Adeguare l’ordinamento italiano
al regolamento (CE) n. 1/2003:
quali scelte normative
per la modernizzazione dell’antitrust
Atti del Convegno Assonime tenuto il 15 dicembre 2003
presso la Corte Suprema di Cassazione
Il volume raccoglie le relazioni presentate al Convegno Assonime “Adeguare l’ordinamento
italiano al Regolamento n. 1/2003: quali scelte normative per la modernizzazione
dell’antitrust”, svoltosi il 15 dicembre 2003 presso la Corte Suprema di Cassazione.
I contributi sono stati aggiornati con il riferimento alle versioni definitive delle
Comunicazioni della Commissione relative alle regole di applicazione degli articoli 81 e 82,
pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 101 del 27 aprile 2004. Si tratta, in
particolare, della Comunicazione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità
garanti della concorrenza (2004/C 101/03), della Comunicazione relativa alla cooperazione
tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione
degli articoli 81 e 82 del trattato CE (2004/C 101/04), della Comunicazione sulla procedura
applicabile alle denunce presentate alla Commissione ai sensi degli articoli 81 e 82 del
trattato CE (2004/C 101/05), della Comunicazione sull’orientamento informale per
questioni nuove relative agli articoli 81 e 82 del Trattato CE, sollevate da casi individuali
(lettere di orientamento) (2004/C 101/06), della Comunicazione – Linee direttrici sulla
nozione di pregiudizio al commercio tra Stati membri di cui agli articoli 81 e 82 del trattato
(2004/C 101/07), della Comunicazione – Linee direttrici sull’applicazione dell’articolo 81,
paragrafo 3, del trattato (2004/C 101/08).
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Indice
Premessa
Antonio Saggio
Introduzione
Stefano Micossi
Il sistema sino ad oggi: rapporti tra legge n. 287/1990 e diritto comunitario; diretta applicazione degli
articoli 81.1 e 82
Aurelio Pappalardo
Spunti sul ruolo del legislatore nazionale
Francesco Denozza
L’applicazione del regolamento n. 1/2003 da parte dell’Autorità garante e possibili modifiche alla legge n.
287
Mario Siragusa e Erika Guerri
Le nuove funzioni di orientamento della Commissione europea e dell’Autorità garante
Cristoforo Osti
La normativa sulle intese: cambiamenti e complementi
Alberto Pera
‘Modernizzare’ la disciplina antitrust italiana?
Roberto Pardolesi
L’applicazione diretta delle norme antitrust comunitarie nell’ordinamento italiano
Mario Libertini
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PREMESSA
di Antonio Saggio
Il nuovo regolamento sulla concorrenza, cui è dedicato questo convegno, rappresenta una
novità importante e di grande interesse. L’interesse non è solo pratico: dal regolamento
infatti emerge un’impostazione un po’ diversa della materia.
Occorre anzitutto chiedersi quali siano le ragioni che hanno indotto la Commissione a
realizzare il decentramento previsto dal regolamento (la chiamano modernizzazione ma
non si comprende bene perché, mentre si tratta di un decentramento di funzioni).
La ragione fondamentale di tutto ciò è che la Commissione si trovava in una situazione di
estrema difficoltà nel fronteggiare tutte le denunzie e condurre tutte le procedure che
andavano seguite in applicazione dell’articolo 81. Per superare queste difficoltà, si è
proceduto a una diversa ripartizione dei compiti tra autorità nazionali e autorità
comunitaria.
La Commissione resta però sempre al centro del sistema: il sistema è, cioè, “Commissionecentrico” oggi come prima. Anzi, oggi è forse ancora più evidente il ruolo dominante della
Commissione.
Le autorità nazionali sono sotto un controllo serrato, essendo tenute a trasmettere alla
Commissione copia delle decisioni che saranno prese (quelle che il regolamento chiama
pudicamente ‘decisioni contemplate’). La Commissione infatti può sempre avviare un
procedimento spogliando l’autorità nazionale dell’inchiesta che questa ha promosso.
Quindi, di fatto le autorità nazionali operano come organi tecnici al servizio della
Commissione.
La preminenza della Commissione si manifesta anche nei rapporti con le giurisdizioni
nazionali. Basti pensare che queste, che hanno competenza generalizzata ad applicare gli
articoli 81 e 82, possono chiedere dei pareri, o meglio, che la Commissione dà pareri alle
giurisdizioni nazionali. Il problema della compatibilità di questo tipo di sistemazione della
materia con il ruolo della Corte di Giustizia di cui all’articolo 234 del trattato non era
estraneo alla sensibilità della Commissione, tanto è vero che nell’articolo 16, paragrafo 1,
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del regolamento si fa riferimento al fatto che certe competenze non escludono che debba
essere sempre rispettato l’articolo 234.
Lo scopo di questo convegno è quello di verificare se e quali azioni siano opportune per
adeguare l’ordinamento nazionale al regolamento.
A questo proposito, mi sembra evidente che un intervento sia necessario, consistente
essenzialmente nella identificazione delle giurisdizioni nazionali competenti ad applicare gli
articoli 81 e 82. Sono dell’opinione che sarebbe opportuno attribuire questa competenza
alle corti d’appello. Ciò comporta la perdita di un grado di giurisdizione ma la questione
non va drammatizzata. Esistono altri casi in cui non sono previsti tre livelli di giudizio né vi
sono ragioni di principio contro una simile soluzione. In questa materia, caratterizzata
dall’urgenza tipica degli interventi su fatti economici, due livelli di giudizio mi sembrano più
appropriati.
Per tutto il resto, occorre molta cautela nel procedere a modifiche dell’ordinamento
nazionale. Sembra opportuno non affrettarsi. Dopo il primo periodo di applicazione del
regolamento, sarà possibile individuare quali cambiamenti dell’ordinamento nazionale siano
effettivamente necessari avvalendosi dell’esperienza.
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INTRODUZIONE
di Stefano Micossi
1. Il Convegno
E’ passato un anno dall’adozione del regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio che ha
cambiato le regole d’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato CE in materia d’intese e
di abuso di posizione dominante. Il nuovo regolamento sarà operativo dal 1° maggio 2004.
Questo Convegno promosso da Assonime si concentra su un tema che sinora non è stato
discusso in modo sistematico: se sia necessario, e in che termini, adeguare il quadro
normativo nazionale alla modernizzazione delle regole comunitarie.
Si tratta di un tema importante. La normativa a tutela della concorrenza è un tassello
fondamentale del nostro ordinamento. Inoltre, la legge antitrust italiana (legge 10 ottobre
1990, n. 287) è generalmente riconosciuta come una buona legge. Quindi ogni modifica
merita una riflessione approfondita.
Hanno condiviso l’opportunità di questa discussione alcuni tra i più illustri esperti della
materia, che oggi sono qui come relatori. Il Presidente dell’Autorità garante della
concorrenza ha accettato di partecipare ai nostri lavori. La Corte di Cassazione ha offerto
questa sede prestigiosa per la riunione e il Presidente Saggio ha accolto l’invito a governare
lo svolgimento degli interventi. A tutti va il nostro sentito ringraziamento.
Come emergerà dalla discussione, le modifiche normative strettamente necessarie per
adeguare il nostro ordinamento al regolamento sulla modernizzazione sono poche. Resta
da valutare se altre modifiche, non strettamente necessarie, siano comunque opportune.
In particolare, si potrebbe cogliere l’opportunità per semplificare il quadro delle
competenze giurisdizionali in materia antitrust. Oggi, la competenza ad applicare gli articoli
81 e 82 spetta a tutti i tribunali, mentre quella sulle azioni connesse alla legge antitrust
italiana è riservata alle Corti d’appello. Con la modernizzazione, queste competenze
potrebbero essere attribuite a un unico soggetto: occorre decidere se alle Corti d’appello
oppure ad altri organi di giurisdizione, quali le sezioni specializzate dei tribunali competenti
in materia di diritto industriale.
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In quest’introduzione mi limiterò a qualche breve osservazione di carattere generale sul
nuovo regolamento1.
2. Le principali novità
Come i presenti ben sanno, le principali novità introdotte dal regolamento sono tre: il
passaggio a un regime di applicazione diretta dell’articolo 81.3, con l’abbandono del sistema
delle notifiche; il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione e scambio di informazioni
tra i diversi soggetti competenti ad applicare gli articoli 81 e 82 del Trattato; l’aumento dei
poteri di indagine, decisionali e sanzionatori della Commissione.
Ciascuna di queste novità merita qualche considerazione.
3. L’evoluzione della politica comunitaria della concorrenza
Nel Trattato CE (attuale articolo 3, paragrafo 1, lettera g) la politica comunitaria della
concorrenza nasce non come un sistema assoluto di tutela, ma come uno strumento
funzionale alla realizzazione del mercato interno – una flanking policy. In certe condizioni, i
principi di concorrenza dovevano lasciare il passo a considerazioni di altra natura, legate ad
esempio alla politica industriale.
Era coerente con questo sistema l’attribuzione alla Commissione dei poteri discrezionali
per la valutazione dei trade-off tra diversi obiettivi posti dal Trattato. Il sistema delle
notifiche obbligatorie garantiva il controllo completo sulle intese.
Nel tempo lo scenario è gradualmente mutato. La politica industriale ha perso i connotati
di intervento diretto dei poteri pubblici a sostegno di particolari settori e tecnologie,
ponendosi invece l’obiettivo della realizzazione di un ambiente favorevole per lo sviluppo
dell’attività d’impresa. Il contrasto originario di obiettivi con la politica di concorrenza si è
trasformato in convergenza. Da strumento sussidiario del mercato interno, la concorrenza
è divenuta sempre più obiettivo meritevole di tutela in sé.
E’ significativa, al riguardo, la modifica del Trattato CE introdotta a Maastricht – ora
nell’articolo 98 – la quale impone alla Comunità e agli Stati membri di agire “in conformità
Sul tema, cfr. la circolare Assonime n. 47/2003, Modernizzazione delle regole di applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato: il
regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002.
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al principio di un’economia di mercato aperta in libera concorrenza, favorendo
un’efficiente allocazione delle risorse”.
Quest’evoluzione generale trova ulteriore manifestazione nella ‘modernizzazione’ delle
regole di applicazione dell’articolo 81.
In base al regolamento n. 17/1962 la Commissione aveva la competenza esclusiva ad
applicare l’articolo 81.3, ed ha utilizzato tale competenza per perseguire, nel mercato
interno, obiettivi di politica industriale e tecnologica. Ciò è avvenuto sia nelle decisioni
individuali di esenzione sia, soprattutto, nei regolamenti di esenzione per categoria. Con la
modernizzazione, l’articolo 81.3 diviene direttamente applicabile anche dalle autorità
nazionali antitrust e dai giudici. Se la norma fosse applicata da questi soggetti, nei diversi
paesi, in funzione di obiettivi molteplici e talora contraddittori com’era applicata un tempo
dalla Commissione, il sistema non reggerebbe. Verrebbero meno le garanzie di certezza
giuridica.
Pertanto, il cambiamento dei soggetti competenti ad applicare l’articolo 81.3 richiede
un’evoluzione nell’interpretazione sostanziale della regola. La disciplina comunitaria in
materia di intese completa il suo processo di convergenza verso una disciplina antitrust in
senso stretto.
4. Il funzionamento della rete
Nel nuovo sistema di applicazione decentrata, questione centrale è come mantenere unità
di principi nell’applicazione. A tal fine, alla Commissione è affidato un ruolo di garante
della coerente applicazione degli articoli 81 e 82 da parte delle autorità nazionali e dei
giudici.
I problemi della cooperazione tra la Commissione e le autorità di concorrenza, da un lato, e
tra la Commissione e i giudici, dall’altro, sono diversi e vanno trattati separatamente.
Nei confronti delle autorità nazionali, la Commissione dispone di un potere forte per
garantire la coerente applicazione delle regole: essa può avocare a sé un caso, privando
l’autorità della competenza a occuparsene.
Se le autorità nazionali non riusciranno a sviluppare, attraverso un’adeguata cooperazione,
un’uniformità di visioni, la Commissione dovrà intervenire frequentemente con
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l’avocazione. Questo scenario segnerebbe il fallimento del modello dell’applicazione
decentrata.
Il tema della cooperazione della Commissione con i giudici non è meno delicato. Il
regolamento prevede che la Commissione possa intervenire nei procedimenti giudiziari
nazionali, come amicus curiae, a tutela dell’interesse comunitario.
Il problema, qui, è come conciliare quest’intervento con l’esigenza di evitare indebite
interferenze dell’autorità amministrativa nell’attività giudiziaria. In termini di sistema, lo
strumento più appropriato per aiutare i giudici nell’interpretazione delle norme comunitarie
resta la pronuncia pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia, prevista dall’articolo 234
del Trattato CE.
5. Poteri e garanzie
La modernizzazione comporta un forte aumento dei poteri – di indagine, decisionali e
sanzionatori – della Commissione.
Ricordo due aspetti rilevanti: la Commissione potrà imporre alle imprese rimedi strutturali
per rimuovere le infrazioni; la Commissione potrà effettuare ispezioni in locali extraaziendali, tra cui in particolare il domicilio degli amministratori e dei dipendenti delle
imprese.
Questo rafforzamento dei poteri della Commissione non è stato accompagnato nel nuovo
regolamento da un corrispondente aumento delle garanzie per i soggetti coinvolti nei
procedimenti. Pertanto, diviene essenziale che l’interpretazione delle norme attribuisca
adeguato rilievo al principio comunitario della proporzionalità e ai diritti di difesa. Ciò, del
resto, è in linea con il consolidato orientamento delle Corti comunitarie.
In particolare, il potere di imporre alle imprese rimedi correttivi va esercitato solo laddove
strettamente necessario. Conformemente alla giurisprudenza comunitaria, la libertà
contrattuale deve rimanere la regola; non spetta alla Commissione imporre alle imprese la
scelta tra le condotte conformi al Trattato.
Questi sono alcuni spunti generali di riflessione, in un certo senso preliminari al tema
specifico degli interventi che seguiranno. Credo possiate convenire con me che dovremo
seguire gli sviluppi in questi terreni con la massima attenzione.
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IL
SISTEMA SINO AD OGGI: RAPPORTI TRA LEGGE N.
287/1990 E DIRITTO
COMUNITARIO; DIRETTA APPLICAZIONE DEGLI ARTICOLI 81.1 E 82
di Aurelio Pappalardo
Il tema assegnatomi ha carattere storico: dopo poche e brevissime osservazioni iniziali
cercherò di riassumere, in pochi minuti, ciò che è successo – sotto il duplice profilo dei
rapporti fra la legge italiana e le regole comunitarie di concorrenza e dell'applicabilità diretta
di queste ultime – nel periodo iniziato con l'entrata in vigore della legge n. 287/90, che si
concluderà il 1° maggio del 2004.
A mio avviso, anzitutto, la legge italiana è nata adulta: come Atena, uscita dalla testa di Zeus
armata di tutto punto e pronta a combattere, la nostra legge non ha conosciuto le
intemperanze e le ingenuità dell'infanzia, e neppure quelle dell'adolescenza.
E'
un'osservazione che ho fatto spesso in passato, quando ho avuto le prime occasioni di
occuparmi della legge e, come accade in casi del genere, di confrontarla con il diritto
comunitario. Per esempio, benché la legge n. 287/90 conosca un sistema di comunicazione
delle intese che somiglia a quello della notifica, previsto dal regolamento comunitario n. 17
del 1962, l'Autorità garante non ha dovuto far fronte ad ondate di notifiche; non ha visto,
come io ho visto a Bruxelles nel 1962, i portalettere scaricare in portineria sacchi di
comunicazioni, destinati a ricoprire i tavoli di funzionari incerti sul da farsi. Un altro
fenomeno che è stato risparmiato agli utilizzatori della legge italiana è stato l'eccessivo
formalismo, che per tanto è tempo è stato (spesso giustamente) rimproverato alla
Commissione europea. Anche questo è stato per me un motivo di piacevole sorpresa, nei
primi anni di applicazione: ascoltare, in via Calabria, un linguaggio economico e pragmatico
che solo da poco tempo ritroviamo – anche se, forse, in dosi eccessive – nella prassi
comunitaria. Una caratteristica che ha favorito, nell'applicazione della nostra legge,
l'imporsi dell'approccio pragmatico è, naturalmente – ciò va detto a giustificazione di certi
eccessi comunitari – l'assenza di finalità integrative dei mercati, che, in sede comunitaria,
hanno provocato quella che definirei la "sindrome di Adalat", cioè la preoccupazione di far
cadere tutte le barriere agli scambi fra Stati membri, anche a costo di applicare a sproposito
le regole di concorrenza.
Il nostro legislatore sembra aver tratto profitto dalle esperienze del passato per fare una
buona legge, che, nel complesso ha funzionato bene. Posso testimoniare, sulla base della
mia personale e diretta esperienza della legge belga – simile, e coeva, alla nostra – che non
basta che una legge antitrust sia "buona"; occorre altresì che venga applicata "bene".
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Questa premessa valga ad introdurre i pochi punti che sono oggetto della mia relazione.
Considero anzitutto quello del rapporto fra la legge italiana e il diritto comunitario. Il
nostro legislatore, come sappiamo, ha imposto due vincoli; come tali, almeno, essi
apparivano alla lettura dell'art. 1.
Il primo è quello della cd. "barriera unica", il fatto cioè che, stabilisce l'articolo 1, comma 1,
le disposizioni della legge "si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle
concentrazioni che non ricadono nell'ambito di applicazione" delle regole di concorrenza
comunitarie. Ne deriva chiaramente, a mio avviso, che l'applicazione è limitata alle
fattispecie che non rispondano ai criteri del diritto comunitario. Sono andato a rileggermi
la relazione generale dell'Autorità del 1990: vi si leggeva, fra l'altro, che, dalla "funzione
complementare" che la disciplina italiana era chiamata a svolgere rispetto a quella
comunitaria, discende che essa "si limita a regolare pratiche non coperte dal diritto
comunitario i cui effetti ricadono nel territorio nazionale". Ma, come è noto – ed è questa
una conferma della maniera dinamica ed evolutiva con cui la legge è stata interpretata – il
Tar Lazio ha dato, fin dal 1993, una diversa lettura dell'art. 1, nel senso che il diritto
nazionale non si applica solo quando, nella stessa fattispecie, il diritto comunitario sia già
stato applicato; quando, in particolare, la Commissione abbia iniziato un procedimento. In
tal caso, infatti, il ricorso alla legge nazionale potrebbe nuocere all'uniforme applicazione
del diritto comunitario. L'astratta rispondenza della fattispecie ai criteri di quest'ultimo non
giustificherebbe, invece, "la piena inoperatività degli strumenti di tutela del mercato e della
concorrenza approntati dall'ordinamento nazionale" (sentenza 2 novembre 1993, n. 1549).
Fin quasi dall'inizio, la legge è stata così liberata da un'ipoteca che avrebbe potuto limitarne
la portata.
Il secondo vincolo, più sfumato, è relativo all'interpretazione delle principali disposizioni
della legge che, stabilisce il comma 4 dell'articolo 1, "è effettuata in base ai principî
dell'ordinamento delle Comunità Europee in materia di disciplina della concorrenza". Più
che di un vincolo si è trattato, in realtà, di uno strumento che è servito moltissimo
all'Autorità garante per percorrere la sua strada. Ma va sottolineato che, fin dagli inizi,
l'Autorità non ha adottato un atteggiamento meramente passivo nei confronti del modello
comunitario. Al contrario: si legge nella già citata relazione generale del 1990 che il quarto
comma dell'articolo 1 va letto "non come una acritica trasposizione delle elaborazioni
comunitarie in ambito nazionale, ma piuttosto come un richiamo all'esigenza di interpretare
la legge sulla base dell'ordinamento europeo, congiuntamente a quello interno in armonico
coordinamento e reciproca integrazione". Come si vede, mentre la legge muove i primi
passi, coloro che avevano la responsabilità di vigilare sulla sua applicazione, pur pienamente
coscienti della necessità di tenere ben presente il modello comunitario, non intendevano
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perciò stesso precludersi la possibilità di interpretazioni autonome. Non sarebbe difficile
dimostrare, se ne avessimo il tempo, come in numerosi casi l'applicazione concreta della
legge sia stata effettuata in modo relativamente indipendente dai canoni ermeneutici
comunitari, onde meglio rispondere alle specifiche esigenze del mercato nazionale.
E vengo al mio secondo punto, relativo alla diretta applicazione degli articoli 81 e 82 CE,
intesa qui nel senso di applicazione da parte dell'Autorità nazionale, in casi di prevalente
rilevanza nazionale che presentino il richiesto requisito dell'incidenza sul commercio
intracomunitario. Anche a questo riguardo l'Autorità garante ha fatto prova di dinamismo.
Va premesso che il nostro Paese è uno dei pochi – otto soltanto finora, su quindici – che
hanno adottato le misure legislative richieste per consentire all'autorità nazionale di
applicare in piena autonomia le disposizioni del diritto comunitario.2 L'Autorità, dal canto
suo, non ha certamente atteso che fosse adottato il regolamento n. 1/2003 per raccogliere
l'invito all'applicazione decentralizzata delle regole comunitarie di concorrenza, che del
regolamento costituisce il principale motivo ispiratore.
Nel caso CIF (provv. n. 8491 del 13 luglio 2000) – che illustra bene il funzionamento dei
meccanismi di cooperazione fra la Commissione e le autorità nazionali, quando appaia
preferibile che siano queste ultime ad occuparsi di una pratica – l'Autorità garante
sottolinea di aver fatto uso, per avviare il procedimento in base agli articoli 81 e 82, dei
poteri che detiene in quanto autorità nazionale in materia di concorrenza, in virtù della
legge del 1996.
Anche nel caso International mail express (provv. n. 10763 del 23 maggio 2002), dopo un
ampio esame dei fatti alla luce dell'ordinamento comunitario, l'Autorità garante ricorda di
aver avviato il procedimento "sulla base dell'articolo 82 (…), in quanto i comportamenti
denunciati apparivano idonei a pregiudicare il commercio tra gli Stati membri della
Comunità europea".3
Degna di nota, per la sostanziale novità della materia, è poi, nel provvedimento recente nel
caso ENEL Trade (n. 12634 del 27 novembre 2003), l'analisi dell'incidenza dei
comportamenti in causa sugli scambi intracomunitari di energia elettrica.4
Cfr. articolo 54 della legge 6 febbraio 1996, n. 52.
Cfr. par. 88. Ed il testo così prosegue: "Poste detiene una posizione dominante ed ha attuato i comportamenti descritti
in precedenza sul mercato dei servizi di inoltro e recapito della posta transfrontaliera in entrata in Italia. Questo mercato
costituisce una parte sostanziale del mercato comune. Poichè i comportamenti attuati da Poste hanno interessato la posta
transfrontaliera in entrata in Italia, concernendo invii originati da mittenti esteri, essi hanno inciso sugli scambi tra gli Stati
membri".
4 Cfr., in particolare, i paragrafi 269 e 270.
2
3
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E l'illustrazione della prassi dell'Autorità, in autonoma applicazione delle regole
comunitarie, potrebbe proseguire.
Viene in tal modo data una risposta positiva all'attesa, espressa in sede comunitaria, che
venga concretamente attuato il principio della sussidiarietà, anche – anzi: soprattutto –
applicando in maniera decentralizzata le regole comunitarie, ogni volta che ciò appaia
opportuno.
