come avanguardia dell’esercito, ma anche come proprie guardie del corpo. Così, Cesare lasciò il campo legionario e si apprestò a tornare a Roma, sempre via terra, con gli «evviva!» dei suoi soldati che gli risuonavano nelle orecchie. Appena rientrato nella capitale, il generale si trovò ad affrontare un dilemma. Dal suo punto di vista, lo straordinario successo militare conseguito in Spagna lo rendeva degno di un «trionfo», ovvero di uno dei riconoscimenti più prestigiosi che un generale romano potesse ricevere. Durante il trionfo, il condottiero percorreva le strade di Roma su un cocchio dorato tra due ali di folla esultante, seguito dalle sue truppe e dal bottino di guerra. Di conseguenza, Cesare inviò dei messi per chiedere che il senato gli concedesse tale onore. La risposta fu che poteva godersi un trionfo o correre per la carica di console, ma non entrambe le cose. Prima di vedersi assegnato un trionfo, il candidato doveva aspettare fuori dalle mura di Roma che il senato decidesse in merito. Per essere eletto console, al contrario, il candidato doveva restare in città. Costretto a scegliere tra consolato e trionfo, Cesare optò per il primo. Nella tarda età repubblicana, i due consoli nominati annualmente costituivano la più alta autorità romana; e il motto di Cesare era: «Il potere prima della gloria». Così, al termine di un’elezione molto combattuta, il condottiero conseguì il consolato nel 59 a.C., diventando l’equivalente antico di un generale di corpo d’armata. Cesare, tuttavia, non aveva ancora finito con la Decima legione. Anzi, il loro rapporto era appena agli inizi. 3. ELVEZI E GERMANI Cesare rimase pensieroso un istante, mentre osservava i visi impolverati degli esploratori della cavalleria. Si sarebbe ricordato per tutta la vita di quel giorno ricco di eventi, e ne avrebbe scritto nelle sue memorie. Si rivolse al suo furiere e gli domandò: «Quanti giorni ancora dureranno le razioni degli uomini?». «Due giorni» rispose il furiere. Cesare annuì. Un esploratore lo aveva informato che si trovavano a diciassette miglia da Bibracte, la capitale della tribù degli edui. Un altro ricognitore aveva aggiunto che l’imponente colonna della tribù svizzera degli elvezi, che avevano inseguito per settimane attraverso la Francia orientale, era ancora accampata, come il giorno prima, a tre miglia di distanza dall’esercito romano. «Marceremo su Bibracte» annunciò Cesare; dopodiché chiamò il generale di divisione Tito Labieno – poco più che trentenne e comandante in seconda – per informarlo della sua intenzione di assicurarsi gli approvvigionamenti necessari dagli edui, ancora prima di affrontare gli elvezi. Detto questo, ordinò che le trombe suonassero il «prepararsi alla marcia». Correva l’estate del 58 a.C., e Giulio Cesare aveva mantenuto la promessa fatta alla Decima legione. All’inizio dell’anno, appena nominato governatore della Gallia cisalpina e dell’Illirico, aveva ricevuto dal senato l’incarico di badare anche alla Gallia transalpina, dopo la morte del suo governatore. Così, Cesare aveva richiamato la Decima dalla Spagna, acquartierandola nella Francia meridionale. Allo stesso tempo, forte dell’autorizzazione senatoriale (propiziata da Pompeo) a disporre liberamente di quattro legioni per cinque anni, il condottiero aveva raccolto le altre due unità che aveva comandato tre anni prima – l’Ottava e la Nona – e, in compagnia della Settima (l’ennesimo reparto ispanico istituito da Pompeo), le aveva accampate ad Aquileia, nell’Italia nordorientale, in modo tale che si trovassero a metà strada tra le sue province. Ma prima che l’inverno fosse trascorso, Cesare aveva ricevuto la notizia che la popolosa tribù svizzera degli elvezi stava migrando alla volta della Gallia meridionale, dove Roma possedeva una grande e prosperosa provincia. Gli elvezi avevano inviato messaggi a tutti i loro clan, nonché a quattro tribù intenzionate a unirsi alla migrazione, affinché si raccogliessero sulle sponde del Rodano il 28 marzo, per poi penetrare in Francia attraverso il ponte di Ginevra. Ma Cesare era risoluto a fermarle. Il condottiero romano non perse tempo: raggiunse Ginevra con la Decima legione, distrusse il ponte sul Rodano e fece erigere dai soldati un terrapieno alto sedici piedi (quasi cinque metri) e lungo diciotto miglia. Questo vallo difensivo costeggiava il Rodano dal lago di Ginevra al massiccio del Giura. Gli elvezi tentarono per settimane, con il favore delle tenebre, di attraversare il fiume su barche e zattere, o anche semplicemente nuotando, ma le legioni romane e il terrapieno si rivelarono un ostacolo insuperabile. Visto l’insuccesso dei loro tentativi, gli elvezi furono costretti a scegliere un’altra via, tra il Rodano e il massiccio del Giura: un percorso che li portò a sciamare nel territorio degli edui della Francia orientale (l’odierna Borgogna, tra la Saona e la Loira). Gli edui chiesero aiuto a Cesare per respingere gli invasori, e lui non tardò a rispondere. Dopo aver reclutato velocemente due nuove legioni nell’Italia settentrionale (l’Undicesima e la Dodicesima), le