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I Luoghi santi
di Gerusalemme
R e l a z i o n e d i M o rd e c h ay L e w y,
ambasciatore d’Israele
presso la Santa Sede
Il compromesso come via di pace
«Se l’adesione alla moralità e alla giustizia impedisce il cammino verso il
compromesso, come possiamo aspettarci di raggiungere un compromesso
in questioni di credo? A complicare
ulteriormente le cose, c’è la consapevolezza che nella Città santa, cara a tutte
e tre le religioni monoteiste, nessuno
può realmente separare la religione e la
politica». Ecco il punto di partenza
della relazione, pronunciata il 6 marzo
presso l’Istituto «Enrico Mattei» di
Alti studi sul Vicino e Medio Oriente di
Roma dall’ambasciatore d’Israele
presso la Santa Sede, Mordechay Lewy.
Attraverso un’analisi del conflitto sui
Luoghi santi di Gerusalemme, da una
prospettiva israeliana, l’ambasciatore
presenta le sue riserve sui disegni di
pace proposti finora nella Città santa,
appunto perché la pace è stata sempre
associata «a un’idea di moralità e giustizia», senza cercare il compromesso.
In questo contesto s’inserisce il viaggio
di Benedetto XVI in Terra santa, dall’8
al 15 maggio prossimi, con l’intento –
come ha detto il papa a una delegazione del Gran rabbinato d’Israele ricevuta in Vaticano il 12 marzo scorso – di
contribuire alla pacifica convivenza tra
cristiani, ebrei e musulmani in Terra
santa.
Stampa (15.4.2009) da sito web www.mastermatteimedioriente.it. Sottotitoli redazionali.
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Nomen est omen... sfortunatamente non riflette sempre la
realtà. La capitale della Bolivia, La Paz, che annovera più di
600 tentativi di colpi di stato, non è la città della pace.
Neanche la capitale dell’Argentina è all’altezza del suo
nome, Buenos Aires. E tanto meno la capitale d’Israele,
Gerusalemme, è riuscita nei suoi 3.000 anni di storia a meritarsi l’appellativo di città della pace.
Visioni di pace sono state diffuse a Gerusalemme sin dai
tempi biblici dei profeti. Fino a oggi non sono mancate idee
e progetti su come disegnare la pace. Tutti i concetti hanno
fallito, finora, perché la pace è stata associata a un’idea di
moralità e giustizia. Desidero spiegare le radici delle mie
riserve basandomi sulla tradizione ebraica di giustizia e pace.
Rav Shimon ben Gamliel una volta disse che il mondo
esiste grazie a tre fondamenti: la verità, la giustizia e la pace.
Già nel Talmud, le personalità di Mosè e di Aronne hanno
incarnato questi valori: Mosè rappresentava la verità e la
giustizia; Aronne, la pace. Nel Talmud (Trattato Sanhedrin
6:b), Mosè si mostrava come un uomo che in caso di conflitto tra la giustizia e la pace optava chiaramente per la prima:
è scritto «la giustizia buca la roccia». Aronne, tuttavia, preferiva la pace, poiché si dice: «Aronne, il cercatore di pace,
stabilì la pace tra i popoli» (…).
Il rabbino Hillel l’Anziano rappresentò nel Pirkei Avot
(1,12) la personalità di Aronne configurandola con la ricerca
della pace. Ciò è assai rilevante se si tiene a mente che nel
racconto biblico, Aronne fece un compromesso con la richiesta della gente di venerare il vitello d’oro. (Questo conflitto drammatico è anche il leitmotiv dell’opera di Arnold
Schönberg: Mosè e Aronne).
L’orientamento della legge ebraica tradizionale era di
raccomandarsi ai giudici per cercare sempre un compromesso tra le parti in conflitto e non d’implementare la giustizia o le misure giuridiche. Quale lezione possiamo trarre
da tutto ciò?
La giustizia non è compatibile con il compromesso. La pace
è ottenibile solo attraverso il compromesso.