Poche parole, per concludere, sul prevedibile futuro. Non penso che l'imminente disciplina,
quella del regolamento n. 1/2003, apporterà grandi mutamenti nel nostro Paese, né,
soprattutto, che solleverà particolari difficoltà. Una fase di adattamento sarà, certo,
inevitabile: assai meno per l'Autorità, che arriva all'appuntamento del 2004 con adeguata
preparazione, che per molti giudici, ancora privi di esperienza specifica. Molto potrà fare,
al riguardo, la Commissione europea, cui incomberà il compito di garantire il buon
funzionamento della "rete", di cui tanto si è parlato e che presto vedremo in opera. Se,
come è lecito sperare, ciò avverrà, ne saranno facilitati sia l'informazione, sia il
coordinamento delle decisioni su scala comunitaria. E allora non vedo perché le nuove
generazioni di giudici dovrebbero incontrare particolari ostacoli nel familiarizzarsi con
quello che è, in sostanza, un nuovo ramo del diritto dell'impresa. Al riguardo riveste
tuttavia, a mio modesto avviso, importanza determinante – a medio o lungo termine – un
profilo del quale nel nostro Paese non si è parlato ancora abbastanza, ed ancor meno si è
fatto: mi riferisco all'insegnamento universitario del diritto della concorrenza.
Nonostante tali riserve resto convinto che "il popolo della concorrenza" – come
efficacemente lo definisce il presidente Tesauro – almeno quello italiano, debba guardare
con fiducia, oltre che con interesse e curiosità, alla nuova epoca che sta per iniziare.
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SPUNTI SUL RUOLO DEL LEGISLATORE NAZIONALE
di Francesco Denozza
Lo scopo che mi proponevo quando ho cominciato ad approfondire il tema di questa
relazione era quello di vedere se era possibile enucleare una descrizione di quello che può
essere il ruolo dei legislatori nazionali nel nuovo contesto che si è venuto a determinare in
seguito all’entrata in vigore del Regolamento.
Immediatamente mi sono reso conto che il compito era alquanto difficile e per questo ho
pregato gli organizzatori di premettere al titolo della mia relazione la parola “spunti”, che
appunto vuole preannunciare che quello che seguirà non sarà una trattazione completa di
questo problema molto complicato, ma sarà semplicemente una descrizione veloce della
struttura logica e teorica nella quale il problema va inquadrato.
Come c’è stato appena ricordato, molti dei problemi che si pongono adesso non sono in
realtà dei problemi veramente nuovi, sono problemi che dal punto di vista teorico si
ponevano più o meno in termini simili o addirittura negli stessi termini anche prima
dell’emanazione del Regolamento. Quello che però potrebbe cambiare, in termini non
irrilevanti, è il profilo quantitativo. Se il Regolamento riuscirà a produrre i risultati descritti
e ufficialmente auspicati dai suoi estensori, si dovrebbe avere un trasferimento notevole, e
un incremento netto, delle competenze e delle attività (in termini di casi trattati) a livello di
singole autorità e giurisdizioni nazionali. Quindi i problemi teorici potranno anche essere
almeno in parte gli stessi, ma se si verificheranno le condizioni che il Regolamento auspica,
ne cambierà radicalmente la dimensione. Da questo chiarimento deriva tra l’altro anche una
considerazione sulla rilevanza dei temi di cui mi occuperò: è possibile in realtà che molto di
quello che dirò finisca per non interessare gran che. Se il regolamento non produrrà gli
effetti pratici auspicati, molte delle questioni qui affrontate si riveleranno di ben scarsa
rilevanza pratica.
Schematicamente le questioni che vorrei illustrare sono le seguenti: quali sono gli ambiti di
azione che sono rimasti ai legislatori nazionali? Quale è la loro rilevanza? Cosa è opportuno
che i legislatori nazionali facciano per raggiungere gli obiettivi che sono in gioco rispetto
alla loro azione?
Per quanto riguarda gli ambiti, a me sembra che il giudizio, sia pure necessariamente
sommario, che possiamo dare in questa sede (non possiamo qui discutere analiticamente
tutti i vari profili di possibile intervento del legislatore) sia comunque nel senso di una loro
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rilevante importanza. Vengono sostanzialmente a dipendere dai legislatori nazionali,
allorché si ha una applicazione decentrata del diritto europeo, l’entità delle conseguenze
negative che le imprese subiscono e, in larga misura, anche le probabilità che le imprese
hanno di essere scoperte. Questo non è poco, perché è proprio su questi due elementi che
si fondano i calcoli delle imprese, quando devono scegliere se correre o no il rischio di
compiere degli atti che sono suscettibili di essere considerati illeciti. E’ evidente infatti che i
rischi si affrontano oppure non si affrontano, a seconda delle entità delle conseguenze
negative e delle probabilità di essere scoperti.
L’entità delle conseguenze negative (ammenda, penalità, risarcimento dei danni, ecc.)
dipende come ho detto dalla legislazione nazionale. Pensate per esempio alla differenza tra
una legislazione che abbia, rispetto ad una che non abbia, i danni tripli (che non sono noti,
credo al diritto europeo, ma che qualcuno propone di introdurre in Germania). Fa una bella
differenza dover pensare di affrontare il danno triplo oppure no. Pensate ancora ai fattori
che possono ostacolare, o agevolare, l’azione di risarcimento privata. Fa una bella
differenza trovarsi in un ordinamento in cui da un momento all’altro migliaia di
consumatori possono saltarmi addosso, invece che in un ordinamento laddove fare queste
azioni è praticamente difficilissimo. E questo per l’entità del danno.
Quanto alla probabilità di essere scoperti, si tratta dei poteri d’indagine. E anche qui siamo
nuovamente rimandati alla legislazione nazionale. Per quanto riguarda le autorità e per
quanto riguarda, ancora di più, i poteri d’indagine dei giudici ordinari.
Questi, secondo me, sono gli ambiti che sono aperti all’intervento del legislatore nazionale.
Qual è la posta in gioco? Quali sono i parametri, gli obiettivi in base ai quali possiamo
valutare il modo in cui i legislatori si muoveranno?
Il primo obiettivo, che dipende solo in parte dal legislatore nazionale, ma che è quello più
importante, sempre sbandierato in queste discussioni, è quello della certezza del diritto e
della omogeneità della sua applicazione. Qui non si tratta soltanto di problemi di forum
shopping, che riguardano forse più l’attore che i convenuti, ma si tratta anche di valutare la
possibile esistenza di ambiti di applicazione del diritto antitrust caratterizzati da differenti
livelli di severità, che le imprese devono sopportare senza potervisi sottrarre, stante anche
l’oggettiva difficoltà che le imprese possono avere a trasferirsi da una giurisdizione all’altra
(non possiamo pensare che tutte le imprese potenzialmente coinvolte siano grandi imprese
a livello europeo che possono permettersi il lusso di fare cause indifferentemente in
qualsiasi Paese della Comunità).
Quello dell’omogeneità dell’applicazione del diritto europeo è problema che per definizione
non può che essere affrontato a livello sopranazionale. Dal punto di vista dei singoli stati si
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tratta comunque di scegliere se l’obiettivo primario deve essere il tentativo di conservare le
proprie peculiarità nazionali o quello di creare un ambiente che assicuri un contesto
adeguato al miglior svolgimento delle controversie relative all’applicazione del diritto
europeo. In questa seconda prospettiva si tratta di offrire un servizio migliore di quello
offerto da altri ordinamenti. Se mi consentite una battuta si tratta di diventare il Delaware
del diritto antitrust dell’Unione europea, di offrire cioè i migliori esperti, i migliori giudici, i
migliori avvocati in materia di diritto antitrust europeo, così come si dice che faccia il
Delaware relativamente al diritto societario americano.
Questa possibilità trova il suo ovvio bilanciamento nella necessità di tutelare adeguatamente
i diritti di difesa degli accusati.
Quindi, certezza del diritto, equilibrio nel bilanciamento delle possibilità di azione e dei
diritti di difesa e anche una possibilità di portare avanti una propria visione nazionale dei
problemi dell’antitrust sia in sede europea, sia in sede nazionale. In sede nazionale
ovviamente col diritto interno. Molto importanti tuttavia anche le prospettive in sede
europea perché i criteri di attribuzione e di competenza che emergono dalla comunicazione
della Commissione fanno sì riferimento all’incidenza che l’intesa in questione ha sul
mercato nazionale, ma danno anche molta importanza al fatto che l’autorità che
eventualmente dovrebbe intervenire in base a questo criterio abbia effettivamente i poteri
per fronteggiare l’infrazione – e questi glieli deve avere dati fondamentalmente il legislatore
nazionale in termini adeguati – e, secondo, che abbia effettivamente i poteri per raccogliere
le prove, e anche questi, fondamentalmente, glieli deve aver dati il legislatore nazionale.
Questo significa che avere un’autorità adeguatamente dotata di queste due serie di poteri
significa avere un’autorità che si presenta nel contesto del network europeo come un’autorità
che può vantare un buon biglietto da visita. Il che può essere importante visto che è facile
intuire che nel network europeo le questioni verranno decise non in base a criteri ufficiali e
vincolanti, la cui applicazione sia suscettibile di controllo (giudiziario?) dall’esterno (la
Commissione ha chiarito che le imprese non hanno nessun diritto di invocare
l’applicazione delle regole di assegnazione, che sono regole interne per dividere il potere
all’interno di quello che viene considerato un unico organo) ma attraverso trattative, più o
meno private, tra la Commissione e le varie autorità incaricate. In questo contesto essere
un’autorità di prestigio, che può vantare le proprie adeguate credenziali in termini di poteri
di intervento può avere un significato rilevante.
Se tutto questo è vero, quali sono le indicazioni che possiamo trarne (siamo arrivati al terzo
punto, quello finale)? Le indicazioni sono sicuramente molto opinabili. Questo intendo
sottolineare prima, per non dare l’impressione di proporre delle soluzioni come
16
assolutamente definitive: tutt’altro. Io ho una mia personale spiccata preferenza che adesso
vi esporrò, ma prima di esporvela tendo a sottolineare che il problema è complesso e le
indicazioni e le controindicazioni, spesso, si bilanciano.
Primo problema: intervenire con la legge o lasciare tutto a livello di interpretazione? Qui,
evidentemente, si presentano anzitutto i vantaggi e gli svantaggi classici di ciascuna delle
due alternative. La legge chiarisce e cristallizza. L’interpretazione lascia margini di elasticità.
Qui abbiamo una situazione che su molti punti non è così chiara, non sono in grado di
esemplificare adeguatamente, ma su molti punti non è chiaro esattamente come
effettivamente il regolamento prevede che debbano funzionare i rapporti tra tutte le
potenziali autorità che possono intervenire e quindi, sotto un certo profilo, mantenere
margini di elasticità avrebbe un senso. Nonostante ciò, la mia personale preferenza va alla
soluzione che prevede di fare la legge, fondamentalmente per ragioni di trasparenza, perché
il confronto tra gli ordinamenti possa essere un confronto tra leggi specifiche, anziché un
confronto tra diverse interpretazioni che diversi organi nazionali avessero a dare al
regolamento europeo da una parte, e ad un corpo sparso di norme nazionali, tra cui molte
(quelle di diritto o di procedura civile in particolare) non dettate con specifico riferimento
alla nostra materia, dall’altro.
Mi sembra del resto che la tendenza negli altri stati sia prevalentemente nella direzione di
far intervenire il legislatore. I tedeschi stanno preparando la settima GWB Novelle. Il
governo inglese ha pubblicato un documento di 160 pagine soltanto sui problemi
procedurali che intende risolvere con la nuova legge che sta preparando. A me sembra che
questo sia un atteggiamento giusto perché così il modo in cui uno Stato si comporta lo si va
a vedere nella legge che ha fatto, e non nelle prassi dei giudici o delle autorità, prassi che
sono molto meno costanti e molto meno facili da accertare di quanto non siano i
comportamenti e i criteri di decisione espressamente imposti da una legge.
Quindi io credo che per una ragione di trasparenza e di miglior competitività tra gli Stati sia
opportuno che essi intervengano e laddove esistono dei dubbi interpretativi tendano a
risolverli con la legge.
Per quanto riguarda i contenuti possibili di questa legge, io credo che la tendenza debba
essere quella dell’allineamento dei poteri dell’autorità nazionale, e delle sanzioni nazionali,
con i poteri della Commissione e le sanzioni a livello europeo. Questo credo debba essere il
punto di riferimento fondamentale. Non senza qualche problema. Per esempio, qualche
riflessione sul problema delle ispezioni la farei. Qui un punto delicato riguarda
l’opportunità che le ispezioni non domiciliari possano essere effettuate anche senza
intervento dell’autorità giudiziaria. C’è da riflettere inoltre se seguire il modello delle
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ispezioni penali, o se adottare il modello dei procedimenti cautelari civili. Ma forse sarebbe
il caso di ripensare un po’ tutta la materia e riflettere se non sia opportuno che il giudice, di
fronte alle ispezioni, intervenga sempre.
Un’altra questione riguarda i presupposti per le misure cautelari. Qui si parla di evidenza. In
Inghilterra stanno discutendo se mantenere il riferimento al regolamento oppure introdurre
una possibilità di accontentarsi del ragionevole sospetto dell’esistenza di un’infrazione per
autorizzare le misure cautelari.
Qualche problema, secondo me, potrà porre anche la norma sulle multe per le associazioni
che è assolutamente incongrua, perché sembra introdurre una serie di responsabilità
oggettive dei membri.
Al di là di questa esemplificazione che ho fatto più per dare concretezza che per l’effettiva
importanza degli argomenti, credo che tendenzialmente il modello debba essere
l’imitazione del modello europeo.
Per quanto riguarda, invece, il risarcimento del danno, credo che qui debba prevalere
l’osservazione di quello che avviene negli altri paesi europei. Il nostro legislatore dovrebbe
fare uno sforzo di diritto comparato e cercare di capire esattamente che cosa avviene negli
altri ordinamenti europei. In questo, probabilmente lo aiuterà la Commissione, perché
Monti ha annunciato che è stato commissionato uno studio che si occupa appunto di
vedere come funzionano i risarcimenti dei danni nei vari paesi europei. La Commissione ha
evidentemente capito quello che è del resto sotto gli occhi di tutti, e cioè che o esiste il
concreto pericolo di subire una congrua sanzione anche in forma di obbligo di risarcimento
del danno effettivo, oppure, alla lunga, siamo qui a discutere di nulla.
Accanto al problema dell’entità del risarcimento del danno, c’è, per le azioni giudiziarie, il
problema della legittimazione. Anche qui si tratta di prendere qualche decisione cercando di
osservare quello che avviene in sede europea e quello che avviene negli altri paesi. Per
esempio, in Inghilterra è ammessa l’azione di danno da parte delle associazioni dei
consumatori. Non so se questo sia solo in Inghilterra o anche altrove, ma credo che da noi
incontrerebbe grosse difficoltà un’azione di danno delle associazioni dei consumatori.
D’altro canto, se non si dà la legittimazione ai soggetti che sono più interessati e meglio
posizionati per intervenire, è difficile pensare ad una effettiva applicazione della norma.
Altro capitolo è quello dei poteri istruttori dell’autorità giudiziaria ordinaria, e qui forse
varrebbe la pena di regolare le istanze che possono essere fatte dalla parte relativamente agli
ordini di esibizione e alle interrogazioni delle autorità della concorrenza che forse
potrebbero essere ammesse in un ambito più ampio.
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Garanzie: io credo che anche qui ci voglia, prima di tutto, un’equivalenza di garanzia con il
procedimento davanti alla Commissione e quindi utile riferimento può essere la
comunicazione della Commissione sull’applicazione degli artt. 81 e 82. Credo sia
importante introdurre un filtro generale sulle notizie raccolte, perché qui va posto un limite
al fatto che si possano utilizzare notizie che siano state raccolte in una maniera che non sia
considerata legittima e conforme dal diritto interno nel quale queste notizie si vogliono
utilizzare.
Problema del riconoscimento delle decisioni delle autorità amministrative straniere. Anche
qui elementi di problematicità. Il mancato riconoscimento può avere elevati costi, ma una
certa cautela è comunque d’obbligo, perché non credo che possiamo accettare il giudizio di
qualsiasi autorità, sia pure europea, comunque formatosi e comunque costruito. E credo
che forse qualche limite al potere della Commissione di intervenire come amicus curiae debba
essere posto (anche se qui andiamo in un terreno delicato di possibile scontro con il
regolamento). Credo in particolare che debba essere chiarito che la Commissione quando
interviene come amicus curiae interviene su questioni di diritto e non interviene dando, in un
procedimento che si svolge tra due privati, informazioni sui fatti che lei ha raccolto per conto suo.
Esistono principi che riguardano la distribuzione dell’onere della prova, e la disponibilità
delle prove, che possono contrastare col fatto che arrivi un’autorità amministrativa e si
metta a dire chi secondo lei ha fatto o non ha fatto cosa.
Ulteriori e distinti problemi riguardano l’applicazione del diritto interno e le caratteristiche
sostanziali di quest’ultimo. Anche qui bisognerebbe riflettere espressamente sulla possibilità
di adattamenti del diritto interno al diritto comunitario. Il 30% del mercato europeo non è
lo stesso che il 30% del mercato italiano.
Quanto al problema centrale delle notifiche, io credo che vadano eliminate. Inghilterra e
Germania le stanno eliminando. Una delle ragioni addotte dagli inglesi è che le notifiche
possono diventare lo strumento con il quale si ottengono delle consulenze gratuite dalla
loro autorità. Temono cioè che imprese di tutta Europa si precipitino dall’autorità inglese
per ottenere delle consulenze gratuite circa la possibile incidenza anticoncorrenziale dei
contratti che stipulano. Peraltro in Inghilterra le notifiche costano, non tantissimo, ma un
poco in effetti costano. Quindi una via potrebbe anche essere quella di mantenere il sistema
delle notifiche e però farle pagare adeguatamente.
Concludo: la mia opinione, opinabile ma ferma, è che di una legge ci sia bisogno,
possibilmente di una buona legge, che non deve modificare sostanzialmente quella che
abbiamo – che è già buona, come è stato sottolineato – ma che deve assolvere ad un
compito di potenziamento e di coordinamento. Soprattutto deve assolvere al compito di
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essere un biglietto da visita per il nostro ordinamento, che confermi, e possibilmente
accresca, il prestigio che il nostro legislatore, e soprattutto la nostra Autorità, hanno
meritato fino adesso in Europa.
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L’APPLICAZIONE DEL REGOLAMENTO N. 1/2003 DA PARTE DELL’AUTORITÀ GARANTE
E POSSIBILI MODIFICHE ALLA LEGGE N. 287
di Mario Siragusa e Erika Guerri
1. Introduzione
Con il presente intervento si vuole analizzare quali modifiche sarà necessario o auspicabile
apportare alla normativa italiana in materia di tutela della concorrenza e del mercato alla
luce dell’introduzione a livello comunitario del regolamento n. 1 del 2003, approvato dal
Consiglio in data 16 dicembre 2002 (il “Regolamento” ovvero il “Regolamento 1/2003”)5,
con cui si è abrogato il vecchio regolamento 17 del 6 febbraio 1962, primo regolamento
d’applicazione degli articoli 81 e 826 del trattato (il “Regolamento 17”)7 e che sarà
applicabile dal 1° maggio 2004.
In primo luogo, va ricordato che con il nuovo Regolamento:
(i) si introduce il c.d. principio di eccezione legale nel diritto della concorrenza comunitario
che consiste nella fine dell’attuale sistema di autorizzazione centralizzato in capo alla
Commissione e nella previsione che le autorità garanti della concorrenza (le “Autorità”) e le
giurisdizioni degli Stati membri siano competenti non solo ad applicare l’articolo 81,
paragrafo 1 e l’articolo 82 del trattato, direttamente applicabili in virtù della giurisprudenza
della Corte di giustizia8, ma anche l’articolo 81, paragrafo 3 del trattato9;
(ii) viene stabilito quale sia il rapporto tra gli articoli 81 e 82 del trattato CE e le legislazioni
nazionali in materia di concorrenza, ovverosia che le Autorità e le giurisdizioni nazionali
siano tenute ad applicare anche gli articoli 81 e 82 del trattato quando applicano la
legislazione nazionale in materia di concorrenza ad accordi, decisioni di associazioni di
imprese o pratiche concordate ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 1 ovvero agli sfruttamenti
5
6
7
8
9
In GUCE L1 del 04.01.2003, pag. 1.
Il titolo del Regolamento 17 è stato adattato per tener conto della rinumerazione degli articoli del trattato CE introdotta
con l’articolo 12 del trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, entrato in vigore il 1° maggio 1999; il Regolamento 17
conteneva inizialmente un riferimento agli articoli 85 e 86 del trattato.
In GUCE 13 del 21.02.1962, pag. 204-211. Regolamento modificato da ultimo dal regolamento n. 1216/1999 (in
GUCE L 148 del 15.06.1999, pag. 5).
Si veda, tra le altre, la sentenza 30 gennaio 1974, causa 127/73, BRT, in Raccolta 1974, pag. 51. Altrettanto vale per le
disposizioni dei regolamenti di esenzione per categoria (in tal senso, sentenza 3 febbraio 1976, causa 63/75, Fonderies
Roubaix, in Raccolta 1976, pag. 111).
In tal senso, si veda il considerando 4 del Regolamento 1/2003.
21
abusivi vietati dall’articolo 82 e vi possa essere un pregiudizio al commercio tra gli Stati
membri;
(iii) si prevede, inoltre, che la legislazione nazionale possa essere applicata solo nella misura
in cui non pregiudichi l’applicazione uniforme delle regole di concorrenza comunitarie nel
mercato interno. Per cui, le legislazioni nazionali non potranno permettere ciò che il diritto
comunitario vieta e non potranno proibire gli accordi e le prassi che il diritto comunitario
consente. Naturalmente, va ricordato che è previsto che gli Stati membri possano adottare
norme nazionali più rigorose relativamente al controllo delle fusioni, prevedere
l’applicazione di disposizioni che perseguano principalmente un obiettivo differente
rispetto a quello degli articoli 81 e 82 del trattato e adottare norme nazionali più severe che
vietino o sanzionino le condotte unilaterali delle imprese;
(iv) infine, si prevede uno stretto meccanismo di cooperazione tra la Commissione e le
Autorità, il cui funzionamento è stato, peraltro, delineato nella Dichiarazione Comune del
Consiglio e della Commissione, presentata come addendum al verbale del Consiglio del 10
dicembre 2002 con cui si è adottato il Regolamento (“Dichiarazione Comune”), sul
funzionamento della Rete delle Autorità garanti della concorrenza (la “Rete”).
In secondo luogo, relativamente alla disciplina nazionale della concorrenza va
preliminarmente rammentato che:
(i) la fonte comunitaria è di primaria rilevanza per l’attività dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato (l’“Autorità garante”) in quanto rappresenta il modello da cui il
legislatore italiano ha ricalcato la normativa nazionale. In particolare, vi è una similarità
testuale tra le disposizioni italiane e comunitarie in materia di intese e di abusi di
posizione dominante, ad esclusione, ovviamente, del pregiudizio al commercio tra gli
Stati membri. Infatti, l’articolo 2 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (“Legge 287/90”)10
ricalca la previsione dell’articolo 81 del trattato CE, paragrafi 1 e 2, così attribuendo
Così recita la Legge 287/90 all’articolo 2: “1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le
deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi
similari.
2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco
della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare
per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o
secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.
3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”.
10
22
all’Autorità garante il compito di controllare che le imprese non concludano tra le stesse
intese che abbiano “per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il
gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante” e che tali intese
siano, dal punto di vista civilistico, “nulle ad ogni effetto”. Mentre, l’articolo 3 della Legge
287/9011 riprende nel nostro diritto nazionale il contenuto dell’articolo 82 del trattato
CE, prevedendo che l’Autorità garante abbia il potere-dovere di vietare e sanzionare i
comportamenti abusivi tenuti da parte di una o più imprese in posizione dominante
all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante;
(ii) all’articolo 1, comma 1 della Legge 287/90, il legislatore nazionale ha scelto di
introdurre nei rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale della concorrenza un
sistema c.d. di reciproca esclusiva o a barriera unica, ovverosia si è previsto che le
disposizioni nazionali “si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni
di imprese che non ricadono nell'ambito di applicazione degli articoli 65 e/o 66 del Trattato istitutivo della
Comunità europea del carbone e dell'acciaio, degli articoli 85 e/o 86 del Trattato istitutivo della Comunità
economica europea (CEE), dei regolamenti della CEE o di atti comunitari con efficacia normativa
equiparata”. Così facendo il legislatore italiano ha scelto la supremazia dell’ordinamento
comunitario su quello nazionale e di porre il secondo in posizione residuale rispetto al
primo.
