Christoph Menke
FORZA
Un concetto fondamentale
dell’antropologia estetica
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
Prefazione: Perché l’estetica?
I. SENSIBILITÀ
9
13
L’indeterminatezza dell’immaginazione
L’arbitrio dei sensi; Effetti patologici; Il «principio interno» del
sensibile; Forza e capacità
II. PRASSI
27
L’esercizio del soggetto
Chiarezza sensibile; Esercitare; L’anima è soggetto; Individuo e
disciplina
III. GIOCO
49
L’operare della forza
Genealogia estetica; Forza come espressione; Il meccanismo oscuro dell’anima; Unità senza generalità; «Un invalido rispetto
alle sue forze superiori»
IV. ESTETIZZAZIONE
69
La trasformazione della prassi
Dall’ispirazione alla vivificazione; Un sentimento per se stesso;
Divenire estetico; Teoria estetica: uno sguardo
V. ESTETICA
Il conflitto della filosofia
Dalla perfezione all’accertamento di sé; Il conflitto antico e il
nuovo
91
VI. ETICA
109
La libertà della creazione di sé
Imparare dagli artisti; Poter non potere; Movimento vivente; Un
altro bene; Il godimento estetico di sé; Creare se stessi
NOTE
131
APPENDICE
149
Abbreviazioni e acronimi
151
Studi precedenti
155
Indice dei nomi
158
PREFAZIONE
PERCHÉ L’ESTETICA?
Perché l’estetica? – Sembra che si possa dare a questa domanda una risposta facile e veloce: c’è, anzi c’è bisogno dell’estetica
perché c’è l’estetico; perché ci sono degli oggetti (designati così:
come «estetici») sui quali riflettere filosoficamente è il problema
dell’estetica; oggetti come le arti o il bello e il sublime o come lo
sport, il design, la moda e così via. Ci sono oggetti estetici e dunque
deve darsi anche una teoria estetica. Con questa risposta l’estetica
può prendere il suo legittimo posto accanto a tutte le altre discipline
settoriali della filosofia; accanto alle filosofie della politica, della
morale, della scienza, della tecnica, della cultura, ecc.
Con questa risposta non si vede che l’esistenza degli oggetti,
cosiddetti estetici, non è affatto ovvia: ciò che chiamiamo «arte»
non è solo un altro campo dell’economia – una parte dell’«industria
culturale» – a cui appartengono anche lo sport, il design, la moda
e altro? E ciò che chiamiamo «bello» non è solo un fattore scatenante di sensazioni di piacere (o degli eventi corrispondenti nel
cervello)? Tanto meno è evidente che questi oggetti costituiscano
un campo unitario che possa essere chiamato «estetico»: non è forse un assembramento di cose del tutto diverse? Sembra allora che
si debba essere già convinti dell’esistenza degli oggetti estetici, e
che ci si debba «interessare» a essi, per praticare l’estetica. Se alla
domanda «perché l’estetica?» si risponde a partire dai suoi oggetti,
allora l’estetica diventa l’espressione di un interesse personale – e
cresce (e diminuisce) in base a questo interesse.
9
Ma a fondare l’estetica non sono i suoi oggetti estetici (e l’interesse per essi). Piuttosto è l’estetica che fonda il campo degli oggetti estetici: l’estetica può essere una teoria dell’estetico solo perché
è ciò che lo costituisce; perché essa solo produce come «estetico»
il suo oggetto. Alla domanda «perché l’estetica?» non si può rispondere con la constatazione «perché c’è l’estetico (e vi siamo interessati)», perché porre la domanda «perché l’estetica?» significa
domandare: perché l’estetico? Che cosa significa, quali presupposti
e quali conseguenze ha il fatto che l’estetica produce «l’estetico»
quale suo oggetto – e con ciò se stessa?
*
Il richiamo alla prestazione costituente dell’estetica viene qui intrapresa sulla via di una ricostruzione: una ricostruzione dello sviluppo dell’estetica nel XVIII secolo, tra l’Estetica di Baumgarten
e La critica della facoltà di giudizio di Kant. In essa si mostra che
l’estetica non ha ampliato l’ambito degli oggetti legittimi della filosofia, c’erano già tutti prima. Piuttosto, attraverso l’introduzione
della categoria di «estetico», l’estetica ha determinato questi oggetti in una maniera fondamentalmente nuova. Ma nella ricostruzione
dello sviluppo storico dell’estetica si mostra prima di tutto che introdurre la categoria dell’«estetico» richiede niente di meno che un
cambiamento dei concetti filosofici fondamentali. Con l’estetica, o
come estetica, comincia la filosofia moderna.