Pertanto, ho grandi riserve nei riguardi dello slogan politico «giusta pace», che spesso è considerato un imperativo
morale. Lo scrittore Amos Oz ha illustrato la sua critica all’e-
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spressione «giusta pace» formulando le seguenti alternative:
per poter risolvere il conflitto arabo-israeliano noi possiamo
scegliere tra un finale tragico shakespeariano o uno comico
alla Chekhov. Nella tragedia shakespeariana tutti i protagonisti rimangono onesti e fedeli ai loro principi morali, ma
prima che cali il sipario giacciono morti sul palco. Nel dramma di Chekhov, quando scende il sipario, tutti giacciono frustrati e infelici sul palcoscenico, ma restano vivi.
Se queste sono le prospettive di un conflitto nazionale in
cui ogni parte si attiene alla sua giusta narrativa storica,
quanto può essere ancora più complicato raggiungere una
soluzione in un conflitto religioso che riguardi i Luoghi
santi? Se l’adesione alla moralità e alla giustizia impedisce il
cammino verso il compromesso, come possiamo aspettarci
di raggiungere un compromesso in questioni di credo? A
complicare ulteriormente le cose, c’è la consapevolezza che
nella Città santa, cara a tutte e tre le religioni monoteiste,
nessuno può realmente separare la religione e la politica. Sin
dalla penetrazione delle potenze straniere a Gerusalemme
durante il XIX secolo, per preservare o espandere il proprio
punto d’appoggio a Gerusalemme sono stati utilizzati sia gli
strumenti politici sia quelli religiosi.
La compless a gestione dei Luoghi santi
La densità dei Luoghi santi a Gerusalemme è unica al
mondo. Tuttavia, non esiste né una definizione universalmente concertata di «Luogo santo» né una lista dei luoghi
stessi. Sarebbe, comunque, un esercizio futile poiché la santità è negli occhi dell’osservatore. Il cristianesimo cattolico,
ortodosso e monofisita ha spesso ampiamente, e a vari livelli, dichiarato la propria santità, praticato i pellegrinaggi,
mantenuto e amministrato i Luoghi santi.
L’islamismo e l’ebraismo, invece, sono più restrittivi a
questo proposito. Le tradizioni normative (eccetto che
nelle tradizioni shia e hassidiche) in entrambe le religioni
sono estranee alla venerazione dei santi e all’adorazione
dei Luoghi santi. Ciò che sta accadendo ora con questa
moltitudine di attestazioni di Luoghi santi sia da parte di
ebrei sia di musulmani, è basato su una religione popolare e non normativa. Il sentirsi entrambi attori di una competizione geopolitica riguardante la medesima «proprietà» non fa che stimolare le loro richieste. Essendo minimalisti nel loro approccio generale, l’islam e l’ebraismo
sono molto rigidi quando si tratta dei pochi Luoghi santi
che venerano.
Per gli ebrei la shekhinah di Dio (dal verbo shakhan,
dimora, riferito al Signore; ndr) è presente nel Muro occidentale (più conosciuto come Muro del pianto; ndr) che è
considerato l’unico luogo sacro come sostituto del Tempio
distrutto 2.000 anni fa. Il Luogo santo è stato sublimato,
dopo la sua distruzione per opera di Tito nell’anno 70, in
preghiere e nel culto sinagogale (il testo del Libro santo
[Torah] è stato canonizzato; il podio – bima – è divenuto l’altare dove il Libro veniva letto perché non era più possibile
offrire i sacrifici materiali: la lingua e la scrittura ebraica sono
state elevate allo stato di sacralità). Molte preghiere sono servite, fino a oggi, come sostituto dei sacrifici nel tempio.
Per l’islam i Luoghi santi sono ristretti a tre. In ordine
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gerarchico, i primi due – Mecca e Medina – sono più distintivi del terzo – la moschea di al-Aqsa sul Haram al-Sharif.
Questa fu eretta sulle rovine del tempio ebraico costruito da
Erode. La narrativa moderna islamica oggi nega ogni nesso
tra il tempio ebraico e ciò che i musulmani dichiarano
come un singolare luogo santo islamico. I musulmani probabilmente fraintendono il decreto del Rabbinato capo del
1967, che proibisce agli ebrei di entrare nella Spianata del
Tempio in quanto potrebbero erroneamente trovarsi a
camminare sul luogo sconosciuto del Sanctus sanctorum e
pertanto essere condannati a morte per la profanazione del
sito. Questo decreto non è stato revocato fino a oggi e ha
dimostrato di essere molto utile, benché non soddisfi i
musulmani più sospettosi.