Tale previsione è stata letta dalla dottrina insieme all’ultima parte del comma 3 dello stesso
articolo e si è, così, mitigato il principio della barriera unica ritenendo che le intese o gli
abusi di posizione dominante che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto
comunitario possano essere esaminati dall’Autorità garante “per gli eventuali aspetti di esclusiva
rilevanza nazionale”. Ad esempio, nel caso SAGIT- Contratti vendita e distribuzione del gelato12
l’Autorità garante ha avviato e chiuso l’istruttoria in base sia all’articolo 81 del trattato sia
all’articolo 2 della Legge 287/90.
In proposito, l’Autorità garante ha applicato il principio in modo ampio, ritenendo di essere
competente ad intervenire ogniqualvolta la Commissione non abbia avviato un
procedimento in relazione alla stessa fattispecie, secondo un’interpretazione combinata dei
In base all’articolo 3 della Legge 287/90: “1. È vietato l'abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante
all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato:
a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei
consumatori;
c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare
per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
d) subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e
secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi”.
12 Provvedimento 11662 del 30 gennaio 2003, caso I487, in Boll. 5/2003.
11
23
commi 1 e 3 dell’articolo 1, volta ad assicurare l’effettività della tutela della concorrenza in
ambito nazionale e la piena cooperazione con la Commissione13;
(iii) l’articolo 1, comma 4 della Legge 287/90 reca un principio molto importante, in virtù
del quale l’interpretazione delle norme contenute nel titolo primo della legge stessa “è
effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della
concorrenza”. Tale principio ha permesso all’Autorità garante ed ai giudici nazionali, di
avvalersi degli approfondimenti propri dell’acquis communautaire in materia di diritto della
concorrenza. Tuttavia, va anche detto che l’Autorità garante non si è limitata
all’interpretazione della Legge 287/90 sulla base dei principi comunitari, ma ha tenuto
conto delle peculiarità nazionali, sviluppando dei principi peculiari del diritto nazionale,
discostandosi dalle previsioni comunitarie. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso della
valutazione delle imprese comuni.
È interessante notare come l’articolo 1, comma 4 della Legge 287/90 sia stato preso ad
esempio in Germania per modificare il Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen (“GWB”), in
vista dell’applicazione del nuovo Regolamento;
(iv) in base all’articolo 4 della Legge 287/90, l’Autorità garante può autorizzare, con
proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi
dell'articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i
quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che
siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria
concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l'aumento della
produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione
ovvero con il progresso tecnico o tecnologico.
L’autorizzazione dell’Autorità garante non può comunque consentire restrizioni non
strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità elencate dal legislatore, né può
consentire che risulti eliminata la concorrenza su una parte sostanziale del mercato; e
(v) il sistema di suddivisione delle competenze giurisdizionali in materia di diritto della
concorrenza prevede che: il ricorso avverso i provvedimenti dell’Autorità garante, sia per
violazione degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90 sia per violazione degli articoli 81 e 82
del trattato, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; il giudice
ordinario è il giudice degli articoli 81 e 82 del trattato per espressa previsione del diritto
comunitario non derogabile dal nostro legislatore; mentre la corte d’appello è competente
13
Sul punto si veda, tra le altre, la sentenza del TAR del Lazio dell’8 gennaio 1998, n. 96.
24
a conoscere le violazioni alle disposizioni della Legge 287/90, relativamente alle azioni di
nullità e di risarcimento del danno o ai provvedimenti di urgenza.
Nel prosieguo ci si appresta a svolgere un’analisi del Regolamento 1/2003 procedendo
articolo per articolo per valutare quali disposizioni dello stesso rendano necessario o più
semplicemente opportuno un intervento del legislatore nazionale in materia di tutela della
concorrenza sulla Legge 287/90.
2. Il sistema di diritto della concorrenza nazionale ha bisogno di essere modificato
per garantire l’applicazione del Regolamento 1/2003?
Prima di iniziare l’analisi testuale del Regolamento 1/2003, è opportuno precisare che il
Regolamento 1/2003 è direttamente applicabile in Italia, come viene specificato
dall’articolo 45 dello stesso, che richiama l’articolo 249 del trattato CE: “…Il presente
regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”.
Ciò significa che tutte le disposizioni relative alle Autorità nazionali, in particolare ai poteri
delle stesse, hanno portata generale, sono già di per sé obbligatorie e direttamente efficaci,
come detto, in base all’articolo 249 del trattato CE, come ripreso dall’articolo 45 del
Regolamento e, dunque, prevalenti sulle norme nazionali eventualmente confliggenti.
Inoltre, va anche ricordato che vige il principio del primato del diritto comunitario sul
diritto nazionale anche in materia di concorrenza. Ciò comporta che le norme comunitarie,
contenute in ogni tipo di atto, prevalgano su tutte le norme di diritto nazionale, di ogni
ordine e grado14. In particolare, come stabilito dalla Corte di giustizia in Walt Wilhelm15, la
14
15
Sentenze della Corte di giustizia del 15 luglio 1964, Flaminio Costa c. ENEL, causa 6/64, in Raccolta 1964, pag. 1131, sul
punto pag. 1145: “scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica
natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento di diritto interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse
scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità. Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario,
dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di
fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia”; del 9 marzo
1978, Simmenthal, causa 106/77, in Raccolta 1978, pag. 629, in cui si afferma che le disposizioni comunitarie “… fanno
parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri…”;
del 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft, causa 11/70, in Raccolta 1970, pag. 1135: “il fatto che siano menomati
vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una costituzione nazionale, non può sminuire la
validità di un atto della Comunità né la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato” e si veda l'ordinanza della Corte di giustizia del
22 giugno 1965, San Michele, cause riunite 9 e 58/65, in Raccolta 1965, pag. 31.
Sentenza della Corte di giustizia del 13 febbraio 1969, causa C-14/68, in Raccolta 1969, pag. 1. Tale principio è
richiamato nel Regolamento, ma va precisato che il paragrafo 2 dell’articolo 3 dello stesso va oltre quanto affermato
dalla Corte di giustizia nel caso Walt Wilhelm, in quanto ivi si estende il principio del primato del diritto della
concorrenza comunitario anche all’ipotesi di non proibizione di accordi, ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 1. Sul
punto, Rocca, Gauer, Dalheimer, Kjolbye, De Smijter, “Regulation 1/2003: a modernised application of EC
competition rules”, in Competition Policy Newsletter, 2003, n. 1, pag. 6.
25
legislazione nazionale può essere applicata solo nella misura in cui non pregiudichi
l’applicazione uniforme delle regole di concorrenza comunitarie nel mercato interno.
Ne consegue che, in teoria, il Regolamento 1/2003 non richiederebbe alcuna modifica della
normativa nazionale in materia di concorrenza.
In pratica, però, sembra che il legislatore italiano sarà tenuto in alcuni casi ad attivarsi per
garantire la piena efficacia ed operatività del Regolamento, regolando l’esercizio di quanto
ivi previsto. Il nostro intento è valutare in quali casi vi sia tale possibilità ed in quali casi tali
intervento risulti necessario.
Difatti, si potrebbe rivelare necessario l’intervento del legislatore nazionale oltre che per
risolvere questioni pratiche, anche per evitare situazioni ambigue che potrebbero essere
fonte di incertezza giuridica in relazione all’effettivo scopo delle disposizioni contenute nel
Regolamento.
2.1. La necessarietà della designazione dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato come responsabile dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato CE in
Italia
Si inizia la presente analisi partendo dall’articolo 35 del Regolamento da cui discende
l’obbligo per gli Stati membri di designare un’autorità o le autorità garanti della concorrenza
responsabili dell'applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato in modo da garantire
un'efficace conformità alle disposizioni del presente regolamento.
Il termine per l’adozione delle misure necessarie per conferire a tali autorità il potere di
applicare detti articoli è il 1° maggio 2004.
In proposito, poi, interviene il considerando 35 del Regolamento in cui si specifica che “Al
fine di realizzare la piena applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza, gli Stati membri
dovrebbero designare delle autorità appositamente preposte all'applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato
quali autorità pubbliche competenti”.
L’Autorità garante è già stata designata quale Autorità tenuta ad applicare gli articoli 81,
paragrafo 1 e 82 del trattato con l’articolo 54 della legge comunitaria per il 1994, legge 6
febbraio 1996, n. 52 (“Legge 52/96”).
Bisogna chiedersi se sarà necessario un nuovo intervento legislativo per attribuire
all’Autorità garante il potere di applicare l’articolo 81, paragrafo 3, senza dimenticare però
26
che già la previsione dell’articolo 54 della Legge 52/96 era stata ritenuta superflua da buona
parte della dottrina.
Pare potersi sostenere che un tale intervento normativo non sia necessario in quanto
l’articolo 10, comma 4 della Legge 287/90 indica l’Autorità garante quale “autorità nazionale
competente per la tutela della concorrenza e del mercato”, l’articolo 54, comma 5 della Legge 52/96
ribadisce tale competenza per gli articoli 81, paragrafo 1 e 82 e, soprattutto, l’articolo 5 del
Regolamento 1/2003 conferisce direttamente all’Autorità garante il potere di applicare gli
articoli 81 e 82 del trattato, così disponendo “Le autorità garanti della concorrenza degli Stati
membri sono competenti ad applicare gli articoli 81 e 82 del trattato in casi individuali”.
A conferma di ciò va ricordato che, nella sentenza n. 7433 dell'11 settembre 2001,
Stream/Telepiù, il Tar del Lazio ha chiarito, con riguardo alla competenza dell'Autorità
garante a dare applicazione alle norme comunitarie di concorrenza in luogo della
Commissione, che “la competenza dell'Autorità ad applicare nella presente vicenda gli articoli 81 e 82
del Trattato riposava direttamente sull'articolo 9 par. 3 del Regolamento n. 17 del 6 febbraio 1962, che
abilita le autorità degli Stati membri a procedere, in materia, per il solo fatto che non risulti ancora aperta
dalla Commissione una procedura formale”.
Inoltre, nel testo della Proposta di Regolamento16 chiaramente si riconosce che le misure
richieste all’articolo 35 sono misure eventuali, infatti si afferma che l’articolo 5 del
Regolamento “serve a stabilire e a definire la competenza delle autorità garanti della concorrenza degli
Stati membri ad applicare gli articoli 81 e 82. Se per raggiungere tale scopo si rendono necessarie misure
supplementari ai sensi delle legislazioni nazionali, l'articolo 36 [ora 35] della proposta di regolamento
obbliga gli Stati membri ad adottare i provvedimenti necessari entro una data da stabilire”.
Pertanto, il Regolamento conferisce direttamente all’Autorità garante il potere di applicare
gli articoli 81 e 82 e l’Autorità garante è già stata indicata quale autorità nazionale
competente per la concorrenza. Di conseguenza, l’unico motivo per intervenire sull’articolo
54 della Legge 52/96 sarebbe di stile.
2.2. Il capitolo I del Regolamento 1/2003: i principi
L’articolo 1, paragrafo 2 del Regolamento, nel prevedere che gli accordi che rientrano
nell’articolo 81, paragrafo 1 e che non soddisfano le condizioni di cui all’articolo 81,
paragrafo 3 sono vietati senza che occorra una previa decisione in tal senso, introduce
chiaramente la diretta applicabilità dell’articolo 81, paragrafo 3 del trattato.
16
Proposta di regolamento presentata dalla Commissione il 27 settembre 2000 (COM(2000) 582) (la “Proposta di
Regolamento”).
27
Si tratta del sistema di eccezione direttamente applicabile, c.d. eccezione legale, in base al
quale, le Autorità e le giurisdizioni degli Stati membri sono competenti non solo ad
applicare l’articolo 81, paragrafo 1 e l’articolo 82 del trattato, ma anche l’articolo 81,
paragrafo 3, del trattato.
Si è così tolto alla Commissione il potere esclusivo di concedere l’esenzione per gli accordi,
decisioni e pratiche che le vengono notificati, ma non si è attribuito un tale potere di
esenzione direttamente alle Autorità nazionali17.
Pertanto, l’articolo 81 diventa direttamente applicabile nella sua interezza, senza la necessità
di una preventiva notifica e conseguente decisione in tal senso.
Come detto, l’introduzione di tale novità non comporta alcuna modifica della Legge
287/90, in quanto all’Autorità garante è conferito il potere di applicare l’articolo 81 nella
sua interezza e, anche l’articolo 82, dall’articolo 5 del Regolamento stesso, così come
specularmene il potere di applicare tali articoli è dato alla Commissione dall’articolo 4 del
Regolamento.
Inoltre, l’articolo 3 del Regolamento 1/2003 disciplina il rapporto tra gli articoli 81 e 82 e le
legislazioni nazionali in materia di concorrenza, prevedendo un’applicazione concorrente
dei diritti nazionale e comunitario della concorrenza, ovverosia che le Autorità e le
giurisdizioni degli Stati membri siano tenute ad applicare anche gli articoli 81 e 82 del
trattato CE quando applicano il diritto nazionale in materia di concorrenza ad un’intesa o
ad un comportamento abusivo tali da poter pregiudicare il commercio tra Stati membri.
Ciò significa che l’Autorità garante ed i giudici italiani non potranno applicare solamente il
diritto della concorrenza nazionale quando la condotta analizzata possa pregiudicare il
commercio tra gli Stati membri.
Bisogna valutare a questo punto quali siano i possibili scenari che si potranno avere in Italia
e quali previsioni interne sarà opportuno mantenere, modificare od eliminare, in particolare
se saranno compatibili con il Regolamento il sistema italiano di barriera unica, previsto
all’articolo 1, comma 1 della Legge 287/90, il sistema nazionale di autorizzazioni in deroga,
la separazione di competenze in materia di diritto della concorrenza tra Tribunali e Corti
d’appello.
17
Con il considerando 4 del Regolamento si è esplicitata chiaramente la previsione relativamente alle Autorità, affermando
che “L'attuale sistema dovrebbe pertanto essere sostituito con un sistema di eccezione direttamente applicabile, in base
al quale le autorità garanti della concorrenza e le giurisdizioni degli Stati membri siano competenti non solo ad applicare
l'articolo 81, paragrafo 1 e l'articolo 82 del trattato, direttamente applicabili in virtù della giurisprudenza della Corte di
giustizia delle Comunità europee, ma anche l'articolo 81, paragrafo 3, del trattato”.
28
Tali i punti cruciali da risolvere, visto che, come vedremo nell’analisi seguente, sembra
proprio che la soluzione che si darà alla questione della ripartizione tra le giurisdizioni Corte d’appello, tribunale e giudice amministrativo- sembra inscindibile da quella che si
prenderà relativamente al sistema di autorizzazioni in deroga.
La barriera unica ha sì sino ad oggi evitato lo svolgimento di procedimenti paralleli a livello
comunitario e nazionale, ma ciò grazie alle norme procedurali di coordinamento
dell’Autorità garante con la Commissione dettate ai commi 2 e 3 dell’articolo 1 della Legge
287/90.
2.2.1. Il primo scenario
Come primo scenario, si può supporre che si scelga di mantenere il principio di esclusiva
reciproca su cui si fonda l’applicazione del diritto della concorrenza in Italia, ai sensi
dell’articolo 1, comma 1.
In tale ipotesi, bisogna verificare come si potranno comportare l’Autorità garante ed i
giudici nazionali nei casi di applicazione del diritto comunitario, ovverosia (i) quando vi
siano un accordo, decisione di associazione di imprese o pratica concordata vietati
dall’articolo 81, paragrafo 1 ovvero uno sfruttamento abusivo vietato dall’articolo 82 e (ii)
vi possa essere un pregiudizio al commercio tra gli Stati membri.
Certamente, l’eliminazione della procedura di autorizzazione in deroga per l’applicazione
del diritto della concorrenza nazionale non è richiesta dal Regolamento, in quanto le intese
che non arrecano pregiudizio al commercio tra gli Stati membri non sono oggetto del
Regolamento18. Va ricordato, che secondo parte della dottrina va riconosciuto effetto
“costitutivo” alle decisioni dell’Autorità garante di autorizzazione in deroga, che deve essere
rispettato anche dai giudici, in forza del fatto che il legislatore ha lasciato alla sola Autorità
garante la competenza a concedere esenzioni ad intese rientranti nel divieto di cui
all’articolo 2 della Legge 287/9019.
18
19
Non risulta convincente chi argomenta la contrarietà dei sistemi di autorizzazione in deroga agli articoli 3, 10 e 83 del
trattato alla luce del nuovo sistema di applicazione del diritto della concorrenza che si è introdotto con il Regolamento
1/2003.
In tal senso Tavassi – Scuffi, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, pag. 178 e Scassellati Sforzolini e Siragusa, “Il
diritto della concorrenza italiano e comunitario: un nuovo rapporto”, in Foro it., 1992, IV, pag. 249.
29
Peraltro, dalla differente modalità di applicazione delle norme sull’eccezione al divieto di
intese a livello nazionale non potrà scaturire un risultato contrario al contenuto dell’articolo
81, visto che l’obiettivo perseguito rimane lo stesso20.
Facendo un esempio pratico si potrebbe considerare il caso in cui alcune imprese chiedano
l’autorizzazione in deroga in base all’articolo 4 della Legge 287/90 per un’intesa che,
invece, possa pregiudicare il commercio tra gli Stati membri.
Alla luce della barriera unica, l’Autorità garante dovrebbe considerare non ricevibile la
notifica e restituirla a chi l’aveva presentata, altrimenti si troverebbe nella condizione di
dover concedere un’attestazione negativa, riconoscendo di non aver motivo di intervenire
ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2 del Regolamento.
Tuttavia, sembra più verosimile che l’Autorità garante non possa semplicemente rinviare la
notifica al mittente, ma sarà sempre tenuta a dover prendere posizione sulla sussistenza o
meno di un possibile pregiudizio al commercio tra gli Stati membri. Questo ovviamente
anche nelle ipotesi di applicazione degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90.
Anzi, come conseguenza della barriera unica, anche nel contenzioso si avrà un aggravio
delle incombenze dei giudici che dovranno sempre definire preliminarmente se sussista o
meno un pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, senza potersi semplicemente
attenere al principio dell’allegazione attorea per la definizione della normativa applicabile.
Ciò accadrà, in maniera ancor più problematica, poi, per i casi di intese non notificate con
rilevanza sia nazionale che comunitaria in cui, da un lato, sarebbe possibile riconoscere
l’eccezione legale ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 3, mentre, dall’altro, ciò non sarà
possibile ed il giudice dovrà fermarsi innanzi alla competenza esclusiva dell’Autorità garante
ad esentare un’intesa che sia in violazione del diritto nazionale.
Probabilmente, tale svantaggio derivante da un sistema di reciproca esclusiva potrà essere
alleviato dalla comunicazione della Commissione sul pregiudizio al commercio tra gli Stati
membri in cui si fissano due parametri in presenza dei quali l’accordo è sicuramente di
rilevanza nazionale. Tuttavia, come vedremo tali parametri sono talmente esigui che
scegliere di applicare il diritto nazionale solamente quando gli stessi sono soddisfatti
renderebbe veramente esigui i casi di applicazione dello stesso.
20
In senso contrario Van Gerven, “The Application of Article 81 in the New Europe”, scritto presentato alla
Thirtieth Annual Conference on International Antitrust Law & Policy tenutasi il 23 e 24 ottobre 2003 presso il
Fordham Corporate Law Institute, New York.
30
Nella comunicazione soprammenzionata si fissano due soglie alternative al di sotto delle
quali un accordo sicuramente non pregiudica il commercio tra gli Stati membri in maniera
apprezzabile:
(i) la quota di mercato delle parti dell’accordo nei mercati in cui lo stesso produce i suoi
effetti non deve superare il 5%; ed
(ii) il fatturato totale derivante dalla vendita dei prodotti oggetto del contratto non deve
essere superiore ai 40 milioni di Euro. Nel caso di accordi verticali dovrà essere preso in
considerazione anche il fatturato del fornitore, compreso il fatturato derivante dagli
eventuali accordi paralleli conclusi con altri rivenditori.
La prima soglia sarà chiaramente influenzabile dalla definizione del/i mercato/i rilevante/i
data nel caso concreto.
Va, però, detto che tali soglie forniscono all’Autorità garante, così come ai giudici nazionali,
un porto sicuro anche se molto piccolo all’interno del quale gli articoli 81 e 82 del trattato
non troveranno applicazione.
Comunque, in concreto, le ipotesi in cui si potrebbe avere una sovrapposizione di disciplina
potranno essere poche solamente se si interpreterà in maniera rigida la regola di
coordinamento tra i due ordinamenti posta dalla Legge 287/90, cioè la nozione di mercato
nazionale o di parte rilevante dello stesso ed i criteri quantitativi di applicabilità del concetto
di pregiudizio al commercio tra gli Stati membri contenuti nella comunicazione della
Commissione sulla nozione di pregiudizio al commercio tra gli Stati membri21.
Ovviamente, non va dimenticato che nel caso di erronea esclusione dell’applicabilità degli
articoli 81 e 82 del trattato, la susseguente decisione presa sulla base del solo diritto
nazionale potrebbe determinare la mancanza da parte dello Stato ad uno degli obblighi allo
stesso incombenti in virtù del trattato, con conseguente applicazione dell’articolo 226 del
trattato da parte della Commissione. Viceversa, nel caso di applicazione della normativa
comunitaria anziché di quella nazionale per errore nella valutazione della sussistenza del
pregiudizio al commercio tra gli Stati membri non vi sarà alcuna sanzione.
21
Infatti, sulla base della previsione secondo cui la Legge 287/90 è applicabile solo alle fattispecie che si verifichino
“all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”, l’Autorità garante ha chiaramente escluso, da un lato,
l’applicabilità dell’articolo 2 della Legge 287/90 ad un accordo tra imprese italiane, ma con effetti solamente sui mercati
esteri (provvedimento del 4 dicembre 1991, Italian Group Cement, in Boll. 13/91) e, dall’altro, ha ammesso l’applicabilità
dello stesso ad un’intesa tra soggetti di paesi terzi non operanti in Italia che produceva i propri effetti sul territorio
nazionale (provvedimento del 12 giugno 1991, Mitsui/Nippon, in Boll. 4/91).
31
A questo punto viene da chiedersi che cosa faranno nei casi dubbi l’Autorità garante ed i
giudici nazionali.
a. Autorità garante
Di certo, se verrà mantenuto il sistema della barriera unica contenuto all’articolo 1 della
Legge 287/90 l’Autorità garante non avrà l’agevole opportunità di togliersi dall’imbarazzo
nei casi di fattispecie con dubbia rilevanza nazionale o comunitaria applicando
parallelamente le due normative, attraverso ad esempio l’inserimento di un semplice obiter
dictum nella propria decisione, ma dovrà sempre operare una scelta sulla base della nozione
un po’ nebulosa di pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, nonostante la
comunicazione con intento chiarificatore e il piccolo porto sicuro tracciato da questa.
Ciò significa che, dato che l’Autorità garante dovrà rispettare quanto previsto dal
Regolamento in tema di cooperazione e di risoluzione degli eventuali conflitti tra norme e
le barriere che le sono state imposte con la normativa nazionale, la discrezionalità della
stessa risulterà grandemente ridotta e tutti i suoi procedimenti dovranno per prima cosa
definire il/i mercato/i rilevante/i ed analizzare se le fattispecie analizzate possano arrecare
pregiudizio al commercio tra gli Stati membri nel caso concreto.
Sicuramente il mantenimento di un’autorizzazione in deroga a livello nazionale crea una
situazione abbastanza complessa per l’Autorità garante, che si trova sempre a dover
verificare la sussistenza del pregiudizio al commercio tra gli Stati membri.