riunì ai reparti già costituiti e marciò alla volta della Francia meridionale per dare battaglia agli elvezi. I suoi piani iniziali furono però compromessi dall’errore di un soldato. Cesare aveva tallonato per settimane la retroguardia della poderosa colonna degli elvezi, preoccupandosi di rimanere sempre a cinque o sei miglia di distanza dal nemico, in attesa del momento propizio per sferrare l’attacco. A un certo punto, gli elvezi si accamparono ai piedi di una grande collina. Una pattuglia di cavalleria, di ritorno da una perlustrazione sul versante opposto del pendio, informò il condottiero che non sarebbe stato difficile inerpicarsi lassù. Così, poco dopo mezzanotte, Cesare inviò il generale Tito Labieno e due legioni a scalare la collina, mentre lui l’avrebbe assaltata dalla parte opposta con le altre quattro legioni. Il condottiero spedì avanti la sua cavalleria e, ancora più in avanscoperta, una pattuglia comandata da un ufficiale di nome Publio Considio. Poco dopo l’alba, Cesare si trovava a solo un miglio e mezzo dalla collina, quando Considio lo raggiunse al galoppo e gli urlò con il fiato in gola: «Torna indietro, Cesare! Il nemico occupa la cima del rilievo; ho riconosciuto le loro armi e i cimieri degli elmi». Uno dei più stretti aiutanti di Cesare, l’alto ufficiale (e futuro generale) Gaio Asinio Pollione, avrebbe scritto in seguito che il suo superiore aveva l’abitudine di accettare i rapporti dei subordinati senza alcuna verifica. Così avvenne anche quella volta: messo sull’avviso da Considio, Cesare si ritirò e si assestò su un altro pendio. Solo più tardi, quello stesso giorno, si accorse che erano le legioni di Labieno a occupare la cima del colle, non il nemico. Cesare ricorda che Labieno lo aspettò per tutto il giorno sulla collina, prima di essere costretto a ritirarsi. In proposito, Plutarco sostiene che Labieno si scontrò effettivamente con il nemico, ma il racconto fatto da Cesare di questa sfortunata operazione appare più credibile. Tito Labieno pretese qualche spiegazione, quando si riunì con il suo comandante in capo. Ottimo soldato, energico, intuitivo, provvisto di un eccellente senso tattico, Tito era altresì noto per il suo sarcasmo, che di solito riservava ai ranghi più bassi. Stando alle sue memorie, Cesare disse bruscamente a Labieno: «Considio ha perso la testa. Mi era stato raccomandato come un ufficiale di classe superiore, che aveva servito sotto Silla e Crasso. Ma oggi mi ha riferito di aver visto qualcosa che in realtà non aveva visto». Le legioni si erano allontanate dalla colonna degli elvezi e si stavano dirigendo verso Bibracte per rifornirsi di grano dagli edui, quando il colonnello Lucio Emilio, comandante della cavalleria gallica, si staccò dalla retroguardia e raggiunse Cesare al galoppo. «Gli elvezi ci stanno seguendo» disse Emilio. «La loro cavalleria sta impegnando le mie unità, e l’intera colonna nemica è in movimento sulla strada per Bibracte dietro di noi.» Cesare si precipitò verso la retroguardia dell’esercito e vide con i suoi occhi la polvere sollevata a est dai piedi, dagli zoccoli e dai carri degli elvezi, che li seguivano a decine di migliaia. Valutata la situazione, il condottiero ordinò a Lucio Emilio di radunare tutta la cavalleria e di tenere testa al nemico, così che le legioni avessero tempo di prepararsi alla battaglia. Dopo che i suoi 4000 cavalieri, reclutati nella Francia centrale e meridionale, si furono allontanati con il colonnello, Cesare scelse una collina erbosa lì vicino per schierare la sua prima linea, e in un’improvvisata conferenza a dorso di cavallo concordò con gli altri generali la disposizione complessiva delle truppe. Presto le trombe squillarono, gli stendardi si inclinarono; e le legioni, lasciata la strada, si diressero verso la collina. La Decima e altre tre unità ispaniche (la Settima, l’Ottava e la Nona) si schierarono su tre linee a metà del colle. Le due nuove legioni (l’Undicesima e la Dodicesima) presero posizione sulla cima del rilievo insieme agli ausiliari – Cesare non riponeva grande fiducia in questi reparti. I veterani delle vecchie legioni occuparono la terza linea e cominciarono a scavare freneticamente dei fossati attorno ai carri delle vettovaglie. Gli zaini di tutti i soldati dell’armata furono accatastati in un unico recinto. Mentre formavano le linee e preparavano le trincee, i legionari potevano vedere gli elvezi occupare senza fretta la pianura di fronte a loro. Tra gli uomini della Decima schierati in prima linea c’era il centurione Gaio Crastino. Con il grado evidenziato da un pennacchio di piume d’aquila sull’elmo, gli schinieri di metallo sugli stinchi, la spada agganciata al fianco sinistro anziché a quello destro (a differenza dei coscritti), il centurione Crastino era stato in servizio nell’Ottava o Nona legione nel 65 a.C., quando Pompeo Magno aveva costituito nuove unità in Spagna. Poi era approdato alla Decima all’epoca della sua creazione, quattro anni più tardi, assumendo il grado di centurione «semplice». Era stato Cesare a sceglierlo personalmente. Adesso, all’età