Non ho intenzione di negare che dal 1967 alcuni tratti
politici messianici si siano manifestati tra gli ebrei nazionalortodossi. L’ebraismo genuino ortodosso generalmente si
oppone a questa attività messianica poiché, secondo loro, il
Tempio sarà nuovamente eretto solo dalla mano di Dio
quando verrà il Messia.
Il governo israeliano non esercita la sua piena autorità
sulla Spianata del Tempio ed è sottoposto a continue critiche interne per il fatto di non mostrare la propria sovranità
o di non rispettare la libertà della pratica religiosa ebraica.
Questa politica sfortunatamente non è molto apprezzata
nemmeno dagli altri contendenti.
Il Waqf (istituzione islamica preposta alla gestione del
Monte del Tempio di Gerusalemme; ndr), la maggiore
autorità musulmana a Gerusalemme, ha un privilegio quasi
extraterritoriale nella gestione degli affari sul Haram alSharif. Tra l’altro, il Waqf regola l’entrata dei non musulmani e cura la manutenzione del sito. Negli ultimi anni, con
l’allontanarsi del ricordo del processo di pace di Oslo, il
Regno di Giordania ha assunto maggiore responsabilità sul
Haram al-Sharif: paga i salari e nomina gli ufficiali, compiti che negli anni Novanta erano esercitati dall’Autorità
palestinese. La polizia israeliana è presente in prossimità di
tutte le porte, ma solo la Porta Magrebina è sotto il controllo israeliano dal 1967. A causa della sua vicinanza al
Muro occidentale, il controllo di questa porta è essenziale
per ridurre potenziali frizioni. L’al-Shabab (un’organizzazione militante di giovani [al-shabab significa «la gioventù»]
dell’islam radicale; ndr) ha spesso manifestato la propria
avversione per la preghiera ebraica davanti al Muro occidentale con il lancio di pietre sugli astanti. Inoltre, il controllo della polizia può prevenire gli ebrei visionari dal
penetrare sulla Spianata del tempio e provocare i fedeli
musulmani.
La complessità insita nella gestione e amministrazione
dei Luoghi santi è data dalle tante difficoltà che possono
derivare dall’esentare troppi luoghi dalla propria autorità e
giurisdizione. Farò un esempio per tutti.
Il cimitero musulmano di Mammilla a Gerusalemme
Ovest, che è stato fondato alla fine del XII secolo, ha occupato fino al 1920 grandi porzioni di quello che dopo sarebbe diventato il centro della città moderna di Gerusalemme.
Il cimitero cessò di essere attivo molto tempo fa (più di 36
anni). Secondo la scuola hanafica dell’interpretazione della
legge sharia, che è la scuola dominante in terra d’Israele
oggigiorno, un cimitero o una moschea che sia costruita
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fuori dal Terreno sacro («Haram») non gode dello stato di
santità eterna. La proprietà può essere riutilizzata a beneficio del pubblico. Il movimento islamico israeliano dello
sceicco Raed Sallah si oppone con forza al progetto di erigere un museo sull’area del parcheggio comunale che era in
passato parte del cimitero di Mammilla. Raed afferma di
opporsi al progetto poiché offende la santità di un cimitero,
ma, in realtà, sta manipolando questioni religiose per mettere ostacoli politici non solo allo sviluppo del centro di
Gerusalemme, ma anche per minare la sovranità ebraica
sulla città. Ha rifiutato di accettare i compromessi che gli
sono stati offerti sia dal Tribunale sia dall’esterno, e la questione è rimasta pendente in tribunale fino a poco fa quando l’Alta corte israeliana di giustizia ha respinto la rivendicazione.