Tale situazione non è, però, insormontabile. Infatti anche se passiamo all’eventualità di
applicazione non rigida della barriera unica, come sovente è avvenuto in passato, in cui
l’Autorità garante si trovi, in virtù dell’articolo 3, paragrafo 1 del Regolamento, ad applicare
gli articoli 81 e 82 del trattato insieme alla legislazione nazionale se ne avrà conferma.
Supponendo che sia notificata un’intesa all’Autorità garante e che dall’analisi della stessa
emerga che questa soddisfi sia le condizioni di cui all’articolo 4 della Legge 287/90, sia
quelle dell’articolo 81, paragrafo 3, l’Autorità garante sarà tenuta, da un lato, ad emettere un
provvedimento di autorizzazione in deroga e, dall’altro, a dichiarare, in base all’articolo 5,
paragrafo 2 del Regolamento, di non avere motivo di intervenire. Nessuno vieta, poi,
all’Autorità garante di motivare la decisione di non avere motivo di intervenire,
argomentando che la fattispecie analizzata soddisfi le condizioni dell’articolo 81, paragrafo
3, così avendo l’opportunità di esprimersi positivamente sull’applicazione di tale eccezione
anche in base al diritto comunitario.
32
Naturalmente, la decisione assunta in base all’articolo 4 della Legge 287/90 ha una durata
limitata nel tempo e non ha alcun effetto vincolante relativamente all’applicabilità
dell’articolo 81, paragrafo 3. Tuttavia, da un punto di vista pratico fornisce una certa
certezza giuridica alle imprese notificanti, sulla base del fatto che le regole di concorrenza
nazionali sono molto simili a quelle comunitarie e che una valutazione positiva da parte
dell’Autorità garante potrebbe influenzare positivamente anche altre Autorità nazionali.
Inoltre, non va sottaciuto che il mantenimento delle autorizzazioni sarebbe sicuramente
fonte di forum shopping.
b. Giudici nazionali
Per quanto riguarda l’influenza dell’articolo 3 del Regolamento 1/2003 sull’applicazione
del diritto della concorrenza da parte dei giudici va premesso che, se verrà mantenuto il
principio della barriera unica e sarà applicato in modo rigido, non sarà necessario operare
cambiamenti rispetto al sistema attuale.
Bisogna valutare che cosa potrà accadere in ipotesi di parallela applicabilità degli articoli
81 e 82 del trattato e degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90, nell’ipotesi che la barriera
unica venga applicata in maniera temperata.
Si è accertato in giurisprudenza che la competenza del giudice si radichi sulla base del
principio della prospettazione della domanda attorea. Nell’ipotesi in cui il convenuto
contesti il radicamento della domanda e sollevi un’eccezione di incompetenza, allo stesso
spetterà l’onere di provare i fatti che stanno a fondamento dell’eccezione. Se provati, la
corte d’appello sarà tenuta a declinare la propria competenza in favore del tribunale
competente a conoscere di condotte pregiudicanti la libera concorrenza tra Stati, o
viceversa22.
Se ne desume, dunque, che le eventuali incertezze sulla competenza, nei casi concreti,
dovranno risolversi in base al principio di allegazione della parte attrice23. Spetterà poi al
giudice verificare la sussistenza del presupposto del pregiudizio al commercio tra gli Stati
membri.
Così, data la sussistenza del principio della reciproca esclusiva in Italia e la specialità del
procedimento di cognizione delineato all’articolo 33, comma 2 della Legge 287/90,
22
23
Ordinanza della Corte d’appello di Venezia del 12-13 agosto 1996, Italiana Rulli c. Tecnorulli e a.. Sul punto Scuffi,
“L’evoluzione del diritto antitrust nella giurisprudenza italiana”, in Il Diritto Industriale, 1998, n. 1, pag. 41.
In tal senso le ordinanze della Corte d’appello di Milano, 5 febbraio 1992, MYC e a. c. AFI e a. e del 31 gennaio – 5
febbraio 1996, Comis e a. c. Fiera Milano e a. e della Corte d’appello di Roma, 11 maggio 1993, Parrini c. Bizzarri e a.; si
vedano, tra gli altri, Tavassi – Scuffi, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998 e Libertini, “Il ruolo del giudice
nell’applicazione delle norme antitrust”, in Giurisprudenza Commerciale, 1998, I, pag. 649.
33
nonostante la formulazione dell’articolo 3, paragrafo 1 del Regolamento, il quale prevede
che quando le giurisdizioni nazionali applicano il diritto nazionale ad accordi che possano
pregiudicare il commercio tra gli Stati membri applicano anche il diritto comunitario, la
competenza rispettivamente della corte d’appello e del tribunale rimane chiusa e non
estensibile a materie diverse, normativa nazionale e comunitaria, ancorché connesse.
Come affermato in giurisprudenza, nemmeno un’eventuale connessione potrà legittimare
la corte d’appello a conoscere quale giudice di unico grado materie per le quali la sua
competenza è quella di giudice di appello24. Dunque, le eventuali domande subordinate e
accessorie correlative rientreranno nelle norme generali di competenza e rispetteranno il
principio della separazione con remissione al giudice ordinario di prima istanza.
Certamente, quindi, se ne desume che il principio della barriera unica, sempre che venga
conservato da parte del legislatore, dovrà essere applicato con rigidità in sede
giurisdizionale, anche perché il concorso di interventi, benché possibile, fa correre il
rischio di giudizi contrastanti e di innumerevoli sospensioni ex articoli 294 e 295 c.p.c.,
nonostante sino ad oggi si sia sempre esclusa la litispendenza tra i due procedimenti per
diversità tra petitum e causa pretendi25.
È innegabile come la differente disciplina processuale delle azioni civili in materia di
diritto della concorrenza, sussistente a seconda che siano fondate sul diritto comunitario
o su quello nazionale, in particolare, la presenza di un grado di giudizio in meno nel caso
della normativa nazionale, faccia sorgere il dubbio dell’esistenza di un’irragionevole
disparità di trattamento nel sistema processuale italiano.
c. Conclusioni
Tornando al testo dell’articolo 3 del Regolamento, la previsione in esso contenuta secondo
cui, quando le Autorità o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione nazionale in
materia di intese o abusi di posizione dominante a fattispecie che possano pregiudicare il
commercio tra Stati membri dovranno applicare anche le disposizioni comunitarie,
testualmente non impedisce che la legislazione nazionale preveda che in tale evenienza
l’autorità o il giudice smettano di applicare la normativa nazionale ed applichino
esclusivamente quella comunitaria. Naturalmente, fatte salve le ipotesi in cui vi siano aspetti
di esclusiva rilevanza nazionale, per i quali la normativa interna potrà continuare ad
applicarsi, ai sensi dell’interpretazione data all’articolo 1, comma 3 della Legge 287/90.
24
25
Corte di Appello di Milano, sentenza del 21 marzo – 14 aprile 1995, B.B. Center c. Parabella ed in dottrina Tavassi –
Scuffi, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998.
Ordinanze della Corte d’appello di Milano, 5 febbraio 1992, MYC e a. c. AFI e a. e del 24 aprile – 15 maggio 1996,
Auchan c. Faid e della Corte d’appello di Roma, 11 maggio 1993, Parrini c. Bizzarri e a.
34
Ne consegue che il sistema di reciproca esclusiva, sia se applicato in modo rigido, ma
soprattutto se applicato in modo temperato con una lettura combinata dei commi 1 e 3
dell’articolo 1 della Legge 287/90, è sì compatibile con il sistema di parallela competenza
istituito con l’articolo 3 del Regolamento 1/2003, ma creerà grossi problemi applicativi
della normativa in materia di concorrenza, da un lato provocando un aggravio
procedimentale a carico dell’Autorità garante che si troverà sempre costretta a definire il
mercato rilevante ed a valutare la sussistenza del pregiudizio al commercio tra gli Stati
membri, e dall’altro seri problemi di delimitazioni delle competenze e gravi rischi di
pronunce tra loro confliggenti assunte dai giudici nazionali.
La confusione non mancherebbe.
Perché, dunque, non suggerire di passare ad un sistema di parallela applicazione delle
normative nazionale e comunitaria in materia di intese ed abusi di posizione dominante?
Tale analisi rientra nel secondo scenario.
2.2.2. Il secondo scenario
Il secondo scenario che si vuole analizzare prevede l’ipotesi secondo cui il legislatore decida
di passare ad un sistema di piena parallela applicazione delle normative nazionale e
comunitaria.
In tal caso sarà più che necessario riflettere sull’opportunità e la logicità di mantenere la
giurisdizione delle corti d’appello competenti per territorio per le violazioni della Legge
287/90 e dei tribunali di prima istanza per l’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato e
di conservare un sistema di autorizzazione in deroga nazionale, contrastante con
l’applicazione dell’articolo 81 nella sua interezza delineata nel Regolamento.
Per quanto riguarda la giurisdizione di tribunale e corte d’appello in materia di
concorrenza, si può verosimilmente sostenere che il parallelismo scaturente dalla doppia
competenza non sarà consono ad un sistema di parallela applicazione delle normative
nazionale e comunitaria con l’eliminazione della barriera unica.
Per cui, se tale sarà la scelta sicuramente si coglierà l’occasione o per far sì che il tribunale
sia il giudice di tutto il diritto della concorrenza, sia comunitario sia nazionale, tanto più
che tutte le controversie di diritto della concorrenza nazionale non riconducibili alle
azioni di nullità e di risarcimento del danno o ai provvedimenti di urgenza per violazione
della Legge 287/90 restano di competenza del tribunale, oppure per fare in modo di
35
ampliare la competenza speciale della Corte d’appello a tutte le violazioni in materia di
intese ed abusi di posizione dominante con rilevanza sia nazionale che comunitaria.
Inoltre, non va sottaciuto che sarà opportuna l’introduzione anche a livello nazionale di un
sistema di eccezione legale analogo a quello introdotto per gli articoli 81 e 82 del trattato,
che, peraltro, conferirebbe maggiore omogeneità al sistema di applicazione del diritto della
concorrenza nazionale rispetto a quello comunitario, evitando così gli aggravi
procedimentali nei casi in cui sia dubbia la determinazione della sussistenza o meno del
pregiudizio al commercio tra gli Stati membri e la definizione del mercato rilevante ed il
rischio di forum shopping presso l’Autorità garante italiana.
Tale modifica sarà necessaria, poi, perché se avremo un unico giudice del diritto della
concorrenza, questo si troverà, nei casi in cui un’intesa con rilevanza sia comunitaria sia
nazionale non sia stata notificata ex articolo 4 della Legge 287/90, a dover gioco forza
applicare il solo articolo 81, paragrafo 3, non potendo applicare l’articolo 4 in base al diritto
interno e non potendo né applicare l’articolo 2 della legge 287/90, altrimenti il diritto
nazionale andrebbe in senso contrastante con il diritto comunitario e nemmeno attendere
un’eventuale pronuncia dell’Autorità garante con cui si conferisca l’esenzione.
Ciononostante, non si può sostenere che un sistema di eccezione direttamente applicabile si
confaccia maggiormente agli obiettivi auspicati dalla modernizzazione rispetto ad un
sistema di autorizzazione preventiva, con la motivazione che renderebbe più efficace
l’attribuzione dei casi all’interno della rete di Autorità e permetterebbe all’Autorità garante
di concentrarsi sulle restrizioni della concorrenza più gravi. Ciò non risponde al vero.
Anzi, si può senza dubbio affermare che l’introduzione in Italia di un regime di eccezione
legale non apporterebbe un cambiamento rivoluzionario nella prassi dell’Autorità garante e
delle imprese. Il sistema italiano, pur essendo modellato su quello dell’autorizzazione in
deroga, ha spesso funzionato come un sistema di eccezione legale, perché la formulazione
dell’articolo 2 della Legge 287/90, contenente l’espressione “in maniera consistente”, ha fatto
sì che molto spesso l’Autorità garante abbia effettuato il bilanciamento tra effetti pro e anticoncorrenziali di un accordo già in relazione all’applicazione del divieto; e, inoltre, perché le
imprese si sono adeguate ad un tale sistema operando una valutazione preventiva della
liceità dei propri accordi, ai sensi dell’articolo 2 della Legge 287/90.
Per cui, l’Autorità garante ha sinora operato come se si trovasse già in un sistema di
eccezione legale, in quanto nell’applicazione dell’articolo 2 della Legge 287/90 si è arrivati a
risultati analoghi a quelli che vi saranno nel diritto della concorrenza comunitario a partire
dal momento in cui l’eccezione prevista all’articolo 81, paragrafo 3 sarà direttamente
applicabile.
36
Ciò risulta dal numero irrisorio di richieste di autorizzazione in deroga presentate e di
esenzioni concesse26.
Per modificare il sistema italiano, sulla scia di quanto si propone in altri Stati membri,
l’eliminazione del sistema di autorizzazione in deroga dalla Legge 287/90 si potrà ottenere
modificando l’articolo 4 della Legge 287/90, rubricato come “Deroghe al divieto di intese
restrittive della libertà di concorrenza”, trasformandolo nella norma che disciplina le eccezioni al
divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza.
Tale cambiamento si potrebbe effettuare abrogando i commi 2 e 3 dell’articolo 4 ed
eliminando i due riferimenti al meccanismo di autorizzazione contenuti nel primo comma.
Non si ritiene necessaria, invece, un’abrogazione dell’articolo 13 della Legge 287/90, che
prevede come vada effettuata la “Comunicazione delle intese”.
Questo ci introduce ai due successivi scenari ipotizzabili.
2.2.3. Gli scenari terzo e quarto
Si potrebbe ipotizzare adesso da un lato, di mantenere il sistema di comunicazione delle
intese previsto all’articolo 13 della Legge 287/90 e dall’altro, di introdurre un sistema di
notifiche per i casi rientranti negli articoli 81 e 82 del trattato in base all’articolo 5,
paragrafo 2 del Regolamento, che riproduce il testo della vecchia attestazione negativa che
era contenuto nel Regolamento 17.
Infatti, l’articolo 13 della Legge 287/90 prevede che “Le imprese possono comunicare all'Autorità
le intese intercorse. Se l'Autorità non avvia l'istruttoria di cui all'articolo 14 entro centoventi giorni dalla
comunicazione non può più procedere a detta istruttoria, fatto salvo il caso di comunicazioni incomplete o
26
Va ricordato che, a differenza della Commissione, l’Autorità garante non ha mai svolto considerazioni di carattere
“politico” tra quelle rilevanti ai fini della concessione di un’autorizzazione. Si sono avute esenzioni collegate al
cambiamento della normativa del settore interessato (Autorità garante, decisioni 1° luglio 1999, Vendita di diritti televisivi;
26 ottobre 1993, Assicurazione dei rischi agricoli; 19 giugno 1996, Consorzi del Prosciutto di S. Daniele — Consorzio del Prosciutto
di Parma). Le altre esenzioni concesse dall’Autorità garante sono state giustificate da motivazioni di efficienza
economica.
Quanto al contenuto dell’articolo 4 della Legge 287/90 va ricordata la differenza di maggior rilievo contenuta nella
norma rispetto al paragrafo 3 dell’articolo 81 che potrebbe causare difficoltà all’Autorità garante in caso di parallela
applicazione delle due normative, ovverosia la necessità di salvaguardare da parte delle imprese italiane la
“concorrenzialità sul piano internazionale” che rappresenta un elemento estraneo alla disciplina comunitaria e che sembra
riecheggiare in una motivazione recentemente formulata dalla stessa Autorità garante nel caso Coop. Italia/Conad
Distribuzione (Caso I414, in Boll. 13/2001. In proposito Magnani, “L’applicazione della L. 287/90 alle intese restrittive
della concorrenza”, in Concorrenza e Mercato, Milano, 2001, n. 9, pag. 35 ss.). Buona parte della dottrina ha, però,
ritenuto in proposito che tale elemento contrasti con l’articolo 1 della Legge 287/90 e con gli impegni assunti dall’Italia
in base al trattato di Roma, in quanto contrastante con l’obiettivo di armonizzazione del mercato interno.
37
non veritiere” e l’articolo 5, paragrafo 2 del Regolamento riconosce che le autorità “Qualora, in
base alle informazioni di cui dispongono, non sussistono le condizioni per un divieto, possono anche decidere
di non avere motivo di intervenire”.
In proposito, si parla di terzo e quarto scenario in quanto la possibilità di comunicare le
intese sembra compatibile sia con il sistema della barriera unica sia con il sistema di
parallela applicazione delle normative.
Analizziamo in concreto quali situazioni potrebbero verificarsi.
Nel caso del mantenimento della barriera unica, con la previsione di uno scenario di
mantenimento dell’autorizzazione in deroga nella Legge 287/90:
(i) nell’ipotesi in cui non vi sia pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, l’Autorità
garante potrà concedere l’autorizzazione in deroga sulla base di una richiesta presentata ex
articolo 4, comma 3 Legge 287/90;
(ii) nell’ipotesi in cui vi sia pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, l’Autorità garante
potrà adottare una decisione di non avere motivo di intervenire, perché non sussistono le
condizioni per un divieto sulla base di una comunicazione dell’intesa ex articolo 13 Legge
287/90.
Nel caso dell’introduzione di un sistema di applicazione parallela delle discipline nazionale e
comunitaria, con la previsione di uno scenario di applicazione del principio di eccezione
legale anche nella Legge 287/90:
(i) nell’ipotesi in cui non vi sia pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, l’Autorità
garante potrà adottare una decisione di non avere motivo di intervenire sulla base di una
comunicazione dell’intesa ex articolo 13 Legge 287/90;
(ii) nell’ipotesi in cui vi sia pregiudizio al commercio tra gli Stati membri, l’Autorità garante
potrà adottare una decisione di non avere motivo di intervenire sulla base di una
comunicazione dell’intesa ex articolo 13 Legge 287/90.
Ciò dimostra che la previsione della possibilità di comunicare le intese si potrà avere sia con
un sistema qual è l’attuale di barriera unica, sia con un sistema di parallela applicazione delle
discipline nazionale e comunitaria.
Per cui, qualora le imprese nutrano dubbi sulla liceità della propria intesa, potranno
effettuare la comunicazione facoltativa all’Autorità garante, allo scopo di ottenere dalla
38
stessa un provvedimento di non doversi procedere ad istruttoria, il quale, peraltro, potrebbe
essere costituito dall’inerzia dell’Autorità garante che causerebbe la decadenza della stessa
dal potere di istruttoria sull’intesa comunicata, in base al diritto interno.
Se l’Autorità garante si troverà a constatare che un comportamento non violi l'articolo 81
nel suo insieme o l'articolo 82, essa potrà chiudere il procedimento d'ufficio o respingere la
denuncia con decisione, se ritiene di non avere motivo di intervenire, ma la decisione sarà
vincolante soltanto per l’Autorità garante stessa.
Perlomeno così si afferma
esplicativamente nel testo della Proposta di Regolamento.
In proposito, poi, si può ritenere che sebbene il Regolamento non preveda e non escluda
un obbligo di motivazione in capo all’Autorità garante, la normativa nazionale sul
procedimento amministrativo (legge 241/90) a cui l’Autorità garante è sottoposta le
imponga tale obbligo.
Tanto più che la Commissione era tenuta a motivare le attestazioni negative dalla stessa
concesse in base al Regolamento 17, in quanto si trattava pur sempre di decisioni.
L’unica differenza di rilievo, dunque tra gli articoli 5, paragrafo 2 del Regolamento e 13
della Legge 287/90 è insita nel fatto che il secondo troverà applicazione soltanto nei casi di
“auto-denuncia” delle imprese, mentre il primo potrà trovare applicazione sulla base di
qualunque informazione di cui disponga l’Autorità garante.
Infine, l’articolo 13 e l’articolo 5, paragrafo 2 potrebbero essere anche la via per conferire
all’Autorità garante uno strumento analogo agli orientamenti informali previsti per la
Commissione al considerando 38 del Regolamento 1/2003 e, così, riconoscere alle imprese
un’ulteriore fonte di certezza per la definizione delle fattispecie nei casi di reale incertezza27.
2.2.4. Le eccezioni all’articolo 3 del Regolamento 1/2003
Concludendo l’analisi dell’articolo 3 del Regolamento, relativamente all’eccezione prevista al
paragrafo 2 dello stesso, ovverosia della facoltà dell’Autorità garante o dei giudici di adottare
e applicare norme nazionali più rigorose che vietino o sanzionino le condotte unilaterali
delle imprese, come esplicata dal considerando 8 del Regolamento (“Tali leggi nazionali più
severe possono prevedere disposizioni che vietano o sanzionano un comportamento illecito nei confronti di
27
Relativamente agli orientamenti informali la Commissione ha predisposto una comunicazione ed in sede di
Dichiarazione Comune, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Il regolamento adottato in data odierna stabilisce un sistema di
eccezione direttamente applicabile. Esso lascia impregiudicata la capacità della Commissione di fornire un orientamento informale alle singole
imprese che lo desiderino, negli specifici casi che danno adito ad una reale incertezza perché presentano quesiti nuovi o non risolti circa
l'applicazione degli articoli 81 o 82. La Commissione è disposta a pubblicare una comunicazione che specifichi i casi in cui può essere fornito
un orientamento sotto forma di pareri scritti. La Commissione non ha alcun obbligo di fornire un orientamento in ogni singolo caso”.
39
imprese economicamente dipendenti”), si ritiene che sia dubbio se tale eccezione trovi
applicazione anche nei casi di abuso di posizione dominante collettiva28.
Inoltre, relativamente all’eccezione di cui al paragrafo 3 dell’articolo 3 va ricordato come
certe operazioni che potrebbero rientrare nei divieti di cui agli articoli 81 e 82 del trattato,
possano invece essere autorizzate a priori dall’Autorità garante come operazioni di
concentrazione ai sensi dell’articolo 16 della Legge 287/90. L’applicabilità a partire dal
maggio 2004 dell’eccezione di cui all’articolo 3, paragrafo 3 del Regolamento e la
valutazione dei possibili effetti che la stessa potrebbe avere sul diritto della concorrenza
nazionale, potrebbero fornire all’Autorità garante l’occasione per allineare la propria
disciplina in materia di imprese comuni a quella della Commissione.
Infatti, le imprese comuni con effetti cooperativi sono considerate come intese da parte
dell’Autorità garante, mentre a livello comunitario rientrano nel Regolamento
concentrazioni.
Si tratta di un problema che è auspicabile porsi in quanto se si deciderà di eliminare il
sistema di notifica ex articolo 4 della Legge 287/90, tali operazioni di natura concentrativa a
livello comunitario, resteranno senza alcuna garanzia legata al sistema di notifica abrogato a
livello nazionale.
Ne risulta che tale cambiamento sia opportuno, ma bisogna anche chiedersi se si tratta di
un cambiamento dovuto in base all’articolo 3, paragrafo 3 del Regolamento.
Sulla base della formulazione della norma secondo cui “Fatti salvi i principi generali ed altre
disposizioni di diritto comunitario, i paragrafi 1 e 2 [dell’articolo 3] non si applicano quando le autorità
garanti della concorrenza e le giurisdizioni degli Stati membri applicano la legislazione nazionale in
materia di controllo delle fusioni”, bisogna interrogarsi se sia necessario guardare al fenomeno
impresa comune con effetti cooperativi in quanto tale oppure se sia necessario riferirsi alla
norma prevalente in tale materia, se quella comunitaria o quella nazionale.
La formulazione del paragrafo 3, dell’articolo 3 sembrerebbe lasciare spazio agli Stati
membri in proposito e far propendere per la prevalenza della legislazione nazionale in
materia di concentrazioni.
Dunque la modifica non è di per sé necessaria.
28
Fattispecie di cui è stata riconosciuta la sussistenza da parte dell’Autorità garante nel caso A267, Diano/Tourist Ferry Boat
- Caronte Shipping – Navigazione General Italiana, in Boll. 49/2000.
40
2.2.5. L’onere della prova
Passando all’analisi dell’articolo 2 del Regolamento in materia di onere della prova, questo
prevede che anche in tutti i procedimenti nazionali di applicazione degli articoli 81 e 82 del
trattato, l’onere della prova di un’infrazione dell’articolo 81, paragrafo 1, o dell’articolo 82
del trattato incomba alla parte o all’autorità che asserisce tale infrazione e che, invece,
incomba all’impresa o associazione di imprese che invoca l’applicazione dell’articolo 81,
paragrafo 3 del trattato l’onere di provare che le condizioni in esso enunciate siano
soddisfatte.