Così è l’estetica, la prima estetica, quella di Baumgarten, che
conia il concetto di soggetto: il concetto di soggetto come quintessenza del potere, come istanza delle facoltà: il soggetto come capace. Baumgarten, comprendendo il conoscere sensibile e il presentare come un esercizio delle capacità del soggetto acquisite attraverso
l’esercizio, ha formulato la comprensione moderna delle pratiche
umane (e della filosofia come ricerca delle condizioni di possibilità della loro riuscita). Perciò l’estetica, la riflessione dell’estetico,
gioca un ruolo portante nella filosofia moderna: nell’estetica la fi10
losofia del soggetto, la filosofia delle sue capacità, si assicura delle
sue proprie possibilità.
Tuttavia, qui, nell’estetico e nella sua riflessione, la filosofia del
soggetto s’imbatte contemporaneamente nel suo avversario più risoluto: un avversario che combatte contro di lei dall’interno. Perché
di fronte all’estetica «alla maniera di Baumgarten» (Herder), come
teoria delle capacità sensibili del soggetto, compare contemporaneamente un’altra estetica: l’estetica della forza. Essa non comprende
l’estetico come conoscenza sensibile e presentazione (di qualcosa),
bensì come gioco dell’espressione, spinto da una forza che non viene esercitata nelle pratiche come una capacità, bensì che si realizza
e che niente riconosce e niente rappresenta, perché è «oscura», inconscia; non una forza del soggetto, ma dell’uomo nella differenza
da sé come soggetto. L’estetica della forza è una dottrina della natura dell’uomo: la sua natura estetica nella differenza dalla cultura
delle sue pratiche, la quale è acquisita mediante l’esercizio.
**
Questa è la tesi che vogliono sviluppare i sei capitoli di questo
libro. Il primo capitolo ricorda l’inizio dell’estetica con il concetto razionalistico del sensibile: il sensibile è ciò che non ha alcuna
determinazione definibile, nessun metro. Il secondo capitolo ricostruisce l’estetica della conoscenza sensibile di Baumgarten, quale
teoria del soggetto e delle sue capacità; a ciò si lega la controversia relativa all’interpretazione della soggettivazione estetica come
individualizzazione o come disciplinamento. A partire dai testi
di Herder, Sulzer e Mendelssohn il terzo e il quarto capitolo sviluppano i motivi fondamentali del modello avverso di un’estetica
della forza: l’estetico è, in quanto operare di una forza «oscura»,
un’esecuzione senza generalità, al di là di norma, legge e scopo –
un gioco. E l’estetico è, in quanto piacere dell’autoriflessione, un
processo di trasformazione del soggetto, delle sue capacità, delle
sue pratiche: un processo di estetizzazione.
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L’estetica della forza fonda un’antropologia della differenza:
tra forza e capacità, tra uomo e soggetto. I due capitoli conclusivi esplorano quel che ne segue: per l’idea di un’estetica filosofica e per l’etica, come teoria di ciò che è buono. Il quinto capitolo mostra, attraverso il confronto con Kant, che un’estetica, che
si comprende come estetica della forza, è la scena di un conflitto
irresolubile: l’estetica dispiega nella filosofia il conflitto tra filosofia ed esperienza estetica. Il sesto capitolo mostra, con riferimento
a Nietzsche, quale significato etico abbia l’esperienza estetica, in
quanto esperienza del gioco della forza: essa ci insegna a distinguere tra agire e vivere; essa insegna l’altro bene della vita.
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I. SENSIBILITÀ
L’indeterminatezza dell’immaginazione
La storia dell’estetica comincia con un atto di contestazione:
con la negazione che si possa fornire una teoria, un sapere certo,
sul bello. Al principio dell’estetica sta il dubbio di Descartes sulla
sua possibilità. Egli scrive a Marin Mersenne:
Per quanto riguarda la vostra questione, ossia se si può stabilire la ragione [la raison] del bello, si tratta della stessa cosa che
domandavate prima, cioè perché un suono è più gradevole di un
altro, anche se la parola bello sembra riferirsi più specificamente al senso della vista. In generale, però, il bello e il gradevole
non significano nient’altro che un rapporto del nostro giudizio
all’oggetto; e poiché i giudizi degli uomini sono così differenti,
non si può dire che il bello, né il gradevole, abbiano una misura
determinata1.
Il bello non ha alcun fondamento, alcuna ragione. Perciò non
si può afferrare, «bensì secondo la rappresentazione [la fantasie]
degli uni, il più bello sarà quello che ha tre tipi di figure, secondo
quella degli altri, lo sarà quello di quattro o cinque, ecc. Ciò che
piacerà a più persone potrà semplicemente essere denominato il
più bello, ma ciò non può essere determinato [ce qui ne saurait être
déterminé]» (ibidem). Il bello è l’indeterminabile.
13
L’ARBITRIO DEI SENSI
Con la determinazione cartesiana del bello attraverso la sua indeterminabilità vengono compiute due mosse fondamentali per l’idea
di estetica. La prima mossa consiste nello spostamento del bello
nel campo dei sensi. Il bello è un effetto della sensibilità, per questo Descartes lo equipara direttamente al gradevole (l’agréable).
Rispetto a questa determinazione fondamentale tutte le differenziazioni diventano secondarie: la differenza tra natura e arte, bello dato
e prodotto, così come la differenza tra colui che riceve e colui che
produce, tra afferrare e produrre il bello. Per Descartes non fa una
differenza fondamentale se il gioco delle mutevoli impressioni del
bello spiega le manifestazioni naturali2 o le disposizioni artificiali3
dei colori e dei toni. E per questo, allo stesso modo, non fa alcuna
differenza fondamentale che si osservi la produzione dell’impressione del bello dal lato della sua creazione, nelle opere, o della sua
riproduzione, nei giudizi. La riconduzione del bello ai sensi riunisce
sullo stesso terreno ciò che finora era chiaramente separato: bello
naturale e artistico, chi fa arte e chi la osserva sono semplicemente
forme differenti della sensibilità. Con ciò si costituisce il campo che
verrà poi chiamato «estetico».
La seconda mossa nella determinazione cartesiana del bello
attraverso la sua indeterminatezza consiste nel privare la sensibilità, il cui effetto è il bello, di ogni prestazione ripresentativa: la
produzione sensibile dell’impressione del bello, nell’afferrare o
nel fare il bello, non ha alcun contenuto oggettivo4. Nella lettera sul giudizio del bello Descartes dice questo a Mersenne: esso
non varia in dipendenza dell’oggetto che viene valutato, bensì in
dipendenza degli uomini che giudicano. La produzione sensibile
dell’effetto del bello, che i giudizi «estetici» esprimono, non restituisce la costituzione dell’oggetto, al quale nondimeno il giudizio sembra indirizzarsi. Essa è una produzione senza imitazione. E
questo vale per l’impressione del bello nel gusto dell’osservatore
così come attraverso l’arte per quella del pittore, del compositore
14
e del poeta: producono forme, ma non ripresentano alcuna forma.
Né il gusto («estetico»), né l’arte («estetica») possono ripresentare
una determinazione oggettiva – non quella del suo oggetto il gusto, non quella del mondo l’arte –, perché in quanto forme della
«sensibilità» non possono in generale ripresentare alcunché. Se la
prima, fondamentale mossa di Descartes per l’estetica consiste nel
costituire il campo dell’estetico attraverso il punto d’unione della
sensibilità, la seconda consiste allora, attraverso ciò, nel liberarlo
contemporaneamente da ogni pretesa di ripresentazione. Ma una
liberazione per che?
Le rappresentazioni sensibili hanno per contenuto gli oggetti e
le loro proprietà. Devono essere, così Descartes, rappresentazioni
sensibili ma esterne, «presentazioni» – di oggetti reali e di proprietà. Le rappresentazioni sensibili, meglio, diventano presentazioni del reale, nell’«esaminarle» e nell’«indagarle» con l’intelletto
(Meditazioni, III, p. 7375). Allora possiamo distinguere «ciò che in
esse percepisco chiaramente e distintamente: la grandezza, ossia
l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità; la figura, che si
origina dalle delimitazioni di questa estensione; la posizione» (ibidem) e così via. Da questo poi sappiamo – attraverso l’esame razionale, non attraverso la rappresentazione sensibile – che cosa è:
tutto il resto, invece, come la luce e i colori, i suoni, gli odori,
i sapori, il caldo e il freddo e le altre qualità del tatto, è da me
pensato in modo soltanto molto confuso ed oscuro, al punto che
ignoro persino se sia vero o falso, ossia se le rappresentazioni
che ne ho siano rappresentazioni di cose, per così dire, o di non
cose (ibidem).
Cosa, in generale o in se stesso, è il rappresentare sensibile appare dunque in relazione a tutto quello che, nella rappresentazione
sensibile, si sottrae al mio esame e al mio chiarimento: le rappresentazioni sensibili non sono presentazioni degli oggetti reali da
cui «provengono», da se stesse non possono essergli «simili» (ivi,
15
III, p. 733). Perché, mentre le rappresentazioni sensibili provengono da un oggetto e da lui vengono suscitate, lo trascendono già da
sempre; aggiungono qualcosa all’impressione, ricevuta per mezzo
degli organi di senso* e trasportata in seguito al «senso comune»**,
e solo così la rendono una rappresentazione. La produzione della
rappresentazione dall’impressione ricevuta passivamente avviene
per mezzo dell’immaginazione o fantasia. Sui suoi prodotti verte
l’esame del pensiero per separare il chiaro e distinto dall’oscuro e
confuso e così da una rappresentazione guadagnare una presentazione, una conoscenza: «conoscenza non consiste né in una visione,
né in un contatto, né nell’immaginazione […], ma è uno sguardo
evidente del solo intelletto» (Meditazioni, II, p. 723).
Non solo è nuova la radicalizzazione della tradizionale riserva nei confronti dell’attendibilità della sensibilità nei termini di un
dubbio di principio quanto alla sua capacità di conoscenza. Prima
di tutto è nuova la motivazione che Descartes dà per l’affermazione che, in opposizione a ciò, l’intelletto è altrettanto per principio
capace di conoscenza, di produzione di ripresentazioni della realtà:
la ragione – così Descartes – sta nel fatto che solo l’intelletto, e non
la sensibilità, è in grado di agire. Solo per e attraverso l’intelletto
si può realizzare il programma cartesiano nel quale si incrociano
epistemologia ed etica: «riformare i miei propri pensieri, e […] costruire su un suolo tutto mio» (Metodo, II, p. 41). I pensieri dell’intelletto si possono riformare, perché riformarli significa fondarli
l’uno sull’altro con metodo, in una sequenza regolata di passi, per
mezzo di «deduzioni necessarie» a partire da «intuizioni evidenti».
I pensieri si lasciano riformare anche perché e nella misura in cui
sono le «azioni del nostro intelletto» (Regole, III, p. 695); perché
*
«Si deve quindi concepire in primo luogo che tutti i sensi esterni, in quanto sono
parti del corpo, […] sentono propriamente soltanto passivamente [per passionem], nello stesso modo in cui la cera riceve [recipit] la figura del sigillo» (Regole, XII, p. 749).
** «In secondo luogo, si deve concepire che mentre il senso esterno è mosso da un
oggetto, la figura che esso riceve è portata da una qualche altra parte del corpo, chiamato senso comune» (ivi, p. 751).
16
e nella misura in cui, siamo capaci di produrre, i nostri pensieri,
con la nostra «propria forza [o fatica: propria industria]» (ivi, p.
737) e di «condurci» e «dirigerci» con ciò da soli (Metodo, p. 45;
Meditazioni, p. 719). Il «suolo tutto mio» e sul quale Descartes
vuole costruire, questo suolo, non lo trovo in me, bensì solo io stesso mi rendo il mio proprio suolo. Io rendo me stesso il suolo sul
quale posso costruire, mentre mi rendo attore e rendo i miei pensieri le mie azioni: un’esecuzione, che in ogni suo passo viene fatta da
me, dunque da me controllata. Però posso questo solo nel campo
dell’intelletto. Oppure: l’intelletto è il campo, nel quale io posso
questo (io posso questo), nel quale io sono Io. Che Descartes consideri solo l’intelletto capace di conoscenza è motivato dal fatto che
egli riduce la capacità di conoscenza alla capacità di azione (e così,
non dunque attraverso il primato dell’autocoscienza, introduce il
concetto moderno di soggetto).
Al contrario sul terreno della sensibilità non può darsi alcun
«metodo» del procedere, perché qui non può darsi proprio nessun particolare procedere, nemmeno guidato, e perciò neanche un
conoscere. Così come Descartes fonda la capacità di conoscenza
dell’intelletto sul fatto che è in grado di agire e dunque essere «tutto
mio [tout à moi]», egli spiega viceversa l’incapacità di conoscenza
della sensibilità dal fatto che l’accadere sensibile è senza io, non
è un agire. Una formula generale per l’opposizione di sensibilità
e intelletto in Descartes può allora suonare: «come il vedere degli
occhi è passivo, quello dello spirito è attivo»6. A rigore, però, l’opposizione di passività e attività è qui fuorviante. Descartes parla di
passività solo occasionalmente e inoltre solo per il primo momento
della sensibilità, in relazione a quello che accade negli organi di
senso. Ugualmente, dall’altro lato, il concetto di attività è troppo
indeterminato per contrassegnare le azioni con cui l’intelletto guida
e controlla se stesso. La ragione di questa doppia insufficienza – del
concetto di passività per la sensibilità, del concetto di attività per
l’intelletto – è uno e lo stesso: l’operato della facoltà immaginativa. L’immaginazione appartiene al campo della sensibilità (perché
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non è capace di procurare alle sue rappresentazioni il carattere di
ripresentazioni, alle sue immagini lo status di conoscenza), al contempo essa non è però meramente recettiva, né meramente il calco
di un’impressione*. Essa non restituisce soltanto qualcosa, bensì
produce, anzi inizia qualcosa – qualcosa che rispetto a ciò che le
è stato impresso dall’esterno è «completamente altro». La facoltà
immaginativa è creativa o produttiva.
Senza determinazioni più precise il concetto di attività è pertanto
inservibile per indicare le differenze tra intelletto e facoltà immaginativa. Tutt’e due sono istanze dell’eseguire, del produrre, campi
dell’«attività». Quando Descartes domanda in che relazione devono
entrare intelletto e sensibilità, affinché si possa dare conoscenza, non
si tratta della relazione di passività e attività, recettività e spontaneità, accogliere e produrre; si tratta della relazione tra due modi di eseguire ciò che Descartes qualifica come ingenium (e che, in modo erroneo, viene tradotto come «facoltà conoscitiva» – in modo erroneo,
perché la facoltà immaginativa non è da sé, per mezzo di e a partire
da se stessa, una facoltà della conoscenza). In cosa esse si differenzino, diviene chiaro quando Descartes domanda del modo in cui l’immaginazione «può arrecare danno, per guardarci da esso, o […] può
recare giovamento, per valerci di tutta la sua ricchezza», all’intelletto, il quale «solo […] è capace di scienza» (Regole, VIII, p. 731). Tra
le altre cose l’intelletto necessita dell’immaginazione quale risorsa
quando si tratta di una cosa corporea, la cui idea deve «essere formata
nell’immaginazione il più distintamente possibile» (ivi, XII, p. 755).
Ma affinché questo accada, l’immaginazione deve essere posta sotto
*
Il senso comune è il meccanismo di un’azione diretta: «nello stesso identico modo
in cui ora, mentre scrivo, intendo che nel medesimo istante in cui i singoli caratteri sono
riprodotti sulla carta, non si muove solo la parte inferiore della penna, ma in questa non
vi può essere il benché minimo movimento senza che esso sia ricevuto al tempo stesso
anche in tutta la penna» (Regole, XII, p. 751). Al contrario la facoltà immaginativa, o
fantasia, può «essere causa nei nervi di molti movimenti, dei quali tuttavia non ha in sé
immagini espresse, ma ne ha di completamente diverse, da cui possono conseguire quei
movimenti: infatti la penna non si muove tutta come la parte inferiore; anzi, secondo
la sua parte maggiore sembra procedere con un movimento completamente diverso e
contrario» (ivi, XII, p. 753; corsivi miei, C.M.).
18
la guida, a lei estranea ed esteriore, dell’intelletto. L’immaginazione
deve essere dominata per mezzo dell’intelletto. Qui «dominio» non
significa che all’autocontrollo dell’immaginazione subentra il suo
controllo esterno per mezzo dell’intelletto. Perché non c’è alcun autocontrollo dell’immaginazione. Ogni controllo dell’immaginazione
è controllo esterno. Ogni controllo dell’intelletto al contrario è autocontrollo. Questa è la differenza tra i due modi di esecuzione, i modi
del produrre attraverso l’immaginazione e l’intelletto: l’immaginazione è senza regole, arbitraria, e questa è la ragione per cui non solo
deve, ma può essere sottomessa alla guida per mezzo dell’intelletto
che procede metodicamente. Da se stessa l’immaginazione produce
senza regole cose a caso; non segue alcuna direzione e può pertanto
assumere qualunque orientamento7.
EFFETTI PATOLOGICI
Descartes guarda con tranquillità, cosciente del loro potere di
aiutare e persino curare, al gioco sregolato delle mutevoli impressioni sensibili in cui si esprime l’indeterminatezza del bello. In una
lettera alla principessa Elisabetta le consigliava, per armarsi contro la melanconia dei grandi e serbare la sua salute spirituale, «di
imitare coloro che, guardando la vegetazione di un bosco, i colori
di un fiore, il volo di un uccello e cose che non richiedono alcuna
attenzione, si immaginano di non pensare a niente»8. Esattamente
l’effetto opposto che l’evidenza dell’arbitrio dei sensi ha su Pascal.
Nei Pensées il dubbio di Descartes cresce fino alla disperazione:
Chi voglia conoscere appieno la vanità dell’uomo non ha che da
considerare le cause e gli effetti dell’amore. La causa è un «non
so che» (Cornelio*) e i suoi effetti sono spaventosi. Questo «non
*
«Souvent je ne sais quoi qu’on ne peut esprime / Nous surprend, nous emporte et
nous force d’aimer» (Pierre Corneille, Medée, II.5, v. 22ss.; integrazione mia, C.M.).
19
so che», così piccolo da essere irriconoscibile, scompiglia tutta la
terra, i principi, gli eserciti, il mondo intero.
Il naso di Cleopatra: se fosse stato più corto, tutta la faccia della
terra sarebbe stata diversa9.
L’immagine sensibile e bella è indeterminabile nella ragione e
nel contenuto, ma precisamente così muove «il mondo intero». Che
l’immagine sensibile del bello – come diceva Descartes – non abbia
alcun fondamento, alcuna ragione, non la rende un gioco piacevole,
le conferisce bensì una potenza che profondamente atterrisce.
In appendice alla prima parte della sua Etica («Di Dio»), Spinoza
ha interpretato questa potenza senza fondamento dell’immagine
sensibile come l’effetto di un processo di capovolgimento metonimico, modello originario dell’ideologia: «essa considera come
effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa»10. Concetti quali
Bene, Male, Ordine, Confusione, Caldo, Freddo, Bellezza,
Bruttezza […] Lode e Biasimo, Peccato e Merito […] non sono
altro che modi dell’immaginare, dai quali l’immaginazione è variamente affetta, e tuttavia dagli ignoranti sono considerate come
precipui attributi delle cose; poiché, come abbiamo già detto, essi
credono che tutte le cose siano state fatte per loro, e chiamano
buona o cattiva, sana o insalubre e guasta, la natura di una cosa
secondo come ne sono affetti. Per esempio, se il moto, che i nervi
ricevono dagli oggetti percepiti mediante gli occhi, giova al benessere, gli oggetti che lo provocano sono detti belli, e viceversa,
brutti quelli che provocano un moto contrario. […] Tutto ciò dimostra a sufficienza che ognuno ha giudicato le cose secondo la
natura del proprio cervello, o piuttosto che ha preso per cose le
affezioni dell’immaginazione (ivi, pp. 125-127).
Qui viene commesso un errore nel giudicare: le immagini sensibili, che ha prodotto l’immaginazione, vengono prese in modo
falso per proprietà delle cose stesse. È un errore che il giudicare
20
commette perché non si lascia guidare dall’intelletto (Meditazioni,
IV, pp. 755-759), un errore che il giudicare forse commette perché
l’intelletto è ancora debole e inesperto, forse anche solo perché «si
prende una pausa» (Regole, X, p. 747); ma in ogni caso un errore
che commette sotto la spinta dell’immaginazione. Questo mostra
la potenza dell’immaginazione: essa ha il potere di determinare il
giudizio al posto dell’intelletto.
Almeno per i fini della critica dell’ideologia – perché essa è fondata con l’argomento contro i capovolgimenti del giudicare sensibile – occorre un più complesso concetto di facoltà immaginativa:
che essa produca le sue immagini senza regole e casualmente, può
certo spiegare perché queste immagini non possano essere delle
presentazioni, perché dunque immaginare non può essere conoscere. Ma non spiega perché le sue immagini sono in grado di impressionarci al punto che non le esaminiamo con l’intelletto e – cosa che
non cessa di terrorizzare Pascal – semplicemente giudichiamo che
sia così. In generale per poter solo descrivere ciò, occorre una concettualità completamente diversa: una concettualità che sia in grado
di restituire adeguatamente la «potenza impressionale (“vigore”)
dell’“impressione” figurativa»11. La facoltà dell’immaginazione
deve venir descritta così: essa conferisce potenza, vigore, intensità,
evidenza a quel che produce, attraverso il modo in cui è prodotto.
Il contrasto di Descartes tra i modi di operare dell’immaginazione
e dell’intelletto può solo spiegare che le immagini sensibili non
hanno alcuna buona ragione. Il richiamo all’arbitrio e all’assenza di
regole, alla casualità dell’immaginazione, non può invece spiegare
come accade che abbia una così grande potenza.
IL «PRINCIPIO INTERNO» DEL SENSIBILE
Nella sua discussione sul bello Descartes compie due mosse
fondamentali per il programma di un’estetica filosofica: la prima
mossa consiste nel costituire il campo estetico quale ambito del
21
sensibile. Questo permette di riunire quanto finora era chiaramente
distinto – per esempio le teorie delle arti (poetica) e del bello (metafisica) – in un ambito di riflessione. La seconda mossa consiste nel
descrivere il sensibile come privo di fondamento e ragione (raison)
e perciò dotato di un’indeterminatezza irriducibile (ce qui ne saurait être déterminé), perché in esso opera l’attività casuale e senza
regole dell’immaginazione: sia che per la nostra serenità godiamo
della libera assenza di regole nella produzione delle rappresentazioni sensibili, o che la controlliamo per mezzo dell’intelletto, utilizzandola come strumento di conoscenza, l’attività dell’immaginazione è e resta nondimeno contrapposta per essenza alle «azioni
dell’intelletto», da quest’ultimo governate e dirette.
Con queste due mosse Descartes rompe tanto con la tradizione
poetico-retorica delle dottrine dell’arte che con le teorie metafisiche
del bello. L’idea di classicismo artistico, il quale possa ricostruire
questa tradizione su base cartesiana, è un controsenso12. La doppia
mossa di Descartes distrugge una volta per tutte la possibilità di una
determinazione oggettiva tanto del bello che delle arti – una determinazione per mezzo del loro contenuto obiettivo e ripresentativo.
In ciò la doppia mossa di Descartes è fondamentale per il programma di un’estetica filosofica. Soltanto la doppia mossa di Descartes
rende in generale possibile un’estetica filosofica – ma questo programma non si esaurisce nel seguire le mosse di Descartes. Piuttosto
l’estetica incomincia con il tentativo di rispondere alla domanda,
in queste rimasta aperta, anzi soltanto posta in modo appropriato:
come l’indeterminatezza del bello, in quanto effetto dell’immaginazione, vada pensata insieme con la schiacciante potenza d’azione
di quest’ultima. Perché questo resta incomprensibile finché l’attività dell’immaginazione viene compresa solo come senza regole e
persino arbitraria.
Leibniz ha formulato il pensiero decisivo per rispondere a questa domanda (e con ciò il pensiero fondamentale che dà avvio e
tiene in movimento l’estetica13). È il pensiero secondo il quale non
solo o non soltanto le «azioni dell’intelletto» autocoscienti e au22
todeterminate hanno un «principio interno», ma anche già le rappresentazioni sensibili, delle quali non siamo coscienti. «Le percezioni», cioè innanzitutto e per lo più non coscienti, costituiscono
«i mutamenti naturali» delle monadi e questi «mutamenti naturali
delle monadi derivano da un principio interno*, perché una causa
esteriore non può influire nel loro interno»14**. I «mutamenti naturali» della monade consistono nel produrre sempre altre percezioni. Queste non sono né causate esternamente, né prodotte arbitrariamente e senza regole, bensì in esse si realizza il loro proprio,
immanente impulso:
L’attività [l’action] del principio interno, che determina il mutamento o il passaggio da una percezione all’altra, può essere
chiamata aspirazione (appetitus); è vero che l’appetito non può
sempre raggiungere tutta la percezione a cui tende, ma ne ottiene
sempre qualcosa e giunge a percezioni nuove [perceptions nouvelles] (Monadologia, § 15, p. 31).
Che sia espressione di un principio interno, questo basta affinché un accadere sia un fare. Sapere ciò che si sta facendo non è
rispetto a ciò una condizione necessaria; c’è anche un fare del quale
si è «non coscienti», anzi «in stato di stordimento» (ivi, § 23ss., p.
33ss.). Leibniz, al contrario di Descartes, può perciò parlare anche
per la produzione di rappresentazioni sensibili come di «azioni interne» dell’anima (ivi, § 17, p. 32), perché egli pensa il concetto di
«principio interno» in modo radicalmente diverso: non lo limita alla
capacità dell’intelletto dell’io, che ha reso per mezzo di un autoesame il suo proprio fondamento e che d’ora in poi è capace di guidarsi
metodicamente, bensì accoglie lì sotto anche «aspirazioni» e «forze» strutturalmente non coscienti15. L’altra immagine, che Leibniz
*
Nel progetto segue la subordinata: «che possiamo chiamare forza attiva [force
active]».
** Nel progetto segue il paragrafo 12 successivamente biffato: «e in generale si può
dire, che la forza non è altro che il principio del mutamento».
23
delinea attraverso ciò, presenta il produrre di ogni rappresentazione
sensibile come un movimento del passare da una precedente in una
nuova «percezione» – un movimento del passare, che non è casuale
quanto alle regole, bensì è guidato da un impulso interno:
Ogni percezione presente tende a una percezione nuova, come
ogni movimento che essa rappresenta tende a un altro movimento. È impossibile però che l’anima possa conoscere distintamente
tutta la propria natura, e appercepisca il modo in cui si forma
questo infinito numero di piccole rappresentazioni [petites perceptions] ammassate, o meglio, concentrate insieme: per far questo occorrerebbe che conoscesse perfettamente tutto l’universo
che vi è racchiuso, vale a dire che fosse Dio16.
Con questo Leibniz ha formulato il programma dell’estetica filosofica: esso esige di pensare la rappresentazione sensibile costitutivamente indeterminata non come l’effetto dell’immaginazione,
compresa come priva di regole e arbitraria, né perciò già come il
prodotto delle azioni autocoscienti dell’io e da esso guidate, bensì,
al di là di questa alternativa, come l’espressione di un movimento,
che è guidato, sì, da un «principio interno» non cosciente, ma che
non per questo lo è di meno. L’estetica è un altro pensiero della sensibilità. In essa non si tratta semplicemente di un’altra valutazione
del sensibile – per quanto si tratti anche di questo. Nell’estetica ne
va di un’altra valutazione, in quanto altra descrizione del sensibile:
di un pensiero del sensibile, il quale sia in grado di pensare insieme la sua irresolubile indeterminatezza con la sua attività guidata
da principi o dall’interno. Il sensibile è radicalmente indeterminato perché le sue produzioni di rappresentazioni non possono venir risolte nelle azioni autocoscienti e dotate di autocontrollo delle
operazioni metodiche dell’intelletto. Allo stesso tempo il produrre
sensibile delle rappresentazioni non è né un nesso di effetti causali né un gioco arbitrario e casuale, bensì un operare secondo un
proprio interno principio, per quanto non cosciente; pertanto alle
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rappresentazioni sensibili va attribuita quella potenza che Pascal
trovò spaventosa, perché non ha alcuna ragione accessibile all’intelletto. Il programma dell’estetica mira a pensare il sensibile al di
là dell’alternativa cartesiana di azioni autocoscienti e meccanismi
causali, di un agire autoguidato e di proiezioni casuali. Con ciò
il programma dell’estetica mira al contempo a questa medesima
alternativa: se il sensibile deve venir pensato al di là di questa alternativa cartesiana, anche i termini di questa alternativa – i concetti
di autocoscienza e di direzione di sé, del sapere e dell’agire, del
meccanismo e dell’assenza di regole, del gioco e dell’immaginare
– devono essere pensati altrimenti.
FORZA E CAPACITÀ
La pretesa anticartesiana di Leibniz, pensare l’immaginazione
delle rappresentazioni sensibili a partire da un principio interno,
è il programma dell’estetica: l’estetica è il tentativo di pensare il
principio interno del sensibile, e con ciò il sensibile quale attività,
senza ritrattare la determinazione di Descartes del sensibile come
indeterminabile. Ma le formulazioni, che Leibniz trova per queste pretese «estetiche», sono percorse da una tensione interna, che
si è sviluppata come un conflitto incessante, non ricomponibile e
che è durato fino a oggi, negli approcci per l’elaborazione di una
teoria estetica immediatamente dopo Leibniz. In «in ogni istante»,
scrive Leibniz, ci sono «in noi un’infinità di percezioni, ma senza
appercezione e senza riflessione»17. «Sono esse che formano il non
so che, questo sapore di qualcosa», in relazione a cui Leibniz dà
alternativamente rilievo a due aspetti. Il primo aspetto è che attraverso quelle percezioni – in un modo che la teoria della sensibilità
di Descartes non era in grado di comprendere – siamo in grado di
afferrare adeguatamente, per quanto non in modo metodicamente cosciente, le cose che ci stanno intorno. L’altro aspetto è che
esse hanno un’«efficacia» o una potenza, che è molto più grande
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dei giudizi dell’intelletto, la quale ci trascina in una «successione»
infinita e imperscrutabile di immagini prodotte confusamente da
sé e che mutano l’una nell’altra. Nel primo aspetto il «principio
interno» dell’attività sensibile è una capacità: la capacità di produrre conoscenze sensibili tanto indeterminabili quanto esatte; in
tal modo Baumgarten definirà l’oggetto e il programma dell’estetica. Nel secondo aspetto il «principio interno» dell’attività sensibile è una forza: la forza di trasformazione sempre ulteriore delle
rappresentazioni inconsce che produciamo; così Herder, criticando
Baumgarten, fonderà in modo nuovo l’estetica. Questo è il conflitto
che divide l’estetica fin dai suoi inizi: se il principio interno del movimento, nel quale le rappresentazioni sensibili vengono prodotte,
vada pensato come una capacità delle pratiche cognitive o come
una forza dell’espressione inconscia. E questo è al contempo un
conflitto su come vada pensato l’uomo – un conflitto che, dall’invenzione dell’estetica, divide la filosofia18.
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