La tristezza di Racine, la maschera di Metastasio e il furore di Mozart

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La tristezza di Racine,
la maschera di Metastasio
e il furore di Mozart
Al San Carlo «La clemenza di Tito»
secondo Luca Ronconi
di Dino Villatico
La Clemenza di Tito di Mozart, con la regia di Luca Ronconi,
ha aperto a gennaio la stagione lirica del San Carlo di Napoli. Per
il nostro «Cantiere» Dino Villatico ci racconta quest’opera e questo
applaudito e straordinario allestimento.
L
gioco fluttuante dei sentimenti, per esempio nel Don Sanche d’Aragon 4 , giustamente ammirato perfino da un critico con la puzza sotto il naso come Benedetto Croce. Ecco alcuni versi mirabili:
blanche Que vous peut offenser sa flamme ou sa retraite,
Puisque vous n’aspirez qu’à vous en voir défaite ?
Je ne sais pas s’il aime ou donne Elvire ou vous,
Mais je ne comprends point ce mouvement jaloux.
d. isabelle Tu ne le comprends point ! et c’est ce
[ qui m’étonne :
Je veux donner son cœur, non que son cœur le donne :
Je veux que son respect l’empêche de m’aimer,
Non des flammes qu’une autre a su mieux allumer :
a clemenza di Tito di Metastasio comincia dove finisce la Bérénice di Racine.
Ah Sesto amico,
che terribil momento! Io non credei…
Basta, ho vinto, partì. Grazie agli dei.
Giusto è che io pensi adesso
A compir la vittoria. Il più si fece;
facciasi il meno. 1
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Luca Ronconi fa aprire il dramma su questo congedo.
Un’immensa poltrona domina la parte sinistra della scena. Un uomo e una donna, che poi si riveleranno per Tito
e Berenice, si scambiano appassionate effusioni. La poltrona diventerà nel corso dello spettacolo trono, alcova,
tribuna, ma tornerà a essere anche semplice poltrona. Il
teatro francese classico del Seicento e quello italiano del
Settecento è un teatro di conversazione, anche quando si
fa melodramma. Del resto un libretto, bellissimo, di Goldoni s’intitola proprio La conversazione 2 . L’azione s’immagina a Venezia, la città più francesizzante d’Italia, nei salotti di tre dame. Non accade nulla. Ma s’intessono gli intrighi e s’inventano i pettegolezzi che decideranno della vita dei personaggi. Indimenticabili don Fabio, nobile spiantato rinominato a sua insaputa il Cavalier del Fumo, e Sandrino, ricco e rozzo plebeo dalle mani bucate,
anche lui a sua insaputa rinominato l’Asino d’oro. Il salotto settecentesco, più ancora di quello seicentesco, confinato nelle corti di Versailles e di Madrid, era il luogo in
cui si sperimentava il gioco dei sentimenti e delle passioni. Tuttavia non è un caso che una delle commedie più
belle di Lope de Vega, El perro del hortolano 3, si svolga nei
salotti aristocratici di Madrid. Il bel segretario borghese
della nobildonna finirà tra le sue lenzuola per merito della sua parlantina, più che per il rango, oltre naturalmente
al fatto di essere un giovane molto attraente. Ebbene, come testimoniano le lettere di Madame de Sevigné, il salotto parigino, più ancora del palcoscenico della reggia,
apparivano come il luogo ideale per lo studio delle passioni umane. Lo stesso Pascal, e anche Cartesio, traevano
da qui il materiale delle proprie riflessioni. Per non parlare del teatro. Il severo Pierre Corneille, severo in realtà
solo nel pregiudizio dei posteri, scrive scene mirabili sul
Je veux bien plus; qu’il m’aime, et qu’un juste silence
Fasse à des feux pareils pareille violence ;
Que l’inégalité lui donne même ennui ;
Qu’il souffre autant pour moi que je souffre pour lui ;
Que par le seul dessein d’affermir sa fortune,
Et non point par amour, il se donne à quelqu’une ;
Que par mon ordre seul il s’y laisse obliger ;
Que se soit m’obéir, et non me négliger ;
Et que voyant ma flamme à l’honorer trop prompte,
Il m’ôte de péril sans me faire de honte.
Car enfin il l’a vue, et la connaît trop bien ;
Mais il aspire au trône, et ce n’est pas au mien ;
Il me préfère une autre, et cette préférence
Forme de son respect la trompeuse apparence ;
Faux respect qui me brave, et veut régner sans moi! 5
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Come nella commedia di Lope, in questa comédie héroique di Corneille la disparità di rango sociale è infranta e
messa in pericolo dal sentimento amoroso, ma non fino
al punto di essere abolita, il che genera un contrasto e una
lotta che travagliano i due amanti, tra l’onore e l’amore,
tra il dovere sociale e la passione che lo scavalca. In entrambi i casi il lieto fine è assicurato da un’agnizione che
alza di rango l’amato. Ma sotto questo punto di vista la
commedia spagnola è più audace, in quanto l’agnizione
è solo una macchinazione, una menzogna dell’amato. Il
quale non regge fino in fondo la finzione e confessa l’imbroglio alla nobildonna. La reazione della donna è sorprendente per i costumi sociali del tempo: le basta che il
cose efferate, ma in genere lasciano che le loro azioni si
compiano fuori della scena: sulla scena, se ne parla, se ne
discute, si soppesano le ragioni, i pro e i contro. Del resto
era così anche nell’antico teatro greco.
Dalla Bérénice di Racine La clemenza di Tito di Metastasio
accoglie e riecheggia la malinconia dell’impossibilità di
vivere i propri sentimenti. Tito rinuncia all’amore di Berenice non perché i Romani non vogliono sul trono una
regina giudea, ma perché, come insinua Roland Barthes,
non l’ama più. E impiega cinque atti per pronunciare il fatale addio. I due amanti in quei cinque atti non s’incontrano mai, e quando finalmente Berenice obbliga Tito a
restare e ad ascoltarla, il loro colloquio è un commiato. È
lei stessa a riassumere l’ambiguità della situazione: «Je l’aime, je le fuis: Titus m’aime, il me quitte» 6. Ed è sempre
lei, che ama ancora, a guardare con lucidità e disperazione alla separazione, al distacco, al dolore dell’assenza, al
tormento di una passione che non vuole essere soffocata:
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Je n’écoute plus rien; et pour jamais, adieu.
Pour jamais ! Ah! Seigneur, songez-vous en vous même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime?
Dans un mois, dans un an, comment souffrirons-nous,
Seigneur, que tant de mers me séparent de vous?
Que le jour recommence et que le jour finisse,
Sans que jamais Titus puisse voir Bérénice,
Sans que de tout le jour je puisse voir Titus!
Mais quelle est mon erreur, et que de soins perdus!
L’ingrat, de mon départ consolé par avance,
Daignera-t-il compter les jours de mon absence?
Ces jours si long pour moi lui sembleront trop courts.7
mondo creda alla finzione, quanto a lei, non gliene importa invece niente se l’amato sia o non sia del suo stesso rango.
Torniamo a Racine. Diderot ebbe a dire che la tragedia
è il palcoscenico della passione, la commedia invece della ragione. In realtà il confine tra passione e ragione, sia
nella commedia che nella tragedia si può disegnare difficilmente. Si pensi al teatro di Molière: i suoi personaggi
fanno ridere, certo, ma non ignorano la passione, che anzi risulta comica proprio perché esasperata, come l’avarizia di Arpagone, l’indignazione di Alceste, l’amore di Arnolfo. Il teatro classico francese, comico o tragico che sia,
è sempre un teatro della riflessione, dell’analisi, della discussione, in cui i personaggi possono dire e fare anche
Un circolo vizioso imprigiona e ingabbia i personaggi.
Non possono scappare dai propri sentimenti, ma nemmeno possono sentirli realizzarsi, anzi nemmeno li vedono compresi da colui al quale sono diretti. La solitudine del personaggio è senza uscita. Nemmeno la consolazione di conoscere e vedere il dolore di chi può e sa
abbandonare, ma solo l’irredimibile e perpetua (pour jamais!) sofferenza di chi è abbandonato. Questo struggimento, questa nostalgia dell’impossibile, che percorre
tutta la tragedia raciniana e costruisce la musica dei suoi
musicalissimi versi, si attacca come una malattia anche
ai versi di Metastasio, tra i più dolci ch’egli abbia scritto,
e percorre la musica di Mozart come un grido che non si
può gridare. Recitare Racine o Mozart è rappresentare,
con dolcezza, l’irreparabilità della solitudine degli uomini e mostrare, con inutile e tuttavia ineliminabile consapevolezza, che la disperazione non solo è incomunicabile, ma non ha sbocco.
Ronconi ha familiarità con tutti questi tipi di teatro.
Ha messo in scena l’Orestea (1972) di Eschilo, e le Baccanti (1977) di Euripide, la Fedra (1984) di Racine. Conosce l’orrore surreale del teatro elisabettiano da quando
ha messo in scena nel lontano 1966 I lunatici di Middleton, lo spettacolo che lo rivela al pubblico e alla critica, e
nel 1969 il Riccardo III di Shakespeare. Nel 1999, al Piccolo Teatro di Milano, mette in scena La vita è sogno di Calderón de la Barca. Ma già aveva affrontato nel 1978 quella intensa riscrittura filosofica del dramma calderoniano
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che è La torre di Hofmannsthal. E già nel 1971 Ronconi
fa irrompere la filosofia nel teatro mettendo in scena Il
candelaio di Giordano Bruno. La tragedia, come già riconosceva Goethe, non appartiene al mondo moderno, e
tanto meno alla contemporaneità della società industriale, come sempre lo stesso Goethe riconosce nel suo ultimo bellissimo romanzo, Gli anni di vagabondaggio di Wilhelm Meister. La commedia, fin da Molière, si distorce in
ghigno di derisione. Negli spettacoli di Ronconi tragedia
e commedia si confondono, si scambiano i ruoli. La tragedia assume toni colloquiali, la commedia si colora di
tinte sinistre.
L’orrore della vita nel bric-à-brac del palcoscenico, la deformazione dell’esistenza nello specchio deformante della parola, la sospensione del giudizio nelle vicende aperte di un teatro che ogni volta scardina le proprie premesse e ridiscute se stesso, e dubita di tutto tranne che della
propria capacità d’inventare sempre nuove fantasmagorie e del proprio potere di fascinazione, di stravolgimento d’ogni cosa, anche dei fondamenti stessi del giudizio e
dunque della realtà dello stravolgimento. L’Orlando furioso
(1969), di una simile concezione insieme filosofica e teatrale costituisce forse l’insopprimibile incunabolo.
E Mozart? Questo Mozart inaugurale del Teatro di San
Carlo? È solo per una schedatura di genere che il teatro
mozartiano figura oggi nei libri di storia della musica e
viene recepito dalla maggior parte del pubblico come melodramma. Esso invece è teatro, alla stessa maniera di come è teatro Shakespeare, Racine, Goldoni, Ibsen. Ed è
soprattutto teatro di conversazione. Come Molière, Cor-
neille, Racine, Marivaux. Che sono poi i modelli anche
di Metastasio. Al di là, infatti, di arie e ariette, i drammi
metastasiani sono anch’essi soprattutto teatro di conversazione. E del resto le stesse arie hanno spesso il carattere di un’osservazione, di una riflessione sui casi della vita,
più che costituire la rappresentazione di un sentimento,
cioè di un affetto, come si diceva allora. Il luogo della conversazione è il salotto. Nei salotti parigini nasce l’illuminismo. E il teatro del tempo trasforma in salotto dove si
tengono conversazioni anche le maestose aule di una reggia. Il salotto, o l’aula di una reggia vissuta come un salotto potenziato, amplificato, sono i luoghi dove si possono
meglio studiare i sentimenti e le passioni. Il teatro classico francese, ch’è il modello teatrale dell’Europa fino a
Goethe, Lessing, Schiller, Grillparzer, Kleist, Hofmannsthal, in Germania, e Metastasio, Goldoni, Alfieri, Pirandello in Italia, lo è anche per musicisti come Mozart, Beethoven, Rossini, Verdi, Wagner. La maggior parte dei
drammi che offrono il dato di partenza per la stesura dei
libretti del Settecento e dell’Ottocento appartiene al teatro francese: Nozze di Figaro, Fidelio, Barbiere di Siviglia, Norma, Ernani, Traviata, per non citare che i titoli più famosi traggono il soggetto da opere teatrali francesi. Curioso è il caso di Wagner. Ma basta leggere con attenzione
i suoi drammi per riconoscervi la struttura del dramma
classico francese. Di questo modello il teatro di Mozart è
uno dei vertici assoluti. Non solo nell’opera buffa, ma anche nell’opera seria, cioè nella tragedia. La clemenza di Ti-
to è la sua ultima tragedia. Il flauto magico è un’altra cosa, né
tragedia né commedia, ma opéra-comique mascherato 8 da
Singspiel. I travestimenti e gli occultamenti sono elementi indispensabili del teatro e della poetica di Mozart. Tutte le sue storie hanno un finale aperto: il lieto fine che le
conclude è solo convenzione teatrale. Potrà Costanza dimenticare il proprio rifiuto dell’amore di Selim al primo
litigio coniugale con Belmonte? E che ne è della Contessa che ha visto il marito palpeggiare Susanna? Beaumarchais non a caso del resto nell’ultima commedia della trilogia la consegna nelle braccia di Cherubino. E che ne è
dei personaggi travolti dalla furia di Don Giovanni, dopo
la sua scomparsa? O delle due coppie del Così fan tutte felicemente (?!) riappaiate dopo lo scambio? Perfino la dolce
Pamina conosce il dolore dell’abbandono addirittura prima di vedersi congiunta all’amato Tamino. Nella Clemenza di Tito i giochi si fanno estremi e sinistri. Una donna
respinta dall’uomo di potere che ama chiede al amico di
quell’uomo, adescato apposta, di uccidere l’amico potente. E l’amico, più che sedotto, irretito dalla donna, compie l’atto, che non va a buon punto solo per un occasionale scambio di figure. Lo stesso Tito, rinunciando a Berenice, non cerca l’amore, ma solo una donna che svolga le
funzioni ufficiali di consorte dell’Imperatore. Nessuno
dei personaggi riesce a essere se stesso. Nemmeno Annio, disposto (o disponibile?) a rinunciare alla sua Servilia, per mantenere l’amicizia dell’uomo potente. La tematica è quanto mai metastasiana: gli eroi recalcitrano a rivestire i panni di eroi, nessuno è ciò che gli altri vorrebbero che fosse. E il dramma si chiude con una conciliazione
apparente. Ciascuno indossa una maschera che nasconde
la realtà del personaggio. Quasi Pirandello. Ma certamente Racine, Metastasio, Mozart. Il mondo tragico si rifiuta al ruolo della tragedia. Non per trovare una pace o un
sorriso inesistenti. Ma perché riconosce l’insanabilità del
conflitto tra l’essere e l’apparire, in un mondo in cui contano solo le apparenze.
Questo ha fatto Ronconi. Il salotto vagamente settecentesco può essere anche il salotto di un riccastro di oggi, di un potente di oggi, che s’installa a Palazzo Chigi o
all’Eliseo o a Downing Street. I sentimenti allora vengono claustrofobicamente rinchiusi nello spazio di questo
salotto, di questo palazzo, e prima ancora vengono rela locandina
La clemenza di Tito
di Wolfgang Amadeus Mozart.
libretto Caterino Tommaso Mazzolà
da Metastasio
direttore Jeffrey Tate
regia Luca Ronconi
scene Margherita Palli
costumi Emanuel Ungaro
maestro del coro Salvatore Caputo
luci A. J. Weissbard
Orchestra e Coro
del Teatro di San Carlo di Napoli
personaggi e interpreti
Tito Gregory Kunde
Vitellia Teresa Romano
Servilia Elena Monti
Sesto Monica Bacelli
Annio Francesca Russo Ermolli
Publio Vito Priante
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pressi, rimossi dalla coscienza di tutti:
Se altro che lagrime
per lui non tenti,
tutto il tuo piangere
non gioverà.
A questa inutile
pietà che senti
oh quanto è simile
la crudeltà.
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C’è però in questo arrovellarsi dei personaggi, in questo
girare a vuoto di ragioni e di sentimenti, la disperazione
della bestia presa in trappola, e che gira su stessa, credendo così di scappare via dalla propria insoffribile reclusione. La musica di Mozart estrae dalla buca dell’orchestra
e dalle bocche dei personaggi questo impotente furore.
Di questo furore, ma anche di questa impotenza, lo spettacolo ronconiano offre una mirabile rappresentazione.
Il palazzo può incendiarsi, ma l’incendio si arresta all’atto di far saltare, fulminate, le lampadine del grande lampadario laterale del salotto. I muri dell’edificio possono
crollare, ma crollando lasciano illesi i personaggi. La catastrofe è anch’essa una finzione alla quale mette riparo solo la conciliazione finale apparente dei ruoli: basterà qualche gesto scomposto di qualcuno, qualche fraintendimento in più, e l’equilibrio dei ruoli verrà di nuovo
compromesso, richiederà qualche nuovo aggiustamento,
in un gioco infinito in cui tutti perdono e nessuno vince.
Jeffrey Tate infonde all’orchestra con infinite sfumature questo furore di fondo. La compagnia che recita sulla
scena realizza una meravigliosa compenetrazione di canto e recitazione, in cui non si distingue il canto dalla recitazione, perché il canto recita e recitando i corpi acquistano la vita di una danza ideale dei sentimenti. Svetta sopra
tutti la bravura di Monica Bacelli, perfetta nel ruolo di
grande tragicienne classica impersonando il ruolo di Sesto.
Ma Teresa Romano nel ruolo di Vitellia, Gregory Kunde
in quello di Tito, Elena Monti nel ruolo di Servilia, Francesca Rosso Ermolli in quello di Annio e Vito Priante in
quello di Publio, non sono da meno. Tutti straordinari nel
comporre un’omogenea rappresentazione dell’irreparabile fragilità delle maschere umane.
Il pubblico festoso e attento di un Teatro di San Carlo stracolmo, compreso il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, festeggiatissimo al suo ingresso, ha decretato giustamente per tutti un trionfo. ◼
In questa pagina e nelle precedenti, immagini da La clemenza di Tito
(foto di Luciano Romano © Teatro di San Carlo).
NOTE
1 La clemenza di Tito, I, 5, vv. 238-43. Chi parla è Tito.
2 Andò in scena al Teatro Grimani di S. Samuele, a Venezia, il carnevale del
1758, musicata dal vicentino Giuseppe Solari. L’opera venne ripetuta a Firenze e a Torino, e l’anno seguente a Bologna e a Modena, ma non ebbe successo,
pur essendo tra i migliori drammi giocosi scritti da Goldoni.
3 Il cane del giardiniere. Commedia scritta tra il 1613 e il 1616.
4 Don Sancio d’Aragona. Fu scritto nel 1649.
5 Bianca: Che offesa può farvi la sua fiamma o il suo ritiro, / dato che non aspirate che a disfarvene? / Non so s’egli ami donna Elvira o voi, / ma non capisco
affatto questo moto di gelosia. D. Isabella: Tu non lo capisci! ed è questo che mi
stupisce: / voglio donare il suo cuore, non che il suo cuore si doni: / voglio che
il suo rispetto gl’impedisca d’amarmi, / non altre fiamme che un’altra ha saputo accendere meglio: / voglio di più: che m’ami, e che un giusto silenzio / faccia a fuochi uguali uguale violenza; / che la disuguaglianza gli procuri lo stes-
so strazio; / che soffra per me quanto io soffro per lui; / che solo per l’intento
di affermare la propria fortuna, / e non per amore, si doni a qualcuna; / che per
ordine mio soltanto si lasci costringere; / che ciò sia obbedirmi, e non trascurarmi; / e che vedendo la mia fiamma troppo disposta a onorarlo, / mi tolga
dal pericolo senza umiliarmi. / Perché in fondo l’ha vista, e la conosce troppo
bene; / ma aspira al trono, e non lo fa per il mio; / mi preferisce un’altra, e questa preferenza / forma del suo rispetto l’ingannevole apparenza; / finto rispetto che mi deride, e vuole regnare senza di me!
6 Io l’amo, lo fuggo: Tito m’ama, mi lascia.
7 Non sento più niente; e per sempre, addio. / Per sempre! Ah! Signore, riflettete in voi stesso / come questa parola crudele è orribile quando si ama? / Tra
un mese, tra un anno, come sopporteremo noi, / Signore, che così tanti mari mi separino da voi? / Che il giorno ricominci, che il giorno finisca, / senza
che mai Tito possa vedere Berenice, / senza che per tutto il giorno io possa vedere Tito. / Ma che errore è il mio, e che preoccupazioni perdute! / L’ingrato,
della mia partenza consolato in anticipo, / si degnerà di contare i giorni della
mia assenza? / Quei giorni così lunghi per me gli sembreranno troppo corti.
8 Attenzione! opéra in francese è maschile.
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