Al considerando 5 del Regolamento 1/2003 si è riconosciuto che “Il presente regolamento non
incide né sulle norme nazionali in materia di grado di intensità della prova né sugli obblighi delle autorità
garanti della concorrenza e delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri inerenti all'accertamento dei fatti
pertinenti di un caso, purché dette norme e detti obblighi siano compatibili con i principi generali del diritto
comunitario”, cosa che accade nella normativa italiana.
Per la corretta applicazione dell’articolo 2 del Regolamento è preliminarmente necessario
chiedersi che cosa si intenda con l’espressione “eccezione legale”.
Nell’ambito del diritto processuale civile italiano se viene sollevata un’eccezione, sta alla
parte provare i fatti posti a fondamento della stessa.
Tuttavia, il fatto che si sia di fronte ad una eccezione definita come legale probabilmente fa
sì che anche il giudice e l’Autorità garante non possano ignorarne la natura, quando viene
innanzi a loro addotta la sussistenza delle condizioni previste all’articolo 81, paragrafo 3.
Per cui, l’ampiezza dell’onere probatorio imposto sull’impresa che subisce il procedimento
dipenderà da come verrà applicato l’articolo 81 del trattato CE, se (i) attraverso
un’applicazione dello stesso nella propria interezza, senza scindere il momento dell’analisi
ex paragrafo 1 da quello ai sensi del paragrafo 3, oppure (ii) attraverso un’applicazione
bipartita dello stesso, e se in tale caso ci si atterrà o meno ad un criterio sostanziale
nell’analisi ex articolo 81, paragrafo 1, ovverosia se lo stesso verrà interpretato in maniera
più ampia sulla base della rule of reason o meno.
La previsione dell’eccezione quale legale dovrebbe far propendere per il mantenimento di
un’analisi globale in seno all’articolo 81, soprattutto innanzi all’Autorità garante che ha i
poteri per svolgere istruttorie di più ampio respiro così volte anche a verificare la
sussistenza delle condizioni di eccezione addotte dalle imprese, o perlomeno per un’analisi
ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 1 sulla scia dell’ampiezza propria della rule of reason.
41
Ad ogni modo, si può ritenere che l’articolo 2 del Regolamento 1/2003 non richieda alcuna
modifica della legislazione italiana, in quanto la suddivisione dell’onere della prova
contenuta nel Regolamento è in linea con quanto previsto nel nostro diritto interno
dall’articolo 2697 c. c., in materia di distribuzione dell’onere della prova, in cui si disciplina
che l’attore deve provare i fatti posti a fondamento del diritto fatto valere, mentre il
convenuto deve provare i fatti posti a fondamento dell’eccezione secondo cui tale diritto
non esiste, si è modificato o è venuto meno.
2.3. Il capitolo II del Regolamento 1/2003: le competenze
L’articolo 5 del Regolamento 1/2003 per prima cosa conferisce all’Autorità garante il potere
di applicare gli articoli 81 e 82 del trattato, analogamente a quanto fa l’articolo 4 del
Regolamento nei confronti della Commissione.
Come già precisato, ciò significa che non sarà necessario conferire all’Autorità garante con
una misura legislativa nazionale il potere di applicare gli articoli 81 e 82, in quanto tale
potere le discende direttamente dal Regolamento, sia quando agisce ex officio sia quando lo
fa in seguito a denuncia.
Così, l’Autorità garante applicherà l'articolo 81 nella sua integralità: ciò significa che ogni
volta che applicherà l'articolo 81, paragrafo 1, avrà anche la facoltà di decidere se siano
soddisfatte le condizioni di cui all'articolo 81, paragrafo 3.
Tale potere è conferito all’Autorità garante per l’applicazione dello stesso “in casi
individuali”: ciò significa che non è stato conferito un potere di carattere regolatorio alle
autorità nazionali. La capacità di emanare regolamenti in materia resta della Commissione.
Il sistema è parallelo a quello contenuto nella Legge 287/90 che non prevede un potere
regolatorio per l’Autorità garante nemmeno per l’applicazione del diritto della concorrenza
nazionale.
Nel prosieguo del testo dell’articolo 5 del Regolamento si trova un’elencazione dei tipi di
decisioni che le Autorità “possono adottare”. Tale formulazione sembra presupporre che la
lista contenuta all’articolo 5, ossia (i) ordinare la cessazione di un’infrazione, (ii) disporre
misure cautelari, (iii) accettare impegni, (iv) comminare ammende, penalità di mora o
qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale, sia una lista esaustiva, ma che con la
stessa si lasci agli Stati membri la scelta di quali tra questi poteri decisori attribuire alle
proprie Autorità della concorrenza nell’applicazione della normativa comunitaria sulle
intese ed abusi di posizione dominante e come regolarne l’esercizio.
42
È, così, rimessa al legislatore nazionale la scelta tra quali di tali poteri decisori conferire alla
propria autorità garante della concorrenza designata.
Per quanto concerne il diritto italiano l’Autorità garante ha già il potere di adottare decisioni
con cui ordina la cessazione di infrazioni agli articoli 81 e 82 del trattato in base all’articolo
54, comma 5 della Legge 52/96 e quello di comminare sanzioni. Per cui, il legislatore
nazionale potrebbe, al limite, intervenire, per conferire i poteri decisori sino ad oggi non
previsti dal nostro ordinamento nell’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato CE: ossia
quelli relativi alle decisioni con cui si accettano gli impegni ed alle misure cautelari.
Relativamente alle decisioni di accettazione degli impegni il legislatore potrebbe introdurre
una disposizione analoga all’articolo 9 del Regolamento, che disciplina tali decisioni per la
Commissione, per l’applicazione del diritto della concorrenza comunitario in Italia e
potrebbe sicuramente pensare di introdurre una norma analoga anche per i casi in cui
l’Autorità garante si trovi ad applicare la disciplina nazionale e decida di accettare gli
impegni proposti dalle imprese, soprattutto alla luce dei rischi sempre presenti che
potrebbero discendere da una parallela applicazione delle normative e delle discrepanze e
discriminazioni che potrebbero derivarne.
Nella pratica l’Autorità garante ha già fatto ricorso a tale potere spingendo le imprese ad
offrirli ed adottarli spontaneamente ai fini della concessione di esenzioni o della
commisurazione della sanzione pecuniaria.
Relativamente al potere di adottare misure cautelari previsto all’articolo 5 del Regolamento,
bisogna valutare come si potrà dare effettività allo stesso nell’ordinamento italiano.
Non va dimenticata la scelta del legislatore nazionale, contenuta nell’articolo 33, comma 2
della Legge 287/90, di non attribuire all’Autorità garante il potere di adottare misure
cautelari nell’applicazione degli articoli 2 e 3, ma di conferire tale competenza alle corti
d’appello, fondata sulla considerazione che il procedimento cautelare dinanzi al giudice
ordinario dia maggiori garanzie della discrezionalità di una pubblica amministrazione.
Infatti, la misura cautelare è volta alla tutela di diritti soggettivi ed interessi legittimi dei
singoli, connessi a violazioni della normativa in materia di tutela della concorrenza, e
discende dalla stessa Costituzione che l’esercizio di una tale tutela sia un’attribuzione
necessaria dei giudici.
Non si vede perché, dunque, visto che il Regolamento 1/2003 lascia libertà di scelta allo
Stato membro sull’attribuire o meno il potere di disporre misure cautelari, non si debba
anche in questo caso evitare di conferire tale potere, fortemente discrezionale e che
43
potrebbe avere conseguenze irreparabili sul mercato e sulle imprese, ad una pubblica
amministrazione quale l’Autorità garante.
Tanto più che, dando uno sguardo a quanto avvenuto a livello comunitario dove
giurisprudenzialmente si era conferito il potere cautelare alla Commissione, peraltro un
potere molto ristretto, quest’ultima lo ha usato in rare occasioni ed addivenendo a risultati
spesso insoddisfacenti.
Piuttosto, si potrebbe pensare di seguire la via indicata dal nostro legislatore e lasciare i
provvedimenti cautelari al giudice ordinario, in questo caso il tribunale, anche per le
violazioni degli articoli 81 e 82 del trattato.
Oppure, giusta anche la formulazione aperta contenuta nell’articolo 35 del Regolamento, ai
paragrafi 2, 3 e 4 si potrebbe far sì che l’Autorità garante possa richiedere l’adozione di una
misura cautelare ad un giudice nazionale, che potrebbe essere sia quello ordinario ovvero,
preferibilmente, quello amministrativo29.
Infatti, in base all’articolo 35, paragrafo 4 è possibile che per l'adozione di taluni tipi di
decisioni di cui all'articolo 5 del Regolamento, ad esempio in materia cautelare, un'autorità
promuova un'azione davanti ad un'autorità giudiziaria separata e diversa dall'autorità
responsabile della fase istruttoria, nel nostro caso l’Autorità garante.
Alla luce della formulazione dell’articolo 33, comma 2 della Legge 287/90 “i ricorsi intesi ad
ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV
sono promossi davanti alla corte d'appello competente per territorio”, bisogna chiedersi se già ora
l’Autorità garante abbia una legittimazione sostanziale analoga ai titolari di posizioni di
diritto privato per i quali l’emanazione di un provvedimento d’urgenza riveste un interesse
personale concreto.
Così recitano tali paragrafi: “2. Qualora l'applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza sia demandata ad autorità
amministrative e giudiziarie nazionali, gli Stati membri possono attribuire competenze e funzioni a tali autorità nazionali, sia
amministrative che giudiziarie.
3. Le disposizioni di cui all'articolo 11, paragrafo 6, si applicano alle autorità designate dagli Stati membri, incluse le giurisdizioni che
esercitano funzioni relative alla preparazione e all'adozione dei tipi di decisioni di cui all'articolo 5 del presente regolamento. Le disposizioni
dell'articolo 11, paragrafo 6, non si applicano alle giurisdizioni nella misura in cui esse agiscono quali istanze di ricorso per i tipi di
decisioni di cui all'articolo 5.
4. Fatto salvo il paragrafo 3, negli Stati membri in cui per l'adozione di taluni tipi di decisioni di cui all'articolo 5 del presente regolamento
un'autorità promuove un'azione davanti ad un'autorità giudiziaria separata e diversa dall'autorità responsabile della fase istruttoria e
purché siano rispettate le condizioni del presente paragrafo, l'applicazione dell'articolo 11, paragrafo 6, è limitata all'autorità responsabile
della fase istruttoria la quale, laddove la Commissione avvii un procedimento, revoca l'azione promossa davanti all'autorità giudiziaria. Tale
revoca è tale da porre definitivamente fine al procedimento nazionale”.
29
44
La risposta da darsi sembra che non possa essere altro che negativa, in quanto l’ambito di
operatività del giudice ordinario è riservato ai rapporti intersoggettivi e quando il legislatore
ha conferito un tale tipo di legittimazione ad un’amministrazione lo ha fatto esplicitamente,
come nel caso delle richieste per l’adozione di provvedimenti d’urgenza che erano rimesse
al Garante per l’editoria in materia di concentrazioni nella stampa quotidiana30.
Pertanto, se questa sarà la via, sarà necessario un intervento legislativo, tanto più che le
problematiche di regolazione del mercato sottostanti alla scelta del legislatore del 1981 in
materia di concentrazioni nell’editoria sono similari a quelle di tutela della concorrenza
proprie dell’Autorità garante.
In proposito, va anche detto che nel caso in cui si operasse tale scelta, nel momento in cui
la Commissione avocherà a sé un caso in base all’articolo 11, paragrafo 6, l’Autorità garante
dovrà revocare la domanda di tutela cautelare presentata al giudice, in modo tale da evitare
qualunque interferenza tra attività della Commissione e autorità giudiziaria nazionale.
Naturalmente il singolo, per ottenere una tutela cautelare, potrà sempre continuare
rivolgersi alla corte d’appello per quanto riguarda il diritto della concorrenza nazionale e al
tribunale per tale tutela nell’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato, con ampie
garanzie per i diritti ed interessi in questione, sempre che non si addivenga all’eliminazione
di tale separazione di competenze.
Infatti, come già detto e qui ribadito, la tutela cautelare anche in materia antitrust è volta alla
protezione di interessi privatistici.
Tanto più che la giurisprudenza, in particolare della Corte d’appello di Milano, richiamando
i precedenti dei giudici comunitari ha affermato in astratto che “l’ammissibilità di misure
inibitorie finalizzate alla conservazione del diritto ovvero a limitare gli effetti pregiudizievoli allo stesso
contenendo il danno anche eventualmente in vista di un suo risarcimento in forma specifica e senza necessità
che il contenuto di detti provvedimenti si identifichi – in tutto od in parte – con le domande prospettate per
il giudizio di merito”31 ed, in altra occasione, che “la norma dell’articolo 33 secondo comma, legge n.
Legge 25 febbraio 1987, n. 67, che ha incorporato abrogandola la legge 5 agosto 1981, n. 416, all’articolo 3, comma 12:
“Su richiesta motivata del Garante il tribunale decide entro 15 giorni sull'adozione dei provvedimenti di urgenza che appaiano, secondo le
circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Le funzioni e le competenze del Garante
per l’editoria sono passate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituita con la legge 31 luglio 1997, n. 249,
articolo 20.
31 Ordinanza del 31 gennaio – 5 febbraio 1996, Comis e a. c. Fiera Milano e a.. così anche la Corte d’appello di Torino con
ordinanza del 20 gennaio – 17 febbraio 1995, Alitalia c. Sagat in cui si è esplicitamente riconosciuto che “il disposto
dell’articolo 33, secondo comma, legge n. 287/90 non comporti limitazioni della competenza giurisdizionale della Corte alle sole misure
d’urgenza anticipatorie degli effetti delle pronunzie di nullità e di risarcimento del danno potendo il mezzo cautelare essere sempre utilizzato
per fronteggiare un abuso di posizione dominante e salvaguardare il diritto all’autoproduzione (come nel caso di specie)”.
30
45
287/90 si riferisce a qualsiasi provvedimento di urgenza connesso a domande di merito volte
all’accertamento di situazioni antigiuridiche dipendenti dall’applicazione di essa legge”32.
Inoltre, la giurisprudenza sviluppatasi ex articolo 33, comma 2 della Legge 287/90 ha
affermato l’ammissibilità di interventi inibitori non solo di non facere, ma anche di facere33,
così aprendo la strada ad una tutela cautelare quale potrebbe essere quella garantita
dall’autorità amministrativa, ma senza la discrezionalità che connota gli interventi di
quest’ultima.
Per quanto riguarda il potere di infliggere sanzioni, questo non è direttamente conferito
dall’articolo 5 all’Autorità garante, ma lo è in base alla normativa nazionale. Per cui le
sanzioni previste dalla Legge 287/90 saranno applicate anche nell’applicazione degli articoli
81 e 82 del trattato, su cui infra.
Relativamente al paragrafo 2 dell’articolo 5 del Regolamento, il quale prevede che le Autorità
“Qualora, in base alle informazioni di cui dispongono, non sussistono le condizioni per un divieto, possono
anche decidere di non avere motivo di intervenire” va precisato che esso conferisce all’Autorità
garante l’opportunità di agire, ma non il potere riconosciuto alla Commissione dall’articolo
10 del Regolamento alla presenza di un interesse pubblico comunitario.
Le decisioni ex articolo 5, paragrafo 2, come visto sopra, potrebbero essere la via per
l’Autorità garante per permettere il mantenimento di un sistema di notifiche a livello
nazionale sull’applicabilità dell’articolo 81 e dell’articolo 82 presentate allo scopo di ottenere
un’attestazione negativa.
2.4. Il capitolo IV del Regolamento 1/2003: la cooperazione
Qui di seguito si svolgerà un’analisi delle norme di cooperazione intercorrenti tra
Commissione ed Autorità nazionali e di quali di queste necessitino un intervento del
legislatore nazionale per poter essere effettive.
Preliminarmente, va ricordato che con la Dichiarazione Comune si è delineato come
funzionerà la Rete di Autorità, ma la Rete per funzionare ha bisogno della reale
cooperazione dei legislatori nazionali, in quanto il Regolamento non si esprime in termini
vincolanti relativamente alle forme di cooperazione orizzontale, ovverosia tra Autorità
nazionali.
32
33
Ordinanza del 21-23 gennaio 1992, Cavirivest c. Nuova Samim.
Ordinanze del 27 settembre – 8 ottobre 1994, Telsystem c. Sip e del 12 – 29 aprile 1995, Ceit c. Novamont e a.
46
In particolare, per quanto concerne il funzionamento della Rete di Autorità, buona parte
della cooperazione e del coordinamento sono rimasti sul piano dell’impegno politico,
attraverso la Dichiarazione Comune, e molto altro verrà disciplinato attraverso atti della
Commissione privi di efficacia vincolante, quali comunicazioni e linee guida.
Dunque, la struttura costruita con il Regolamento non sembra poter di per sé sola garantire
il decentramento dell’applicazione del diritto comunitario della concorrenza.
Infatti, la sola disciplina della cooperazione verticale è direttamente applicabile e vincolante
per l’Autorità garante, senza bisogno di alcun intervento del legislatore nazionale, almeno
che non si voglia modificare l’articolo 1, commi 2 e 3, che di per sé però è già superato dal
Regolamento.
Pertanto, come vedremo, l’intervento dei legislatori nazionali sarà necessario se gli Stati
membri vorranno rispettare gli impegni politici assunti con la Dichiarazione Congiunta.
Innanzitutto, va detto che l’articolo 1, commi 2 e 3 della Legge 287/90 contiene l’attuale
disciplina procedurale interna che ha la funzione di risolvere eventuali situazioni di
sovrapposizione di competenze o di attività di controllo.
Tali commi stabiliscono che: “L'Autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all'articolo
10, di seguito denominata Autorità, qualora ritenga che una fattispecie al suo esame non rientri nell'ambito
di applicazione della presente legge ai sensi del comma 1, ne informa la Commissione delle Comunità
europee, cui trasmette tutte le informazioni in suo possesso.
Per le fattispecie in relazione alle quali risulti già iniziata una procedura presso la Commissione delle
Comunità europee in base alle norme richiamate nel comma 1, l'Autorità sospende l'istruttoria, salvo che
per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale”.
Va ricordato, come visto sopra, che in base al secondo comma dell’articolo 1 della Legge
287/90 all’Autorità garante spetta la prima valutazione relativamente alla competenza
propria o della Commissione a trattare il caso concreto. Secondo tale norma, qualora
l’Autorità garante ritenga che la competenza spetti alla Commissione, la informerà
trasmettendole tutte le informazioni in proprio possesso o proseguirà il procedimento
applicando gli articoli 81 e 82 del trattato CE.
Il terzo comma dell’articolo 1, invece, risolve in favore della Commissione gli eventuali
conflitti di attribuzione, prevedendo che l’Autorità garante sospenda il proprio
procedimento qualora risulti già iniziata una procedura presso la Commissione, ma che
possa proseguire il procedimento stesso per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza
47
nazionale. Per procedura iniziata presso la Commissione, si intende l’avvio formale della
stessa con notificazione degli addebiti e non le semplici richieste di informazioni o gli avvii
di indagine.
Passando ad un’analisi del presente capitolo del Regolamento si può ritenere che il comma
secondo dell’articolo 1 della Legge 287/90 sia superato dalla previsione dell’articolo 11,
paragrafo 3 del Regolamento, che disciplina l’informazione preventiva che ciascuna autorità
è tenuta a fornire alla Commissione prima o immediatamente dopo l’avvio del
procedimento per l’accertamento dell’intesa o dell’abuso di posizione dominante. La stessa
informazione, poi, ai sensi sempre del paragrafo 3, “può essere resa disponibile anche alle altre
Autorità nazionali” che faranno parte della Rete.
Ciò significa che per far partecipare l’Autorità garante alla Rete e farla cooperare con le
altre Autorità, sarà necessario un intervento legislativo nazionale per disciplinare che tale
informazione preventiva venga resa disponibile e come ciò debba avvenire, visto che la
norma attribuisce una semplice facoltà.
Altrettanto dovrà essere fatto per le informazioni che l’Autorità garante potrà fornire e
scambiarsi con le altre Autorità della concorrenza ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4.
Infatti, anche in questo caso non vi è bisogno di un intervento normativo di diritto interno
per quanto riguarda l’obbligo di informazione alla Commissione sulla possibile adozione di
una decisione almeno 30 giorni prima dell'adozione della stessa, ma tale intervento sarà
necessario per far sì che l’Autorità garante provveda ad informarne le altre Autorità.
Peraltro, si è già stabilito nella Dichiarazione Comune che le informazioni fornite alla
Commissione ex articolo 11, paragrafi 3 e 4 saranno in pratica rese disponibili anche alle
altre Autorità, in quanto verranno inserite sul sito intranet della Rete a cui avranno accesso
tutti i membri della stessa.
Va tenuto presente, inoltre, che ai sensi del Regolamento le Autorità non hanno il dovere di
condividere tutte le proprie informazioni con la Commissione, a meno che non ricevano
una richiesta in tal senso, né sono tenute a condividere con la Commissione tutte le
informazioni che hanno fornito ad altre Autorità (articolo 11, paragrafo 4). In tal caso,
forse, sarebbe necessaria una modifica dell’articolo 1, comma 2 della legge 287/90, perché
nonostante sia in parte superato nella restante parte prevede che l’Autorità garante
trasmetta alla Commissione “tutte le informazioni in suo possesso”, limitando la discrezionalità
della stessa Autorità garante.
48
Inoltre, va sottolineato che ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 4 le decisioni con cui le
Autorità comminano un’ammenda non rientrino tra quelle per le quali le stesse sono tenute
a sentire preventivamente la Commissione e, facoltativamente, le altre Autorità parte della
Rete34. Di solito, però, le sanzioni sono contenute nel provvedimento con cui si ordina la
cessazione di un’infrazione.
Un intervento legislativo sarà, inoltre, sicuramente opportuno per l’applicabilità dell’articolo
12 del Regolamento per la parte in cui prevede la facoltà di scambiare informazioni anche
riservate, a fini istruttori, tra Autorità nazionali nel corso dei procedimenti condotti
dall’Autorità garante35. L’articolo 12 del Regolamento è una novità, in quanto sino ad oggi
la giurisprudenza della Corte di giustizia ha impedito che vi fossero scambi di informazioni
tra Autorità nazionali (caso Banche spagnole36) e prevale sulle eventuali disposizioni nazionali
contrastanti.
La restante parte della norma è di carattere generale e prevale su ogni disposizione
nazionale di senso contrario. Precisamente, lo scopo di questa disposizione è quello di
rendere possibile il trasferimento di un caso da un’Autorità all’altra nell’interesse di
un’efficace ripartizione dei casi stessi. Tale disposizione consente, inoltre, la trasmissione di
interi fascicoli, inclusi i documenti riservati37.
Le disposizioni sullo scambio di informazioni tra Autorità nazionali incontrano il limite del
segreto d’ufficio quale previsto, oltre che all’articolo 28 del Regolamento, all’articolo 14,
comma 3 della Legge 287/90 con cui si tutelano le notizie, le informazioni o i dati
riguardanti le imprese oggetto di istruttoria davanti all’Autorità garante nei riguardi delle
pubbliche amministrazioni. L’articolo 12 del DPR 217/98 prevede che tale limite del
segreto d’ufficio non sia opponibile “alle istituzioni delle Comunità europee di cui agli articoli 1,
Lo stesso dicasi per le decisioni con cui l’Autorità garante commina una penalità di mora.
In proposito si veda il considerando 16 del Regolamento che esplicita come il paragrafo 1 dell’articolo 12 sia riferito a
tutti i membri della Rete.
36 Causa C-67/91, in Raccolta 1992, pag. I-4785.
37 Ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato le informazioni scambiate possono essere utilizzate come
mezzo di prova soltanto riguardo all’oggetto dell’indagine per il quale sono state raccolte dall’Autorità che le trasmette.