All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, il Gran
mufti e capo del Consiglio supremo musulmano di
Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini, in conformità con la
scuola giuridica hanafica, destinò parte del cimitero alla
costruzione di un grande edificio (ancora visibile ad Agron
Street) che avrebbe ospitato un’università islamica. In seguito, nel 1934, ha deciso di costruirvi il «Palace Hotel».
Persino sul Haram al-Sharif il Consiglio supremo nel
1920 ha modificato lo stato della moschea Maghrebina
adiacente alla moschea di al-Aqsa per stabilirvi il museo
islamico. A Gerusalemme Est, la stazione centrale degli
autobus di fronte alla Porta di Damasco e l’edificio dell’attuale Corte sharia sono stati costruiti sul cimitero musulmano di Zahra. Ciò che i musulmani consideravano legittimo nel passato, sotto il loro dominio o sotto il mandato britannico, ora viene contestato al governo israeliano. Lo
sceicco Ahmed Natour, presidente della Corte d’appello
della sharia in Israele, il 21 giugno del 1996 ha pubblicato
un decreto, rivolto a tutti i tribunali sharia d’Israele, che
sancisce l’assoluto divieto di modificare la destinazione di
qualsiasi proprietà Waqf, in particolar modo quando si tratta di una moschea o di un cimitero. Natour ha, in qualche
maniera, negato che sotto il governo d’Israele tali cambiamenti vengano fatti a vantaggio del beneficio pubblico. Per
lui il beneficio pubblico si applica alla «umma» che è, ovviamente, solo la comunità o la nazione musulmana e non il
bisogno pubblico israeliano o ebraico. La concezione fondamentale dei musulmani è che ai non musulmani è proibito toccare qualsiasi cosa musulmana, persino quando i
musulmani stessi se ne sono disinteressati, come nel caso dei
loro cimiteri o delle loro proprietà.
Il conf lit to religioso-culturale
Il fatto che Gerusalemme non sia menzionata neanche
una volta con il suo nome nel Corano è irrilevante per il
mondo islamico. L’interpretazione umayyad del Corano
identifica il termine «al-Aqsa» con il muro meridionale del
Haram al-Sharif di Gerusalemme. Il profeta ha raggiunto
questo luogo durante una cavalcata notturna a dorso del suo
cavallo al-Buraq. Le tradizioni relative all’identificazione di
al-Buraq con la cavalcata notturna presso il Muro occidentale e l’adiacente moschea sono più recenti di 200 anni.
Questo transfert di tradizione è stato politicamente motivato
quando gli ebrei iniziarono a chiedere i diritti di preghiera al
Muro occidentale.
Lo Status quo originale (decreto del 1852; ndr) fu esteso
nel 1929 dai britannici a due siti sacri aggiuntivi che figuravano in una disputa interreligiosa tra gli ebrei e i musulmani: il Muro occidentale e la Tomba di Rachele vicino
Betlemme. L’urgenza che rese necessario l’intervento del
potere mandatario britannico fu data dallo scoppio di
tumulti in cui le aspirazioni nazionaliste dei palestinesi,
mischiate a sentimenti religiosi, costituivano un barile di
esplosivo. Questa nuova organizzazione in prossimità del
Muro occidentale diede agli ebrei diritti limitati per praticare il proprio culto. Negli anni del dominio giordano di
Gerusalemme, tra il 1948 e il 1967, quei diritti non furono
rispettati, poiché l’accesso degli ebrei da Israele alla Città
vecchia di Gerusalemme era proibito. Dopo che Israele
assunse il potere nel 1967, lo status quo mandatario al Muro
occidentale fu revocato, nel 1969, da una decisione dell’Alta
corte di giustizia israeliana.
Dal punto di vista storico è importante notare che durante i lunghi periodi di dominio islamico, Gerusalemme è stata
trascurata e non è mai divenuta un centro politico o un fulcro economico. Tuttavia, nel momento in cui Gerusalemme
è caduta in mano ai non credenti, come è successo nel 1967,
è diventata molto cara al mondo musulmano e ha acquisito
un potere mobilizzante, anche se solo temporaneamente.
Con questo paradosso dovremo conviverci.
