ricerca e risorse I composti naturali dal vitalismo al …”neovitalismo” Corrado Tringali P er una buona parte della cosiddetta “opinione pubblica”, influenzata anche da certa stampa, la parola “chimica” è frequentemente associata all’idea di tossicità, nocività o, nella migliore delle ipotesi, correlata a ciò che “non è naturale” e che più correttamente potrebbe essere definito “sintetico”, cioè ottenuto in laboratorio dalla manipolazione di reagenti chimici. L’infondatezza di questo collegamento è sin troppo ovvia, e in questo breve articolo non vorrei soffermarmi sugli aspetti positivi della chimica sintetica e sulle possibilità che essa ha aperto allo sviluppo tecnologico; vorrei invece osservare come, sino a tempi abbastanza recenti, vi sia stata una scarsa consapevolezza, almeno nella “opinione pubblica”, del fatto che la chimica comprende anche settori che si occupano dello studio e della utilizzazione di composti ottenibili da fonti naturali. Sembra quasi che estratti, farmaci, aromi, coloranti, cosmetici, ecc. ottenuti sia direttamente da piante, o altri organismi, sia mediante sintesi o modificazione dei composti naturali, non siano il frutto del lavoro di chimici ma di altri “operatori” non macchiati dall’etichetta “chimica”. Personalmente ritengo che l’errata equazione chimico = non naturale sia uno dei fattori che 24 hanno portato, in molti paesi industrializzati e in Italia in particolare, alla paradossale situazione di un numero di laureati in Chimica e Chimica Industriale inferiore alle necessità minime di una società tecnologicamente evoluta, al punto che il MIUR ha avviato iniziative mirate all’incremento delle iscrizioni ai corsi di laurea ad indirizzo chimico (così come per Fisica e Matematica). Bisogna dire, tuttavia, che ci sono segnali recenti di una inversione di tendenza per quanto riguarda la chimica dei composti naturali; il più evidente, per quanto riguarda il nostro paese, a me sembra l’inserimento della “chimica fine dei composti naturali” finalizzata allo sviluppo dell’industria farmaceutica fra le priorità strategiche indicate nel Programma nazionale per la ricerca (PNR) per il periodo 200507. Vorrei cercare quindi, nel breve spazio qui disponibile, di far capire quale possa essere la ragione di questa riscoperta delle sostanze naturali, a partire da quelle che potrebbero essere le radici storiche di un “oscuramento” che non può essere esclusivamente attribuito alla responsabilità di cattivi giornalisti. È interessante osservare che per lunga parte della sua storia, l’uomo ha utilizzato risorse naturali (o le ha modificate me- diante processi chimici) per ottenere materiali e medicine, ma anche prodotti fermentati, coloranti, aromi, ecc. Nel 1810, Berzelius diede il suo autorevole sostegno alla teoria del vitalismo – cioè la presunzione che nei composti ottenuti da organismi viventi, e quindi definiti “organici”, dovesse celarsi una misteriosa forza che li rendeva intrinsecamente diversi dai composti inorganici. La teoria del vitalismo fu messa a dura prova nel 1828 dall’esperimento di Wöhler (l’ottenimento di urea da un sale inorganico), e definitivamente sconfessata dalla sintesi in laboratorio di svariati composti “organici”, fra cui è da citare la sintesi dell’acido acetico messa a punto da Kolbe (1845), poi divenuto ben noto per la sintesi dell’acido salicilico, un antipiretico in precedenza ottenibile dalle foglie di salice. Questi eventi portarono nel 1861 un altro autorevole chimico, Kekulè, a definire “composti organici” semplicemente quelli che contengono carbonio, senza alcuna correlazione con gli organismi viventi; questa definizione è tuttora valida. Nel 1899 venne messa a punto la sintesi dell’aspirina, un derivato dell’acido salicilico con minori effetti indesiderati: i chimici avevano, quindi, imparato a prendere ispirazione dalla natura, ma anche a migliorare le proprietà dei composti naturali. Da allora, i progressi della chimica organica sintetica sono stati enormi, ed essi costituiscono una delle ragioni per cui la originaria connessione fra chimica e natura si è notevolmente affievolita. A partire dagli anni 70, tuttavia, è iniziata una riflessione sulle possibili conseguenze per l’ambiente derivate dalla persi- una presunzione di innocuità; quest’ultima per la verità ha molte eccezioni: è ben noto infatti che vi sono composti naturali estremamente tossici. Ma è proprio nel settore dei farmaci (o di composti affini, come i cosiddetti “integratori alimentari”) che possiamo parlare di riscoperta dei composti naturali; vorrei brevemente spiegare il perché. La chimica organica di sin- stenza dei composti di sintesi – sconosciuti ai microrganismi che degradano con facilità le sostanze di origine naturale – nonché dall’impiego di reagenti tossici e metalli pesanti per un gran numero di processi chimici industriali. Ciò ha portato allo sviluppo di un insieme di settori di ricerca che complessivamente prendono il nome di “chimica verde”. Allo stesso tempo, i consumatori dei paesi industrializzati hanno cominciato ad esprimere preferenze di