Periodico della Fondazione Farefuturo CULTURA - 20 settembre 2010 Rosmini e il suo progetto politico di un’Italia federale Il profeta inascoltato di un altro Risorgimento DI GIULIO BATTIONI Chierico per professione e laico devoto per convinzione. Con buona pace di Machiavelli e delle storiografie repubblicane e liberal-democratiche, è un sacerdote roveretano l’ingegnere costituzionale che più ha contribuito al pensiero e alla realizzazione politica dell'unità d’Italia. Uomo di fede e talare, il genio di Antonio Rosmini Serbati domina la storia della teologia e della metafisica, la logica e la mistica, la pedagogia e la poesia degli ultimi due secoli. Ma al di là del “colletto romano”, un’auscultazione attenta del suo possente corpus di scritti consente di ricavare la finezza di chi ha studiato e “capito” il diritto, la grandezza di chi ha conosciuto e “praticato” la politica per il bene dell’uomo, cittadino e pellegrino nel mondo, nella sua inalienabile condizione storica. Il mondo che al filosofo e religioso trentino toccò di vivere fu quello del complicato processo di unificazione civile che l’Italia della metà del diciannovesimo secolo andava elaborando, dopo secoli di invasioni e divisioni, torpori e tentennamenti, esaltati dalla spaventosa varietà dei suoi territori. Rosmini apparteneva alla generazione dei Gioberti e dei Cattaneo, dei Garibaldi, Mazzini e Cavour, uomini affatto diversi, talvolta opposti per temperamento e cultura, eppure accomunati dalla idea dell’“unità morale degli italiani” e della urgenza politica di uno Stato per quello che fino ad allora era rimasto «Il bel paese/ Ch’Appenin parte, e ‘l mar circonda e l’Alpe» di petrarchesca memoria. Se al conte piemontese ha somigliato per moderazione e diplomazia, fu specialmente ai primi due che Rosmini può essere avvicinato per il “progetto politico” e il modello costituzionale che pensò per l’Italia. In Cattaneo l’ideale nazionale trovava nel federalismo la sua naturale versione italiana, con una forte connotazione lombardocentrica e antipiemontese. Gli spigoli laicisti allontanano Cattaneo non solo dal sentire cristiano di Rosmini ma anche da una realistica e coerente lettura del federalismo che, come aveva intuito Gioberti, non poteva rinunciare al “valore aggiunto” della religione cattolica nello sviluppo di una società civile più giusta e umana. 1 Come l’autore del Primato morale e civile degli Italiani, Rosmini immaginava una Italia federale, ordinata secondo il dettato di una costituzione ispirata a principi liberali e rappresentativi. «Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del governo e non alla libertà dei governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati e non alla forza del governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e delle più difficili della sapienza politica». Senza accondiscendere alle forme ideologiche del liberalismo politico di matrice individualista, lontano anni luce dall’ormai vieto tradizionalismo del binomio trono-altare, Rosmini credeva che l’Italia dovesse essere l’aggregazione di quattro grandi complessi politico-sociali: l’Alta Italia, vale a dire Piemonte e Lombardo-Veneto, la Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli. Rosmini era persuaso che la “questione romana” avrebbe dovuto risolversi con un “Risorgimento spirituale” della Chiesa e una ragionevole rinuncia alle sue anacronistiche prerogative temporalistiche. Con Gioberti, però, rimaneva dell’avviso che la figura del Sommo Pontefice potesse ancora assolvere al ruolo di garante del giusto equilibrio tra le istanze dei singoli Stati e che Roma potesse ospitare i lavori degli organi di rappresentanza e decisione della nuova “Confederazione”. Il filosofo di Rovereto fu per altro il redattore di una piccola carta costituzionale oggi riproposta da Umberto Muratore nel volume Rosmini per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, uscito per le Edizioni Rosminiane e presentato a Stresa nel corso dell’ultimo “Simposio” dedicato ad Antonio Rosmini e il problema storico dell’Unità d’Italia. Bozza informale di appena sei articoli, il progetto costituzionale del religioso che godeva della massima stima di Pio IX, prima che questi fuggisse a Gaeta e chiudesse definitivamente la porta alle istanze liberali del movimento patriottico, costituisce un vero e proprio capolavoro di scienza politica. Eccone i punti: l’Italia è definita come “perpetua Confederazione” stabilita fra gli Stati della Chiesa, del re di Sardegna e del Gran duca di Toscana; il papa e i suoi successori ne sono i suoi “presidenti perpetui”; a Roma si riuniscono i rappresentanti degli “Stati confederati”, eletti dai rispettivi “poteri legislativi”; la “Costituzione federale” istituisce una “Dieta permanente”, potere centrale al quale competono la politica estera, monetaria, doganale e la garanzia della eguaglianza politica e la risoluzione delle controversie tra gli Stati confederati; si riconosce libertà di accesso alla Confederazione a tutti gli Stati italiani; la ratifica di trattati e convenzioni deve essere effettuata entro un mese. A distanza di più di un secolo e mezzo dalla testimonianza e dall’opera di Rosmini, l’Italia si è fatta, bene e male. Il Risorgimento e gli eventi politici epocali che lo hanno seguito, tradendone lo spirito o sottolineandone le debolezze, hanno partorito uno Stato sovrano strutturato e relativamente funzionante. Ma oltre della tenuta dei conti pubblici o alla stabilità del sistema politico formale, il nostro rimane un Paese ancora “povero” di coscienza e passione civile. Il federalismo di Rosmini inascoltato profeta di un altro Risorgimento, sagace tessitore della reale rinascita di una Italia plurale, forte e solidale è oggi tra le eredità più grandi di questi 150 anni di storia patria. 2