Ciò che è stato perso, anche se in un lontano passato, fa
sempre sentire il peso della sua mancanza. Solo per spiegare meglio: Gerusalemme è divenuta geograficamente il centro del mondo, nella visione cristiana, così come illustrata
nella Mappa mundi del XIII secolo, solo dopo che Gerusalemme è stata persa dall’Europa latina.
Il conflitto su Gerusalemme, che non è solo politico ma
anche religioso-culturale, sembra non avere una soluzione
prevedibile, ma dobbiamo imparare a gestire gli affari all’interno di un tale conflitto e probabilmente c’è spazio anche
per miglioramenti. Non dovrebbe essere considerata come
una semplice scusa, ma nell’ambito della catena dei governanti che hanno esercitato la propria autorità sulla città di
Gerusalemme, gli ebrei sono i nuovi protagonisti dell’era
moderna. Avendo raggiunto l’indipendenza da appena 60
anni e non avendo la necessaria esperienza nell’esercizio dell’autorità, Israele sta imparando attraverso tentativi ed errori ciò che gli ottomani e, soprattutto, gli inglesi conoscevano
bene: la giusta misura per esercitare il potere a Gerusalemme.
Ciò che disturba la maggioranza delle Chiese cristiane
nei Luoghi santi è che i governi israeliani non desiderano
interferire in questioni legate allo status quo dei Luoghi santi.
Non si tratta solo di mancanza di esperienza. È anche una
riluttanza ebraica, maturata nella storia, all’ingerenza negli
affari della Chiesa cristiana. Inoltre, l’esperienza a
Gerusalemme mostra che qualsiasi cosa si faccia, sarà
comunque sbagliata perché renderà qualcuno scontento.
Quasi sempre, le Chiese nel Santo sepolcro sono lasciate da
sole a risolvere dispute insolvibili tra di loro. Hanno ricordi
lontani del dominio giordano, britannico od ottomano,
ognuno dei quali non esitò a esercitare l’autorità in questioni di status quo. Pur propendendo verso uno dei contenden-
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ti (Waqf musulmani, anglicani o greco-ortodossi), un intervento decisivo, magari anche palesemente ingiusto, aveva i
suoi meriti e non mancava mai di avere impatto sulle parti
coinvolte.
Vorrei fare un esempio per illustrare come un governante potesse deliberatamente favorire una parte.
All’uscita del tunnel di Gihon sopra la piscina Siloam, gli
archeologi Bliss e Dickey scoprirono negli anni 1894-97 le
rovine di una chiesa bizantina del V secolo che fu distrutta durante le conquiste persiana (614) e musulmana (638).
Per impedire la costruzione di un nuovo e attivo sito cristiano sul luogo in cui secondo la tradizione cristiana venivano curati i non vedenti, il governo ottomano consegnò il
luogo al Waqf musulmano che vi costruì una moschea
sulle rovine. Oggi i musulmani sostengono che la moschea
esista da tempo immemorabile, benché sappiamo che non
sia passato neanche un secolo. Queste misure amministrative da parte del governante musulmano in favore dell’islam si ripercuotono fino a oggi. Dobbiamo tenere in considerazione che a Gerusalemme i cosiddetti «diritti ancestrali stabiliti nell’antichità» sui Luoghi santi dichiarati tali
univocamente sono spesso più recenti di cento anni.
Il quadro concettuale dello Status quo dal 1852 riflette
l’intenzione ottomana di mantenere l’ordine pubblico in
un conflitto intra-cristiano, sui Luoghi santi cristiani a
Gerusalemme, nel quale un compromesso non poteva
essere raggiunto. Quando non vi era una disputa sui
Luoghi santi, nessuna parte richiedeva al potere sovrano
di stabilire i propri diritti in un documento. Perciò, è possibile che i Luoghi santi non contesi non vengano mai
inclusi nello Status quo. Il firman (decreto) del sultano del
1852 non aveva nessuna intenzione di essere giusto o di
riflettere la verità storica. Era principalmente il risultato di
pressioni esercitate sui potenti di Istanbul nell’interesse
delle Chiese.