di ventisette anni, comandava una coorte di seicento uomini. Crastino, senza dubbio, conosceva molto bene il suo mestiere. Era un combattente temerario, ma c’era voluto ben più del coraggio per conquistare la stima e il rispetto dei suoi uomini. Il fatto è che Crastino si interessava al loro benessere, sia prima che dopo una battaglia, e non si stancava mai di incoraggiarli. Poche settimane prima, le legioni avevano sventato un nuovo tentativo degli elvezi di attraversare un fiume; non più il Rodano, stavolta, bensì la Saona. In quell’occasione Crastino, fedele al suo modo d’essere, era corso da un manipolo all’altro della sua coorte, per esortare e galvanizzare i suoi uomini. Immobile all’estrema sinistra della prima linea, Crastino probabilmente rifletteva sulla stessa questione che preoccupava i suoi soldati, quando avevano visto gli elvezi attestarsi nella pianura. Qualche tempo dopo, i romani avrebbero trovato nel campo avversario un registro, scritto in greco, contenente i nomi di 368 000 uomini, donne e bambini che avevano partecipato alla migrazione dalla Svizzera. E adesso, gran parte di costoro era lì sotto. Intanto gli elvezi a cavallo erano riusciti a disperdere Lucio Emilio e la sua cavalleria, dandole la caccia per tutta la pianura, mentre il grosso delle loro truppe si stava avvicinando – con tanto di carri – alla collina. I vecchi, le donne e i bambini degli elvezi ammassarono i veicoli alla base del colle, mentre i loro uomini, suddivisi per clan di appartenenza, si disponevano in solide e profonde falangi d’attacco. Gli avversari dei romani portavano il tradizionale elmo piumato delle tribù galliche (il loro cimiero ricordava la coda di un cavallo), una piccola corazza e una lancia della lunghezza di dodici piedi (circa tre metri e mezzo). Gli elvezi erano celti, di costituzione più robusta rispetto a quella romana, molto coraggiosi e ottimi conoscitori dell’arte della guerra. In passato avevano già sconfitto i soldati di Roma, e confidavano di poterlo fare anche oggi. Quando Crastino guardò giù dal pendio, vide Cesare scendere da cavallo e allontanare l’animale. Come da istruzioni ricevute, tutti i suoi ufficiali fecero lo stesso. Il centurione stimava profondamente Giulio Cesare fin dai tempi della Spagna, ed era convinto che fosse un uomo eccezionale, destinato a grandi imprese. Di conseguenza, Crastino capì subito che Cesare, con quel gesto, aveva voluto lanciare un messaggio inequivocabile: ora tutte le truppe romane, dagli ufficiali superiori all’ultimo dei soldati semplici, affrontavano gli stessi pericoli su un piede di parità. Se l’intelligenza di Crastino era pari al suo coraggio, sicuramente egli non avrebbe apprezzato alcuni generali di Cesare assai meno di Cesare stesso. Infatti, molti ufficiali superiori presenti sul campo erano semplici emissari del senato, di dubbia preparazione militare, che Cesare era stato costretto a prendere con sé. Era facile riconoscerli dai loro mantelli scarlatti. C’erano quelli che camminavano nervosamente avanti e indietro; altri che confabulavano con i loro aiutanti; altri ancora – non più di un paio – che brandivano risolutamente gli scudi. Anche se la campagna era iniziata solo da pochi mesi, Crastino aveva già catalogato i vizi e le virtù di ciascun componente dello stato maggiore di Cesare. Labieno, il comandante in seconda: un generale dannatamente in gamba a dispetto della sua lingua tagliente, impassibile di fronte al pericolo, capace di capire al volo sia i rischi che le opportunità. Galba: troppo sicuro di sé, meschino, ambizioso. Pedio, congiunto di Cesare: giovane, ma competente e affidabile. Sabino: sciocco, ingenuo, troppo incline a non correre rischi; l’uomo sbagliato al posto sbagliato. Cotta: testardo, polemico, ma ufficiale provetto. Crasso, il figlio minore del console Crasso che aveva liquidato Spartaco e il suo esercito di schiavi: un ragazzo amabile, intelligente, con un grande futuro davanti a sé. E infine Balbo, il capo di stato maggiore: un provinciale della Spagna ulteriore, di famiglia molto benestante, leale, affidabile, gran organizzatore e abile mediatore. Destinato più tardi a diventare segretario privato di Cesare (nonché, alla morte di questi, curatore dei suoi scritti), sarà eletto console nel 40 a.C.: primo provinciale ad assumere questa carica. Quando Crastino gettò una rapida occhiata a destra, vide le facce dei suoi uomini perfettamente schierati: le espressioni risolute, gli occhi fissi alla pianura, qualche viso esangue per la tensione. Il vento frusciava tra i cimieri gialli, di crine di cavallo, che adornavano i loro elmi; il sole brillava sulle decorazioni al valore che, per ordine di Cesare, avevano indossato per intimidire i celti; gli scudi erano pronti al braccio sinistro di ogni soldato. Polibio ci racconta che lo scudo legionario – di forma rettangolare e leggermente incurvato – aveva lo spessore di un palmo, era alto quattro piedi (poco più di un metro) e largo due piedi e mezzo (quasi ottanta centimetri). Era costituito da due strati di legno ricoperti di canapa