mercato per prodotti che in qualche modo potessero essere definiti “naturali”, preferendoli per la loro totale biodegradabilità o per tesi applicata alla scoperta di nuovi farmaci ha avuto un formidabile impulso dalla introduzione dei metodi definiti “combinatoriali”, in cui non si progetta la sintesi di un solo prodotto, ma di una miscela di prodotti che possono derivare dalla opportuna combinazione di più reagenti. Sorprendentemente è stato osservato che nel periodo 1981-2002 nessun farmaco approvato ha avuto origine da prodotti della sintesi combinatoriale, e nell’ultimo decennio la media di nuove entità chimiche scoperte è passata da 30 a 17! Questi scarsi successi sono stati correlati sia alla ristretta varietà di strutture molecolari prodotta dai processi combinatoriali che al diminuito interesse nei confronti dei composti naturali verificatosi negli ultimi decenni del XX secolo. Si è, quindi, cercato di capire in cosa potesse consistere questa peculiarità dei composti naturali, soprattutto quelli definiti “bioattivi”. È risultato evidente come la varietà strutturale (che possiamo chiamare chemodiversità) dei composti naturali sia molto superiore a quella dei composti da sintesi combinatoriale e superi anche quella dei farmaci commercializzati. Ma cosa contraddistingue l’insieme dei composti naturali? Uno studio dei chimici della Bayer AG, corroborato da analoghe osservazioni riportate più recentemente su Nature, indica che, rispetto ai composti di sintesi, i composti naturali hanno pesi molecolari più elevati (ma si tratta sempre di molecole “piccole” e non di biopolimeri); includono pochi atomi di alogeno o di azoto rispetto ad una maggiore quantità di atomi di ossigeno; hanno strutture tridimensionali molto complesse. D’altronde è abbastanza evidente che nessun chimico avrebbe potuto progettare a tavolino la struttura di antitumorali molto efficaci come il paclitaxel (meglio noto come taxol®), isolato dalla corteccia di Taxus brevifolia, o come la vincristina e la vinblastina, ottenibili dalla pervinca rosea (Catharanthus roseus). Ma allora dobbiamo concludere che i composti naturali hanno veramente “qualcosa di speciale”, come riteneva Berzelius? La risposta – un po’ provocatoriamente – potrebbe essere affermativa. Infatti è stato utilizzato il termine neovitalismo a questo proposito. Naturalmente non c’è nessun richiamo ad una qualsivoglia 25 ricerca e risorse 26 forza vitale: semmai bisogna ricondurre il tutto alla sintesi biologica dei composti naturali, per lungo tempo considerati “prodotti di scarto” del metabolismo primario e come tali definiti “metaboliti secondari”. A queste piccole molecole sono spesso affidati ruoli vitali, come nel caso di alcuni ormoni, oppure peculiarità caratteristiche di una specie: una parte insomma di quella che a livello come l’alto tasso di attività biologiche riscontrate per i prodotti naturali rispetto alle collezioni ottenute dalla chimica combinatoriale possa spiegarsi considerando le strette somiglianze dei corredi genetici di tutti gli organismi e il fatto che i processi biosintetici dei composti naturali ed i loro bersagli biologici si sono evoluti in parallelo. Ad esempio, molte piante producono alcaloidi essi è contenuta: questa informazione (ad es. la giusta disposizione di alcuni atomi per interagire con opportuni recettori) è stata acquisita in un processo di “chimica combinatoriale” spontaneo e durato milioni di anni, sottoposto a continui saggi con una miriade di forme viventi. Il prezioso risultato ottenuto è assai difficile da eguagliare con metodologie necessariamente limitate nel macroscopico definiamo biodiversità. Lo studio del complesso di metaboliti specifici prodotti da un organismo vivente viene appunto definito metabolomica. I metaboliti prodotti da un arbusto, un fungo o un mollusco hanno molto spesso un ruolo di difesa o comunicazione chimica, cioè conferiscono un vantaggio evolutivo alla specie che li produce: in questo modo viene conservato il corredo genetico che codifica la sintesi dei metaboliti utili. Una interessante review pubblicata di recente fa notare tossici per proteggersi dai predatori erbivori, in particolare dai mammiferi: questi alcaloidi si sono quindi “evoluti” in modo da legarsi fortemente alle proteine dei mammiferi. L’uomo ha trovato il modo di volgere a suo vantaggio questo processo evolutivo, utilizzando alcuni di questi alcaloidi come potenti farmaci antitumorali. In conclusione, possiamo affermare che effettivamente c’è qualcosa di diverso nei composti naturali, ed è a mio parere l’informazione che in tempo e nella varietà di substrati, ed è per questo che i chimici devono essere fra i primi a battersi per la protezione della biodiversità del nostro pianeta: dietro questa biodiversità si cela, infatti, una chemodiversità che ancora può rivelarci numerose sorprese. Naturalmente i ricercatori possono intervenire con le loro conoscenze di sintesi per modificare e “ottimizzare” le strutture naturali, che potremmo considerare dei lead compounds privilegiati per la scoperta di nuovi farmaci.