Le informazioni scambiate all’interno della rete di Autorità possono essere utilizzate solo per l’applicazione del diritto
della concorrenza comunitaria. Tuttavia, ai fini dell’applicazione della legislazione nazionale in materia di concorrenza,
le informazioni scambiate possono essere utilizzate come mezzo di prova soltanto se riguardano lo stesso oggetto
dell’indagine per il quale sono state raccolte e se la legislazione non porti ad un risultato diverso.
Le informazioni scambiate possono essere utilizzate come mezzo di prova per comminare sanzioni a persone fisiche
soltanto quando il diritto dell’Autorità che trasmette le informazioni prevede sanzioni di tipo analogo in caso di
infrazione all’articolo 81 o all’articolo 82 del trattato o, in mancanza, le informazioni sono state raccolte in un modo
che rispetta lo stesso livello di tutela dei diritti di difesa delle persone fisiche di quello previsto dalle norme nazionali
dell’autorità che le riceve. In tal caso le informazioni scambiate non possono tuttavia essere utilizzate dall’Autorità che
le riceve per imporre sanzioni detentive. Non sono escluse le sanzioni pecuniarie per le persone fisiche che hanno agito
in nome e per conto di un’impresa.
34
35
49
comma 2, e 10, comma 4, della legge n. 287/90”. D’ora in avanti si dovrà prevedere che non
sia opponibile nemmeno alle autorità garanti degli altri Stati membri.
Peraltro, con la disposizione del DPR 217/98 si chiarisce anche che: “Le informazioni
raccolte in applicazione della legge e del presente regolamento possono essere utilizzate soltanto per lo
scopo per il quale sono state richieste”, mentre l’articolo 12 del Regolamento prevede una tutela
inferiore per le informazioni scambiate, in quanto le stesse possono essere utilizzate come
mezzo di prova riguardo all’oggetto dell’indagine per il quale sono state raccolte
dall’autorità che le trasmette e che possano essere utilizzate anche per l’applicazione della
legislazione nazionale, purché non portino ad un risultato diverso.
Tuttavia, tale eccezione è ammessa dall’articolo 28 del Regolamento che prevede che
tutte le informazioni raccolte dalle Autorità e dalla Commissione, ad eccezione di quelle
scambiate ai sensi dell’articolo 12 (e dell’articolo 15 per i giudici), possano essere
utilizzate soltanto per lo scopo per il quale sono state assunte e prevale sul diritto interno.
In definitiva, l’articolo 14, comma 3 della Legge 287/90 potrà essere mantenuto e
l’articolo 12 del DPR 217/98 deve intendersi superato.
In conclusione, sarà necessario predisporre delle norme per il coordinamento e lo scambio
di informazioni tra l’Autorità garante e le altre autorità della concorrenza nazionali per far
funzionare la Rete.
Soprattutto alla luce del fatto che il combinato disposto degli articoli 12 e 22 del
Regolamento potrebbe causare una riduzione del controllo giudiziale sulla legalità delle
ispezioni svolte dall’Autorità garante o da altre autorità.
Infine, anche il legal privilege potrebbe essere menomato dagli scambi di documenti ammessi
dall’articolo 12 del Regolamento in quanto i livelli di protezione del documento potrebbero
essere differenti tra il paese di origine e quello di utilizzo del documento a fini istruttori.
Forse sarebbe necessaria una chiara presa di posizione da parte del nostro legislatore, visto
che manca una norma in proposito.
Relativamente all’articolo 13 sulla sospensione e chiusura dei procedimenti in cui si prevede
che le Autorità e la Commissione possono sospendere un procedimento o respingere una
denuncia se un’altra Autorità stia già esaminando lo stesso caso o lo abbia già trattato, un
intervento del legislatore italiano non sembra necessario, in quanto l’Autorità garante potrà
utilizzare le regole procedurali già a propria disposizione.
50
Lo stesso dicasi per la partecipazione dell’Autorità garante alle attività del Comitato
consultivo previsto all’articolo 14.
Infine, l’articolo 16, paragrafo 2 del Regolamento è direttamente applicabile nei confronti
dell’Autorità garante e non vi è bisogno di alcun intervento normativo di diritto interno.
A conclusione del presente paragrafo non si può che constatare come l’articolo 1, comma 3
della Legge 287/90 in cui si prevede che“Per le fattispecie in relazione alle quali risulti già iniziata
una procedura presso la Commissione delle Comunità europee in base alle norme richiamate nel comma 1,
l'Autorità sospende l'istruttoria, salvo che per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale”, risulti
superato dal combinato disposto degli articoli 3 e 11, paragrafo 6, con cui si priva l’autorità
nazionale della competenza ad applicare gli articoli 81 e 82 e la legge nazionale con l’avvio
di un procedimento da parte della Commissione, e dagli articoli 11, paragrafo 3 e 13 del
Regolamento sulla cooperazione.
2.5. Il capitolo V del Regolamento 1/2003: i poteri di indagine
L’articolo 13 del Regolamento 17 disciplinava lo svolgimento delle attività istruttorie per
conto della Commissione da parte delle Autorità, prevedendo che la Commissione potesse
delegare le attività istruttorie relative ad una propria indagine all’autorità nazionale.
A tale disposizione è stata data applicazione in Italia con l’articolo 54 della Legge 52/96 che
per lo svolgimento di tali attività rinvia ai poteri istruttori indicati nella Legge 287/90
(articolo 10, comma 4) ed estende la competenza dell’Autorità garante “all’esecuzione degli
accertamenti richiesti dalla Commissione delle Comunità Europee”.
Bisogna vedere se quanto ora disposto dal Regolamento 1/2003 necessiti un intervento del
legislatore volto ad aggiornare le disposizioni nazionali o se vi sarà un’automatica
integrazione delle stesse.
L’articolo 20 del Regolamento disciplina i poteri della Commissione in materia di
accertamenti presso le imprese e associazioni di imprese.
In proposito, i poteri previsti per gli agenti e le persone che li accompagnano sono
direttamente conferiti ai funzionari dell’Autorità garante dal paragrafo 5 dello stesso
articolo, ove si prevede che gli agenti dell’autorità “prestano attivamente assistenza agli agenti …”
e “dispongono a tal fine dei poteri” di:
“a) accedere a tutti i locali, terreni e mezzi di trasporto di imprese e associazioni di imprese;
51
b) controllare i libri e qualsiasi altro documento connesso all'azienda, su qualsiasi forma di supporto;
c) fare o ottenere sotto qualsiasi forma copie o estratti dei suddetti libri o documenti;
d) apporre sigilli a tutti i locali e libri o documenti aziendali per la durata degli accertamenti e nella misura
necessaria al loro espletamento;
e) chiedere a qualsiasi rappresentante o membro del personale dell'impresa o dell'associazione di imprese
spiegazioni su fatti o documenti relativi all'oggetto e allo scopo degli accertamenti e verbalizzarne le
risposte”.
Tali poteri sono più ampi rispetto a quelli previsti al titolo II della Legge 287/90, dove non
si ricomprende la possibilità di apporre sigilli a locali, libri o documenti aziendali, ora
introdotta a livello comunitario con il Regolamento.
Proseguendo nell’analisi dell’articolo 20 del Regolamento, va sottolineato che questo
prevede ai paragrafi da 6 a 8 la possibilità di richiedere per gli accertamenti, nei casi in cui
sia necessaria, “l’autorizzazione di un’autorità giudiziaria ai sensi della legislazione nazionale” che
potrebbe essere richiesta anche in via preventiva.
Alla luce della previsione dell’articolo 54 della Legge 52/96 l’intervento del giudice
nazionale non è necessario per gli accertamenti per conto della Commissione sul territorio
italiano, diversamente da quanto accade in altri ordinamenti. Infatti, in base al comma 2 di
tale articolo l’Autorità garante “in caso di opposizione dell'impresa interessata e su richiesta della
Commissione delle Comunità europee, può chiedere l'intervento della Guardia di finanza che esegue gli
accertamenti richiesti avvalendosi dei poteri d'indagine ad essa attribuiti ai fini dell'accertamento
dell'imposta sul valore aggiunto e delle imposte sui redditi”.
L’articolo 21 del Regolamento disciplina, poi, gli accertamenti in altri locali, tra cui il
domicilio di persone fisiche qualificate. Tali accertamenti possono essere effettuati (i)
soltanto per provare infrazioni gravi agli articoli 81 e 82 del trattato CE e (ii) se vi siano
“motivi ragionevoli di sospettare che libri o altri documenti connessi all’azienda e all’oggetto di
accertamenti…sono conservati in altri locali, terreni e mezzi di trasporto, compreso il domicilio di
amministratori, direttori ed altri membri del personale”.
La disposizione di maggior rilievo dell’articolo è il paragrafo 3, in cui si prevede che la
decisione della Commissione che ordina tali accertamenti possa essere eseguita solamente
con l’autorizzazione preliminare dell’autorità giudiziaria nazionale dello Stato membro
interessato.
52
Tuttavia, il controllo del giudice dello Stato membro non può vertere sulla legittimità della
decisione, riservata alla Corte di giustizia, ma solamente sull'autenticità della decisione e, in
relazione alle misure coercitive, sul fatto che esse non siano arbitrarie e che siano
proporzionali in relazione alla gravità dell'infrazione, alla rilevanza della prova, al
coinvolgimento dell'impresa e alla ragionevole probabilità che nei locali in questione si
trovino gli elementi di prova ricercati. Il giudice può richiedere una spiegazione dettagliata
alla Commissione per verificarne la proporzionalità della decisione, ma non può mettere in
discussione la necessità degli accertamenti, né può richiedere le informazioni contenute nel
fascicolo della Commissione.
Si può, perciò, sostenere che con tale disposizione si abbia un indebolimento della tutela
giurisdizionale dei singoli, poiché si limitano i poteri di cognizione preventiva del giudice
ordinario e si attribuisce il controllo successivo alla Corte di giustizia.
Rispetto all’articolo 20 concernente gli accertamenti presso gli uffici dell’azienda, in questa
ipotesi sono limitati i poteri degli agenti che non possono apporre sigilli o chiedere
spiegazioni su fatti o documenti relativi allo scopo e all’oggetto dell’accertamento.
Relativamente alla presente disposizione non si ritiene indispensabile un intervento del
legislatore nazionale che disciplini l’assistenza dei funzionari nazionali per tale forma di
accertamento, anche se lo stesso potrebbe risultare chiarificatore, soprattutto a garanzia del
rispetto del principio costituzionale dell’inviolabilità del domicilio (articolo 14 della
Costituzione, previsto inoltre dall’articolo 8 della Convenzione europea dei Diritti
dell’Uomo).
L’articolo 54 della Legge 52/96 è di per sé idoneo a garantire anche l’espletamento degli
accertamenti presso il domicilio degli amministratori delle imprese introdotti con l’articolo
21 del Regolamento.
In merito a quale sia l’autorità giudiziaria competente per il rilascio dell’autorizzazione, pare
potersi sostenere che si tratti del procuratore della Repubblica, in quanto così si prevede
all’articolo 52 del DPR del 26 ottobre 1972, n. 633 relativamente agli accertamenti che la
Guardia di finanza esegue con compiti di polizia tributaria ai fini dell'accertamento
dell'imposta sul valore aggiunto e delle imposte sui redditi, stessi poteri di cui si avvale
intervenendo nella presente materia38.
38
Secondo un autorevole interprete, invece, il giudice cui chiedere l’autorizzazione è il giudice civile ordinario, giudice
naturale di un diritto privatistico quale quello all’inviolabilità del domicilio. Ciò è affermato sostenendo, in via
interpretativa, che la peculiare autorizzazione rientri, preferibilmente, tra i provvedimenti presidenziali di volontaria
giurisdizione che può adottare il Presidente del Tribunale. In tal senso Berruti, “Gli strumenti di cooperazione tra
53
Mentre gli accertamenti svolti ai sensi degli articoli 20 e 21 sono all’interno di procedimenti
integralmente comunitari, le indagini effettuate dalle Autorità in base all’articolo 22 rientrano
in procedimenti ispettivi nazionali, a cui si applica il diritto nazionale sui poteri di
accertamento, che si inserisce nella più ampia procedura comunitaria per la constatazione
dell’illecito derivante da intesa o da abuso di posizione dominante (articolo 22, paragrafo 2).
In tal caso, perciò, i poteri degli agenti sono quelli previsti dalla normativa nazionale e non
quelli, che sarebbero più ampi per gli agenti italiani, attribuiti dall’articolo 20, paragrafo 2
del Regolamento agli agenti che assistono la Commissione in un proprio procedimento.
Vi è, poi, la previsione di forme di assistenza reciproca tra autorità nazionali di
concorrenza: un’Autorità può procedere a qualsiasi accertamento o altra misura di
acquisizione dei fatti in nome e per conto di altre autorità nazionali. Dunque, in
quest’ultima ipotesi siamo innanzi ad un procedimento ispettivo condotto secondo il diritto
di uno Stato membro all’interno di in un più ampio procedimento istruttorio regolato da un
altro diritto nazionale (articolo 22, paragrafo 1).
Siccome si tratta di una facoltà, è rimessa al legislatore nazionale la scelta di consentire
all’Autorità garante di collaborare con le altre autorità per lo svolgimento delle indagini e lo
scambio delle informazioni raccolte. Il mancato intervento del legislatore potrebbe minare
il funzionamento della Rete di Autorità che è stata politicamente approvata in sede di
Dichiarazione Comune, in quanto si lascerebbe alla discrezionalità dell’Autorità garante le
modalità di partecipazione di quest’ultima alla Rete.
2.6. I capitoli VI e VII del Regolamento 1/2003: le sanzioni e la prescrizione
Le disposizioni che disciplinano il potere sanzionatorio della Commissione
nell’applicazione del Regolamento 1/2003 sono l’articolo 23, in materia di ammende, e
l’articolo 24, in materia di penalità di mora. I successivi articoli 25 e 26 disciplinano, poi, la
prescrizione in materia di imposizione e di esecuzione di sanzioni da parte della
Commissione.
Il potere delle Autorità dei singoli Stati membri di comminare sanzioni nell’applicazione
degli articoli 81 e 82 del trattato è previsto dall’articolo 5 del Regolamento, che prevede che
le Autorità possano “comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal
diritto nazionale” (sottolineatura aggiunta). In tal modo, si è deciso di non armonizzare i
Commissione, autorità nazionali garanti e giudici nazionali”, scritto presentato all’Incontro di studio del CSM sul tema
La formazione dei giudici nazionali nel diritto comunitario della concorrenza, 17-19 marzo 2003, Roma,http://www.csm.it/webapp/incontri/incontri.dll.
54
sistemi sanzionatori nazionali in vigore nei singoli Stati membri, ma di prevedere che
ciascuna Autorità si attivi sulla base delle proprie norme procedurali nazionali in materia.
Nella Proposta di Regolamento si invitava, peraltro, i singoli Stati membri ad un
adeguamento dei singoli regimi sanzionatori nazionali, così affermando: “Benché la proposta di
Regolamento non preved[a] l'armonizzazione dei regimi nazionali di sanzione, i principi generali di diritto
comunitario richiedono che tali regimi siano adeguati per assicurare un' applicazione efficace.”
Ciò è ancora possibile in base all’articolo 35 del Regolamento ed alcuni Stati membri, ad
esempio Germania e Regno Unito, si sono interrogati sull’opportunità di modificare i
sistemi sanzionatori nazionali in materia di diritto della concorrenza.
Per quanto concerne la legislazione italiana in materia di sanzioni per violazione degli
articoli 81 e 82 del trattato va ricordato che trovano applicazione gli articoli 15 e 31 della
Legge 287/90.
Si può pacificamente sostenere che non sia necessario modificare tale normativa per
adeguarla agli analoghi poteri attribuiti dal Regolamento alla Commissione.
Infatti, in virtù delle modifiche apportate all’articolo 15 della Legge 287/90 dalla recente
legge del 5 marzo 2001, n. 57 (“Legge 57/2001”), entrata in vigore il 4 aprile 2001, il
sistema sanzionatorio italiano è stato modellato dal legislatore su quello comunitario, tanto
che l’Autorità garante ha già avuto modo di modificare la propria prassi decisionale in
materia di calcolo delle ammende, a partire dall’applicabilità delle nuove disposizioni in
materia, adottando provvedimenti, sia di applicazione della normativa nazionale sia di
quella comunitaria, in cui la sanzione è calcolata con gli stessi criteri adottati dalla
Commissione in base agli Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione
dell'articolo 15, paragrafo 3, del Regolamento 17 e dell'articolo 65, paragrafo 5 del trattato
CECA.
Infatti, con la Legge 57/2001 è stato eliminato sia il limite inferiore per la fissazione
dell’ammenda, nella misura dell’1% del fatturato, che limitava la discrezionalità dell’Autorità
garante, sia l’obbligo di tenere conto nel calcolo dell’ammenda del solo fatturato rilevante
dell’impresa nel mercato dei prodotti oggetto dell’intesa, con tutte le conseguenze derivanti
dall’esatta identificazione delle voci di bilancio da prendere in considerazione. Per cui,
attualmente, per la determinazione del quantum dell’ammenda da parte dell’Autorità garante,
nei casi di violazione degli articoli 81 e 82 del trattato, l’articolo 15 della Legge 287/90 non
differisce da quanto predisposto dall’articolo 23 del Regolamento per la Commissione.
55
Tuttavia, vi sono delle piccole differenze tra il sistema sanzionatorio applicabile
dall’Autorità garante e quello applicabile dalla Commissione.
Una prima differenza concerne l’ammontare delle ammende per inosservanza delle norme
procedurali previsto dall’articolo 14, comma 5 della Legge 287/90. Le sanzioni previste
dalla normativa nazionale sono in termini assoluti e non in misura percentuale come,
invece, all’articolo 23 del Regolamento. Poi, sono sanzionabili solamente le ipotesi di
rifiuto/omissione e di frode, visti i differenti poteri dell’Autorità garante. Solamente nel
caso in cui si decidesse di modificare l’articolo 14 della Legge 287/90 e di dotare anche
l’Autorità garante dei nuovi mezzi ispettivi di cui dispone la Commissione in base
all’articolo 20 del Regolamento, sarà necessario introdurre anche nella normativa nazionale
sanzioni per le imprese che si rifiutino di rispondere a domande orali nel corso delle
ispezioni o nel caso in cui vengano infranti i sigilli apposti dagli agenti.
Tuttavia, è da valutare se sia o meno necessario modificare la disposizione interna, in
particolare nella parte relativa agli importi previsti dalla stessa. Tali importi hanno per ora
dimostrato di avere ancora efficacia dissuasiva nei confronti delle imprese.
Non sembra, inoltre, necessario un intervento del legislatore nazionale in materia di
penalità di mora, dove bisogna integrare il contenuto della Legge 287/90 con quanto
previsto dalla legge 689/81, richiamata all’articolo 31 e dalla normativa sulle imposte dirette
sulla cui base possono essere comminate le penalità di mora.
Relativamente, poi, alle sanzioni da comminarsi alle associazioni di imprese l’Autorità
garante ha una posizione differente da quella della Commissione e non pare al momento
verosimile suggerire una modificazione della legislazione nazionale in proposito, né tanto
meno alla luce della prassi dell’Autorità garante e delle critiche da quest’ultima mosse al
Libro Bianco. L’Autorità garante, infatti, ha esplicitamente sostenuto che la proposta
contenuta nel Libro Bianco suscitasse serie perplessità, in quanto la previsione della
responsabilità in solido dei membri di un’associazione “non dovrebbe comportare il venir
meno del principio di proporzionalità tra la sanzione e l’impatto reale sulla concorrenza del
comportamento tenuto da ciascuna impresa”.39
Infine, alla luce di quanto affermato dall’Autorità garante relativamente al programma di
immunità della Commissione nelle proprie Osservazioni al Libro Bianco (così riconosce
l’Autorità garante: “la piena modernizzazione delle regole comunitarie di concorrenza e un effettivo
riorientamento dell’intervento della Commissione sui comportamenti più pericolosi per la concorrenza
39
Osservazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in merito al Libro Bianco sulla modernizzazione delle
norme per l’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato (“Osservazioni al Libro Bianco”), 01.03.2000, punto 34.
56
richiedono l’attenta considerazione di misure addizionali e complementari rispetto a quelle indicate nel
Libro Bianco. Tali misure comprendono: … la previsione di un sistema sanzionatorio più efficiente e, al
contempo, il rafforzamento dell’attuale programma di immunità, al fine di facilitare l’individuazione di
accordi segret”i, punto 35), è da valutarsi se sia necessario introdurre anche in Italia un
programma di immunità, allo scopo di facilitare l’individuazione di cartelli segreti anche da
parte dell’Autorità garante. Se si propendesse per l’introduzione, è da valutarsi se sarà più
opportuno operarla attraverso norme non aventi valore di legge – visto che a livello
comunitario si ha una Comunicazione della Commissione.
La flessibilità nella commisurazione di un’ammenda di cui gode attualmente l’Autorità,
dopo le modifiche all’articolo 15 apportate con la Legge 57/2001, fa sicuramente
propendere per l’attuabilità di tale modifica.
Peraltro, va aggiunto che l’articolo 25, in materia di prescrizione nel caso di imposizione di
sanzioni, integra nel Regolamento 1/2003 le disposizioni relative alla prescrizione
contenute nel regolamento (CEE) n. 2988/74. Di conseguenza il regolamento (CEE) n.
2988/74 non sarà più applicabile alle misure relative alle ammende o alle penalità di mora
di cui al Regolamento.
Vi è, però un aspetto significativo da rilevare dell’articolo 25 per quanto riguarda il
decentramento previsto dal Regolamento: il regolamento (CEE) n. 2988/74 prevede che la
prescrizione sia interrotta solo da atti degli Stati membri su richiesta della Commissione.
Quest'ultima condizione è eliminata, cosicché la prescrizione può essere interrotta anche da
misure adottate dalle Autorità nazionali nell'applicazione degli articoli 81 o 82 del trattato,
indipendentemente da qualsiasi richiesta della Commissione.
Gli effetti di tale previsione potranno essere valutati solamente dopo che si sarà potuto
verificare in concreto come funzionerà la Rete tra Autorità e lo scambio di informazioni
all’interno della Rete stessa.
L’articolo 26, poi, relativo alla prescrizione in materia d'esecuzione, come l'articolo 25,
integra nel Regolamento 1/2003 le disposizioni del regolamento (CEE) n. 2988/74 relative
alla prescrizione, effettuando solamente gli opportuni adattamenti.
Anche in quest’ultima ipotesi, la prescrizione può essere interrotta da atti degli Stati
membri, ma soltanto su richiesta della Commissione.
Gli articoli 25 e 26 sono direttamente applicabili ed efficaci. Alla luce del contenuto degli
stessi non vi sarà bisogno di alcuna modifica della normativa nazionale
57
2.7. Il capitolo VIII del Regolamento 1/2003: le audizioni e il segreto d’ufficio
L’articolo 27 del Regolamento disciplina le audizioni presso la Commissione.
Per quanto riguarda le Autorità nazionali vi è (i) la previsione che limita il diritto d’accesso
alle informazioni riservate e ai documenti interni delle Autorità, contenuta all’articolo 27,
paragrafo 2 del Regolamento e che non ha bisogno di alcun intervento del legislatore
italiano; e (ii) la previsione della facoltà delle Autorità di chiedere alla Commissione di
sentire altre persone fisiche o giuridiche, contenuta all’articolo 27, paragrafo 3 ed anche
questa sembra non abbia bisogno di alcun intervento normativo per la propria applicabilità.