e pelle di vitello; la borchia metallica al centro era fissata al manico sul retro. Ogni scudo della Decima recava dipinto l’emblema del toro. Ciascun soldato brandiva due giavellotti con la mano destra, in attesa di scagliarli. La spada pendeva dal fianco destro. Una volta che i giavellotti fossero stati lanciati, Crastino avrebbe ordinato ai legionari di sguainare la spada, in vista del probabile corpo a corpo con il nemico. Se Crastino avesse rivolto lo sguardo al cielo, si sarebbe accorto che il sole era perfettamente perpendicolare alla sua testa. Passando in rassegna la prima linea, Cesare arringò le sue truppe. Sopra di lui, la collina era occupata da 40 000 uomini. Il condottiero aveva già tenuto innumerevoli discorsi pubblici, e in futuro avrebbe persino scritto un libro sull’argomento. Scelse ogni parola con cura, modulando attentamente il tono della voce affinché tutti, compresi i ranghi più lontani, potessero sentirlo con chiarezza. Lodò i soldati, e chiese loro l’ennesima vittoria. Deve essere stato un discorso breve, visto che gli elvezi, dopo aver accorpato le falangi in un unico denso gruppo di lancieri, stavano già avanzando verso la collina. La falange – uno schieramento che gli antichi eserciti greci avevano portato alla perfezione – si basava essenzialmente su due punti di forza. L’originale modello ellenico era costituito da sedici file di soldati, tali da creare un muro di lance che sporgevano dalla prima linea, simili agli aculei di un porcospino, per otto piedi, circa due metri e mezzo. All’interno di questa formazione a ranghi serrati, gli uomini univano strettamente i loro scudi, erigendo una barriera protettiva quasi impenetrabile dalla prima all’ultima fila. Non sappiamo quanto fosse profonda la falange degli elvezi, ma data la quantità di guerrieri a disposizione, doveva trattarsi di uno spiegamento di tutto rispetto. Cesare si ritirò dietro la sua seconda linea e attese che la falange cominciasse a muoversi a passo d’uomo su per le prime balze della collina, verso il fronte romano; dopodiché, impartì un ordine. Urlando a squarciagola, migliaia di legionari scagliarono i loro giavellotti. Dopo pochi istanti, un’altra salva sibilò nel cielo. Mentre si inerpicavano sul pendio, con la collina sopra di loro infestata di legionari e il cielo punteggiato di giavellotti, gli elvezi alzarono istintivamente gli scudi per proteggersi dai dardi nemici: manovra inutile, come si accorsero ben presto. Quarant’anni prima, il console Mario aveva rivoluzionato il giavellotto romano, forgiandolo in un metallo leggero (tranne la punta). Quando l’arma colpiva il bersaglio, il peso dell’asta la faceva ondeggiare, distorcendola fino a renderla inutilizzabile. In questo modo, come gli elvezi capirono quel giorno, il giavellotto non poteva essere rispedito indietro, tantomeno estratto dallo scudo che aveva colpito. Ancora peggio, visto che gli elvezi tenevano gli scudi accostati, ogni giavellotto poteva infilzarne più d’uno, «inchiodandoli» assieme. Fu così che la falange elvetica si sfaldò al primo tiro di sbarramento. Cesare impartì un altro ordine. Fece inclinare la sua bandiera e ingiunse alle trombe della prima linea di suonare la carica. Con un ruggito, la prima fila legionaria si scagliò giù dalla collina con le spade sguainate. Molti elvezi cercarono disperatamente di rimuovere i giavellotti dai loro scudi; non riuscendoci, se ne liberarono, restando praticamente indifesi. Facendosi largo tra le lance nemiche (numerosissime ma assai poco maneggevoli), i legionari fecero a pezzi i celti, infliggendo loro terribili lesioni al collo, alle spalle, alle braccia e al torace. Malgrado le loro ferite e il numero dei caduti che aumentava sempre di più, gli elvezi si difesero coraggiosamente, ma alla fine dovettero cedere terreno e ritirarsi dalla collina, aprendosi la strada armi in pugno e arretrando per un miglio. Dopo aver lasciato l’Undicesima e la Dodicesima legione a guardia delle vettovaglie, Cesare ordinò alle tre linee più avanzate di inseguire il nemico a passo di marcia e in formazione di battaglia. Ma appena le truppe romane si avvicinarono al loro obiettivo, 15 000 uomini appartenenti ai clan dei boi e dei tulingi, che fino a quel momento erano rimasti nella retroguardia, si avventarono sul fianco destro dello schieramento avversario. Incoraggiati da questo attacco a sorpresa, gli elvezi ricomposero le loro fila e tornarono a farsi sotto. Cesare reagì velocemente e risolutamente alla nuova minaccia, ordinando alla prima e alla seconda linea romana di impegnare il grosso delle forze avversarie, mentre la terza linea si sarebbe precipitata sul fianco destro per respingere i boi e i tulingi. Con uno squillo di tromba, le legioni caricarono su due fronti. Più e più volte partirono all’assalto, in una lunga serie di cariche. Lo scontro andò avanti per tutto il pomeriggio. Neppure un guerriero elvetico si voltò per fuggire, ma a poco a poco le unità dei celti furono isolate e costrette alla ritirata. Un analogo destino toccò anche agli elvezi rimasti sulla collina: incalzati dagli uomini del centurione Crastino, dovettero arretrare precipitosamente. Quanto ai nemici sul fianco destro, ci pensarono i soldati delle altre legioni a farli retrocedere fin dove avevano ammassato i loro carri. Sulla collina, la Decima legione e le altre unità romane cessarono di combattere al tramonto. Al contrario, gli scontri attorno alla zona dei carri si protrassero per parte della notte, con gli elvezi, asserragliati sui veicoli, che si difendevano con lance e picche. Alla fine, tuttavia, le legioni riuscirono a sfondare. Tutti i beni e le vettovaglie della tribù caddero in mano romana, come pure parecchi «non combattenti» e alcuni fanciulli della nobiltà elvetica. Il bottino fu diviso tra le legioni. Più tardi si stimò che quella notte 130000 elvezi erano riusciti a scappare dal teatro della battaglia. Quanto ai caduti, fu impossibile contarli: erano troppi. A Cesare occorsero tre giorni per curare i feriti e seppellire i morti di entrambi gli schieramenti; dopodiché riprese a inseguire quel che rimaneva degli elvezi. Il centurione Crastino era al comando dei suoi uomini della Decima quando, lungo la strada, la colonna romana fu avvicinata da alcuni ambasciatori del nemico. Allorché furono condotti alla presenza di Cesare, costoro si prostrarono di fronte a lui e, in lacrime, lo supplicarono di cessare le ostilità. Il condottiero ordinò loro di ricomporsi e di aspettare le sue decisioni. Gli elvezi obbedirono, e l’esercito romano li ritrovò mentre attendevano ansiosamente a qualche miglio di distanza. Adesso la loro gente viaggiava a piedi: donne, vecchi, bambini, guerrieri sopravvissuti; non uno che non fosse stanco, affamato, infangato, e sconfitto. Le legioni li guardarono in silenzio deporre le armi, restituire gli schiavi romani fuggiti e offrire ostaggi. Fatta eccezione per i 6000 guerrieri che, dopo essere sgusciati via con il favore delle tenebre, erano stati rastrellati da tribù fedeli a Roma e messi a morte, gli elvezi furono trattati con clemenza. Cesare, difatti, stabilì che dovessero semplicemente tornare in Svizzera, non prima di aver riparato i danni che la loro migrazione aveva causato a città, villaggi e fattorie. Così, la tribù rientrò nei suoi vecchi confini, per non uscirne mai più. Non è un caso che ai giorni nostri la denominazione ufficiale della Svizzera sia quella di Confederazione elvetica. La Decima legione non aveva ancora finito di combattere quell’anno. A metà estate del 58 a.C., sulla scia del successo della campagna di Cesare contro gli elvezi, le tribù della regione si rivolsero al condottiero chiedendogli di liberarle dalla minaccia costituita dai feroci guerrieri del re germanico Ariovisto, che avevano invaso la Gallia settentrionale. Cesare impartì alle legioni il solito ordine: «Prepararsi alla marcia». Le trombe legionarie, come d’abitudine, ripeterono il segnale tre volte. L’accampamento trasecolò. Le truppe prepararono i carri delle vettovaglie e si disposero in formazione. Al terzo segnale, le formazioni alla guida si misero in marcia. Poiché i germani avanzavano a sud verso il territorio dei sequani (corrispondente all’odierna Alsazia, nella Francia orientale), Cesare raggiunse la capitale di quella tribù, Vesonzione (l’odierna Besançon), dopo un cammino a tappe forzate di tre giorni, quindi occupò la città, che sorgeva su un’ansa a ferro di cavallo del fiume Doubs, a est dell’attuale Digione. Qui le truppe romane si mescolarono ai locali e raccolsero molte voci sull’immensa forza e la terrificante bravura militare dei germani che si stavano dirigendo verso di loro. I tribuni di nomina più recente e i comandanti delle unità ausiliarie – viziati giovincelli appena arrivati da Roma e per lo più privi di qualunque esperienza sul campo – furono negativamente colpiti da tali chiacchiere. La loro paura crescente dei germani si diffuse tra le truppe. I discorsi attorno ai bivacchi si incupirono; gli uomini si prepararono al peggio stendendo e sigillando le loro ultime volontà. Veterani rotti a ogni esperienza come Gaio Crastino si recarono da Cesare per avvertirlo che, quando avesse dato l’ordine di muovere verso il nemico, le truppe avrebbero potuto rifiutarsi di eseguirlo. A quel punto, il condottiero convocò tutti i centurioni, annunciando loro che intendeva spostare il campo quella notte stessa. Se necessario – aggiunse –, avrebbe marciato contro Ariovisto anche solo con la Decima legione; un’unità nella quale riponeva la massima fiducia e che non l’avrebbe mai deluso. In quell’occasione, ribadì la promessa di trasformare la Decima nella sua guardia del corpo. Dopo aver ascoltato queste parole, gli uomini della legione chiesero ai loro tribuni di ringraziare Cesare per l’alta considerazione espressa nei loro riguardi, e di assicurarlo che erano pronti a seguirlo all’istante, infischiandosene di quello che avrebbero fatto le altre legioni. Ma il resto dell’esercito non aveva alcuna intenzione di lasciare alla Decima tutta la gloria (come pure il bottino); così, si preparò a entrare in azione. Nelle prime ore del mattino, tutte le sei legioni dell’armata romana lasciarono Vesonzione e si diressero al loro fatale appuntamento con le orde germaniche. Dopo sei giorni di marcia ininterrotta, gli esploratori comunicarono a Cesare che Ariovisto era a solo ventitré miglia di distanza. Nessuno dubitava del coraggio di Giulio Cesare. Secondo Svetonio, il condottiero si era già guadagnato la corona civica – uno dei massimi riconoscimenti romani al valore – nell’81 a.C., quando era ancora un giovane ufficialetto di diciannove o vent’anni. A quell’epoca aveva salvato la vita a un compagno durante l’assalto a Mitilene, il centro principale dell’isola di Lesbo. E nel corso delle successive operazioni in Spagna, Svizzera e Francia, era sempre stato in prima linea. Peraltro, dire che Cesare fosse coraggioso non equivale a dire che fosse scioccamente incauto. Contro Ariovisto, non a caso, scelse la via della prudenza. Quest’ultimo, re della tribù germanica dei suebi (o svevi), aveva inviato al condottiero romano un messaggio con il quale accettava la proposta di una conferenza di pace, aggiungendo però una condizione piuttosto insolita: i capi dei due eserciti avrebbero dovuto essere scortati soltanto da reparti a cavallo. Tale clausola indusse Cesare a sospettare che i germani avessero corrotto qualche membro della sua cavalleria gallica, dandogli l’incarico di ucciderlo nel corso della conferenza o lungo la strada per arrivarci. Così, a titolo precauzionale, ordinò alla sua cavalleria di smontare a terra, lasciando i destrieri agli uomini della Decima legione. Fu a partire da questo momento – si disse più tardi – che egli iniziò a considerare i legionari della Decima come uomini di cui si poteva fidare ciecamente. Mentre i legionari montavano a cavallo, un soldato della Decima commentò: «Cesare mantiene più di quanto ci aveva promesso. Altro che guardie del corpo; adesso ci ha nominato addirittura cavalieri!». Il condottiero sorrise quando gli riferirono la battuta, e se ne ricordò allorché scrisse le sue memorie. L’incontro con i germani avvenne su un’altura a metà strada fra gli accampamenti dei due eserciti. I «cavalieri» della Decima si schierarono a trecento iarde (poco più di duecentocinquanta metri) dietro il loro generale; la scorta di Ariovisto fece lo stesso. Accompagnati da dieci uomini ciascuno, e a dorso di cavallo, il condottiero romano e il sovrano germanico si impegnarono in un confronto serrato, faccia a faccia. Mentre i due continuavano a discutere – ciascuno voleva che fosse l’altro a ritirarsi dal territorio –, un cavaliere dei germani tentò di provocare i legionari della Decima, costringendo Cesare a interrompere la discussione per ordinare ai suoi uomini di non reagire. La giornata si concluse senza vinti né vincitori. Il giorno successivo, Cesare spedì due inviati per continuare la trattativa a suo nome. Ariovisto li fece prigionieri, svelando le sue vere intenzioni. Per alcuni giorni, le due armate cercarono di garantirsi un vantaggio tattico, con i germani che si sforzavano di tagliare le linee di rifornimento romane da Vesonzione, e le truppe di Cesare, schierate su due fronti, che facevano di tutto per sventare quella manovra. Alla fine i germani sferrarono un attacco diretto, ma quando Cesare dispose le sue truppe in formazione di battaglia, i germani sembrarono voler evitare uno scontro su vasta scala. Interrogando dei prigionieri, Cesare venne a sapere che il nemico era convinto che non avrebbe prevalso se si fosse impegnato in una battaglia campale prima della luna nuova. Per il momento, Ariovisto preferiva attendere. A quel punto, il condottiero romano decise di marciare sul campo avversario, a quindici miglia di distanza dal fiume Reno, per costringere il re germanico a bruciare i tempi e accettare un confronto diretto. Malgrado i suoi 40000 uomini fossero in inferiorità numerica, Cesare era convinto di aver acquisito un vantaggio psicologico. Come si sarebbe scoperto in seguito – Cesare ancora non lo sapeva – c’era anche un altro vantaggio nell’ingaggiare subito battaglia. I rinforzi dei suebi, infatti, si stavano avvicinando al Reno da est, con l’obiettivo di congiungersi all’esercito di Ariovisto. Costretti a difendere il loro accampamento, i germani si precipitarono all’esterno e si raggrupparono per tribù di appartenenza: gli arudi; i triboci; i vangioni; i nemeti; i sedusi; i suebi (il gruppo tribale dominante) e i marcomanni. Questi ultimi, provenienti dalla valle del Meno, erano destinati a crescere di numero e a esercitare in futuro una notevole influenza. Entro mezzo secolo si sarebbero stabiliti in Boemia e, 175 anni più tardi, durante il regno di Marco Aurelio, si sarebbero battuti ferocemente contro la presenza romana. I guerrieri germanici superavano in statura i soldati di Cesare; avevano spalle larghe, capelli lunghi e barbe fluenti. I loro nobili, meglio armati ed equipaggiati delle truppe (prive di calzature e provviste solo di un mantello di pelliccia), mostravano i capelli legati nel caratteristico nodo dei suebi. L’arma principale dei germani era una lunga lancia. La cavalleria di Cesare (4000 effettivi) e quella di Ariovisto (6000 uomini) si trattennero mentre le legioni avanzavano nelle consuete tre linee di battaglia, con la Decima sull’ala destra come da tradizione. Cesare assunse personalmente il comando del fianco destro, perché su quel lato lo schieramento nemico appariva più debole; e quando ordinò alle prime due linee di caricare, gli uomini della Decima si avventarono entusiasticamente sul nemico. Seppure colti di sorpresa, i germani reagirono così rapidamente che i legionari non ebbero il tempo di scagliare i loro giavellotti. Di conseguenza, li deposero e sguainarono le spade. Ormai le due armate erano faccia a faccia. I germani avevano adottato la formazione a falange usata dagli elvezi, con le sue linee irte di lance che, in teoria, li avrebbero tenuti fuori portata delle corte spade romane. Imperterriti, gli uomini della Decima si scagliarono contro gli scudi della prima linea nemica. Alcuni legionari riuscirono a strapparli dalle mani dei loro avversari; altri li scavalcarono e iniziarono a menare fendenti sul viso dei nemici. Grazie a queste tattiche aggressive, la Decima mise presto in rotta il fianco sinistro dello schieramento di Ariovisto. Nel frattempo, il fianco destro dei germani stava costringendo l’ala sinistra romana ad arretrare. Conscio del pericolo, il giovane Publio Crasso, che Cesare aveva lasciato in retroguardia con la cavalleria, ordinò alla terza linea di avanzare per alleggerire la pressione su quel lato. Questa manovra segnò le sorti della battaglia. Poco dopo, l’intero esercito di Ariovisto era in fuga. Le legioni inseguirono i nemici fino al Reno. Qualche germano si salvò a nuoto; Ariovisto e un paio di dignitari scapparono a bordo di barche, ma tutti gli altri, comprese le mogli e le figlie del re, furono uccisi o fatti prigionieri dalla cavalleria romana. Quando i rinforzi dei suebi, a est del fiume, seppero della disfatta del loro esercito, fecero dietrofront e si allontanarono in tutta fretta. E così, la Decima legione poté aggiungere un’altra vittoria al suo albo d’onore. 4. ALLA CONQUISTA DELLA GALLIA Per gli uomini della Decima era stata una campagna breve ma proficua. Avevano spogliato dei loro beni migliaia di cadaveri elvetici e germani. Ne avevano saccheggiato gli accampamenti e le salmerie. E tutto con pochissime perdite. In autunno si erano attestati in un grande accampamento in Alsazia, non lontano dall’odierna Besançon, preparandosi a svernare prima che Cesare li guidasse in primavera verso altre avventure in Gallia. Il condottiero si era recato in Nord Italia per espletare le sue funzioni di supremo magistrato in quella provincia, lasciando il comando delle truppe al generale Labieno. Con l’arrivo dell’inverno, tuttavia, Labieno cominciò a inviare a Cesare messaggi che riferivano come le tribù della Gallia settentrionale – i belgi – pianificassero di attaccare i romani per impedire loro di avanzare ulteriormente in quella regione. Cesare disponeva di spie all’interno delle tribù, e quando queste confermarono i rapporti di Labieno, ruppe ogni indugio. Dopo aver reclutato due legioni nell’Italia settentrionale – la Tredicesima e la Quattordicesima –, Cesare tornò in Gallia per affrontare le tribù ribelli. Radunò le sei legioni che svernavano in Alsazia e marciò con questo esercito rinforzato verso l’odierna regione della Champagne-Ardenne, a nordest di Parigi, territorio dei remi, alleati di Roma, con capitale l’attuale Reims. Si stima che le tribù belgiche potessero contare su ben 260000 uomini, benché il numero che in effetti si schierò lungo il fiume Aisne a nord di Reims ammontasse forse a un terzo di quella cifra. Dopo che i due schieramenti avevano cercato di superarsi vicendevolmente in astuzia, Cesare sconfisse i belgi utilizzando soltanto la cavalleria e gli ausiliari. Di conseguenza, le tribù si ritirarono in disordine nei rispettivi territori. Questo permise al condottiero romano di marciare contro di loro individualmente e di sconfiggerle una alla volta nelle settimane successive, sovente accettandone la resa dopo aver posto d’assedio le loro città. In tal modo, Cesare riuscì a sottomettere senza spargimento di sangue i suessioni e i bellovaci – le due tribù belgiche più numerose – , nonché gli ambiani, penetrando poi nel territorio dei nervi, a est della Schelda (Belgio centrale). I nervi erano un popolo di guerrieri valorosi, originari della Germania, che proibivano la vendita di vino nelle loro terre reputando che rendesse gli uomini imbelli. È quasi inutile aggiungere che non avevano alcuna intenzione di accettare l’autorità di Roma. Grazie all’opera di alcune spie, riuscirono a scoprire l’ordine di marcia legionario – Cesare era solito procedere con ogni legione separata dall’altra dai carri delle salmerie – e scorsero l’opportunità di assalire parte della colonna prima che le altre legioni potessero correre in aiuto. I nervi, disponendo di poche truppe a cavallo, avevano da lungo tempo sbarrato i loro campi con alte siepi, per rallentare la cavalleria nemica; questo stratagemma faceva sperare loro di poter affrontare i romani senza temere l’intervento dei cavalieri di Cesare. Il re dei nervi, Boduognato, convinse i suoi vicini belgici delle tribù degli atrebati e dei viromandui a unirsi ai suoi guerrieri per preparare un’imboscata sulle rive del fiume Sambre. Cesare, tuttavia, fu avvertito dai suoi esploratori dei movimenti nemici lungo il fiume. Messo sull’avviso, il condottiero cambiò l’ordine di marcia man mano che si avvicinava alla Sambre, disponendo in avanguardia la Decima e le cinque legioni più esperte, seguite dalle salmerie al completo, mentre le due legioni costituite più di recente sarebbero rimaste nella retroguardia. Vedendo piccoli drappelli della cavalleria nemica sull’altra sponda, il condottiero fece guadare le sue truppe a cavallo dove il fiume era profondo appena tre piedi (poco meno di un metro), e ordinò ai legionari di cominciare ad allestire un campo fortificato sul fianco della collina che digradava verso il corso d’acqua. La Decima e la Nona legione, agli ordini di Labieno, furono assegnate al fianco sinistro del campo. La Settima e la Dodicesima presero posizione a destra, mentre l’Ottava e l’Undicesima si piazzarono al centro. La cavalleria dei nervi si ritirò a distanza di sicurezza, in un bosco che si affacciava sulla riva scoscesa della Sambre, senza per questo rinunciare a qualche sortita contro i cavalieri romani. Nel frattempo, deposti zaini, scudi e giavellotti, i legionari si misero a lavorare alacremente all’allestimento del campo. Poco più tardi, sia pure a passo di lumaca, arrivarono le salmerie. Ma era proprio questo il momento atteso dalle tribù belgiche, che si erano accordate per gettarsi all’assalto solo dopo l’arrivo dei bagagli romani. Ignorando che adesso si sarebbero trovati di fronte ben sei legioni, e non solo una, i nervi si scagliarono a decine di migliaia fuori dal bosco. Cesare avrebbe poi stimato in 60 000 il numero dei guerrieri affrontati sulla Sambre. Davanti a quella muraglia di uomini urlanti, la cavalleria romana, presa alla sprovvista, si sparpagliò in ogni direzione, e i nervi raggiunsero il fiume. I belgi lo stavano già attraversando quando Cesare si rese conto della manovra. A quel punto, il condottiero impartì solo gli ordini strettamente necessari: fece alzare lo stendardo e suonare l’allarme. I legionari corsero a raggiungere le loro posizioni, mentre il condottiero galoppava verso gli uomini della Decima alla sua sinistra. Costoro abbandonarono gli attrezzi, afferrarono le armi e corsero a formare le coorti sotto la trincea che avevano appena iniziato a scavare. I loro scudi erano ancora coperti dalle fodere di cuoio; presi dalla fretta molti non ebbero il tempo di mettersi l’elmo, tantomeno il cimiero o le decorazioni. «Uomini della Decima!» tuonò Cesare. «Vi chiedo di tenere fede alla vostra tradizione di coraggio. Tenete i nervi saldi, attaccate il nemico con audacia, e la vittoria sarà nostra!» I legionari della Decima gridarono un evviva, scuotendo i giavellotti. Fiducioso che la sua unità preferita si sarebbe dimostrata all’altezza della situazione, Cesare rivolse un cenno a Labieno e partì al galoppo per organizzare le difese negli altri punti strategici. La riva scoscesa, le siepi e l’attacco a sorpresa contribuirono a dividere l’esercito romano. La Decima e la Nona si trovarono separate dalle altre unità quando i guerrieri atrebati emersero dal guado e si avventarono lungo la riva contro di loro. Labieno attese con calma che si avvicinassero, poi diede ordine alla prima linea di lanciare i giavellotti. Una pioggia di dardi si abbatté sugli atrebati. Con il fiato mozzo, mentre molti dei loro compagni crollavano a terra morti o feriti, i barbari interruppero l’assalto. Adesso fu il turno del comandante romano di ordinare l’attacco. Con le spade sguainate e Labieno in testa, i legionari della Decima e della Nona si precipitarono giù dalla collina e sbaragliarono il nemico. I barbari delle ultime file fecero dietrofront e corsero verso il fiume, inseguiti dai romani che li massacrarono mentre fuggivano in preda al panico. Presto la Sambre pullulò di corpi sanguinanti e mutilati. La Decima e la Nona incalzarono gli atrebati fino in cima alla scoscesa riva opposta, e poi ancora oltre, fino alle soglie del bosco da cui erano usciti per gettarsi all’attacco. Sull’ala destra di Cesare, la Settima e la Dodicesima legione erano state quasi circondate dai nervi di Boduognato. Qui, il caos in cui versavano i romani – specie quelli della meno esperta Dodicesima, i cui centurioni erano stati in buona parte uccisi o feriti – rischiava di provocare una disfatta. La quarta coorte, che aveva subìto l’urto peggiore, non contava più alcun centurione, tantomeno il portabandiera. Quando Cesare giunse sulla scena, trovò gli uomini che si stringevano impauriti dietro le insegne. Il condottiero smontò da cavallo, afferrò lo scudo di un legionario delle ultime file, e avanzò verso il nemico urlando: «Avanti! Sparpagliatevi! Datevi spazio per combattere!». Leggi la versione completa di questo libro