Potenze secolari come la Francia e la Russia erano pienamente coinvolte in questo conflitto ecclesiastico. Erano
impegnate dalle rispettive Chiese che dovevano difendere
quelli che consideravano i loro diritti di proprietà e della
pratica dei rituali all’interno dei loro Luoghi sacri. La
guerra di Crimea, l’equilibrio del potere europeo e
l’inerente debolezza dell’Impero ottomano erano ragioni
sufficienti per desiderare un prolungamento dello Status
quo e per conferirgli il rispetto internazionale nel 1878.
Questo documento relativo allo status quo si applicava
ai seguenti Luoghi santi:
1. la chiesa del Santo sepolcro (compreso il monastero
Deir al-Sultan, edificio costruito sul tetto);
2. il santuario dell’Ascensione sul Monte degli olivi (in
realtà una moschea);
3. la tomba della Vergine (vicino al Getsèmani);
4. la chiesa della Natività di Betlemme.
Il firman era diretto alle cinque Chiese cristiane che al
tempo avevano diritti di religione e di proprietà in quei
Luoghi santi: greco-ortodossa, armeno-ortodossa, cattolica (latina), copto-ortodossa e siriano-ortodossa. Queste
sono ancora oggi le sole comunità presenti all’interno
della Chiesa del Santo sepolcro. Gli etiopi-ortodossi poterono migliorare da allora la loro posizione acquisendo il
controllo sulle chiavi per le due cappelle che collegano il
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Deir al-Sultan con il Parvis di fronte all’unica entrata del
Santo sepolcro. Tale questione costituisce una disputa
ancora irrisolta. La prassi israeliana limita il proprio intervento in questioni religiose collegate ai siti santi cristiani.
Solo quando sono in gioco ordine pubblico, sicurezza o
salute, si richiede l’intervento della polizia o del relativo
Ministero. L’esempio migliore è la presenza massiccia
della polizia durante la cerimonia del Fuoco sacro, che
separa le parti in conflitto (specialmente i greci e gli armeni) e controlla l’accesso alla chiesa.
Il codice di compor tamento non scrit to
al Santo sepolcro
Per concludere, vorrei offrirvi la mia interpretazione su
come le Chiese siano riuscite a sopravvivere e a mantenere
le loro posizioni nel microcosmo che costituisce la chiesa del
Santo sepolcro. C’è un codice di comportamento non scritto il cui primo principio è fornire sempre una propria interpretazione dello Status quo prima di entrare in negoziazione
con le altre parti. Come si mantengono la proprietà e gli altri
diritti nella chiesa?
1. Attraverso opere di pulizia e di manutenzione.
2. Attraverso riparazioni.
3. Attraverso pagamenti e investimenti.
4. Mantenendo sempre la presenza poiché il vuoto non
è rispettato.
Queste leggi richiedono:
a) una manodopera clericale, che possa garantire la presenza: chi si assenta può perdere i propri diritti prima del
previsto;
b) un continuo flusso di introiti per poter pagare le spese
connesse alla difesa dei diritti alla proprietà: le congregazioni che possono generare reddito dai pellegrini e dai donatori o hanno un introito fisso da proprietà hanno la chiave per
la sopravvivenza a lungo termine;
c) i privilegi scritti sono meno importanti della prassi
comune che stabilisce diritti attraverso un uso continuato:
nessun vuoto è tollerato a Gerusalemme.
Chi sono i protagonisti al momento?
Protagonisti principali: greco-ortodossi, armeni, francescani, in rappresentanza degli interessi cattolici.
Protagonisti minori: copti, siriani e, in misura limitata, gli
etiopi;
Protagonisti passati: georgiani, serbi, caldei;
Protagonisti clandestini: la Chiesa ortodossa russa di
Mosca;
Non-protagonisti: Chiese protestanti, evangeliche e carismatiche.
Con un po’ d’immaginazione, propongo a ciascuno di
analizzare altri livelli di conflitti oltre ai Luoghi santi cristiani applicando questo schema di modus operandi. Si può allora trovare la risposta al perché Israele non voglia condividere la responsabilità con il Waqf o la Giordania quando si tratta di riparare la diga che porta dal Muro occidentale, attraverso la Porta Magrebina, alla Spianata del tempio.
MORDECHAY LEWY,
ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede