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PREMESSA METODOLOGICA
Storia e diritto / Diritto pubblico e diritto privato
Sono concetti inscindibili i cui confini sono stati creati artificialmente dagli studiosi e dai
docenti che hanno ritenuto nel corso degli anni che in una facoltà giuridica il «diritto»
meriti più attenzione rispetto alla «storia» con preferenza all’approfondimento del «diritto
privato romano» che sicuramente costituisce per la sua originalità e completezza il principale pilastro su cui si fonda la formazione dell’operatore giudiziario a spese del «diritto
pubblico (romano) che, invece, può certamente essere più utile e istruttivo per la formazione del politologo».
Il diritto pubblico romano, dal punto di vista didattico, dal momento che delinea e scandisce la storia costituzionale dell’antica Roma, viene, spesso negli atenei nazionali, fatto
rientrare nell’insegnamento comunemente denominato «Storia del diritto romano».
Ad un’analisi più attenta non può non rilevarsi che è la storia del diritto (pubblico e privato) la culla dove nasce, cresce e si sviluppa il diritto romano che rispecchi sia l’organizzazione dello Stato che i rapporti tra i cittadini.
A Roma nei primordi, si passa ad una società inizialmente equalitaria (civitas quiritaria)
ad una caratterizzata da profonde differenze sociali (patrizi/plebei, liberi/schiavi) che segna
sia lo sviluppo delle istituzioni (diritto pubblico) che quello dei rapporti tra gli individui
(diritto privato).
Inaccettabile dal profilo scientifico rimangono le troppo rigide contrapposizioni storia/diritto, diritto pubblico/diritto privato anche se giustificate da motivi didattici e metodologici.
Questo volume delinea i momenti fondamentali della storia politico-costituzionale di Roma
(dalla fondazione a Giustiniano) soffermandosi anche a riflettere sulle fonti del diritto che,
anche nel diritto romano sono state oggetto di appropriazione dei «giusprivatisti», ma che
hanno indiscussa natura pubblicistica, nonché sul diritto penale che, pur nascendo in ambito interpersonale e, quindi, privatistico (vedi legge del Taglione) ha assunto nell’evoluzione dell’ordinamento dell’Urbe i corretti e più equi contorni giuspubblicistici.
Appartiene all’analisi giuspubblicistica anche la repressione criminale che inizialmente fu
circoscritta ai soli reati contro lo Stato (crimina pubblica) e che presupponevano un processo dinnanzi ad un popolo (processo comiziale) nonché pene completamente diverse da
quelle privatistiche e sicuramente più gravi e atroci (condanna ai lavori forzati, confisca del
patrimonio) etc.
Edizioni Simone - Vol. 17 Storia del Diritto Romano
Capitolo 5
I conflitti tra le classi sociali
Sommario
1. Premessa. - 2. Le classi dominanti. - 3. I ceti subalterni. - 4. Le contraddizioni tra le classi.
1.Premessa
A causa della decadenza del ceto medio agricolo, la società romana risultava composta in
linea di principio, da una classe abbiente e dalla massa popolare restante, economicamente molto debole.
Le forti differenze economiche delle classi diedero origine a violenti conflitti interni. Il conflitto
andò sempre più crescendo fino a costituire uno dei fattori principali della crisi della repubblica.
2.Le classi dominanti
A) L’ascesa della classe equestre e il pareggiamento con la nobilitas
Nell’ambito della classe abbiente, tradizionalmente sordo alle istanze di giustizia sociale
avanzate dalla moltitudine di nullatenenti, a seguito dell’espansione del dominio romano e
delle ampliate dimensioni dell’economia, si andò affermando durante il II sec. a.C. un altro
ceto, che aveva costruito la propria ricchezza e il proprio potere soprattutto con i commerci
e le speculazioni finanziarie.
La nuova classe, detta equestre, comprendeva coloro che, iscritti nelle centurie della cavalleria, servivano in battaglia equo privato, ossia con cavallo mantenuto a proprie spese; essa
gradatamente si affiancò alla classe nobiliare. Ciò non impedì, tuttavia, il sorgere di contrasti, anche gravi tra i due ceti, in special modo a causa dei privilegi politici che la classe
nobiliare ancora si arrogava, pur essendo pari, per censo, a quella equestre.
B) La nobilitas
La nobilitas, costituita dalle potenti famiglie patrizie e dalla più ricca plebe, conservava da
una parte il monopolio delle magistrature e delle alte cariche pubbliche, cui fecero seguito il governo delle province e il potere giudiziario, e dell’altro il possesso dell’àger publicus
escludendo, per quanto possibile, ogni concorrenza degli strati più umili della popolazione.
I cittadini delle famiglie nobili si erano rivolti principalmente ad accrescere i loro possedimenti terrieri, sia occupando o affittando grandi estensioni di àger publicus, sia acquistando
dagli agricoltori, impoveriti dalla guerra o attirati dai facili guadagni e dalla vita comoda di
città, i loro piccoli appezzamenti di terreno.
D’altro canto, anche l’amministrazione delle province costituiva una proficua fonte di guadagno per tale classe: più volte i membri dell’aristocrazia senatoria si resero responsabili di
malgoverno, depredando senza alcuno scrupolo le provincie, sottoposte a vessazioni ed
angherie per appagare la propria sete di guadagni.
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Parte II: Il periodo della repubblica nazionale
Le caratteristiche sociali e politiche di Roma in questa fase non potevano che consolidare
le tendenze oligarchiche dell’ordine senatorio in passato importante fattore di equilibrio
e mediazione tra i conflitti sociali.
C) Gli equites
Il nuovo ordine sociale degli equites fu essenzialmente composto da ricchi imprenditori che
trovavano la loro prosperità economica:
—nelle grandi spedizioni militari transmarine;
—nella riscossione dei tributi;
—in affari e traffici di ogni genere con le regioni del mondo mediterraneo.
Fin dall’età delle guerre puniche, con l’enorme afflusso di capitali liquidi, la classe dei cavalieri rappresentò in Roma «l’alta finanza» (FREZZA).
Si è avuto già modo di accennare che l’ascesa degli equites sia avvenuta spesso in contrasto
con la classe senatoria, al fine di indebolire l’autorità dei patres, facendo causa comune con
la parte popolare: le masse popolari costituirono spesso un mero strumento per inseguire,
in realtà, le proprie mire egemoniche.
Come sottolinea DE MARTINO, gli equites non costituivano una classe media di tipo progressista, perché essa, comunque, costituiva un ceto ricco che si appoggiava ora al popolo
ora alla nobilitas a seconda delle circostanze, al fine di tutelare i propri interessi.
3.I ceti subalterni
A) La plebe e i piccoli contadini (1)
Il ceto contadino, chiamato massicciamente a rimpinguare le file dell’esercito per alimentare le mire espansionistiche dei ceti dominanti, al ritorno in patria trovava condizioni di
mercato proibitive per la continuazione della propria attività agricola fondata sul lavoro
familiare, perché in quello stesso tempo erano stati superati dai grandi latifondisti che avevano adottato sistemi di coltivazione fondati su grandi investimenti di capitali e sfruttamento massiccio di mano d’opera servile (schiavitù), proveniente dai territori che (per somma
ironia) gli stessi contadini, arruolati nell’esercito con il loro sangue, avevano conquistato.
In sostanza, il peso dell’espansione gravava sui contadini doppiamente:
—essi pagavano di persona le fatiche delle continue e sempre più numerose guerre;
—sopportavano, altresì, le conseguenze dell’afflusso di schiavi in Roma.
Per tali motivi molti contadini rinunciavano alla vita di liberi coltivatori e andavano ad ingrossare le file della plebe urbana.
La «plebe urbana», dunque, era composta dall’insieme delle masse che vivevano nella
città usufruendo delle periodiche elargizioni pubbliche conseguenti alle vittorie militari.
Il ceto dei piccoli agricoltori, pur non essendo scomparso del tutto per il permanere di aree
dove la piccola proprietà continuava a sopravvivere anche se non possedeva più la forza di
un tempo, non era in grado di esprimere nessun potere né dal punto di vista economico né
politico.
(1) Erano detti proletari perché la prole costituiva la forza lavoro, la principale risorsa di tali famiglie.
Capitolo 5: I conflitti tra le classi sociali
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B) Gli schiavi
Il problema dell’origine della schiavitù è molto dibattuto in dottrina ed ha determinato
numerose controversie.
È opinione diffusa che la schiavitù sia nata fin dalle origini, in forma domestica, anche se
assunse dimensioni più ampie a seguito delle guerre di conquista.
Tale ipotesi non è condivisa da DE MARTINO il quale sostiene che:
—nell’antichità la schiavitù non era diffusa a Roma, ma praticata nell’Urbe in casi del
tutto eccezionali;
—tutto il lavoro subordinato qualificato veniva svolto dai clientes e dalle loro famiglie,
legati alle gentes patrizie e protetti da esse, anche se formalmente liberi: in tal modo, essi
contribuivano in modo fondamentale allo sviluppo dell’economia romana;
—la schiavitù si sarebbe quindi sviluppata soltanto nel IV sec. a.C. con la presa di Veio del
396 a.C. e con le successive guerre di espansione. Infatti tutti coloro che, in seguito alle
conquiste di Roma, venivano fatti prigionieri, erano ridotti poi in schiavitù e portati
nell’Urbe;
—tuttavia fin quando il libero contadino romano fu in grado di attendere in prima persona
alla coltivazione della terra il problema non assunse un grande rilievo, perché nel caso
di piccola azienda agricola lo schiavo, che era completamente a carico del datore, risultava più costoso del libero avventizio.
Secondo dati tratti dagli scritti di Catone, gli schiavi erano considerati semplici strumenti
di lavoro e quindi sfruttati al massimo, strettamente sorvegliati, nutriti con razioni fisse,
aumentate nel caso di lavori pesanti e ridotte nel caso di malattia dello schiavo.
Agli schiavi, se necessario, era imposto anche di lavorare nei giorni festivi; non si riconosceva loro il diritto ad avere una famiglia.
DE MARTINO ritiene che la condizione degli schiavi nell’epoca in cui CATONE (184 a.C.)
scriveva fosse addirittura migliore di quella successiva. Infatti, se pure lo schiavo era sfruttato a fini economici, il padrone aveva il dovere di vestirlo e nutrirlo e non poteva torturarlo o metterlo a morte senza giusta causa, pena l’intervento dei censori.
Più tardi questi principi vennero totalmente abbandonati; i padroni iniziarono a trattare gli
schiavi con estrema crudeltà, tanto è vero che in questa epoca si ebbero terribili rivolte di
schiavi, che culminarono nella guerra servile di SPARTACO (73-71 a.C.).
4.Le contraddizioni tra le classi
A) Generalità
In Roma, alla nuova aristocrazia dominante, si opposero contemporaneamente il popolo minuto, gli schiavi,
i piccoli possidenti rurali e i coltivatori dei fondi (MOMMSEN).
La classe dirigente romana non riuscì ad avvertire e prevenire i motivi della crisi anche perché forti erano le
contraddizioni al suo interno e varie erano le fazioni portatrici di interessi diversi o addirittura contrapposti.
In verità nelle classi subalterne, per la loro eterogeneità, non si sviluppò mai una coscienza politica unitaria
e, raccolte in una sola massa impoverita di gente senza lavoro, di schiavi e di mercenari, divennero uno strumento facilmente manipolabile dalle varie fazioni interne alle classi dominanti.
La classe rurale, che poteva costituire un argine alla disgregazione sociale, non comprese che, per salvaguardare la propria posizione economica e politica, doveva lottare contro l’imperialismo e lo schiavismo; viceversa,
appoggiando la politica di conquista dell’oligarchia, pose le premesse per la sua totale estinzione.
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Parte II: Il periodo della repubblica nazionale
È per tale motivo che le lacerazioni e le contraddizioni pur aspre e profonde, non determinarono un’opposizione democratica, ma una serie di lotte frammentate e non sempre di facile lettura tra le fazioni politiche esistenti della stessa classe dominante (DE MARTINO).
B) I principali motivi di conflitto all’interno della città
I problemi intorno a cui si svilupparono i conflitti durante gli ultimi due secoli della costituzione repubblicana furono, pertanto, essenzialmente i seguenti:
—la riorganizzazione della proprietà dei fondi agrari e la distribuzione delle terre;
—i sistemi per mantenere vitali gli organi costituzionali e i loro rapporti reciproci;
—il problema della partecipazione degli alleati ai frutti delle vittorie;
—l’adattamento della costituzione cittadina alle esigenze di un Impero.
Questa complessa problematica travagliò l’intero periodo della crisi repubblicana fino a
quando, superati i confini della civitas, non si affermò un nuovo ordinamento giuridico
universale idoneo a comprendere, anche dal punto di vista istituzionale, tutto l’insieme del­
l’Impero romano (FREZZA).
Edizioni Simone - Vol. 17 Storia del Diritto Romano
Capitolo 6
I Gracchi
Sommario
1. L’opera di Tiberio Gracco. - 2. L’ager publicus. - 3. La riforma di Tiberio Gracco. - 4. Caio Gracco.
5. L’opera legislativa di Caio Gracco. - 6. La morte di Caio Gracco.
1.L’opera di Tiberio Gracco
La prima figura di riformatore capace di individuare i motivi della crisi sociale e politica
che Roma stava attraversando verso la metà del II sec. a.C., fu quella di Tiberio Gracco.
Figlio di Tiberio Sempronio Gracco (uomo politico molto in vista) e di Cornelia (figlia di Scipione l’Africano,
il vincitore di Cartagine), apparteneva alla nobilitas, ma si era allontanato dal cieco egoismo degli esponenti
della sua classe, attingendo dall’esperienza le sue idee di rinnovamento della società (DE MARTINO).
Era stato valoroso combattente della guerra punica e aveva partecipato attivamente e molto presto alla vita
politica (era stato questore in Spagna). Il ceto contadino, nerbo dell’esercito e del comizio nell’età aurea della
costituzione repubblicana era, a parere di Tiberio, il massimo responsabile della profonda crisi politica e sociale. I piccoli proprietari terrieri, infatti, chiamati in guerra e abbandonate le proprie campagne, raramente al ritorno dalle spedizioni riprendevano la loro originaria attività, divenuta ormai scarsamente redditizia per la
concorrenza delle terre assoggettate.
Due sono i fattori che maggiormente danneggiarono il ceto contadino:
— le ingenti importazioni a basso costo di grano proveniente dalla Sicilia e dall’Africa;
— l’enorme afflusso dalle terre conquistate di manodopera servile.
Le terre, quindi, lasciate a se stesse, divennero di proprietà dello Stato (ager publicus) che finì per cederle ai già
ricchi possidenti, gli unici in grado di poterle acquistare e sfruttare.
La ricchezza, quindi, si concentrava là dove vi era già ricchezza.
I contadini, privati della loro fonte di sostentamento, andavano a confluire nel numeroso proletariato urbano,
alla ricerca di più facili e proficue occupazioni, vivendo di espedienti o in attesa di diventare clientes di una
famiglia nobiliare.
Gravi erano tra l’altro le conseguenze derivanti da tale inurbamento sulle strutture politiche e militari. Occorreva, secondo Tiberio, restituire dignità alle centuriae e ai comizi corrotti e involgariti dalla plebe urbana e ricostruire il laborioso e saggio ceto dei contadini.
Per tale motivo, Tiberio ritenne opportuno fare ricorso ad un ampio progetto di regolamentazione della distribuzione dell’ager publicus.
Dal punto di vista politico la sua opera (e, più tardi, quella del fratello Caio Gracco) aspirava ad un rinnovamento in senso democratico della società romana, ma continuava ad essere
legata ad una ideologia conservatrice perché tendeva a restaurare il vecchio ordine di cose
(piccola proprietà agraria, libero lavoro della terra etc.) ormai sconvolto dagli eventi.
DE MARTINO avverte che il movimento graccano non può essere considerato rivoluzionario, dal momento che:
— non aveva l’intenzione di ribaltare il sistema;
— non lottava contro la politica imperialistica;
— non poneva in discussione il principio della schiavitù.
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Parte II: Il periodo della repubblica nazionale
I Gracchi trovarono una violenta opposizione nell’oligarchia senatoria, perché la riforma avrebbe comportato il frazionamento dei latifondi e la loro riduzione a 500 iugeri. I Gracchi, quindi, non furono altro che gli
esponenti più illuminati della stessa nobilitas e intesero soltanto eliminare la causa più profonda e pericolosa della crisi del loro tempo, facendosi portatori di riforme che annoveravano anche autorevoli seguaci nella
stessa nobilitas (DE MARTINO, FREZZA).
2.L’ager publicus
A) Generalità
Per comprendere meglio la riforma graccana, è necessario tener presente il sistema di proprietà dell’ager publicus.
Si è già visto come l’ager publicus, aumentato di estensione a seguito della confisca di zone del territorio di
città italiche soggiogate, costituisse parte del territorio dello Stato non distribuito ai singoli cittadini; l’amministrazione di esso, come quella di tutto il patrimonio dello Stato, era di competenza del Senato il quale, tuttavia,
concedeva ai cittadini la possibilità di utilizzarlo e sfruttarlo per la produzione agricola.
In linea di principio, questo diritto era sempre revocabile; ciò rendeva sempre possibile l’intervento dell’autorità concedente in caso di mutamento della persona del concessionario, per trasferimento a titolo universale o a
titolo particolare.
In realtà il godimento dell’ager publicus dette luogo a vere e proprie appropriazioni da parte dei privati (esponenti dei ceti dominanti) relativamente alle porzioni di terre così possedute: su di esse, per esempio, vennero
accese garanzie di mutui in danaro, costituzioni di doti etc.; i possessori, in sostanza, riuscirono a poter disporre dell’ager publicus come se si trattasse di ager privatus.
L’ager publicus era pertanto divenuto parte integrante del patrimonio dei privati, cosicché la distinzione economica, all’interno delle aziende, fra ager publicus e ager privatus diventava impercettibile.
B) Intervento dell’assemblea popolare relativamente all’ager publicus
Accanto e, talvolta, contro il parere del senato in materia di distribuzione dell’ager publicus
ai cives, si posero le richieste delle assemblee popolari (comizi), portatrici di istanze volte
ad ottenere una più equa distribuzione di una ricchezza pubblica, secondo criteri diversi da
quelli adottati dai patres.
Il più significativo intervento dei comizi fu quello delle norme rogate nelle leggi Liciniae
Sextiae del 367 a.C.: tale lex avrebbe vietato il possesso dell’ager publicus in misura superiore ai 500 iugeri, per evitare il latifondismo.
Un altro importante intervento dell’assemblea plebea in materia di distribuzione dell’ager
publicus è dovuto all’iniziativa del tribuno della plebe C. Flaminio, nel 232 a.C.: il progetto di quest’ultimo prevedeva l’attribuzione alla plebe in piccoli lotti dell’ager Picenus et
Gallicus. Il plebiscito nonostante l’ostruzionismo dei patres fu approvato; tuttavia questo
rimase un intervento isolato, e comunque, le occupazioni di ager publicus da parte dei latifondisti continuarono indisturbate.
3.La riforma di Tiberio Gracco
A) Il contenuto della lex Sempronia Agraria
Nel 133 a.C. nella sua qualità di tribuno della plebe, Tiberio Gracco propose una legge
agraria (Lex Sempronia agraria). Tale legge rimetteva in vigore il limite di 500 iugeri previsto dalle leggi Liciniae Sextiae del 367 a.C. aggiungendo un ampliamento di 250 iugeri
Capitolo 6: I Gracchi
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per ognuno dei filii familias: tutta l’eccedenza sarebbe stata distribuita, in lotti di 30 iugeri,
ai non possidenti; tali lotti sarebbero stati inalienabili e sottoposti ad un tributo.
Per l’attuazione della riforma venne istituita una commissione di tre membri, tresviri agris
dandis adsignandis iudicandis con pieni poteri: essi dovevano essere eletti dal popolo ogni anno.
Scopo della riforma era quello di evitare:
—da una parte, l’accentrarsi della ricchezza nelle mani di pochi;
—dall’altra, il conseguente moltiplicarsi di un proletariato che rimaneva privo di ogni legame con la vita economica della comunità nazionale;
—e ancora la possibilità di riscuotere tributi sulle nuove assegnazioni.
B) L’opposizione del senato e l’intercessio di Ottavio Cecina
Ovviamente la riforma da un lato incontrava il favore delle masse popolari, ma dall’altro
urtava contro gli interessi della nobilitas:
—sia per motivi di forma, in quanto imponeva al senato una decisione dell’assemblea in
una materia che esso intendeva riservare alla sua competenza;
—sia per motivi di sostanza, perché ledeva gli interessi dei latifondisti.
I patres impiegarono l’arma più sicura di cui disponevano per bloccare tale riforma: dettero incarico a Marco Ottavio, tribuno della plebe collega di Gracco, ma fedele agli interessi
del senato, in grado di opporre il suo potere di veto (intercessio) contro la proposta innovativ di Tiberio.
Ma il prestigio di Tiberio era così alto e indiscusso che egli, accusando il collega di agire
contro gli interessi della plebe, chiese ed ottenne la sua deposizione, con un’azione sostanzialmente corretta, ma formalmente anticostituzionale.
La legge agraria venne pertanto votata, e al triumvirato (agris dandis adsignandis iudicandis) vennero eletti, insieme con lo stesso Tiberio, suo suocero Appio Claudio e suo fratello
Caio Gracco.
C) Morte di Tiberio
A questo gesto rivoluzionario, Tiberio ne fece seguire un secondo, chiedendo per l’anno
seguente, il 132 a.C., contro il divieto della iterazione delle cariche, la rielezione al tribunato della plebe al fine di portare a termine la sua riforma. Egli, infatti, non intendeva limitare la sua azione politica alla redistribuzione dell’ager publicus, ma voleva sferrare un
deciso colpo al monopolio politico del Senato, al fine di accrescere il potere delle assemblee popolari.
Per tutti questi motivi il senato dichiarò Tiberio reo di adfectatio regni, cioè di attentato
alla costituzione, e chiese a Publio Mucio Scevola di procedere alla soppressione di Tiberio Gracco e dei suoi seguaci. Il console si rifiutò di dar seguito alle richieste del senato e
allora un gruppo di senatori guidati da Cornelio Scipione Nasica si lanciò sui graccani e ne
fece strage, uccidendo lo stesso Tiberio.
D)Il senatus consultum ultimum
Il Senato, per giustificare tale comportamento, propose l’emanazione, per la prima volta, di
un senatus consultum ultimum, strumento eccezionale con il quale, ravvisando il carattere
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Parte II: Il periodo della repubblica nazionale
eversivo del movimento graccano, si autorizzavano i consoli a reprimerlo con ogni mezzo,
sospendendo tutte le garanzie costituzionali: gli avversari più pericolosi, dichiarati hostes
rei publicae (nemici della patria) erano passibili di esecuzione capitale immediata senza
processo e senza provocatio ad populum.
Publio Mucio Scevola, ancora una volta, rifiutò la proposta senatoria che, come giurista,
considerava una grave violazione della costituzione repubblicana; tuttavia l’anno seguente
i consoli Lena e Rupilio istituirono tribunali straordinari, senza provocatio e, liquidarono
tutti i partigiani di Tiberio.
Malgrado tutto ciò la legge agraria, pur incontrando notevoli resistenze da parte del senato,
rimase in vigore e i triumviri poterono proseguire nelle loro assegnazioni.
4.Caio Gracco
A) Il programma politico di Caio Gracco
Nel 123, dieci anni dopo la morte di Tiberio, veniva eletto tribuno il fratello minore, Caio,
che si presentava nelle vesti di continuatore dell’opera riformatrice di Tiberio.
Caio, grandissimo oratore e uomo di grandi qualità politiche, avendo già partecipato al
triumvirato che attuava la riforma agraria a conoscenza delle difficoltà incontrate in dieci
anni di applicazione, aveva piena coscienza degli obiettivi da perseguire.
La sua opera, in particolare, fu più vasta di quella di Tiberio perché, oltre a porre rimedio
ai mali economici, volle realizzare una nuova organizzazione delle forze sociali e una
riforma giuridica della società (FREZZA).
Per poter realizzare i suoi obiettivi, Caio Gracco da un lato aveva la necessità di tener legata a sé la massa del popolo e dall’altro di far alleare con l’aiuto del popolo il ceto dei cavalieri, speculando sulla annosa rivalità con la nobilitas. Doveva, inoltre, mirare anche a
consolidare un’opera che sarebbe durata un certo numero di anni e, così, riuscì ad essere
eletto tribuno anche l’anno successivo a quello della sua elezione.
I problemi affrontati da Tiberio furono essenzialmente i seguenti:
—la questione agraria;
—la questione degli Italici, per i quali ormai la cittadinanza costituiva titolo per l’assegnazione delle terre sulla base della riforma;
—i contrasti costituzionali tra aristocrazia e movimento democratico;
—la necessità di ordinare il regno di Pergamo lasciato in eredità a Roma dal re Attalo III
(180 a.C.) e sul quale esistevano contrasti tra senatori e cavalieri.
B) La legge agraria (Lex Sempronia Agraria C. Gracchi 123 a.C.)
La distribuzione dell’ager publicus, paralizzata dall’ostruzionismo della nobilitas (1), venne assicurata da un rinnovata lex agraria, con la quale Caio Gracco non solo eliminò le
difficoltà incontrate nella applicazione pratica della prima, ma aggiunse il divieto, per gli
assegnatari, di alienare, inter vivos, le terre ottenute in proprietà.
(1) Nel 129 a.C. un senatusconsultum promosso da Scipione Emiliano ridusse notevolmente la funzione dei triumviri, lasciando loro solo poteri esecutivi.
Capitolo 6: I Gracchi
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Sull’esistenza di tale legge non sussistono dubbi, mentre per quanto riguarda il contenuto,
i pareri della dottrina sono discordi.
Alcuni studiosi ritengono che la legge di Caio si sostituì interamente a quella di Tiberio, grazie ad una nuova
sistemazione e un nuovo regolamento della divisione dell’ager publicus (DE MARTINO).
Altri, invece, ritengono che la legge non avesse introdotto alcuna innovazione fondamentale e che fosse servita
solo a confermare la validità della riforma agraria (MOMMSEN, SOLLAZZI).
In realtà non è possibile determinare con certezza se e quali mutamenti furono apportati, con la nuova legge,
alla vecchia legge: probabilmente si trattò delle modifiche necessarie per superare l’ostruzionismo della nobilitas nei confronti della sua realizzazione (FREZZA).
Con la nuova legge, alle assegnazioni individuali, si aggiunsero anche assegnazioni collettive, nella forma di deduzioni di colonie decise per plebiscito.
Si voleva, inoltre, procedere alla colonizzazione dei territori conquistati oltremare, non solo
per coprire le esigenze del ceto agricolo italico, ma per creare, allo stesso tempo, in tutto
l’impero, una serie di centri di diffusione della civiltà italica.
5.L’opera legislativa di Caio Gracco
Caio Gracco nei suoi due tribunati, 123 e 122 a.C., oltre a riprendere la lex agraria del
fratello Tiberio, con le (presunte) modifiche prima illustrate, fece votare, il più delle volte
per propria iniziativa, o per iniziativa dei suoi collaboratori, un significativo corpo di leggi
costituzionali.
A) Le leggi per l’amministrazione delle province
Caio Gracco ebbe una visione politica chiara anche sui problemi relativi all’organizzazione
delle province e delle popolazioni esterne a Roma (FREZZA).
Con la lex de provinciis consularibus egli stabilì che il senato dovesse procedere alla determinazione delle province consolari prima dell’elezione dei magistrati cui dovevano essere attribuite, al fine di evitare favoritismi in sede di assegnazione.
Per arginare le malversazioni dei governatori nei confronti dei sudditi provinciali Caio
intervenne con un plebiscitum de vectigalis.
Con la lex Sempronia de provincia Asia Caio attribuì il potere di determinazione dei tribuni nella provincia lasciata in eredità (180 a.C.) a Roma da Attalo III (sovrano di Pergamo)
ai concilia plebis, sottraendola, così, alla vorace competenza del senato.
B) Leggi giudiziarie e lex Acilia repetundarum (123 a.C.)
Il punto dolente dei rapporti fra i sudditi provinciali ed i governanti romani delle province,
era l’assenza di un limite giuridico che ponesse freno al potere di questi ultimi.
Si cercò, perciò, di creare una difesa contro le spoliazioni dei sudditi compiute da magistrati romani, ammettendo contro questi ultimi una azione per la ripetizione (cioè il rimborso)
di quanto essi avessero indebitamente estorto (pecunia o res repetundae).
Per questa via, fu circoscritto, almeno in campo patrimoniale, l’illimitato arbitrio dei governatori delle province nei confronti dei sudditi provinciali.
La lex Acilia repetundarum aumentò il rigore dei giudizi, concedendo una azione in duplum,
volta, cioè, alla restituzione del doppio del valore delle cose o del danaro estorto, e affidò,
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Parte II: Il periodo della repubblica nazionale
per la prima volta, il processo ad un pretore (praetor repetundis) istituito specificamente
per questi processi, ed eletto dal senato.
Il praetor repetudins, come già accennato, aveva il compito di preparare un elenco di 450 cittadini i quali
dovevano essere scelti, secondo quanto disponevano le leggi precedenti entro la cerchia dei senatori. L’elenco veniva scritto in un albo e pubblicato. Spettava poi all’accusatore danneggiato scegliere gli uomini che
avrebbero composto la giuria (quaestio). La lex Acilia, invece, dispose che fossero chiamati a far parte della
giuria gli appartenenti all’ordo equester, sottomettendo in tal modo i nobiles al controllo dei nuovi ricchi.
Fino all’epoca di Caio Gracco le giurie, che componevano il tribunale, sia per i processi
privati che per quelli pubblici, erano composte esclusivamente da membri dell’ordine
senatorio: Caio fu l’artefice della prima riforma sull’elenco dei giudici.
Le fonti non sono d’accordo sul contenuto della riforma: in particolare non si può stabilire
con certezza se Caio aggiunse i cavalieri alle liste dei senatori, o se i cavalieri si sostituirono completamente ai senatori.
C) Lex Sempronia frumentaria e le frumentationes
Caio aspirava ad ottenere un riconoscimento personale, che lo affrancasse da ogni paragone
con l’ombra del fratello Tiberio: per questa ragione, si adoperò per far votare numerosi
provvedimenti a favore dei populares.
Fra essi, notevole rilevanza assume la lex Sempronia frumentaria con la quale Caio volle
assicurare alla popolazione maschile adulta di Roma, appartenente al proletariato, per motivi di sopravvivenza, la distribuzione mensile di una quantità di grano a prezzo più basso
di quello di mercato.
Questo sistema, detto delle frumentationes, è considerato dagli antichi e da alcuni scrittori
moderni la causa di rivolte e di disordini, ed addirittura il fattore che determinò l’accrescersi dell’oziosità del proletariato urbano (ARANGIO-RUIZ).
D)Segue: Le norme in favore del popolo e della democrazia
Tra i provvedimenti fatti votare da Caio Gracco in favore del popolo, alcuni erano diretti a
rendere più democratiche le istituzioni dello Stato, altri a porre rimedio alla miseria diffusa
tra i ceti meno abbienti.
Fu, così, concessa alla plebe la facoltà di scegliere i tribuni anche tra coloro che erano stati
tribuni immediatamente prima (senza applicare il divieto di iterazione); si dispose che i
magistrati deposti dal popolo non potessero più rivestire magistrature; si ristabilì la necessità della provocatio ad populum anche nei processi di alto tradimento; si vietò il reclutamento di soldati di età inferiore ai 17 anni e si pose a carico dello Stato la spesa per il vestiario delle nuove truppe.
Capitolo 6: I Gracchi
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6.La morte di Caio Gracco
Il quadro della legislazione graccana delinea con sufficiente chiarezza il suo disegno costituzionale:
—la funzione legislativa doveva essere attribuita alle assemblee popolari;
—la funzione amministrativa sarebbe dovuta essere di competenza dei magistrati e del
Senato;
—dovevano essere effettuati controlli rigorosi sul governo delle province.
In più, da uomo lungimirante quale era, Caio Gracco non mancò di prevedere le pericolose
conseguenze dell’eccessiva restrizione della cittadinanza, anche in considerazione delle
distribuzioni di ager publicus che avevano inasprito i rapporti con gli Italici, esclusi da tali
ripartizioni. Non potendo concedere la cittadinanza a tutti gli Italici, egli si limitò a proporre che la cittadinanza fosse quantomeno concessa ai Latini, offrendo allo stesso tempo
alle altre città italiche il diritto di voto (ius suffragii).
Con tale proposta legislativa Caio Gracco segnò la sua rovina.
Questo progetto, infatti, suscitò l’ostilità non solo della nobilitas, ma anche degli equites e delle masse proletarie, timorose di vedere sminuito il loro peso politico a causa dell’accrescersi del numero dei cittadini.
Il senato seppe sfruttare a suo favore questo malcontento generale ricorrendo ancora una volta all’intervento di
un tribuno della plebe, Marco Livio Druso, il quale, riuscito ad accaparrarsi le simpatie del popolo con iniziative ancora più favorevoli di quelle propiziate da Caio Gracco, non esitò ad opporre l’intercessio alla proposta
di Caio sugli Italici, ottenendo la piena adesione del popolo.
La proposta di Caio quindi cadde, ed egli non ottenne la rielezione per l’anno successivo, il 121 a.C. Caio
Gracco, non più tribuno, e il suo fedele amico Fulvio Flacco cercarono di resistere con la forza, ma il senato
emanò contro di loro il senatus consultum ultimum e, in uno scontro armato, entrambi i capi della parte popolare perirono.
Con tale evento cadeva il disegno di riforma perseguito dai Gracchi: le istituzioni repubblicane che si ritenevano salvate, in mancanza di significative riforme, erano destinate a
sopravvivere solo formalmente fino alla loro estinzione, perché solo un’opera del respiro
del progetto graccano avrebbe consentito di creare una formula di equilibrio idonea a conservare, rinnovandoli, gli ordinamenti della libera res publica (FREZZA).
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Capitolo 1
Il principato
Sommario
1. La fine della repubblica e il principato. - 2. L’inquadramento del nuovo potere.
3. Il regime instaurato da Augusto. - 4. La situazione economica e sociale di Roma.
1.La fine della repubblica e il principato
Il periodo classico o del principato va dal I sec. a.C. (27 a.C.) al III sec. d.C. (285 d.C.
ascesa di Diocleziano).
La data del 27 a.C. segnò, simbolicamente, la fine della crisi della Repubblica e l’inizio di
un nuovo periodo storico contrapposto, denominato da GUARINO della civiltà romanouniversale (o repubblica universale).
La nuova res publica si caratterizzò per la sua universalità: superata la concezione della
città-stato, infatti, aprì le sue porte a tutti i popoli dell’Impero, costituendo una sorta di
denominatore comune delle varie civiltà antiche, i cui patrimoni, tuttavia, rimasero per
buona parte intatti sotto il manto comune della romanità. Nelle province orientali rimase
dominante la cultura greca, nei cui confronti, fra l’altro, gli stessi Romani avevano dimostrato una particolare riverenza. Progressivamente la civiltà greca e quella romana furono,
ogni giorno di più, percepite unitariamente: questo fece sì che Oriente e Occidente avessero uno sviluppo per certi versi congiunto, finendo per costituire un’entità culturalmente
compatta (KUNKEL).
L’Impero rimase costituito da innumerevoli comunità politiche cittadine, non più libere di
autodeterminarsi politicamente, ma fornite di una larga autonomia amministrativa; esse, pur
sussistendo differenze di condizione giuridica (risalenti all’epoca di fondazione dell’Impero, ma che si andavano via via attenuando), partecipavano tutte alla vita economica, civile
e culturale (KUNKEL).
Per tale via trovarono soluzione i problemi che avevano determinato la crisi della repubblica e, prima fra tutti, l’insufficienza delle strutture che avevano caratterizzato la città-stato
rispetto all’estensione territoriale dell’Impero (FREZZA).
Il regime di governo che si andò affermando fu quello del principato: dopo l’avvento di
Ottaviano le istituzioni repubblicane (ed, in primis, il senato) considerarono necessaria
l’istituzione extra ordinem di un princeps, accanto agli organi tipici della costituzione repubblicana che avrebbe dovuto garantire:
—l’ordine interno;
—la pax romana nelle province.
Non si può, quindi, negare l’importante mutamento storico e costituzionale verificatosi in
questo periodo: lo stesso Ottaviano Augusto era ben consapevole del fatto che la sua opera
riformatrice avrebbe mutato sostanzialmente e definitivamente l’ordinamento giuridico di
Roma. Ed infatti, il suo principale scopo fu quello di restaurare le istituzioni repubblicane,
Capitolo 1: Il principato
137
restituendo il potere agli organi costituzionali tipici. Le istituzioni repubblicane non avevano però, alcuna possibilità di risorgere, se non solo formalmente; infatti:
—l’autorità del senato era crollata;
—i magistrati e i promagistrati non agivano più secondo le più antiche consuetudini, e
con l’antica ampiezza di poteri;
—gli eserciti obbedivano soltanto agli ordini dei loro comandanti;
—le assemblee popolari (comizi) non avevano più alcuna autonomia né alcun potere;
—l’ordinamento repubblicano era diventato troppo angusto ed inadeguato per l’immenso territorio conquistato da Roma: un cambiamento istituzionale era, dunque, divenuto inevitabile.
2.L’inquadramento del nuovo potere
A) La giustificazione dei poteri di Ottaviano
La detenzione del potere da parte di Ottaviano, attraverso un triumvirato, a partire dal 43
a.C. per cinque anni, prorogati poi di altri cinque, si presenta come una grave violazione
dell’ordinamento repubblicano (che prevedeva solo due consoli), ma non pone particolari
problemi di definizione.
La dottrina è divisa sulla fonte di legittimazione del potere che Augusto aveva esercitato nel periodo
tra il 32 e il 28 a.C.:
— alcuni studiosi ritengono che Ottaviano continuasse ad avere potestà triumvirale;
— altri che il suo potere si fondasse sulla coniuratio Italiae;
— altri ritengono che Ottaviano trasse il suo potere dal consensus universorum (generale consenso dei consociati).
Lo stesso Ottaviano, nella sua autobiografia «Res Gestae», mostrò di ritenere esaurito il
potere triumvirale il 31 dicembre del 33 a.C. e dichiarò che «dopo aver concluso le guerre
civili», egli si era «impadronito del potere attraverso il consensus universorum».
Augusto, dunque, affrontando il problema in modo più concreto di quanto hanno fatto i
moderni storici, per giustificare il suo potere rerum omnium (universale) ricorreva al consensus universorum, cioè ad un fatto extra-costituzionale (MAZZARINO).
B) Il potere consolare e l’imperium
Il potere consolare, che Ottaviano dal 31 a.C. si fece rinnovare ogni anno, gli consentì la
direzione della vita politica di Roma fu analogo a quello tradizionalmente riconosciuto alla
magistratura consolare.
Per quanto concerne l’imperium gli studiosi non sono concordi:
— alcuni ritengono che l’imperium di Ottaviano sulle province corrispondesse all’imperium consulare ordinario;
— altri lo riconducono all’imperium proconsulare;
— altri, infine, individuano in questo imperium un potere nuovo, dissimile da quelli repubblicani, e
sintomatico dell’esistenza di un nuovo ordinamento.
I poteri di Augusto sulle province erano del tutto estranei alla tradizione, e in ciò gli studiosi trovano
la prova della mancata restaurazione repubblicana e della creazione di una nuova struttura giuri-
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Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
dica: si trattava di un imperium di nuova creazione, non definibile secondo le etichette risalenti al
precedente sistema istituzionale, e consistente nel comando supremo dell’esercito.
C) I poteri di Augusto nel 23 a.C.
La più importante tappa della ascesa politica di Ottaviano Augusto fu quella del giugnoluglio del 23 a.C., quando, abbandonato il consolato, egli ottenne dal senato poteri totalmente estranei alla tradizione repubblicana, e tali da costituire la base giuridica del nuovo
ordinamento (FREZZA, DE FRANCISCI). Egli, infatti ottenne:
—dai concilia plebis, la tribunicia potestas a vita;
—dai comitia centuriata, l’imperium proconsulare maius, non solo sulle province imperiali ma anche su quelle senatorie.
In particolare:
1) la tribunicia potestas attribuì ad Augusto il diritto di controllo e di iniziativa sulla vita
costituzionale, e gli conferì:
—la qualità di sacrosantus;
—l’intercessio contro tutti gli atti dei magistrati e del senato;
—lo ius agendi cum plebe (poteva quindi fare anche votare i plebisciti oltre a convocare il senato);
2) l’imperium proconsulare maius, non più limitato alle province assegnategli, ma esteso
su tutto l’Impero (imperium infinitum), gli diede il supremo comando militare e il potere sulle province.
Syme individua nell’ottenimento di questa potestas un «potere formidabile»: pur non
essendo tribuno della plebe, egli godeva di tutta la potestas propria dei tribuni della plebe.
Mazzarino individua nell’imperium proconsolare maius et infinitum, la base militare del potere di Augusto nelle province; nella tribunicia potestas, invece, la base costituzionale.
Accanto a questi due poteri fondamentali, ad Augusto fu conferita inoltre tutta una serie di poteri minori, come:
— la cura legum et morum (potere di controllo sulla legislazione e i costumi);
— il diritto di commendatio (potere di raccomandare, alle assemblee, i candidati alle magistrature);
— l’investitura del pontificato.
Per quanto concerne l’imperium consulare e la potestà censoria, molti studiosi ritengono che non si trattasse di
attributi permanenti di Augusto, ma di poteri a lui conferiti solo in circostanze determinate.
Secondo TALAMANCA, il 23 a.C. può considerarsi come la vera data di inizio del Principato.
Il conferimento di questi ampi poteri segnò un vero e proprio mutamento istituzionale,
aprendo le porte all’età del principato, e rendendo palese il disegno politico di Ottaviano
Augusto: calare, in forma idealmente repubblicana, la realtà di un assetto istituzionale nuovo, incentrato sul suo potere personale assoluto (TALAMANCA).
D)I titoli e gli onori
Per quanto concerne i titoli che furono attribuiti ad Augusto, la dottrina ha sottolineato che essi non sempre
furono indicativi della creazione di un nuovo ordinamento, perché il contenuto e il significato che essi avevano
all’epoca non è quello che, in seguito, assunsero con il consolidarsi del nuovo ordinamento giuridico.
Capitolo 1: Il principato
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In particolare, Augusto ebbe il titolo di:
— Imperator: il titolo, assunto da Augusto come prenome, nelle istituzioni repubblicane indicava solo il
comandante militare, mentre in questa nuova fase esso indicò il titolare di un potere esclusivo;
— Princeps: il titolo, peraltro non sempre usato da Augusto, designava il leader del senato, ma fu inteso
da Augusto in senso più ampio;
— Augustus: questo titolo aveva valore meramente onorifico.
Solo nell’evoluzione costituzionale successiva, il titolo «Imperator Caesar Augustus», divenne titolo ufficiale del capo dello Stato romano.
E) Obiettivi di Ottaviano Augusto
Il principale obiettivo di Augusto, come in passato per Giulio Cesare, era quello di riformare la costituzione repubblicana. Tuttavia Cesare era stato più innovatore: la sua opera lascia
intendere, infatti che, se fosse rimasto più a lungo al potere, avrebbe certamente realizzato
una monarchia assolutistica di tipo orientale (GUARINO).
Ottaviano, invece (come Silla) era più conservatore: voleva limitarsi a restaurare la repubblica, dando vita ad un ordinamento giuridico che risultasse dal compromesso fra le tradizioni dell’epoca repubblicana e la figura nuova di un princeps, titolare di un potere monarchico.
Il princeps non doveva essere considerato come un sovrano investito costituzionalmente,
ma, semplicemente, come primo cittadino (princeps, primus inter pares, da cui principato)
di una città libera e democratica che, grazie al suo prestigio politico (auctoritas) ed all’aiuto dei suoi funzionari privati (fiduciari del princeps), stesse al fianco del governo repubblicano per aiutarlo a mantenere l’ordine pubblico e l’amministrazione dell’Impero universale (DE FRANCISCI, TALAMANCA, FREZZA, KUNKEL).
3.Il regime instaurato da Agusto
A) Le riforme di Augusto
Ottaviano Augusto con ogni probabilità cominciò a realizzare il suo piano di riforma e di
restaurazione già nel 28-27 a.C., prima, cioè, di essere nominato princeps Augustus.
Nell’ambito della sua opera riformatrice, egli provvide a:
—dividere le insegne consolari con l’altro collega;
—abolire le norme triumvirali eccezionali, ripristinando la legislazione ordinaria;
—proporre provvedimenti riguardanti l’amministrazione finanziaria, la giurisdizione, e il
divieto dei culti stranieri.
Ma, soprattutto, egli restituì la sovranità agli organi costituzionali che ne erano titolari:
così il popolo, il senato e le magistrature ripresero l’esercizio legittimo delle loro tradizionali funzioni, come previsto dalla costituzione repubblicana.
B) Potere di controllo del princeps
Tuttavia, anche se Augusto aveva concesso la ripresa del regolare funzionamento delle
istituzioni repubblicane attraverso il ripristino delle assemblee popolari ed attribuendo
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Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
nuovamente il potere legislativo e giudiziario al senato (1), ciò non voleva dire che la Repubblica fosse stata restaurata in pieno.
Augusto infatti, non abbandonò mai la sua iniziativa politica, che si esplicava nel controllo
di tali organi: creò, pertanto, nel 27 a.C. un consilium principis volto da un lato a ratificare
tutte le deliberazioni assembleari, e dall’altro a preparare provvedimenti che, trasmessi al
senato, apparivano emanati da esso (cd. senatusconsulta) (TALAMANCA) (2).
Gradualmente il senato fu privato di ogni libero potere di iniziativa legislativa: la sua attività finì col ridursi a mera ratifica — fatta senza godere di alcun autonomo potere valutativo e discrezionale — dei provvedimenti legislativi voluti dai vari imperatori.
C) La nascita del principato
Per quanto concerne la data della nascita del principato, la maggior parte della dottrina ritiene che esso si sia realizzato tra il 27 e il 23 a.C.: alcuni giudicano più significativa la
sostanziale violazione dei principi repubblicani, realizzata sia con il triumvirato decennale
sia con l’assunzione del potere sulla base del consensus universorum (DE MARTINO,
ARANGIO-RUIZ etc.).
Altri, invece, individuano la fondazione del principato nel passaggio dal consensus universorum all’auctoritas, che attribuì ad Augusto la cura e tutela rei publicae universa (MAZZARINO, GROSSO etc.).
In genere, gli studiosi ritengono impossibile indicare una data precisa, e preferiscono parlare di un processo evolutivo, piuttosto che di un mutamento improvviso.
D)Il problema della definizione politica del regime augusteo
La definizione politica del principato augusteo rappresenta uno dei più tormentati problemi
sia per gli storici moderni, che per gli scrittori dell’antichità. Tra i due poli della restaurazione repubblicana e della instaurazione di un nuovo regime monarchico (che sono le
formulazioni più semplici), esiste tutto uno sforzo di definire, in sintesi, una realtà per molti aspetti complessa (GROSSO).
Per esaminare tutte le definizioni giuridiche del principato, più che riferire le opinioni di
ogni singolo studioso, appare preferibile raccogliere le varie tesi in gruppi omogenei.
Tesi della sussistenza della res publica
Fondandosi sulle affermazioni dello stesso Augusto, che si presentava come il restauratore della
repubblica e della libèrtas, una parte, invero minoritaria, della dottrina ha sostenuto che il regime
augusteo mantenne la struttura generale della res publica, se non de facto, almeno de iure (SCHULTZ,
MEYER, GUARINO).
Secondo GUARINO la Repubblica romana universale rimase, con il 27 a.C. uno Stato a governo
aperto, cioè formalmente democratico, anche se il funzionamento del governo fu accentrato nel
nuovo istituto del princeps.
(1) In questo periodo il senato vide aumentare i propri poteri legislativi attraverso l’adozione di un efficace strumento legislativo, il senatusconsultum (TALAMANCA); significativi furono anche gli sviluppi dell’attività giudiziaria, venendosi ad
ampliare e consolidare quel potere di fatto che il senato aveva già esercitato durante la fase di crisi repubblicana, in ordine
all’istruzione dei processi politici.
(2) Non si può tuttavia negare l’importanza dell’opera svolta dal senato in questo periodo: insieme con il princeps, partecipava alla gestione dello Stato, anche se l’intensità della partecipazione dipendeva comunque dallo stesso princeps.
Capitolo 1: Il principato
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L’opinione di una sostanziale restaurazione della repubblica aristocratica, secondo la maggior parte
della critica, urta contro la realtà, che non fu solo di trasformazione politica, ma si tradusse anche in
chiari termini giuridici e costituzionali (GROSSO).
Le tesi monarchiche
Una parte degli studiosi ha individuato nel regime augusteo una vera e propria monarchia.
Nell’ambito della stessa teoria vi sono però molte divergenze, così:
— alcuni autori hanno parlato di una monarchia fondata su schemi ellenistici (WOLF);
— altri di una monarchia «larvata» (LONGO);
— altri ancora hanno individuato una monarchia «nascosta da forme repubblicane», e fondata
sull’«auctoritas», intesa su un piano non giuridico, ma etico-politico e personale (JONES, DE
FRANCISCI etc.).
DE FRANCISCI ritiene che si sia realizzata una «trasformazione rivoluzionaria» che, nel procedimento,
osservò la legalità formale, ma creò un regime antitetico con la vecchia costituzione: un regime in cui
un organo nuovo, il princeps, si pose al di sopra degli altri, e ne assunse gradualmente tutte le funzioni.
Il dualismo di poteri
Valorizzando la circostanza che l’instaurazione del nuovo regime era avvenuta attraverso una sovrapposizione, alcuni studiosi hanno elaborato una teoria fondata su una «separazione giuridica», e
sull’individuazione di una «dualità di poteri».
Primo sostenitore di questa tesi fu MOMMSEN che individuò nel nuovo regime una «diarchia», cioè
un governo a due, del principe e del senato, che si poneva al di sopra degli altri organi costituzionali:
— da un lato, quindi, i comizi e le magistrature repubblicane sottoposti al controllo dell’assemblea
dei patres, e dall’altro il princeps con i suoi funzionari;
— da un lato il patrimonio del popolo romano (aerarium) e dall’altro il tesoro del princeps (fiscus Caesaris);
— da un lato l’ordinamento posto in essere dalle strutture repubblicane, dall’altro il diritto creato dal
princeps;
— da un lato la coercitio delle quaestiones, così come regolate da Silla e da Cesare, dall’altro la libera coercizione del princeps e dei suoi funzionari.
La tesi di MOMMSEN ha avuto molti seguaci ma, da parte di alcuni (TALAMANCA, ARANGIO-RUIZ)
si è osservato che i poteri del principe e del senato non erano sullo stesso piano, dal momento che
il princeps si trovava in una posizione dominante.
Da tale idea nacque la geniale raffigurazione di ARANGIO-RUIZ: l’autore, infatti, ritiene che fra i due
organi vi sia stato un rapporto di «protettorato»: Stato protetto sarebbe stata la res publica Romanorum formalmente intatta; Stato protettore, la monarchia.
Questa opinione, seguita anche da FREZZA, riconosce la coesistenza di un ordinamento essenzialmente nuovo, con l’ordinamento costituzionale repubblicano, ma nega la diarchia perché non considera il Senato compartecipe del princeps nelle scelte politiche su cui si fondava la direzione dello
Stato.
Nell’ambito di tale teoria si può collocare anche la tesi di DE MARTINO, secondo cui il regime di
Augusto costituì una forma di governo misto, caratterizzata da una prevalenza di elementi di tipo
monarchico.
Le tesi dei regimi differenziati
Vi sono infine studiosi che hanno inteso differenziare il regime augusteo a seconda del territorio considerato come oggetto del potere.
Secondo SIBER esistevano, ad esempio, tre imperia:
— un imperium proconsulare per le province senatorie;
— un imperium consulare per l’Italia;
— un imperium (non definito) per le province imperiali;
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Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
il regime poteva essere considerato in vario modo:
— il potere sulle province era monarchico;
— la potestà legislativa era diarchica;
— l’amministrazione di Roma e dell’Italia era repubblicana.
Nello stesso senso KUNKEL, per i rapporti tra il principe e i cittadini romani, sostiene l’esistenza di un
rapporto fiduciario, ma nega che per i sudditi provinciali avesse un qualche valore «l’ingegnosa giustapposizione di Repubblica e Principato, concepita a misura delle idee e della sensibilità dei cittadini romani».
Per tale motivo, a differenza di quanto si fece a Roma, nelle province si favorì apertamente l’affermarsi della concezione monarchica ed imperiale (KUNKEL).
È da rilevare, peraltro, come queste ultime teorie, più che partire dalla reale configurazione giuridica
del principato, prendano in considerazione le forme ideologiche e sovrastrutturali, del princeps.
E) Il significato politico dell’avvento del principato
Secondo la storiografia tradizionale, il passaggio dalla repubblica al principato sarebbe
stato realizzato attraverso una rivoluzione, che si concretò (MOMMSEN, DE FRANCISCI),
nella sostituzione di una nuova oligarchia a quella della classe degli optimates.
In realtà però:
—non vi era stato alcun mutamento importante né nei rapporti tra le classi, né nella
struttura economica;
—non era mutato il rapporto tra liberi e schiavi, caratteristico della società romana;
—non era mutato neanche il regime che subordinava le province a Roma e all’Italia.
Per tale motivo gli studiosi più moderni (DE MARTINO, FREZZA) negano la possibilità
di parlare di rivoluzione e considerano, invece, il nuovo regime conservatore e restauratore perché tendente:
—a consolidare la struttura schiavista della società;
—a perpetuare il divario economico esistente tra i ceti più abbienti e la plebe;
—a perpetuare nel mondo mediterraneo l’egemonia romano-italica.
Poiché questi scopi erano già fissati nella politica dei patres fin dalla distruzione di Cartagine,
«Augusto può sinceramente considerarsi un restauratore e non un innovatore» (FREZZA).
Ovviamente tutto ciò non significa che non vi furono cambiamenti strutturali giacché:
—il regime schiavistico cominciò lentamente a decadere;
—la classe dei cavalieri fu privilegiata rispetto all’ordine senatorio;
—i sudditi provinciali vennero integrati e ne fu favorita la romanizzazione;
—il regime superò definitivamente l’antica concezione dello Stato come polis o civitas, per
organizzarsi quale governo mondiale.
Tali mutamenti non furono rivoluzionari: essi produssero una evoluzione profonda nella
struttura giuridica di Roma, modificandone sia l’assetto costituzionale, sia l’ordinamento
civile, penale e giurisdizionale.
4.La situazione economica e sociale di Roma
I primi due secoli dell’età imperiale del principato di Augusto, fino più o meno ad Antonino
Pio (161 a.C.), rappresentano un momento culminante della storia della società romana:
regnano finalmente la pace e un grande ed evidente sviluppo economico.
Capitolo 1: Il principato
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Furono soprattutto l’apertura e l’urbanizzazione delle province a rendere possibile una
maggiore attività commerciale, industriale ed artigianale. Tuttavia la principale fonte di
ricchezza del paese fu la produzione agraria che prosperò non solo nelle zone agricole
tradizionali ma anche in zone fino ad allora arretrate, grazie all’introduzione di metodi di
coltivazione più redditizi e alla grande quantità di forza lavoro specializzata.
Molti romani antichi, molti cavalieri e liberti dovevano la loro ricchezza proprio alle grandi proprietà terriere, e pochi erano coloro che si arricchivano con il commercio e con prestiti di danaro.
La struttura sociale dell’età del principato non si differenziava molto da quella della tarda
repubblica. La società appariva ancora divisa in due classi sociali: lo strato sociale superiore, rappresentato dalla classe dirigente, l’élite, al quale spettavano i posti più elevati
nell’amministrazione dell’impero (ordo equester e ordo senatorius) e lo strato sociale inferiore della città e della campagna i cui componenti in quanto (liberi, liberti o schiavi)
vivevano secondo differenti forme di dipendenza sociale (ed erano detti proletari).
Le differenze sociali avevano pesanti ripercussioni sul piano dell’ordinamento giuridico.
Alcuni studiosi (Utchenko e Maschkin), hanno osservato che nella sostanza vi fu più una trasformazione dal punto di vista ideologico che dal punto di vista delle strutture socio - economiche.
Costoro in altri termini ritengono che non si assiste a trasformazioni sociali, in quanto la struttura
economica, nelle sue linee fondamentali, rimane invariata.
Per Crifò, la vita della repubblica continuava a svolgersi attraverso gli organi preesistenti: ma al di
fuori della res publica era il potere protettivo del Principe, che la convogliava avviandola al raggiungimento dei fini da lui stesso segnati.
Talamanca, pur aderendo in linea di massima con quanto detto, ritiene tuttavia esserci due fattori
da prendere in considerazione ai fini di una valutazione dello sviluppo sociale della società romana:
A) l’instaurazione della monarchia imperiale;
B) inserimento nell’ambito del sistema statale e sociale romano delle province e dei provinciali.
Le persone più importanti (cd. honestiores) erano trattate con maggior riguardo, in quanto
«degni d’onore», principalmente nel campo del diritto penale, nel quale erano previste per
essi pene più miti e meno infamanti rispetto a quelle previste, per gli stessi delitti, per le
persone di condizione sociale inferiore (cd. humiliores).
Non vigeva assolutamente il principio di uguaglianza della popolazione di fronte alla giustizia.
Così per esempio i membri dell’ordine equestre colpevoli di crimini per i quali era prevista (per gli humiliores)
la pena dei lavori forzati, erano puniti col solo esilio. Ai senatori colpevoli di delitti capitali, veniva risparmiata la pena di morte, che era sostituita dall’esilio (ALFÖLDY).
La classe che effettivamente trasse vantaggio dal nuovo assetto costituzionale fu il ceto
medio composto da professionisti, funzionari, ufficiali, impiegati etc.; si moltiplicarono,
infatti, gli impieghi a reddito fisso e quindi gran parte dei cittadini si trovarono ad essere
mantenuti dallo Stato, dipendendo da esso.
Questo ceto medio di burocrati, dotato di una certa cultura, ma con disponibilità finanziarie
non eccelse, si inserì in ogni settore dell’amministrazione imperiale, diventando il vero e
proprio nerbo sociale del regime del principato (LEVI, MELONI).
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Capitolo 2
Il nuovo ordinamento augusteo
Sommario
1. I residui dell’ordinamento repubblicano. - 2. L’organizzazione imperiale. - 3. L’organizzazione dell’Italia e delle province.
1.I residui dell’ordinamento repubblicano
L’età del principato si inserì e si sovrappose all’ordinamento repubblicano: per comprendere i caratteri della nuova costituzione, occorre prendere le mosse da un esame analitico dei
vari organi repubblicani e delle loro funzioni durante l’età augustea.
A) I comizi
Gli organi repubblicani che per primi decaddero furono le assemblee popolari (comizi) (ARANGIO-RUIZ), e ciò per due motivi principali:
—in primo luogo, essi si rilevarono l’organo meno adatto all’esercizio di talune funzioni,
per l’assiduo controllo che intendeva esercitare il principe;
—in secondo luogo, già nella tarda repubblica, la funzione dei comizi non era più «sovrana», non essendo essi più rappresentativi del populus romanus; la massa votante era
ormai costituita solo dalla plebe urbana, dal momento che gli altri cittadini dell’Impero
erano troppo lontani da Roma per parteciparvi (FREZZA).
Le funzioni comiziali vennero, durante il principato, quasi totalmente abolite, e quelle che
sopravvissero si presentarono come un mero simulacro, necessario per far tacere le pretese
dei conservatori e dei senatori.
In particolare:
—la funzione legislativa, dopo alcune leggi votate sotto Augusto, decadde completamente;
—per quanto concerne la funzione di eleggere i magistrati, già Augusto aveva tentato una
riforma (attestata da una epigrafe cd. Tavola Hebana scoperta di recente) senza esiti
positivi. Ebbe, invece, seguito la riforma di Tiberio che previde la presentazione ai comizi di una lista di magistrati proposti dal principe e dal senato, e la semplice accettazione di essi da parte delle assemblee (ARANGIO-RUIZ).
A poco a poco il popolo si ridusse a svolgere un mero ruolo di comparsa volto più che altro
a richiamare formalmente in vita le vecchie istituzioni repubblicane, ma senza alcun potere
di incidere concretamente nella vita sociale e politica di Roma.
B) Il senato
Il senato fu l’organo della costituzione repubblicana che meglio resistette all’avvento del
nuovo ordine costituzionale, conservando una posizione eminente e risultando utile strumento di dominio delle classi dirigenti: gli stessi prìncipi furono costretti a professare grande ossequio verso i senatori (ARANGIO-RUIZ) anche se ne ispiravano e ne dirigevano l’attività.
Capitolo 2: Il nuovo ordinamento augusteo
145
In ordine alla composizione di esso nell’età del principato, occorre soffermare l’attenzione
sulle tre lectiones che lo stesso Augusto, nelle Res Gestae, dichiara di aver operato:
—il numero dei senatori fu ridotto, come nei tempi di Silla, a 600;
—il «titolo» per far parte del senato continuò ad essere l’aver ricoperto una magistratura,
a partire dalla questura o dall’edilità;
—l’età minima per ricoprire la carica di senatore fu di 25 anni.
Secondo una lex rogata da Augusto (Lex Iulia de senato abendo) del 9 d.C., di regola:
—il luogo dove avvenivano le riunioni del senato era la curia Iulia;
—tali riunioni avvenivano alle calende o alle idi di ciascun mese (senatus legitimus).
Tuttavia il principe aveva il privilegio di poter riunire validamente il senato senza essere
tenuto ad osservare i requisiti legali.
I poteri del senato furono, anche se solo formalmente, addirittura estesi; ad esso, infatti,
spettava:
—l’amministrazione delle province senatorie;
—la nomina di quei magistrati a cui spettava la sorveglianza del tesoro pubblico;
—il potere di autorizzare eventuali deroghe alla legge;
—ai senatusconsulta si riconobbe efficacia normativa: al senato fu attribuita una funzione
legislativa precedentemente inesistente;
—il senato ebbe un limitato esercizio della giurisdizione penale. Soggetti a questa giurisdizione furono gli stessi senatori e le persone di rango senatorio;
—durante il principato l’attività amministrativa venne gestita dall’ordine equestre.
Tuttavia il senato conservò un ruolo seppur modesto e poco conosciuto. Era loro affidata la responsabilità dell’Aerarium militare, cioè di quella cassa speciale creata da Augusto e destinata a distribuire i «Praemia Militaria» ai veterani, al loro congedo. I tre senatori da cui era gestita tale cassa furono i praefecti aerarii militaris che restavano in
carica per tre anni. Al senato continuò ad essere riconosciuto il diritto alla coniazione
della moneta enea, che era la moneta dei «vilia commercia», delle piccole transazioni
quotidiane. Era, infine affidata al senato la gestione delle province come l’Asia, la Gallia,
la Sicilia, e la Sardegna, i cui proventi erano parzialmente destinati all’Aerarium.
Tuttavia anche il senato perse ogni capacità di esercitare una funzione politica autonoma, trasformandosi in un
primo tempo in «consigliere» del principe e, successivamente, in un suo mero «portavoce» (ARANGIO-RUIZ).
Alla fine il senato divenne solamente il luogo di pubblicazione degli editti imperiali ed una residua traccia
delle antiche votazioni restava esclusivamente nell’espressione di augurio e nelle grida di plauso (acclamationes)
con cui i «senatori» salutavano il messaggio imperiale.
C) Le magistrature
Anche le magistrature repubblicane durante il principato augusteo subirono un «depotenziamento». I magistrati si trovavano sostanzialmente a svolgere funzioni amministrative di
«facciata».
In particolare:
—il consolato, almeno nella prima fase del principato, pur conservando le sue prerogative
formali, subì una effettiva limitazione di poteri e, soprattutto, un reale svuotamento di
contenuto politico.
146
Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
Infatti, nonostante i consoli continuassero a conservare la loro funzione di supremi rappresentanti dello Stato (almeno in assenza del principe), avendo il potere di convocare e di
presiedere il senato e le assemblee popolari, nonché l’imperium domi, da un punto di vista
sostanziale tali poteri erano sviliti a causa dell’attribuzione al principe di poteri analoghi
che lo stesso esercitava direttamente ovvero attraverso propri funzionari (Talamanca).
Fu tuttavia ripristinata la durata annuale dell’ufficio con l’indicazione dei nomi dei consoli in carica;
—la tecnicità, invece, delle funzioni svolte dai pretori consentì il mantenimento della loro
rilevanza costituzionale (Talamanca).
Durante il principato augusteo il numero dei pretori subì un incremento, sia per l’esigenza di attribuire specifiche funzioni e sia per ragioni di carattere contingente.
Durante il principato dei Severi fu istituita la figura del praetor de liberalibus causis, la
cui competenza concerneva, appunto, il processo di libertà;
—quanto alla censura, Augusto nel 22 a.C. la ripristinò, non soltanto in relazione al programma di restaurazione delle istituzioni repubblicane, ma, verosimilmente per risolvere esigenze concrete sempre nell’ambito del programma stesso.
Tale magistratura cessò, comunque, di avere rilevanza autonoma con l’esercizio delle
funzioni proprie di essa da parte di Domiziano, nella qualità di censor perpetuus;
—il tribunato della plebe seppure svuotato della importanza politica che lo caratterizzava
— soprattutto per l’assunzione da parte del princeps della tribunicia potestas — conservò i propri poteri.
In particolare, continuarono ad essere loro attribuiti l’Intercessio (non però nei confronti del princeps), il ius auxilii, il potere di coercizione, la multae dictio, il potere di convocare e dirigere le adunanze della plebe, quello di convocare il senato, e l’inviolabilità;
—anche l’edilità venne mantenuta, ma le competenze degli edili vennero, nella sostanza,
circoscritte in modo rilevante dall’attribuzione a funzionari imperiali dei servizi dell’annona e della prevenzione degli incendi, e dallo stesso affidamento alla Pretura, nel 22
a.C., da parte di Augusto, della cura dei giuochi pubblici;
—la questura, risentì relativamente del nuovo assetto costituzionale.
Tuttavia il numero dei questori fu ridotto da 40 a 20 e fu loro sottratta l’amministrazione
dell’erario per affidarla a due pretori. Stessa sorte subirono i magistrati minori (vigintisexviri) il cui numero venne ridotto.
2.L’organizzazione imperiale
A) Generalità
Il potere del principe, fondato da un punto di vista formale sui criteri stessi della legalità
repubblicana, si estese, tanto da originare intorno a sé un nuovo ordinamento giuridico,
contrapposto all’antico (ARANGIO-RUIZ).
Al principe furono concesse due potestà fondamentali:
—l’imperium proconsulare maius et infinitum, che gli attribuiva non solo il comando
militare ed il governo delle province, ma anche l’amministrazione di tutto l’Impero;
—la tribunicia potestas, grazie alla quale egli aveva la facoltà di paralizzare i provvedimenti senatori o magistratuali a lui sgraditi.
Capitolo 2: Il nuovo ordinamento augusteo
147
Il princeps, invero, appariva come un funzionario della repubblica, in quanto il suo potere
derivava da organi repubblicani (senato e assemblee popolari); non si può peraltro ritenere
che il princeps fosse un vero e proprio magistrato, dal momento che le sue funzioni furono
concorrenti, e non complementari, con quelle dei magistrati della Repubblica (GUARINO).
Egli, in realtà, fu un funzionario «extra ordinem», in quanto «agente» al di fuori delle strutture repubblicane.
I suoi poteri erano di volta in volta attribuiti dal senatus populusque Romanus (cioè dal
senato e dal popolo romano), in virtù delle qualità riconosciutegli, e per la fiducia riposta
nelle sue capacità.
Sarebbe un errore ritenere il princeps un organo monocratico in senso assoluto, a carattere
ereditario: venendo meno la fiducia generale, si ricorreva all’istituto della corregenza, si
affiancava, cioè, al princeps un coadiutore per l’esercizio di talune funzioni.
Anche la caratteristica dell’ereditarietà (Parte III, Cap. 4, §1) non era una regola fissa.
B) I funzionari imperiali
Oltre al comando militare e al governo delle province imperiali, il principe assunse anche
altri compiti che non era possibile affidare agli organi repubblicani.
Per adempiere alla somma delle funzioni che gli competevano, il principe creò una classe
di funzionari imperiali, impiegati di carriera, ordinati gerarchicamente e retribuiti.
FREZZA li distingue in:
—organi imperiali investiti di nuove competenze;
—organi sussidiari dell’amministrazione repubblicana, per l’assolvimento di compiti già
attribuiti agli organi repubblicani.
C) I nuovi organi dell’amministrazione imperiale
Le nuove cariche imperiali si presentarono fin dall’inizio in antitesi rispetto alle magistrature repubblicane (ARANGIO-RUIZ).
Infatti:
—per esse mancò l’elezione popolare, essendo designati dal principe;
—l’ufficio del magistrato era a tempo determinato, mentre i funzionari erano nominati a
tempo indeterminato: la loro durata in carica dipendeva dalla discrezionalità del princepsimperatore;
—la maggior parte degli uffici imperiali fu conferita ad equites romani, scelti anche fra gli
uomini delle province (ARANGIO-RUIZ). Esisteva fra loro, inoltre, una rigida gerarchia
che faceva capo direttamente al princeps.
Di notevole importanza furono gli uffici centrali della burocrazia imperiale: creati consuetudinariamente per le funzioni generali di governo e l’amministrazione della finanza imperiale, tali uffici vennero riordinati da Adriano, che instaurò una vera e propria carriera civile parallela a quella militare.
Pari importanza ebbero i praefecti, funzionari preposti ai servizi di sicurezza; tra di essi, si
distinguevano:
—praefectus urbi: scelto fra i senatori, aveva funzioni di polizia nella capitale. In origine
era nominato saltuariamente, ma sotto Tiberio divenne uno dei funzionari imperiali
148
Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
stabili. Ai suoi ordini venne posto un corpo di polizia di 3 e poi 4 coortes urbanae formate di mille uomini ciascuna;
—praefectus annonae di rango equestre, si occupava dell’approvvigionamento della capitale. Infatti migliaia erano le persone che a seguito delle leggi frumentarie graccane
ricevevano dai magazzini dello Stato il loro sostentamento in natura;
—praefectum vigilum: era preposto alla sicurezza pubblica (vigili del fuoco, polizia stradale), al comando di 7 coortes vigilum di mille uomini ciascuna;
—praefectus praetorio: anch’esso di rango equestre, era preposto alle 9 coortes praetoriae.
Le coorti pretorie costituivano un vero e proprio corpo speciale, e non, come erroneamente si ritiene, una guardia del corpo dell’imperatore. I pretoriani, infatti, godevano di un
regime particolare, sia per ciò che riguardava la carriera, sia per il trattamento ad essi riservato. Era una carica molto prestigiosa, data la sua posizione di estrema vicinanza al princeps,
e gli ampi poteri militari attribuiti; la sua importanza si accrebbe ulteriormente, a causa
dell’aggravarsi della situazione militare dell’Impero nel periodo di anarchia (II-III sec. d.C.).
A questi funzionari, come ai curatores (di cui ci occuperemo fra poco), venne riconosciuta una competenza
giurisdizionale relativamente alle materie cui erano preposti (cognitio). Pertanto, nacque una giurisdizione
concorrente con quella delle quaestiones repubblicane, la cd. cognitio extra ordinem, che finì per sostituire
definitivamente durante il IV sec., la procedura formulare ed i giudizi delle quaestiones.
D)Il consilium principis
Il principe gestiva il potere in assoluta indipendenza, circondato ed assistito dalle persone
(costituenti il «Consilium») che gli erano più gradite, senza alcun condizionamento. Non si
ebbe mai una «struttura intermedia», ossia un consesso di persone con responsabilità e
ruoli definiti, e, soprattutto a ciò esplicitamente designati da volontà diverse da quella del­
l’imperatore (Talamanca).
Con ogni probabilità tale «consilium» traeva origine dall’antica consuetudine per la quale
qualsiasi magistrato romano, nel prendere decisioni o sedendo in giudizio, si circondava di
consiglieri (adsessores) scelti da lui stesso (Talamanca).
E) Gli organi sussidiari dell’amministrazione
Gli organi sussidiari erano quelli che provvedevano a predisporre i supporti organizzativi
necessari alle istituzioni imperiali (ed ignoti al precedente sistema repubblicano).
Particolarmente importanti furono:
—i curatores, che ebbero come sfera della propria competenza una parte delle attribuzioni spettanti agli antichi censori: sorveglianza degli acquedotti, delle vie di comunicazione e delle opere pubbliche. Si trattava di un organo collegiale con divisione di competenza e con differenza di rango fra i colleghi: i singoli membri erano nominati dall’imperatore fra i senatori di rango più elevato;
—i legati Augusti, che coadiuvavano il principe nel comando delle legioni e nell’amministrazione delle province imperiali.
Tra i funzionari imperiali, un ruolo rilevante ebbero i cd. procuratores Augusti, ai quali era attribuita l’amministrazione del patrimonio imperiale, il cd. fiscus Caesaris, nel quale confluivano i tributi provenienti dalle
province imperiali. Al senato era lasciata l’amministrazione del cd. aerarium Saturni, nel quale confluivano i
tributi delle province senatorie.
Capitolo 2: Il nuovo ordinamento augusteo
149
Ben presto, il fiscus Caesaris (dal quale provenivano, di massima, i finanziamenti per l’amministrazione imperiale) assunse rilievo preminente.
3.L’organizzazione dell’Italia e delle provincie
A) L’Italia
L’amministrazione dell’Italia rientrò nella competenza del senato: il territorio veniva amministrato attraverso le preesistenti strutture del potere locale.
L’Italia fu ripartita in undici regiones. La competenza giurisdizionale per il territorio italico venne affidata a
quattro «iuridici»; nel 117 d.C. furono istituiti dei commissari straordinari (curatores rei publicae) i quali, nominati dal princeps, quando ve ne fosse stato bisogno, venivano inviati presso gli enti locali finanziariamente
dissestati. Intorno al 217 d.C., altresì, vennero istituiti dei correctores, preposti, sia su tutta l’Italia che a determinate regioni per il controllo della vita amministrativa.
Malgrado i privilegi riconosciuti all’Italia, anche su di essa si fece sentire la tendenza accentratrice del potere imperiale.
B) Le province
L’amministrazione provinciale non ebbe nell’età imperiale un ordinamento uniforme, essenzialmente perché sopravvisse l’originaria distinzione in province senatorie ed imperiali:
—le province senatoriae continuarono ad essere governate, per conto del senato, da due
proconsoli che duravano in carica un anno;
—le province imperiali (teoricamente quelle in cui era necessario mantenere i presidi militari) in realtà erano le più numerose e le più ricche (ARANGIO-RUIZ). Esse, come già
accennato, furono amministrate da legati imperiali, regolarmente retribuiti ed eletti a
tempo indeterminato, denominati propraetores o legati Augusti.
Il suolo delle province senatorie era considerato di proprietà del popolo romano, mentre
quello delle province imperiali era considerato di proprietà del princeps.
L’imperatore, comunque, esercitò un controllo sia sui proconsoli che sui propretori, e nelle
province senatorie fece assistere gli organi repubblicani dai suoi legati o quaestores, competenti per l’amministrazione finanziaria.
Compiti essenziali dei governatori provinciali furono il comando della guarnigione e l’esercizio della giurisdizione civile e penale, mentre le funzioni fiscali vennero avocate direttamente dall’amministrazione centrale: si
eliminarono così gli scandali degli appalti e le vessazioni tributarie nei confronti delle province (ARANGIORUIZ), disponendo inoltre che le province senatorie versassero i loro contributi (stipendia) all’erario pubblico,
quelle imperiali, invece, al fiscus Caesaris (tributa).
Il suolo delle province senatorie veniva considerato di proprietà del popolo romano; quello delle province imperiali veniva invece considerato di proprietà del principe.
C) La politica del principato nelle province
Nell’età repubblicana le province erano state sfruttate a vantaggio di tutta la popolazione romana:
il principio dello sfruttamento sistematico delle province era un cardine della politica romana.
Invece con Augusto (che riprese in questo la politica di Cesare, anche se più moderatamente) si tese ad instaurare un nuovo rapporto di fiducia con i provinciali, attraverso una più
sana e più equa amministrazione.
150
Parte III: Dalla res pubblica universale all’ascesa di Diocleziano
Il riordinamento, ispirato al principio dell’onnipresenza del potere imperiale, si risolse in un
beneficio per le popolazioni provinciali: il vantaggio più consistente conseguito dai provinciali fu quello di potersi appellare al principe contro le prepotenze dei suoi funzionari.
D)La constitutio Antoniniana
All’inizio del regno di Antonino Caracalla (211-217 d.C.) si colloca un decisivo ed importante provvedimento: la constitutio Antoniniana (212 d.C.). Si trattò di un provvedimento
con il quale l’imperatore concesse a tutti gli abitanti dell’Impero, che ne fossero precedentemente sprovvisti, la cittadinanza romana. Con tale provvedimento si veniva a concludere,
sotto il profilo della regolamentazione dello status civitatis, la storia dell’assetto istituzionale dell’impero. Circa la «effettiva portata» di questo provvedimento, la conclusione cui
gli studiosi sono unanimemente giunti è che sotto un profilo che si potrebbe definire «soggettivo», tale cittadinanza fu concessa a tutti gli abitanti dell’impero, ivi compresi i peregrini nullius civitatis. L’unica eccezione rilevante fu rappresentata da coloro che avessero
perso lo status civitatis a seguito di condanna penale ovvero da quelle categorie di soggetti
per cui l’attribuzione di un particolare status civitatis esprimeva, invece, una condizione
diversa sul piano dello status libertatis.
Fra questi ultimi, la categoria più importante è, senza dubbio, quella dei Latini Iuniani; si
possono, altresì, annoverare fra costoro i Dedictii Aeliani, schiavi manomessi i quali non
potevano conseguire la cittadinanza romana per aver subito pene infamanti durante la schiavitù (Talamanca).
I problemi che, ancor oggi, sollevano maggiori incertezze sono quelli che afferiscono al cd. aspetto
normativo ossia alle problematiche connesse all’individuazione del diritto da applicare ai novi cives.
— Secondo alcuni autori, ai peregrini abitanti nell’impero e divenuti cives romani (a seguito dell’editto del 212 d.C.) veniva applicato il diritto della nuova cittadinanza loro riconosciuta.
— Secondo altri studiosi, (concordando con l’opinione dell’insigne giurista tedesco Mitteis) supportati da alcune prassi negoziali operanti anche all’indomani del 212 d.C., la constitutio non avrebbe
prodotto alcuna modificazione alle legislazioni locali che di fatto continuavano ad operare.
— Ad opinione di altri, ancora, la sopravvivenza delle «legislazioni locali» avrebbe operato «di diritto»
e non «di fatto». I sostenitori di questa teoria, sono partiti dal presupposto che l’acquisto della
cittadinanza romana non avrebbe fatto venir meno — in base al regime della doppia cittadinanza
— la cittadinanza originaria dei novi cives che, in seguito alla conservazione di tale status, avrebbero potuto continuare ad usare — di pieno diritto — il loro antico ordinamento.
Larga diffusione ha, invece, incontrato l’opinione di coloro secondo i quali i diritti locali avrebbero continuato ad avere formale vigore anche dopo il 212 d.C., in quanto consuetudini vigenti nell’ambito dell’impero.
Si trattava di consuetudini locali che coesistevano con l’ordinamento romano e che mai avrebbero
— in quanto prive di forza — potuto derogare alle norme dell’ordinamento romano stesso.
Il Talamanca, considera eccessiva la posizione di coloro che collocano tale sopravvivenza su un
piano di fatto, senza tener conto della possibilità che i diritti locali potessero sopravvivere come consuetudini con limitato vigore territoriale anche se dalle fonti dell’epoca non risultano esistere ordinamenti vigenti all’infuori di quello romano.
Dizionario biografico
A
◆ Adriano [Publio Elio] (imp. 117-138 d.C.)
Imperatore nato ad Italica, in Hispania appartenente alla famiglia degli Antonini, nel 76 d.C., fu
adottato ed educato personalmente da Traiano.
Pertanto, quando, alla morte di quest’ultimo, assunse il potere, era ben consapevole dei numerosi problemi che il vasto impero presentava.
Resosi conto dell’esigenza di limitare la politica
espansionistica del suo predecessore, sacrificò
la sua brillante carriera di generale al consolidamento ed al rafforzamento dei confini dell’impero. Rinunziò quindi alle recenti e faticose conquiste in Armenia, Assiria e Mesopotamia, facendo
erigere in varie regioni grandiose opere difensive, tra le quali vale la pena citare il Vallo di (—),
in Britannia.
Intraprese, poi, una lunga serie di viaggi, che toccarono, più o meno, tutte le province dell’impero,
soprattutto quelle orientali.
Provvide, inoltre, a riorganizzare la burocrazia,
sostituendo ai liberti un corpo di funzionari scelti
tra gli appartenenti al ceto equestre.
Morì a Baia, presso Napoli, nel 138 d.C., non prima di aver adottato e indicato come successore
Aurelio Fulvio, il futuro Antonino Pio [vedi →].
◆ Africano [Sesto Cecilio]
Giurista vissuto nell’epoca tra Adriano [vedi →]
ed Antonino Pio (II sec. d.C.) [vedi →]; fu allievo
di Salvio Giuliano, di cui divulgò i principali orientamenti.
Le sue opere principali, contraddistinte da uno
stile oscuro e complesso, furono:
— i libri IX quæstiònum, raccolta di un ingente
materiale casistico, desunto probabilmente
dall’opera del maestro;
— i libri epistulàrum, almeno 20, probabilmente
anch’essi consistenti in una raccolta di materiale elaborato da Salvio Giuliano.
◆ Alessandro Severo (222-235 d.C.)
Imperatore romano, appartenente alla dinastia dei
Severi, associato al trono da Elagabalo.
Egli, proseguendo nell’opera intrapresa dai suoi
predecessori, dedicò le sue energie al rafforza-
mento dell’autorità del Principato; a differenza dei
suoi predecessori, peraltro, cercò, allo stesso
tempo, di rinsaldare e migliorare i rapporti con il
senato, saggiamente consigliato da Ulpiano [vedi
→], allora præfectus prætorio.
Tale parziale rinnovamento non poteva, tuttavia,
risollevare le sorti dell’impero, «tormentato» da
un’insanabile crisi economica e dalle incessanti
rivolte dei popoli confinanti. (—) si trovò a fronteggiare le mire espansionistiche di Artaserse I,
re dei Parti, che lo costrinsero ad intraprendere
una nuova campagna militare e a reclutare nuovi soldati, sottraendone altri alle frontiere settentrionali. Conclusa vittoriosamente la guerra partica, (—) raggiunse la frontiera renana, per contrastare l’avanzata degli Alemanni: offrì loro nella
speranza di evitare lo scontro una somma di danaro, ottenendone in tal modo il ritiro oltre i confini dell’impero. L’esercito romano non gradì il
«compromesso» proposto dall’imperatore certamente non consono alla dignità imperiale: la reazione dei militari fu violentissima ed (—) fu assassinato da un gruppo di ribelli, a Magonza, insieme alla madre, accusata di influenzare eccessivamente le decisioni del figlio.
Con lui si chiude la dinastia dei Severi.
◆ Anastasio I (491-518 d.C.)
Imperatore romano d’Oriente, successore di Zenone Isaurico [vedi →]: il suo impero si caratterizzò per una politica estera quanto mai astuta ed
equivoca (in particolare nei rapporti con l’impero
d’Occidente), e per un’amministrazione fiscale
particolarmente vessatoria.
Riconobbe Teodorico [vedi →] (re degli Ostrogoti) re d’Italia (497 d.C.).
Dal punto di vista del diritto privato, il suo nome
è legato all’emanazione della cd. lex Anastasiana, in ordine alla cessione del credito. Essa dispose che il cessionario di un credito litigioso non
potesse ottenere dal debitore una cifra superiore
a quella che aveva pagato al cedente.
◆ Anastasio II (713-715 d.C.)
Imperatore, uno dei numerosi successori di Giustiniano sul trono dell’impero romano d’Oriente,
del quale resse le sorti dal 713 al 715 d.C.
210
Dizionario biografico
◆ Anco Marzio
◆ Arcadio [Flavio] (imp. 395-405 d.C.)
Re. Il quarto dei sette re di Roma, successore di
Tullo Ostilio [vedi →].
Di lui si hanno poche notizie: era di origine sabina e fu il fondatore del porto di Ostia.
Con lui si chiuse la fase latino-sabina di Roma
antica, cui seguì la dominazione etrusca: il successore di (—) fu, infatti, il re etrusco Tarquinio
Prisco [vedi →].
Imperatore d’Oriente investito del potere dal padre
Teodosio I [vedi →], che aveva nominato successori i suoi due figli, (—) ed Onorio, rispettivamente per la parte orientale e per quella occidentale.
Alla sua morte, peraltro, la mancanza di un collegamento tra le due partes imperii provocò notevoli conflitti, in gran parte originati anche dai
contrasti personali tra Rufino e Stilicone (funzionari imperiali, preposti da Teodosio all’assistenza dei due figli).
Salito al trono all’età di 11 anni, fu manovrato nelle questioni di governo dai ministri Rufino e Eutropio e dalla moglie Eudossia.
◆ Annibale (247-180 a.C.)
Grande generale cartaginese, condusse una vittoriosia campagna militare in Italia nel triennio
218-216, culminata in quattro vittorie nelle battaglie del Ticino, della Trebbia, del lago Trasimeno
e di Canne.
Richiamato in patria per difendere Cartagine
dall’attacco del console P. Cornelio Scipione (che
in seguito verrà soprannominato l’«Africano») fu
da quest’ultimo sconfitto nella battaglia di Zama
(l’odierna Naraggara) nel 202 a.C. Rifugiatosi
presso il re Antioco in Siria, fu braccato dai Romani fino a quando, sentendosi vicino alla cattura, si tolse la vita nel 180 a.C. in Bitinia.
◆ Antistio Labeone
[vedi → Labeone]
◆ Antonino Pio (138-161 d.C.)
Imperatore: nacque a Lanuvio, nei pressi di Roma,
nell’86 d.C.
Discendente di una ricca famiglia originaria della Gallia, fu adottato da Adriano [vedi →] all’indomani della scomparsa del successore designato Elio Vero, e di lì a poco salì al potere.
Consapevole della situazione relativamente precaria dell’impero, continuò la politica del suo predecessore anche se rinunziò a muoversi da
Roma.
Influenzato dalle tendenze umanitarie prevalenti
nella sua epoca, a queste si ispirò nella politica
di gestione dello Stato e nelle sue numerose innovazioni legislative. Ricordiamo, ad esempio,
che da (—) in poi fu considerata vietata al padrone l’uccisione dello schiavo.
La sua indole buona, ma, soprattutto, il suo impegno in difesa della memoria di Adriano nei confronti del senato gli valsero il titolo di «Pio».
Adottò, fedele alle disposizioni del suo predecessore, M. Annio Vero, il futuro M. Aurelio, e Lucio
Elio, il futuro Lucio Vero. Morì a Roma nel 161
d.C.
◆ Asdrubale
Generale. Figlio di Amilcare Barca e Fratello di
Annibale [vedi →]. Fu a capo dei Cartaginesi in
Spagna, allorquando Annibale invase l’Italia nel
218 a.C. (2a guerra punica).
Tra il 218 e il 208 si batté in Spagna contro i generali romani P. Cornelio Scipione e suo figlio Scipione l’Africano.
Marciò verso l’Italia in soccorso di Annibale (207),
ma fu sconfitto ed ucciso nella valle del fiume Metauro (Marche) dai Romani.
◆ Aureliano (imp. 270-275 d.C.)
Fu il più importante dei cd. imperatori illirici, ovvero degli imperatori di origine balcanica avvicendatisi al potere nell’arco temporale compreso tra
il 268 ed il 285 d.C.
La sua politica fu sostanzialmente tesa all’esaltazione del potere imperiale, alla difesa dei confini
e alla ricostruzione dell’unità del territorio imperiale, minacciata da reiterati tentativi separatisti.
Al fine di arginare la perdurante crisi economica
e di garantire la continuità produttiva in settori
economici particolarmente delicati, impose a talune categorie di lavoratori (panettieri, artigiani,
addetti ad attività marittime) di trasmettere il mestiere di padre in figlio, vincolandoli all’esercizio
di tali professioni.
Nel 275 d.C. una congiura militare eliminò (—) e
si aprì un periodo di lotte, conclusosi con l’ascesa al trono di Diocleziano [vedi →].
B
◆ Bruto [Lucio Giunio]
Congiurato. Figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo [vedi →], fu promotore, insieme a Collati-
211
Dizionario biografico
C
re per il delitto di lesa maestà i senatori meno favorevoli alla sua politica — e introdusse alcuni
cerimoniali orientalizzanti quali la proscinèsi che
prevedeva un saluto e un inchino dinanzi all’imperatore.
La sua condotta instabile nei confronti del senato e dei pretoriani finì per alienargli le loro simpatie e unirli in una congiura conclusasi con il suo
assassinio il 24 gennaio del 41 d.C.
◆ Caio Gracco Sempronio
◆ Callistrato
Uomo politico vissuto nel II sec. a.C. (154-121),
fratello di Tiberio Gracco [vedi →], ne continuò
l’opera riformatrice.
Eletto tribuno della plebe nel 123 a.C., elaborò
un progetto politico più ampio di quello di Tiberio.
Tale progetto, teso alla risoluzione della crisi economica della società romana, si fondava su di una
calibrata organizzazione delle forze sociali, garantita da una radicale riforma giuridica.
Oltre alla sempre sentita questione agraria, (—)
affrontò problemi di vario ordine:
— l’assegnazione di terre agli Italici;
— l’emanazione di leggi per l’amministrazione
delle province;
— l’emanazione di leggi giudiziarie.
Di notevole rilievo fu anche la lex frumentaria, che
previde la distribuzione mensile di una quantità
di grano a prezzo più basso di quello di mercato
a favore della popolazione proletaria di sesso maschile appartenente alla città di Roma.
A tali iniziative si oppose ripetutamente il senato
che, scatenata una violenta offensiva fondata su
basi demagogiche, provocò una aperta ribellione
delle masse popolari, decretando la fine politica
e la condanna a morte di (—) nel 121 a.C.
Giurista vissuto nell’età dei Severi (III d.C.), probabilmente di origine non romana.
La sua produzione giuridica fu sostanziosa; si ricordano, in particolare:
— i libri II quæstiònum;
— i libri IV de iùre fisci et populi, prima pubblicazione nota al diritto romano, in materia finanziaria;
— i libri VI de cognitiònibus;
— i libri III institutiònum;
— i libri VI ad edìctum monitòrium.
◆ Caligola (37-41 d.C.)
Imperatore. Secondo esponente della dinastia
Giulio-Claudia, figlio di Germanico e di Agrippina
I, fu designato alla successione da Tiberio insieme a Tiberio Gemello, figlio di Druso Minore.
Annullato il testamento politico del predecessore, la sua successione fu dovuta all’acclamazione dell’esercito che lo riconobbe imperàtor e del
senato che, invece, lo riconobbe prìnceps.
Salito al trono nel 37 d.C., conquistò il consenso popolare e pretoriano con l’abolizione di alcuni tributi,
con l’aumento del soldo militare e con un donativo
doppio rispetto a quello promesso da Tiberio.
Ebbe una concezione del potere tendente all’assolutismo — ad es. fece processare e condanna-
◆ Capitone [Caio Ateio]
Giurista vissuto in età augustea (I a.C. - I d.C.),
allievo di Aulo Ofilio, nonché uomo politico (fu
console nel 5 d.C.).
Le fonti lo rappresentano come persona di vasta
cultura e grande intelligenza, ma estremamente
sensibile alle sollecitazioni provenienti dal potere imperiale; Pomponio ebbe modo di porre in evidenza le sue idee estremamente conservatrici.
Fu fiero oppositore di Labeone [vedi →]; il contrasto tra i due giuristi non mancò di produrre effetti positivi, dando vita a due opposte scuole giuridiche (sabiniani erano detti i seguaci di (—), proculiani quelli di Labeone) che si avversarono, sia
pur con accesa faziosità, mantenendo sempre
vivo il dibattito giuridico e feconda la produzione
letteraria.
Quest’ultima caratteristica non fu, peraltro, propria di (—), di cui si ricordano soltanto due importanti opere:
— libri de iùre pontifìcio (almeno 7);
— libri coniectaneòrum (almeno 9).
◆ Cassio Longino
Giurista vissuto in età augustea e postaugustea
(I sec. d.C.), allievo di Sabino fu insigne esponente della scuola sabiniana [vedi →] (che diresse
dopo la morte del maestro: i seguaci presero anche il nome di «cassiani»).
Dizionario biografico
no, dell’insurrezione che provocò in Roma la caduta della monarchia estrusca.
L’occasione della rivolta gli fu offerta, secondo la
tradizione, dall’oltraggio che il Superbo arrecò a
Lucrezia, matrona romana. Caduta la monarchia,
Bruto e Collatino furono i primi due consoli della
storia della Repubblica.
212
Ricoprì alte cariche dello Stato (console nel 30
d.C., proconsole in Africa, ambasciatore in Siria):
cadde in digrazia sotto Nerone, ma fu riabilitato
sotto Vespasiano, durante il cui principato (69-79
d.C.) morì.
Tra le sue opere sono particolarmente degne di
menzione:
— i Libri iùris civilis (almeno 10);
— i Libri responsòrum.
◆ Catone [Marco Porcio], detto il Censore
Nato nel 234 a. C. e morto nel 149 a.C., fu insigne giurista, storico, oratore e uomo politico.
Contemporaneo di Sesto Elio Peto [vedi →], fu il
principale rappresentante della cultura giuridica
del suo tempo.
Le linee essenziali del suo pensiero, sostanzialmente imperniato sulla lucida enucleazione dei
rapporti di reciproca correlazione tra storiografia
e diritto, sono tracciate nei Commentàrii iùris civilis e nelle Origines.
In particolare, il modulo espressivo catoniano si
estrinsecò in una visione collettivistica della storia, nella quale, come si può dedurre dal rigoroso silenzio serbato sui nomi dei protagonisti, le
singole gesta individuali si annullano nella dinamica delle tensioni sociali, finendo col diventare
mezzo espressivo del valore della collettività. In
questo quadro il populus Romanus si atteggia a
impersonale protagonista di tutte le imprese, mentre il ius e la lex, la libertas e la res publica costituiscono oggetto di un commùniter uti (utilizzazione comune).
La legge rappresenta, nell’ottica catoniana, il momento in cui il diritto giunge definitivamente all’acquisizione della consapevolezza della propria indispensabilità al fine di una civile convivenza dei
consociati.
Tuttavia la lex, pur essendo l’incarnazione finale di
detta coscienza, va adeguatamente collocata nel
contesto degli antichi mores maiorum e di tutti gli
istituti giuridici di origine strettamente legislativa.
◆ Cesare [Caio Giulio]
Uomo politico (triumviro e dittatore), giurista di
grande rilievo. Nacque da nobile famiglia (era nipote di Mario) nel 100 a.C.; alla morte di Silla, si
segnalò in imprese militari che già evidenziarono
le sue grandi qualità personali.
Dopo aver percorso tutto il cursus honòrum, partecipò al primo triumvirato con Pompeo e Crasso; i contrasti politici e militari presto sorti con
Dizionario biografico
Pompeo si risolsero col trionfo di (—) che, divenuto dittatore assoluto di Roma, esautorò del tutto il senato dalla gestione degli affari politici.
(—) venne ucciso proprio in una congiura senatoria nel 44 a.C. (alle idi di marzo) dal figlio adottivo Bruto dopo che aveva assunto la carica di
Console per più anni consecutivi con atteggiamento dittatoriale.
Dal punto di vista giuridico, (—) si segnalò per
l’emanazione di numerose leggi con le quali riorganizzò con successo la pubblica amministrazione, consolidando l’autorità centrale ed incentivando al tempo stesso le autonomie locali. Fu, inoltre,
promotore della deduzione di numerose colonie.
Accanto ai successi militari, (—) va ricordato, altresì, anche per un’importante opera storica, il
«De Bello Gallico», che testimonia le sue buone
qualità letterarie.
◆ Costantino I (306-337 d.C.)
Imperatore figlio illegittimo di Costanzo Cloro, partecipò al governo tetrarchico, inaugurato da Diocleziano [vedi →] nel 306 d.C.
Impegnato con altri imperatori nelle difficili lotte
di successione, createsi col nuovo ordinamento,
governò dal 306 secondo il sistema tetrarchico
con Massenzio, figlio di Massimiano, Licinio e
Massimino Daia.
Successivamente, con l’eliminazione di Massenzio, Massimino Daia e di Galerio che moriva nel
311 d.C., (—) giunse al sistema diarchico insieme a Licinio; eliminato anche quest’ultimo nel 325
d.C., rimase unico imperatore.
Ristabilita una temporanea unità, (—) operò una
divisione amministrativa dell’impero, in quattro
prefetture (Italia, Gallia, Illirico, Oriente), ciascuna governata da un prefetto del pretorio sul quale vigilava l’imperatore. Trasferita nel 330 d.C., la
capitale da Roma a Costantinopoli, (—) spostava il centro di gravità dell’impero da Occidente ad
Oriente.
Al progetto di unificazione politica, (—) accompagnò quello di unificazione religiosa, convocando
a Nicea (325 d.C.) il primo grande Concilio nella
storia del mondo cristiano.
Reso totalmente inoffensivo il senato (—) continuò l’opera dioclezianea nell’organizzazione burocratico-amministrativa dell’impero, creando una
burocrazia come forza politica capace di governare autonomamente a fronte del disorganico governo senatorio-repubblicano. In particolare introdusse nel consistorium i due capi dell’amministra-
Questionario
1)I Pagi erano:
❏❏ A) luoghi sacri in cui erano soliti riunirsi i principali collaboratori del rex allo scopo di prendere delicate decisioni in merito a strategie belliche.
❏❏ B) piccoli nuclei di popolazioni indigene composti di poche capanne e collegati ad una ristretta area territoriale.
❏❏ C) villaggi in cui erano soliti riunirsi, per la celebrazione di determinati riti sacri, gli appartenenti ad ogni singola gens.
2)La familia nucleo originario della società umana, ha assunto, nel corso della storia romana, diversi significati. Quali?
❏❏ A) In età arcaica il termine familia aveva un significato prevalentemente patrimoniale. In età
repubblicana il significato ad essa attribuito fu pressocché analogo.
❏❏ B) In età arcaica per familia si intendeva la moglie, i figli e le mogli dei figli. In età successive, invece, si intendeva solo il complesso dei figli e della moglie. In entrambe le ipotesi la
totalità era sottoposta all’autorità di un comune pater familias.
❏❏ C) In età arcaica al concetto di familia erano riconducibili le persone (figli, moglie) e le cose
(abitazione, servi, animali domestici). In età repubblicana, per converso, si intendeva per
familia il complesso esclusivamente di soggetti sottoposti al medesimo pater familias.
3)Quali compiti spettavano al rex?
❏❏ A) Al re era attribuito il delicato compito di mediare tra uomini e dei, di difendere la comunità e di guidare l’esercito.
❏❏ B) Al re era riconosciuto il potere di ratificare l’operato del collegio dei Pontefici e di applicare le decisioni assunte dal collegio degli áuguri.
❏❏ C) Al re era attribuito il delicato compito di garantire la pace e coordinare le attività del Senato.
4)Quali erano i principali collaboratori del rex?
❏❏ A) I principali collaboratori del re erano: il magister populi, il magister equitum, i quaestores
parricidii ed i duumviri perduellionis. Costoro erano legittimati ad agire in virtù di un atto di
delega rilasciato dal sovrano.
❏❏ B) I principali collaboratori del re erano: il magister populi, il magister equitum ed i tresviri capitales. Costoro agivano in virtù di un atto di delega loro rilasciato dal Senato.
❏❏ C) I principali collaboratori del re erano: i quattuorviri praefecti Capuam Cumas e gli aediles.
Entrambi agivano in forza di un atto di delega loro rilasciato dal sovrano.
5)Al rex veniva riconosciuto un potere legislativo?
❏❏ A) A tal proposito gli autori antichi, oltre a riconoscere un potere normativo regale, sono soliti parlare addirittura di un procedimento di formazione delle presunte leges regiae: proposte dal rex, venivano sottoposte alla votazione dei comitia curiata per poi essere ratificate dal senato.
❏❏ B) Secondo parte della dottrina, una vera e propria produzione normativa è ascrivibile solo
ai monarchi etruschi.
❏❏ C) Secondo la dottrina prevalente va negato al rex (sia esso di estrazione latino-sabina ovvero etrusca) qualsiasi potere normativo.
228
Questionario
6)I Fetiales rientravano fra i collegia sacerdotalia di primaria importanza?
❏❏ A) I Fetiales rientravano, unitamente al collegio dei Pontefices e degli Augures, tra i collegi
sacerdotali di primaria importanza. A tale collegio era affidata la gestione dei rapporti internazionali di Roma.
❏❏ B) Il collegio dei Fetiales sovrintendeva, di concerto con il collegio dei duòviri sàcris faciùndis, la custodia dei libri sibillini. Entrambi rientravano fra i collegi di minore importanza.
❏❏ C) Il collegio dei Fetiales aveva il compito di provvedere all’esercizio del culto per le singole
divinità.
7)Auspici ed àuguri.
❏❏ A) Si trattava di due collegi sacerdotali: gli àuguri rientravano fra i collegi sacerdotali di primaria importanza; gli auspici, invece, rientravano fra i collegi minori.
❏❏ B) Si trattava dei pareri espressi dal senato.
❏❏ C) Entrambi rappresentavano i segni attraverso i quali –nella società romana – si riteneva si
manifestasse la volontà divina.
8)Cosa si soleva indicare, nel periodo arcaico, col termine «mores»?
❏❏ A) Per mores si intendevano quell’insieme di norme in origine consuetudinarie, che venivano
osservate generalmente dalla collettività in virtù della loro derivazione da antiche tradizioni.
❏❏ B) Per mores si intendevano le interpretazioni che il Collegio degli Auguri dava a particolari
fenomeni (es. un tuono) al fine di trarre da essi indizi sulla volontà divina.
❏❏ C) I mores stavano ad indicare le sole abitudini religiose della collettività durante l’età arcaica.
9)Qual era il criterio in base al quale, in età arcaica, avveniva la ripartizione della popolazione tra
le diverse curie?
❏❏ A) Il criterio in base al quale la popolazione veniva distribuita tra le curie era essenzialmente «territoriale». Ciò sarebbe avvalorato anche dal fatto che alcune curie traevano la loro
denominazione da nomi di località.
❏❏ B) Il criterio «anagrafico» era l’unico in base al quale la popolazione veniva distribuita fra le
diverse curie.
❏❏ C) Le curie non rappresentavano dei distretti territoriali; la distribuzione della popolazione fra
le stesse, infatti, avveniva unicamente per genera hominum, ossia in base a legami familiari ed al lignaggio.
10)Quali erano le funzioni attribuite al comizio curiato?
❏❏ A) Al comizio curiato (assemblea del popolo) spettava il delicato compito di coordinare le attività espletate dai principali collegi sacerdotali.
❏❏ B) Ai comizi curiati veniva riconosciuto un limitato potere legislativo; la loro produzione legislativa, tuttavia, doveva essere sottoposta alla ratifica del sovrano per avere validità.
❏❏ C) Il popolo riunito per curie partecipava alla nomina del nuovo re e dinanzi ad esse il re enunciava, all’inizio di ogni mese, il calendario.
11)Quale fu durante l’età arcaica il rapporto fra il rex e l’assemblea dei patres?
❏❏ A) È pacifico che nella più antica civitas, tre risultano essere gli organi fondamentali della realtà politica: il re, il senato e l’assemblea del popolo. Esiste fra i richiamati organi un rapporto assolutamente paritetico.
❏❏ B) Un rapporto paritetico fra re e senato si può ipotizzare solo riferito alla monarchia etrusca.
❏❏ C) La presenza del senato durante l’età monarchica non deve dare spazio ad erronee interpretazioni estensive. Va tenuto ben presente, infatti, che il periodo monarchico è caratterizzato dalla preminenza della figura regia, delle sue funzioni e dei suoi collaboratori.
Risposte al questionario
1)Risposta esatta: B
La dottrina è concorde nel ritenere che la vita del Lazio precivico, anteriore cioè alla fondazione di Roma
(754-753 a.C.), fosse caratterizzata dall’esistenza dei cd. Pagi, ossia di piccoli nuclei di popolazioni indigene raccolti talvolta in poche capanne e reciprocamente uniti da interessi comuni, tradizioni culturali, religiose e vincoli di sangue.
All’interno del pago prevalevano situazioni «relativamente paritarie». Una sorta di differenziazione, infatti,
esisteva, ma si basava sull’individuazione di ruoli stabiliti in relazione ad elementi oggettivi (es. età, sesso)
ovvero su qualità del tutto personali.
A sostenere una interpretazione estensiva, potremmo dire che si trattava di forme primitive di «democrazia»
in cui il potere sovrano era detenuto, solo in ultima istanza, dall’assemblea degli uomini in arme. Anche se
nulla vieta di immaginare che un ruolo di indirizzo e di governo fosse assunto dagli anziani, tuttavia detentori della saggezza.
2)Risposta esatta: C
In età arcaica al termine familia era attribuito un significato prevalentemente patrimoniale: la familia era, infatti, costituita dal raggruppamento di soggetti (figli, moglie) sottoposti ad uno stesso pater familias, ma anche di cose (servi, animali domestici).
In età successiva col termine familia si soleva indicare il complesso (esclusivamente) di soggetti sottoposti
ad un capostipite comune, i quali, alla morte di quest’ultimo, divenivano persone sui iuris, ossia autonomi
dal punto di vista familiare.
Il rapporto che legava i vari componenti della familia era l’agnatio (rapporto di parentela patrilineare) che indicava la discendenza da un comune capostipite maschio, attraverso altri maschi.
In seguito, tuttavia, fu riconosciuto un rilievo sempre crescente anche alla discendenza matrilineare, ossia
la cognatio.
3)Risposta esatta: A
I compiti del rex comprendevano:
— il delicato compito di mediare tra gli uomini e gli dei;
— il compito di guidare l’esercito e di difendere militarmente la comunità;
— il compito di amministrare la comunità cittadina attraverso tutte quelle iniziative relative alla vita stessa
della civitas.
Al riguardo, discendono da questa elencazione tre poteri: religioso, militare e politico. Alcuni studiosi hanno insistito nel sostenere che il potere monarchico (ad eccezione della coreggenza Tito Tazio – Romolo, che
in realtà la tradizione indica come metafora della fusione tra comunità sabina e latina) è inequivocabilmente un potere unico, rimanendo tale anche quando il re si avvale dei richiamati ausiliari.
Quanto alla risposta sub «b», attesa la sua improponibilità, va tuttavia precisato che i collegi sacerdotali, nonostante fossero estranei alla vera e propria organizzazione del governo quiritario, ebbero notevolissimi compiti di ausilio nelle funzioni di governo.
4)Risposta esatta: A
I principali collaboratori del re erano:
— il magister populi: laddove il re era trattenuto in città, per l’adempimento di doveri religiosi e civili, questi
lo sostituiva anche nel supremo comando militare;
— il magister equitum: a questi veniva delegato il comando dei contingenti di cavalleria. Si trattava di una
figura di secondo piano rispetto a quella del magister populi;
— i quaestor parricidii: costoro avevano il compito di reprimere i crimini più gravi quali l’omicidio;
— i duumviri perduellionis: avevano il compito di reprimere il crimen perduellionis (alto tradimento).
Quanto ai Tresviri capitales ed ai Quattuorviri praefecti Capuam Cumas -citati, rispettivamente, alle risposte
sub «b» e sub «c» – si trattava di magistrati minori che, proprio in quanto tali, non potevano avere ragione
di esistere nella realtà quiritaria, notoriamente caratterizzata dal potere di uno solo: il re.
244
Risposte al questionario
Per quanto concerne la delega ai collaboratori del re, non è plausibile che la stessa fosse loro rilasciata dal
senato (cfr. sub «b»). Non si può, infatti, rilasciare una delega avente ad oggetto poteri di cui il delegante
(nella specie, il senato) non è titolare.
5)Risposta esatta: C
Molteplici e vivaci sono state in dottrina le dispute in merito alla sussistenza di un presunto potere legislativo regale.
Secondo la prevalente dottrina, è impensabile attribuire ad un ordinamento primitivo – soprattutto quello operante durante la monarchia latino-sabina – una produzione legislativa vera e propria. Al più le leggi che tradizionalmente vengono etichettate come «regiae» altro non erano che delle norme consuetudinarie, di cui i
sovrani furono custodi, interpreti e, talvolta, formulatori.
6)Risposta esatta: A
Nella organizzazione della civitas quiritaria, i collegia sacerdotalia svolgevano indispensabili funzioni in materia di culto e di interpretazione del diritto.
Il collegio dei Fetiales rientrava fra i collegi sacerdotali di primaria importanza.
In particolare, tra i Fetiales veniva, di volta in volta, scelto mediante un arcaico rituale, un pater patratus che
si incontrava col pater patratus di un altro popolo al fine di stipulare un trattato fra le due comunità.
Ciò posto, appare utile una puntualizzazione.
Nella civitas quiritaria i rapporti internazionali venivano gestiti dal sovrano, il compito del collegio in questione, pertanto, si concretava esclusivamente nel «tradurre» le decisioni politiche nella forma richiesta
dall’ordinamento romano per la validità degli atti internazionali.
7)Risposta esatta: C
Gli auspicia e gli augúria interpretarono segni della natura (ad es., il volo di un uccello, un tuono) attraverso i quali si riteneva si manifestasse la volontà degli dei.
L’auspicium preso dal re sembra riguardare una situazione concreta e vicina nel tempo. Il carattere sfavorevole degli auspicia impediva di intraprendere una data azione in un dato giorno; l’azione poteva essere ripresa il giorno successivo.
L’augúrium, invece, poteva riguardare una situazione futura ed investire un oggetto più ampio; si è inoltre
rilevato che l’augúrium aveva prevalentemente un contenuto augurale e propiziatorio.
Alla interpretazione degli auspici pare fossero legittimati inizialmente il re e poi i magistrati repubblicani. Al
collegio degli auguri spettava, invece, la interpretazione degli augúria.
8)Risposta esatta: A
Così come indicato correttamente nella risposta riportata sub «a», i mores (usi, costumi) costituivano quell’insieme di norme di origine consuetudinaria, osservate dalla collettività durante l’età arcaica.
Si tratta del ius non scriptum che avrà vigore sino alla elaborazione delle leggi XII Tabularum. Sul contenuto di tale compilazione (torneremo sull’argomento in seguito), una parte della dottrina, ritiene che in essa sia
avvenuta esclusivamente una «cristallizzazione» di precetti consuetudinari (i mores, appunto), non apportando alcun contributo normativo. A sostegno di quanto sostenuto vi sarebbe il contenuto delle leggi XII Tabularum che rispecchia fedelmente le strutture socio-economiche dell’epoca arcaica riferendosi, infatti, ad
una struttura ancora organizzata secondo lo schema della famiglia agnatizia, dominata dalla potestas accentratrice del pater su tutti i suoi sottoposti.
9)Risposta esatta: C
Stando alle testimonianze giunteci, si può supporre che l’appartenenza alle diverse curie si fondasse sui
legami familiari e sul lignaggio.
Quanto alla risposta sub «a», non si può negare che il collegamento fra le varie curie ed il territorio esistesse, ma in realtà, veniva «mediato» dai gruppi gentilizi aventi maggior peso all’interno delle singole curie. Successivamente (attorno al IV sec. d.C.) si stabilì che potevano far parte delle curiae solo i cittadini muniti di
un certo reddito proveniente da patrimonio immobiliare.
10)Risposta esatta: C
La dottrina pur riconoscendo una partecipazione dei comizi curiati alla nomina del re ritiene che la stessa
si risolvesse in un ruolo meramente passivo, ossia di testimonianza e di generica adesione.
Risposte al questionario
245
Le curie fungevano, anche da distretti di leva, dovendo fornire alla civitas un contingente fisso di fanti e cavalieri.
Rientrano, infine, fra le competenze dei comizi curiati le scelte concernenti «la guerra e la pace», la nomina
dei magistrati ausiliari del re ed, ancora, il voto delle leggi regie. Ma sembra che anche tali poteri (ad eccezione della lex curiata de imperio), fossero più formali che sostanziali.
In età repubblicana, si assistette ad un ridimensionamento del ruolo di tali comizi; furono mantenuti in vita
per rispetto della tradizione, ma svolsero esclusivamente funzioni di diritto sacro o relative ad atti solenni arcaici (ad es., l’adrogatio, atto col quale un pater familias si sottoponeva volontariamente alla potestas di un
altro pater, ponendosi a tutti gli effetti come suo figlio), per lo più sotto la guida del pontifex maximus.
11)Risposta esatta: C
Il periodo arcaico, come noto, è caratterizzato dal regime monarchico (dal greco mònos «solo» e archeo
«comandare»); non appare, pertanto, credibile che possa intercorrere un rapporto assolutamente paritetico fra il rex e qualsiasi altro organo.
Ciò nonostante il senato svolgeva, nei confronti del rex, una indispensabile funzione consultiva che toccherà l’acme durante la fase della I monarchia latino-sabina, per poi subire un decadimento nel corso della
monarchia etrusca caratterizzata dalla presenza accentratrice dei relativi sovrani.
In particolare: durante la monarchia latino-sabina il rex era obbligatoriamente tenuto a chiedere i pareri all’assemblea dei patres ed adeguarsi ai medesimi in quanto vincolanti. Nel corso, invece, della monarchia etruscolatina ai pareri del consesso senatorio (senatusconsulta) non solo non venne riconosciuta alcuna efficacia vincolante, ma – come già detto – i monarchi etruschi molto raramente interpellavano il collegio senatorio.
12)Risposta esatta: A
Nell’ambito delle competenze attribuite al senato quella che risulta essere la più rilevante, ma soprattutto la
più indispensabile, è – senza dubbio – l’interregnum.
Si trattava di un istituto mediante il quale, alla morte del rex, il senato, attraverso alcuni suoi membri a ciò
delegati, esercitava i poteri supremi sino a nomina del nuovo re.
In particolare: durante il periodo in cui mancava il re, il potere veniva esercitato, a turno e per non più di cinque giorni, da alcuni membri del collegio senatorio, fino a quando tale collegio non avesse prescelto il nuovo re che comunque andava presentato all’acclamazione delle curie riunite in assemblea.
L’auctoritas patrum (autorizzazione dei senatori) rappresenta – unitamente all’interregno – una delle attribuzioni di maggior rilievo riconosciute al consesso senatorio.
Consisteva nella convalida delle deliberazioni assunte dalle assemblee popolari.
L’auctoritas, estremamente significativa nella monarchia latino-sabina, subì delle trasformazioni durante la
dominazione etrusca: il ruolo delle gentes non era tale da giustificare la necessità della loro ratifica delle decisioni del sovrano e, dunque, anche l’esercizio dell’auctoritas dovette risolversi in una mera formalità.
In età repubblicana – contrariamente a quanto avvenne per l’interregnum – l’auctoritas acquistò maggiore
rilevanza.
Essa si concretò, infatti, in un vero e proprio potere di controllo sugli atti fondamentali per la gestione della
res publica; tale controllo non investiva la legittimità, bensì il merito di detti atti.
14)Risposta esatta: C
La storiografia è unanime nell’associare i cambiamenti apportati dai sovrani etruschi ad un più generale
spostamento della realtà politica di Roma.
D’altro canto, l’espandersi della proprietà privata della terra, unitamente alla crescente economia cittadina
legata ai commerci ed all’artigianato sono fenomeni di una tale importanza da non avere effetto solo sugli
aspetti sociali, ma da incidere direttamente sull’assetto politico-istituzionale.
15)Risposta esatta: A, B, C
Per il quesito in esame, non sarebbe corretto indicare come «del tutto esatta» nessuna delle tre risposte.
In dottrina, infatti, si sono alternate varie congetture circa le modalità di passaggio dal sistema monarchico a quello repubblicano:
— ad opinione di taluni studiosi, l’avvento del regime repubblicano sarebbe stato la diretta conseguenza di
un graduale processo, attraverso la lenta opera di esautoramento del potere del re da parte dei suoi col-
Questionario
13)Risposta esatta: C (Punti 2)
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