L’articolo 28 concerne il segreto d’ufficio, ed è stato già in parte trattato supra. La presente
disposizione appare in linea ed integra quanto previsto a livello nazionale nel testo
dell’articolo 14, comma 3 della Legge 287/90 che tutela le notizie, le informazioni o i dati
riguardanti le imprese oggetto di istruttoria davanti all’Autorità garante nei riguardi delle
pubbliche amministrazioni. In particolare, con l’articolo 28 del Regolamento si tutelano
con il segreto d’ufficio tutte le informazioni che sono scambiate all’interno della Rete,
ovverosia per la cooperazione tra Commissione e Autorità, lo scambio di informazioni tra
Commissione e Autorità, e tra queste, le richieste dei giudici nazionali, le attività del
comitato consultivo, le audizioni e quanto strettamente necessario per constatare
l'infrazione.
Ai sensi dell'articolo 28, infine, anche i funzionari e gli agenti delle Autorità o che lavorano
sotto il loro controllo, e i rappresentanti e gli esperti nel Comitato Consultivo, sono tenuti
al segreto per le informazioni che per loro natura sono protette dal segreto d'ufficio, escluse
le eccezioni enumerate sopra.
Come già detto, se il legislatore italiano interverrà per disciplinare la partecipazione
dell’Autorità garante alla Rete, potrà cogliere l’occasione per disciplinare anche la
fattispecie dello scambio d’informazioni e, al limite, quella del segreto d’ufficio.
Nonostante l’utilizzo del verbo “possono” fatto all’articolo 28, paragrafo 1 del
Regolamento non è indispensabile un intervento normativo interno in merito.
2.8. Il capitolo IX del Regolamento 1/2003: i regolamenti di esenzione
Con l’articolo 29, paragrafo 2 del Regolamento viene riconosciuta alle Autorità nel caso di
accordi, decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate che producano effetti
incompatibili con l’articolo 81, paragrafo 3 sul territorio di uno Stato membro o in una
parte di esso qualificabile come mercato geografico distinto, la possibilità di revocare in uno
specifico caso il beneficio dell’esenzione per categoria, qualora accordi, decisioni e pratiche
58
concordate cui si applicano tali regolamenti abbiano tuttavia effetti incompatibili con
l’articolo 81, paragrafo 3 del trattato.
L’Autorità nazionale potrà così revocare il beneficio derivante da un regolamento
d’esenzione soltanto limitatamente al territorio del proprio Stato membro. Tali decisioni
delle Autorità sono, comunque, soggette all’obbligo di consultazione di cui all’articolo 11,
paragrafo 4 del Regolamento stesso.
Occorre notare come già da prima dell’emanazione del Regolamento 1/2003 l’Autorità
garante ha esercitato il potere di revoca, in base a quanto previsto dall’articolo 7 del
regolamento n. 2790/9940, fondato sulla delega contenuta nel regolamento del
Consiglio n. 19/1965, all’articolo 7, paragrafo 241, introdotto dall’articolo 1 del
regolamento n. 1215/1999, che le ha conferito il potere di revocare il beneficio
dell'esenzione per categoria in relazione ad accordi verticali che producano effetti
incompatibili con le condizioni stabilite dall'articolo 81, paragrafo 3, nel rispettivo territorio
o in una parte di esso, qualora tale territorio abbia le caratteristiche di un mercato
geografico distinto.
Si può ritenere che anche nell’esercizio del potere attribuito all’Autorità garante dall’articolo
29 del Regolamento, la stessa debba assicurare che l'esercizio di tale potere di revoca non
pregiudichi né l'applicazione uniforme delle norme comunitarie in materia di concorrenza
all'interno del mercato comune, né la piena efficacia delle misure adottate in attuazione di
tali norme.
In proposito, dunque, non sembra necessario un intervento del legislatore nazionale.
Così dispone l’articolo 7 del regolamento n. 2790/99, in GUCE L 336 del 29.12.1999: “Quando, in un caso
determinato, gli accordi verticali cui si applica l'esenzione di cui all'articolo 2 producano effetti incompatibili con le condizioni
stabilite dall'articolo 81, paragrafo 3, del trattato, nel territorio di uno Stato membro, o in una parte di esso avente tutte le
caratteristiche di un mercato geografico distinto l'autorità competente di tale Stato membro può revocare il beneficio
dell'applicazione del presente regolamento su tale territorio, alle stesse condizioni previste dall'articolo 6”.
41 Così recita tale paragrafo: “Quando, in un caso determinato, gli accordi o le pratiche concordate previsti da un regolamento
adottato a norma dell'articolo 1 producono taluni effetti incompatibili con le condizioni dell'articolo 81, paragrafo 3 del trattato
nel territorio di uno Stato membro o in una parte di esso, avente tutte le caratteristiche di un mercato distinto, l'autorità
competente di tale Stato membro può, d'ufficio o su domanda della Commissione o di persone o giuridiche titolari di un legittimo
interesse, revocare il beneficio dell'applicazione di tale regolamento” (regolamento n. 19/1965 del 2 marzo 1965 in
GUCE P 36 del 06.03.1965, modificato dal regolamento n. 1215/1999 del 10.06.1999, in GUCE L 148 del
15.06.1999).
40
59
3. In sintesi: modifiche alla legislazione nazionale di applicazione degli articoli 2 e 3
della legge 287/90
Come emerge dalla trattazione svolta, stiamo realmente assistendo all’irruzione comunitaria
nel diritto amministrativo nazionale, con il diritto comunitario, nel caso di specie il
Regolamento 1/2003, che viene ad incidere sulla regolamentazione dei procedimenti e dei
poteri dell’Autorità garante, vincolando le scelte del legislatore nazionale42.
Ci si può domandare se in seguito a tale irruzione sarà necessario prevedere, nel dotare
l’Autorità garante dei poteri idonei a garantire un’applicazione effettiva del Regolamento, di
non attribuirle poteri nell’applicazione del diritto nazionale della concorrenza che siano
contrastanti con quelli necessari per l’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato o di
attribuirle poteri con le medesime finalità per l’applicazione del diritto nazionale ove non
previsti.
Ciò significa che bisognerà anche valutare se sarà necessario garantire una maggiore
conformità delle norme procedurali nazionali a quelle comunitarie. In linea di principio,
non è indispensabile, tanto più che la Legge 287/90 è stata costruita ed ha sino ad oggi
funzionato sulla base dell’esempio comunitario.
Tuttavia, si può immaginare che, in primis, a livello legislativo ci si chiederà se sarà
necessario o meno abolire il sistema nazionale di notifiche volte all’ottenimento di
un’autorizzazione in deroga.
In proposito, come già analizzato sopra, si ritiene che non vi siano obblighi per la
legislazione nazionale se non vi è pregiudizio al commercio tra gli Stati membri.
Parimenti, ci si dovrà chiedere se sarà opportuno modificare le competenze dei giudici
nazionali in materia di concorrenza.
Non va sottaciuta, poi, l’ambiguità dell’articolo 5, paragrafo 2 del Regolamento che lascia
spazio alle notifiche per l’ottenimento di attestazioni negative da parte delle Autorità
sull’applicabilità degli articoli 81 e 82 del trattato. Comunicazioni ai fini dell’attestazione
negativa possono rintracciarsi nel diritto nazionale all’articolo 13 della Legge 287/90 e
potrebbero essere estese alle informazioni di cui all’articolo 5, paragrafo 2 del Regolamento.
42
Cassese, “Il diritto amministrativo europeo presenta caratteri originali?”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2003, pag.
37 che afferma anche che: “in questo caso, normazione ed esecuzione si svolgono ambedue, in via principale, in sede comunitaria. Si
produce, così, un effetto di sostituzione del diritto amministrativo comunitario a quello nazionale. Quest’ultimo diventa recessivo o residuale,
mentre il suo posto è preso dal diritto amministrativo comunitario”.
60
Altri possibili interventi sulla normativa nazionale potrebbero riguardare il conferimento
all’Autorità garante, nell’applicazione degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90, del potere di
accettare gli impegni offerti dalle imprese e del potere di adottare rimedi comportamentali e
strutturali.
Infatti, l’Autorità garante ha fatto ricorso nella propria pratica sia
all’imposizione di rimedi sia all’accettazione di impegni.
Si riterrebbe opportuno, poi, riconoscere all’Autorità garante maggiore apertura nei
rapporti con le imprese, consentendole di fornire orientamenti informali alle singole
imprese che lo desiderino, nei casi che diano adito ad una reale incertezza perché
presentano quesiti nuovi o non risolti circa l'applicazione degli articoli 81 o 82 del trattato e
degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90.
Per quanto concerne l’adozione di misure cautelari, invece, si ritiene più opportuno, come
visto sopra, lasciare la competenza ai giudici. Semmai si propone di conferire la
legittimazione soggettiva all’Autorità garante.
Si ritiene, poi, opportuno un intervento del legislatore volto a garantire la cooperazione ed
il coordinamento della nostra Autorità garante con le altre autorità nazionali, peraltro,
anche conferendo alla stessa Autorità garante il potere di scambiarsi le informazioni con le
altre autorità.
Inoltre, in materia di ispezioni si potrà valutare se ampliare i poteri di accertamento
dell’Autorità garante per renderli omogenei con quelli della Commissione. Tuttavia, alla
luce delle garanzie riconosciute dal diritto nazionale, in particolare dall’articolo 14 della
Costituzione, si ritiene preferibile non modificare l’attuale normativa. Tutt’al più si potrà
pensare di conferirle i poteri di apporre sigilli a locali, libri o documenti aziendali.
Poi, la disposizione che disciplina il segreto d’ufficio nel diritto italiano può essere
conservata, in quanto con formulazione simile a quella del Regolamento. Probabilmente si
potrebbe chiarire in un testo con valore di legge i soggetti a cui tale segreto non sia
opponibile, ma tale misura è tutt’altro che necessaria e quali siano i confini del legal privilege
in Italia.
Per quanto attiene al potere sanzionatorio dell’Autorità garante non si ritiene necessario
alcun intervento. Infatti, il Regolamento lascia la materia alle Autorità e, peraltro, il sistema
sanzionatorio italiano è speculare a quello comunitario, ad eccezione che per le sanzioni
comminabili alle associazioni di imprese.
Infine, si può riflettere, alla luce di quanto avviene a livello comunitario ed in altri Stati
membri, se sia giunto il momento di ampliare le categorie di soggetti legittimati ad agire nei
61
processi civili in materia di concorrenza, comprendendovi oltre le imprese interessate anche
qualunque portatore di interesse.
4. Conclusione
Per concludere, si ritiene che così come il processo di modernizzazione a livello
comunitario è stato portato avanti attraverso la consultazione degli operatori del settore,
non sarebbe sbagliato, se tecnicamente possibile, fare altrettanto a livello nazionale per le
modifiche che si apporteranno alla normativa italiana di applicazione degli articoli 81 e 82
del trattato ed anche degli articoli 2 e 3 della Legge 287/90, visto che l’apertura e la
trasparenza offerte dalla Commissione attraverso il Libro Bianco, la Proposta di
Regolamento e la consultazione sugli stessi, hanno dato buoni frutti.
Comunque, il numero degli interventi del nostro legislatore potrà variare notevolmente e
volendo potrà anche essere ridotto allo strettamente indispensabile. Infatti, è proprio la
Proposta di Regolamento ad affermare che “non è necessario, ai fini dell'attuazione della riforma,
avviare un'armonizzazione su larga scala delle norme procedurali nazionali. È necessario invece regolare a
livello comunitario uno specifico numero di questioni che hanno un impatto diretto sul valido funzionamento
del sistema proposto”.
Di sicuro non si può escludere un intervento del legislatore per regolare l’esercizio dei
poteri riconosciuti all’Autorità garante, ma soltanto enumerati nel testo del Regolamento.
In proposito va, infine, ricordato quale limite alla necessarietà degli interventi del legislatore
quanto è stato affermato dalla Corte di giustizia. Quest’ultima ha chiarito nella sentenza
Fratelli Costanzo43 che le autorità nazionali hanno l’obbligo di salvaguardare l’efficacia del
diritto comunitario e nella sentenza Fantask44, relativamente ai rimedi disponibili per la
tutela del diritto comunitario, che essi dovrebbero essere equivalenti a quelli previsti per
tutelare quei diritti
Sentenza della Corte di giustizia del 22 giugno 1989, causa 103/88, Fratelli Costanzo c. Comune di Milano, in Raccolta 1989,
pag. 1839.
44 Sentenza della Corte di giustizia del 2 dicembre 1997, causa 188/95, Fantask e a. c. Industriministeriet, in Raccolta 1997,
pag. I-6783.
43
62
LE NUOVE FUNZIONI DI ORIENTAMENTO
DELLA COMMISSIONE EUROPEA E DELL'AUTORITÀ GARANTE
di Cristoforo Osti
1. Il problema
L'effetto più evidente del Regolamento sulla modernizzazione è stato quello di smantellare
il sistema preesistente, relativo alla comunicazione preventiva delle intese: oggi (al primo
maggio) tale comunicazione, per sentir affermare l'autorità di tutela che un'intesa è
perfettamente lecita (attestazione negativa: in tal limitato rispetto il sistema è applicabile
anche ai possibili abusi di posizione dominante, ex articolo 82), o è irrilevante (de minimis) o
merita un'esenzione individuale ex articolo 81.3, non è più possibile.
La posizione della Commissione, articolata nella sua Comunicazione sull'orientamento
informale per questioni nuove relative agli articoli 81 e 82 del Trattato CE, sollevate da casi
individuali, è che "le imprese sono generalmente in grado di valutare la legittimità dello loro
azioni"; pertanto, nulla di cui preoccuparsi. Ma è davvero così?
Io ritengo di no, e per svariate ragioni.
a) Lo stato della giurisprudenza, e ancor più della prassi decisionale amministrativa è, in
merito a molti e importanti istituti, estremamente confuso e ondivago. Alcuni esempi
recenti, che mi sono offerti dalla pratica professionale. Si immagini un sistema di scambio
di dati che si fondi su informazioni che provengano da un'agenzia statale deputata a
compiti di rilevamento statistico, la quale offra tali dati sul mercato; le informazioni siano
poi elaborate con l'aggiunta e sulla base di dati di pubblico dominio - perché, ad esempio,
appostati nei siti Internet delle varie imprese - e vengano infine diffuse, così elaborate e
completate, non solo alle imprese concorrenti e dalle quali i dati stessi originano, ma anche
al pubblico, ed alla stampa. Per tali dati esiste una reale domanda di mercato, che sarebbe
soddisfatta appunto dalla messa in opera del sistema in questione.
Ora, i tecnici del settore sanno che tale fattispecie contiene una serie di elementi che
puntano in direzioni (liceità e illiceità) completamente diverse. Tanto più alla luce di un
recente avvio di istruttoria dell'Autorità Garante ove si sostiene che anche la diffusione di
dati perfettamente pubblici è illecita, in quanto comporti un risparmio di costi per le
imprese che vi partecipano.
63
Si immagini ancora - e la finiremo qui, ché si potrebbe tirare avanti per settimane - una
clausola contenuta in un contratto di cessione di azienda, nella quale si conviene, in ragione
di un obbligo per l'acquirente di continuare a produrre per l'alienante un certo prodotto,
che richiede l'utilizzazione di una linea produttiva non separabile dal resto dell'azienda
ceduta che, su quel particolare prodotto, l'acquirente non potrà far concorrenza all'alienante
per un certo numero di anni. L'obbligo non sarà di regola considerato "accessorio", in
quanto nella relativa Comunicazione della Commissione si prevede che l'accessorietà valga
solo per gli obblighi posti a carico dell'alienante, non dell'acquirente. Le comunicazioni,
infatti, hanno avuto tra gli altri effetti anche quello di rendere le autorità di tutela assai poco
propense a entrare in valutazioni approfondite delle fattispecie, laddove si possano
richiamare ad un testo scritto che consente loro di non occuparsene. Peraltro, in assenza
della clausola, quella certa linea dovrebbe essere chiusa, e questo comporterebbe il venir
meno di una produzione offerta sul mercato in concorrenza con altre, per non dire della
perdita di posti di lavoro.
b) Ancora, la giurisprudenza e la prassi decisionale in materia di diritto concorrenziale si
evolvono con grande rapidità, e meglio sarebbe dire si espandono. Si pensi, ad esempio, al
caso già fatto dello scambio di informazioni, od alla posizione dominante collettiva o, oggi,
agli effetti unilaterali nei mercati differenziati o alla perenne evoluzione dell'applicazione del
diritto antitrust al settore pubblico. Di nuovo, tali continue e progressive incursioni in
settori sempre più vasti, rendono assai precaria la posizione delle imprese, e minano
fortemente la loro capacità di prevedere utilmente quale sarà la reazione delle autorità di
tutela.
c) Inoltre, la valutazione delle autorità di tutela dipende dall'attento esame di fatti
estremamente complessi; tale valutazione è assai difficile da compiere da parte di chi, come
le imprese interessate, non abbia gli strumenti a disposizione delle autorità per ottenere dati
dalle altre imprese sul mercato, o dai clienti, fornitori, enti pubblici e associazioni
industriali. Le imprese si troveranno spesso a dover formulare conclusioni sulla base di dati
di fatto assai incompleti, ricavati da deduzioni, previsioni e simulazioni spesso altamente
opinabili.
L'alta opinabilità, la estrema volatilità, il perenne modificarsi ed evolversi di giurisprudenza
e prassi, possono in concreto comportare un eccesso di deterrenza (ciò che nella teoria delle
decisioni si chiama falso positivo): le imprese non porranno in opera una serie di
comportamenti complessi, spesso concorrenzialmente innocui e anzi vantaggiosi, per tema
che un'autorità di tutela o una corte possano un giorno considerarli illeciti, con gli effetti
che conosciamo: sanzioni esemplari, spese legali ingentissime, danno all'immagine quasi
64
irreparabile, nullità dei contratti, risarcimento dei danni, sottoposizione a misure di urgenza,
restituzione dei profitti.
In ogni caso, il punto nodale della questione sta nella constatazione che la reale utilità della
comunicazione preventiva di intese e potenziali abusi, non sta tanto nel fatto che le autorità
di tutela siano le sole in grado di poter valutare la liceità di certi comportamenti, e che le
imprese, con tutte le limitazioni appena rivisitate, non possano compierlo autonomamente.
In realtà, ciò che interessa alle imprese, nella notevole volatilità ed opinabilità delle valutazioni
concorrenziali, non è tanto l'esame astratto della liceità di un comportamento, per quanto
compiuto dai più rinomati esperti della materia, ma la valutazione che in concreto della liceità di
quel comportamento farebbe l'autorità di tutela a ciò preposta, e questo proprio per evitare il rischio di
incorrere in quelle conseguenze (sanzioni, spese, danno all'immagine, risarcimenti, nullità, ingiunzioni …)
appena considerate. A nessuno, in realtà, importa di sapere quale sia la valutazione giusta. A
tutti, piuttosto, importa di sapere quale sia la valutazione dell'autorità di tutela.
2. Gli orientamenti
Ci si chieda ora, visto il problema appena illustrato, se questo possa essere risolto dalla
possibilità che la Commissione Europea dispensi alle imprese, come si accinge a fare, i
propri orientamenti su fattispecie particolari sottoposte volontariamente e preventivamente
alla sua attenzione (quel che in gergo si definisce l'attività di guidance della Commissione).
Si ricorda che tale l'attività trova il suo (unico) riscontro nel testo del considerando 38 del
Regolamento n. 1/2003, il quale prevede, piuttosto blandamente, che "nei casi che danno
adito ad una reale incertezza perché presentano quesiti nuovi o non risolti circa
l'applicazione di dette regole, è possibile che le singole imprese desiderino ottenere dalla
Commissione un orientamento informale. Il presente regolamento lascia impregiudicata la
capacità della Commissione di fornire un siffatto orientamento".
Ne consegue che l'orientamento è attività puramente informale. Non esiste un sistema come è nell'ordinamento americano - ove si distinguono orientamenti più formali (ad
esempio, rilasciati direttamente dal collegio dei componenti) e meno formali (quando
l'origine è nell'apparato burocratico, nei funzionari). Ne consegue anche, e forse in primo
luogo, che la Commissione può, ma certamente non è tenuta ad impegnarsi in tale attività
consultiva.
La Comunicazione della Commissione, in ogni caso, si segnala più per il suo tentativo di
descrivere quel che la Commissione non accetterà di valutare, che per il suo fornire
65
chiarimenti sull'attività positiva della Commissione stessa. Così si leggono infatti quei passi
che illustrano la volontà della Commissione di fornire orientamenti laddove:
a) si tratti di "un problema di applicazione del diritto che non è chiarito né nel quadro
giuridico comunitario esistente [...] né negli orientamenti generali pubblicamente
disponibili", o
b) di un aspetto per il quale la giurisprudenza, “la prassi decisionale o le lettere di
orientamento precedenti” non forniscono precedenti, e
c) l'operazione abbia una rilevante importanza economica, e
d) la lettera di orientamento possa essere preparata sulla base delle informazioni fornite,
non essendo, cioè, necessaria, alcuna indagine supplementare.
Come si sa, poi, la lettera di orientamento non è vincolante per la Commissione stessa.
Come chiarito nel punto 24 della Comunicazione, la lettera infatti non esclude che la
Commissione esamini lo stesso accordo o la stessa pratica in un successivo procedimento ai
sensi del Regolamento n. 1/2003, in particolare in seguito a una denuncia. In tal caso, e
fatti salvi gli eventuali cambiamenti nei fatti sottostanti, gli elementi nuovi sollevati dalla
denuncia, gli sviluppi nella giurisprudenza degli organi giurisdizionali comunitari o
“mutamenti più generali della politica della Commissione”, quest’ultima “terrà conto di una
lettera di orientamento precedente”.
Se si confrontano tali previsioni con il sistema, che presenta parecchi punti in comune con
quello in esame, delle business review letters (rilasciate dall'Antitrust Division del Department of
Justice) o advisory opinions (emesse dalla Federal Trade Commission) americane, ci si convince
(confortati anche dal parere dell'American Bar Association in proposito), che le lettere di
orientamento comunitario sono caratterizzate tanto da un estremo rigore dei requisiti di
ammissibilità della richiesta, quanto da una estrema discrezionalità in capo della
Commissione nel rilasciare la relativa lettera. Tale convincimento è rafforzato dalla
constatazione che la richiesta di orientamento non può essere fatta per "casi ipotetici" e
comunque per transazioni che non abbiano raggiunto uno "stadio di sviluppo sufficiente",
e che la Commissione non è soggetta ad alcun termine nell'informare le parti se una lettera
sarà o meno rilasciata.
Vale ora la pena di interrogarsi anche sul punto se vi sia effettivamente qualcosa nel trattato
e in genere nell'ordinamento comunitario, che conferisca alla Commissione il potere di
scrivere le lettere di orientamento di cui è questione. La Commissione sembra
implicitamente rifarsi alla giurisprudenza Automec, specie laddove descrive la propria
66
discrezionalità nel rilascio dell'orientamento con la frase, a se stessa riferita: "se lo giudica
opportuno e subordinatamente alle sue priorità in materia di applicazione". E tuttavia, in
Automec, la Corte, nel costruire la nozione di interesse comunitario e riconoscere
correlativamente il potere della Commissione di graduare le proprie priorità, si confrontava
con una fattispecie:
a) ove l'obbligo in discussione era quello per la Commissione di avviare un'istruttoria sulla
base di denunce di terzi, di cui è comprensibile immaginare una limitazione, e non certo
quello ben più pregnante di attestare la non applicabilità del diritto concorrenziale o la
esentabilità di un certo comportamento su richiesta di una parte che quel comportamento
vuole concretamente tenere o prevedere;
b) che verteva sulla necessità di adottare una decisione, non certo sulla assai, di nuovo, più
blanda ipotesi della redazione di una lettera di orientamento;
c) ove la Corte considerava che, in ogni caso, e cioè anche stante la discrezionalità della
Commissione, incombeva agli Stati membri di assicurare una adeguata tutela degli interessi
in parola in sede nazionale.
Ora, è chiaro che, nel nostro caso, le ragioni di opportunità che inducono a riconoscere alla
Commissione una ampia discrezionalità nell'avviare una procedura e adottare una decisione
in funzione di una denuncia, non possono applicarsi all'esame delle richieste di
orientamento in merito alla liceità di un'intesa. In ogni caso, laddove, come nel nostro
sistema, manchi l'esercizio di una corrispondente funzione in capo all'autorità nazionale, la
previsione di un tanto largo potere discrezionale della Commissione nel decidere se
rilasciare una semplice lettera di orientamento, rischia di contravvenire al principio espresso
dalla Corte, secondo il quale è necessario assicurare comunque una adeguata tutela a livello
nazionale.
3. Soluzione
Se un problema esiste, e la soluzione attualmente divisata non pare sufficiente né adeguata,
ci si chieda quale potrebbe invece essere il sistema per assicurare alle imprese una adeguata
e compiuta protezione.
Una possibilità è che tale funzione venga assolta dall'Autorità nazionale. Si tratta, in realtà,
di una possibilità piuttosto remota. Da una parte, infatti, l'Autorità Garante ha da tempo
comunicato alle parti private che essa non si ritiene investita dell'obbligo di fornire attività
67
consultiva e ha, di fatto, cessato di prestare tale assistenza - laddove per lungo tempo,
seppure con una certa discontinuità tra direzione e direzione, tale assistenza era stata
fornita, spesso per iscritto. Dall'altra, laddove l'Autorità volesse, come appare probabile,
indurre il legislatore a modificare le norme interne per allinearle maggiormente a quelle
comunitarie, appare poco verosimile ipotizzare, come si fa da taluni, un'abrogazione
dell'articolo 4, in materia di esenzione di intese, ed una sopravvivenza dell'articolo 13, che
prevede che le intese possano comunque essere comunicate.
In ogni caso, esistono a mio avviso alcune buone ragioni per richiedere che l'Autorità
Garante si muova nel senso di una maggiore apertura verso forme di guidance. Tra queste, si
possono ricordare:
a) il principio, sopra ricordato, espresso dalla Corte di Giustizia nella giurisprudenza del
caso Automec, dell'obbligo degli Stati membri, in tutte le loro articolazioni, di provvedere ad
una tutela efficace delle parti nell'ordinamento concorrenziale;
b) il generale principio di buona amministrazione;
c) certi esempi ben radicati nel nostro ordinamento, tra i quali si possono citare:
i) per i casi in cui l'orientamento è previsto dalla legge:
- l'attività consultiva del Garante per la Privacy;
- il c.d. "interpello" generale, previsto a favore del contribuente dall'articolo 11 della
l. n. 212 del 2000; tale esempio è assai interessante, in quanto l'obbligo
dell'amministrazione è assai più pregnante di quello che la Commissione sembra
contemplare a proprio carico; l'interpello, infatti, è rilasciato "qualora vi siano
obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni";
la norma regolamentare, poi, specifica che tali condizioni non ricorrono quando è
già stata data interpretazione di fattispecie corrispondenti, pubblicata sul sito
dell'amministrazione ed ancora colà disponibile, nel qual caso, tuttavia,
l'amministrazione è tenuta a rispondere indicando al contribuente il documento che
fornisce la soluzione interpretativa ricercata. Inoltre, la risposta dovrà essere - e
questo è di nuovo la legge a prevederlo - "scritta e motivata"; essa "vincola con
esclusivo riferimento alla questione oggetto dell'istanza di interpello e limitatamente
al richiedente"; il parere deve essere rilasciato entro 120 giorni dalla richiesta e, in
caso di mancata risposta, si prevede il silenzio assenso sull'interpretazione proposta
dall'istante; in tal caso, il contribuente non potrà essere sanzionato, e ogni atto
difforme dell'amministrazione è considerato nullo.
68
ii) In altri casi, l'attività consultiva è prestata anche senza previsioni di legge. Tale è
il caso, ad esempio, della Consob, che presta un'attività assai apprezzata in tal
rispetto dagli operatori economici.
d) Nell'ordinamento americano, poi, la guidance è pure, abbiamo visto, contemplata. Poiché
le analogie con il sistema che si vuole attuare nell'ordinamento comunitario sono evidenti, è
utile ricordare quali sono appunto le caratteristiche di tale istituto in quel sistema.
In particolare, si consideri che nella business review letter l'agenzia "dichiara le sue attuali
intenzioni rispetto ad un comportamento specifico"; l'agenzia non può rifiutarsi di prestare
tale consulenza a meno che la descrizione non sia sufficientemente accurata, o incompleta,
o perché non è certa che taluni problemi concorrenziali inerenti il comportamento in
questione siano stati risolti o, infine, vi sono troppe incertezze sulla correttezza della
descrizione dei fatti. I tempi previsti per il rilascio della lettera sono molto brevi. Ogni
lettera, poi, viene pubblicata sul sito dell'agenzia, e a chi lo visiti sono forniti anche indici
che consentono una pratica consultazione di tutti i precedenti.
Per quanto riguarda, poi, le advisory opinions, si è detto della distinzione tra pareri formali,
rilasciati dalla FTC stessa (questi si riferiscono a questioni di fatto o diritto significative o
nuove in assenza di un chiaro precedente della FTC o di un giudice, ove anche l'oggetto
della richiesta e la conseguente pubblicazione del parere della FTC sia di interesse
significativo); e i pareri rilasciati dallo staff, ove tali rigorosi limiti non sono applicabili. Si
osservi al proposito che le condizioni poste al rilascio delle lettere di orientamento della
Commissione assomigliano molto più alle advisory opinions formali, e questo benché, nel
sistema comunitario, la guidance sia meramente fornita da funzionari della Commissione, il
coinvolgimento dei commissari stessi non essendo nemmeno previsto. Si prevede anche
che la FTC possa revocare il parere - cosa che, finora, sembra non sia mai stata fatta, ma
essa si asterrà dall'avviare una procedura di infrazione nei confronti di coloro che abbiano
fatto affidamento in buona fede sul parere, e abbiano fornito in tal contesto le informazioni
appropriate. Anche qui, le differenze con il progettato sistema comunitario sono evidenti,
ove le possibilità per la Commissione di discostarsi dal parere sono molto più estese, e assai
inferiore è correlativamente la tutela apprestata alle parti di buona fede.
Infine, esiste la possibilità, sulla quale meriterebbe forse intrattenersi più a lungo, che il
passo indietro della Commissione possa essere scongiurato dal ricorso, non all'autorità
amministrativa, ma allo stesso giudice nazionale - le competenze del quale in materia di
applicazione del diritto di concorrenza sono state, si sa, estese dal Regolamento in esame.
Questo, in particolare, attraverso l'istituto dell'accertamento negativo (correntemente ammesso
dalla nostra giurisprudenza di legittimità e di merito, specie in materia brevettuale e di
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concorrenza sleale: v. da ultimo Cass., S.U., 19 dicembre 2003, n. 19550), e, soprattutto,
attraverso la possibilità di attivare tale istituto in via di urgenza (cfr. tra tutti A. PROTO
PISANI, Le tutele giurisidizionali dei diritti, Napoli, 2003, 48 ss.), il che solo consentirebbe di
evitare quei ritardi processuali, tipici del giudizio ordinario, che vanificherebbero l'utilità del
ricorso ad una tale soluzione. Il problema forse più spinoso è quello di stabilire se esista un
interesse ad agire anche in mancanza di una controversia concreta e, per dir così,
preventivamente. Si può solo osservare che tale interesse può ravvisarsi nel caso in
questione, laddove lo si interpreti, alla luce della giurisprudenza di legittimità, quale
"esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile" (cfr. da ultimo Cass.,
Sez. I, 23 maggio 2003, n. 8200).
70
LA NORMATIVA SULLE INTESE: CAMBIAMENTI E COMPLEMENTI
di Alberto Pera
1. Introduzione
La modernizzazione del diritto antitrust, culminata nell’adozione del Regolamento 1/2003
(“Regolamento”), rappresenta senza dubbio la più rilevante riforma procedurale del diritto
della concorrenza a partire dall’adozione del Regolamento 17/62. Essa ha comportato
l’adozione di rilevanti innovazioni sostanziali ed applicative in vari campi. In particolare, il
campo in cui l’innovazione è stata maggiore è quello delle intese, interessato dalla
importante introduzione del principio dell’ “eccezione legale” e dall’abolizione dell’obbligo
di notifica preventiva, ai fini dell’esentabilità.
Il passaggio del sistema comunitario da un sistema di autorizzazione preventiva delle intese
esentabili ad un sistema nel quale la valutazione della eventuale restrittività degli accordi
interviene solo ex post ha impatto sul sistema normativo nazionale, almeno da due punti di
vista: da un primo punto di vista sostanziale, in quanto il cambiamento del regime
normativo comunitario di riferimento richiede di riesaminare la relazione tra gli artt. 2 e 4
della l. 287/90; da un secondo punto di vista, che potremmo definire “procedurale”, si
pone invece il problema dell’adeguatezza delle procedure nazionali in relazione alle
previsioni sostanziali, nonché alle prassi procedurali comunitarie.
In quel che segue ci si concentra sugli aspetti procedurali. In particolare, dopo aver
brevemente esaminato gli aspetti sostanziali, si approfondiranno due temi in un’ottica di
riforma legislativa: se sia necessario abolire la possibilità per le imprese di comunicare le
intese intercorse (attualmente prevista dall’articolo 13 della legge 287/90) o se invece questa
possa essere preservata; e l’opportunità di modificare il regime sanzionatorio, così da
consentire l’introduzione di programmi di “clemenza”.
2. L’adeguamento dell’ordinamento nazionale al nuovo sistema di eccezione legale
delle intese
In primo luogo, è bene affrontare la questione preliminare se sia opportuno un
adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria da un punto di vista
sostanziale. La mia risposta sarebbe certamente sì. E’ ben noto che il principio
71
dell’uniformazione al diritto comunitario, che è alla base della normativa italiana della
concorrenza [e ciò sia nella lettera della norma, che nelle previsioni sostanziali (artt. 2, 3, 4 e
6) che parafrasano le rilevanti norme comunitarie; che nell’interpretazione della stessa,
come tra l’altro codificato dall’articolo 1, comma 4, della l. 287/90] ha dato ottimi risultati e
ha contribuito all’efficacia nella sua applicazione. Non appaiono quindi esserci buone
ragioni per discostarsi da questo fondamentale criterio guida nel processo di revisione dalla
normativa nazionale, e quindi per non adeguare anche la disciplina sostanziale delle intese
al nuovo sistema comunitario di “eccezione legale”.
D’altronde, non mi pare che, nel contesto delineato dal Regolamento, soluzioni diverse
abbiano molto spazio. Infatti, l’esigenza di convergenza tra le norme comunitarie e quelle
nazionali conduce ad una diffusa applicazione del diritto comunitario. A conferma del
limitato campo di applicazione delle norme nazionali, lo stesso articolo 3 del Regolamento
prevede espressamente una più estesa applicazione della disciplina comunitaria, per i casi
rientranti nel campo di applicazione dell’articolo 81 del Trattato, disponendo che “[q]uando
le autorità garanti degli Stati membri o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione nazionale in
materia di concorrenza ad accordi (…) ai sensi dell’articolo 81, paragrafo 1, del trattato (…) esse
applicano anche l’articolo 81 del trattato a siffatti accordi (…)”. Inoltre, per le intese, l’applicazione
della normativa nazionale non può condurre a risultati divergenti da quelli a cui
condurrebbe l’applicazione della normativa comunitaria (articolo 3 par. 2).
D’altro canto, non bisogna dimenticare che, esaurito l’ambito di applicazione dell’articolo
81 del Trattato, i casi destinati ad essere trattati secondo la normativa nazionale
assumeranno un ruolo residuale. Infatti, la Comunicazione della Commissione sulla nozione di
pregiudizio al commercio tra Stati membri sembra favorire un approccio estensivo dei casi di
applicazione dell’articolo 81 del Trattato. Oltre a ritenere che la propria competenza
sussista in tutti i casi di accordi o pratiche che incidono sulla concorrenza in più di tre Stati
membri (cfr. Comunicazione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della
concorrenza, § 14), la Commissione sembra prospettare un’ampia interpretazione del criterio
di “pregiudizio al commercio tra gli Stati membri” e, di conseguenza, un’applicazione più intensa e
diffusa del diritto comunitario della concorrenza. Peraltro, dopo avere ribadito che le
pratiche relative al territorio di un solo Stato membro, siano esse cartelli, accordi di
cooperazione, accordi verticali o abusi, possono pregiudicare il commercio intracomunitario (§ 77), la Comunicazione specifica che tale ipotesi può verificarsi qualora “il
volume delle vendite pregiudicate [è] significativo rispetto al volume globale delle vendite dei prodotti
interessati all’interno dello Stato membro in questione” (§ 90).45 In sostanza, sono esclusi dal campo
45
E’ interessante notare come la Commissione fornisca ulteriori criteri alla luce dei quali definire la natura incisiva di una
pratica limitata al territorio di solo Stato membro: non occorre considerare l’estensione geografica della pratica, né le
72
di applicazione dell’articolo 81 del Trattato unicamente gli accordi aventi un’estensione
locale, che non pregiudicano una parte sostanziale del mercato nazionale (§ 91).
In questo contesto, non sembra sinceramente utile o necessario abbandonare quello che ha
costituito il principale parametro di riferimento dell’intervento nazionale, vale a dire
l’obiettivo di assicurare una piena consistenza tra l’opera di tutte le autorità nazionali di
concorrenza e quella della Commissione, nell’applicazione dell’articolo 81 del Trattato.
3. Cambiamenti: la comunicazione delle intese
Alla luce di quanto esposto possiamo affrontare il tema se una rivisitazione della disciplina
nazionale delle intese allo scopo di garantirne il pieno adeguamento al regime comunitario
dell’eccezione legale richiede anche l’eliminazione dalla normativa italiana della previsione
di cui all’articolo 13 della l. 287/90. Si tratta della possibilità per le imprese di comunicare le
intese, cui segue, nell’attuale formulazione della legge, la decadenza dell’esercizio dei poteri
istruttori dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“Autorità”) che non siano
stati esercitati entro il termine di 120 giorni. Si tratta di un tema di carattere essenzialmente
procedurale che non riguarda esclusivamente l’applicazione della normativa nazionale, ma
anche quella dell’articolo 81 del Trattato. Infatti, preme notare che il sistema contemplato
dalla disposizione in esame, non consiste nella notifica degli accordi a fini autorizzatori, ai
sensi dell’articolo 4 della normativa italiana, corrispondente all’articolo 81(3), ma nella
comunicazione delle intese finalizzata ad ottenere una valutazione delle stesse ai sensi
dell’articolo 2 della l. 287/90, la cui formulazione corrisponde a quella dell’articolo 81(1) del
Trattato. Pertanto, il meccanismo previsto dall’articolo 13 della l. 287/90, come dimostrato
dalla prassi dell’Autorità, prescindendo da un’eventuale richiesta di autorizzazione in deroga
presentata dalle parti, risulta già compatibile con una valutazione ex post delle intese: anzi è
applicato a intese che, in quanto non interessate dall’esenzione, dovrebbero sempre essere
valutate ex-post. Un tale meccanismo non appare essere in contrasto con l’interpretazione
data ora all’articolo 81. Pertanto, sembra opportuno verificare se questo meccanismo sia
compatibile con una valutazione ex post delle intese sulla base del criterio della “eccezione
legale”, non solo ai sensi della normativa nazionale, ma anche ex articolo 81 del Trattato.
D’altronde, data la limitata rilevanza della normativa nazionale in precedenza prospettata, la
comunicazione delle intese avrebbe rilievo solo se essa avesse rilievo anche ai fini
dell’applicazione dell’articolo 81.
quote di mercato delle parti dell’accordo, in quanto è solo l’entità del volume delle vendite interessate dalla pratica ad
essere rilevante (§ 90).
73
Al riguardo, occorre ricordare che il leit motiv della modernizzazione del diritto della
concorrenza è stato, come accennato, il passaggio da un regime di analisi ex ante delle intese
comunicate volontariamente ad un sistema nel quale la restrittività delle intese viene
valutata ex post. Si sostiene che la possibilità per le imprese di comunicare le intese alla
Commissione è esclusa dal Regolamento. Questa esclusione viene ritenuta inerente al
sistema dell’eccezione legale piuttosto che allo speciale ruolo attribuito alla Commissione
nel complessivo sistema di applicazione del diritto della concorrenza comunitario.
Muovendo da tali premesse, si conclude che la comunicazione delle intese alle autorità
nazionali dovrebbe essere parimenti esclusa.
In realtà, questa conclusione andrebbe verificata. Infatti, può osservarsi che: i) la genesi del
Regolamento mostra che il venir meno della possibilità di comunicazione delle intese è
dovuta essenzialmente a ragioni di efficiente gestione burocratica; ii) l’omissione di una tale
previsione nel Regolamento non esclude necessariamente la compatibilità di una
comunicazione delle intese con il sistema dell’eccezione legale in ambito nazionale; iii) la
(peraltro solo parziale) esclusione di tale possibilità nei procedimenti dinanzi alla
Commissione dipende dal particolare ruolo rivestito da questo organismo
nell’amministrazione della politica comunitaria della concorrenza; iv) d’altronde, la
comunicazione delle intese risponde ad esigenze di mera opportunità; v) nel nuovo contesto
giuridico non dovrebbe neanche temersi che il contenuto della comunicazione preventiva
dia luogo ad un eccessivo carico di lavoro per le autorità nazionali.
3.1
La genesi del Regolamento
Come è noto, il Regolamento è il frutto di un lungo dibattito iniziato con la pubblicazione,
nel 1999, del Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli artt. 85 e 86 del
Trattato (“il Libro Bianco”). Si ricorderà come all’origine dell’elaborazione della proposta
della Commissione vi fossero serie preoccupazioni riguardanti tanto l’opportunità di
un’applicazione decentrata della normativa quanto la mole di lavoro determinata dalla vasta
affluenza di notifiche che il sistema di autorizzazione preventiva implicava a carico della
Commissione. Al fine di risolvere tali problemi, il Libro Bianco suggeriva l’adozione di
quattro differenti approcci: (i) una più ampia applicazione della rule of reason nell’attuazione
del dettato di cui all’articolo 81(1) del Trattato; (ii) un decentramento dell’applicazione
dell’articolo 81(3) del Trattato mediante una devoluzione di competenze alle autorità
nazionali per la tutela della concorrenza; (iii) l’introduzione di un sistema di eccezione
legale; (iv) una semplificazione delle procedure. In nessuno di questi casi il congegno della
comunicazione delle intese veniva considerato incompatibile con il funzionamento del
sistema.
74
A conferma di questa impostazione, va peraltro osservato che la stessa Commissione
ipotizzava un mantenimento residuale del regime delle notifiche, per alcune tipologie di
accordi. Inoltre, la netta riduzione dell’ambito del possibile ricorso alle notifiche non
rispondeva ad una logica di coerenza interna del sistema ma ad una pura finalità di
convenienza burocratica. In questa prospettiva, l’adozione di un sistema di eccezione legale
rappresenta una scelta puramente pragmatica finalizzata ad ottenere un alleggerimento
procedurale nel controllo amministrativo delle intese. Tale soluzione, successivamente
enucleata nel Regolamento (articolo 1), pur non consentendo esplicitamente un
accertamento della rilevanza ai fini dell’articolo 81(1) di intese preventivamente comunicate,
tuttavia non lo esclude a priori.
3.2
Il regolamento esclude la comunicazione delle intese alle autorità nazionali?
Il Regolamento attribuisce poteri diversi alla Commissione e alle autorità nazionali.
Per quanto riguarda i poteri della Commissione, ai sensi degli artt. 7 e 8 del Regolamento
questa può, mediante decisione: (i) constatare un’infrazione all’articolo 81 del Trattato e
richiedere alle imprese di porvi fine; (ii) procedere alla constatazione di un’infrazione già
cessata; (iii) adottare rimedi comportamentali o strutturali; (iv) adottare misure cautelari. Si
tratta, in effetti, di poteri, a prima vista, incompatibili con un sistema di comunicazione
delle intese.
Tuttavia l’articolo 10 del Regolamento apre la possibilità ad un intervento della
Commissione dichiarativo di inapplicabilità dell’articolo 81, nella misura in cui stabilisce che
“[p]er ragioni di interesse pubblico comunitario relative all’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato,
la Commissione, d’ufficio, può stabilire mediante decisione che l’articolo 81 del trattato è inapplicabile a un
accordo (…), o perché le condizioni di cui all’articolo 81, paragrafo 1, del trattato non sono soddisfatte, o
perché sono soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 81, paragrafo 3, del trattato.”
A ciò si aggiunga che, il considerando 38 del Regolamento dispone che: “[n]ei casi che danno
adito ad una reale incertezza perché presentano quesiti nuovi o non risolti circa l’applicazione [delle regole
di concorrenza comunitaria] è possibile che le singole imprese desiderino ottenere dalla Commissione un
orientamento informale. Il presente regolamento lascia impregiudicata la capacità della Commissione di
fornire un siffatto orientamento.” Tali previsioni lasciano intravedere che, in relazione a
questioni di interesse comunitario, la possibilità di ricorrere ad una comunicazione
preventiva delle intese non è esclusa in assoluto, ma unicamente nella misura in cui
consente alla Commissione di concentrarsi sui casi di maggiore rilievo.
75
In sostanza, il legislatore comunitario si è reso conto che l’eliminazione della possibilità di
comunicazione delle intese, al fine di accertare la loro eventuale non restrittività ( ex
articolo 81(1) del Trattato) o esentabilità ( ex articolo 81(3) del Trattato) avrebbe potuto
creare gravi problemi di incertezza ed ha cercato un rimedio. E’ allora lecito il dubbio che
l’incompatibilità tra comunicazione ed eccezione legale esista davvero sul piano dei principi,
e quindi debba essere presunta anche a livello nazionale.
Con riferimento ai poteri spettanti alle autorità nazionali, il primo paragrafo dell’articolo 5
del Regolamento specifica che esse dispongono di poteri sanzionatori volti ad imporre
divieti, ordinare misure interinali e accettare impegni. Le stesse possono, inoltre, irrogare
sanzioni, in virtù del potere loro attribuito dalla legge nazionale. Tuttavia, rileva
maggiormente, ai fini della presente analisi, il secondo paragrafo dell’articolo 5 il quale
dispone che le autorità nazionali “qualora, in base alle informazioni di cui dispongono, non sussistono
le condizioni per un divieto, possono anche decidere di non avere motivo di intervenire”.
In effetti, l’articolo 5(2) del Regolamento ha una portata ambigua perché la lettera della
norma se, per un verso, lascia presumere che le autorità possano rilasciare una sorta di
“decisione di non luogo a procedere” o di “dichiarazione di assenza dei presupposti per procedere
all’istruttoria”, per l’altro, non specifica le modalità di reperimento delle informazioni che
costituirebbero il fondamento di tale atto. Preme notare, infatti, che un provvedimento di
questo tipo non richiede necessariamente una denuncia o un intervento d’ufficio, ben
potendo configurarsi come la conseguenza di una comunicazione volontaria.
Tenuto conto delle disposizioni relative ai poteri degli organi di concorrenza, si potrebbe
quindi concludere sostenendo che sebbene il Regolamento non preveda espressamente, per
i casi di rilevanza comunitaria decisi in ambito nazionale, un congegno assimilabile
all’articolo 13 della l. 287/90, è pur vero che l’articolo 5(2) non sembra porsi in contrasto
con il fatto che l’esercizio di questo potere possa originare da una conoscenza preliminare
delle intese comunicate su base volontaria.
3.3
Il ruolo peculiare della Commissione e quello delle autorità nazionali
Nel contesto della valutazione della compatibilità del sistema nazionale di comunicazione
volontaria delle intese con il nuovo modello di enforcement dell’art 81 del Trattato CE, è bene
soffermarsi sulle ragioni che hanno spinto la Commissione ad escludere apparentemente la
possibilità di comunicazione delle intese che pure, in passato, era ammessa ai sensi
dell’articolo 2 del Regolamento 17/62.
76
Come risulta chiaramente sia dal Libro Bianco che dalle premesse del Regolamento,
l’introduzione di un sistema di eccezione legale rappresenta una scelta di politica di diritto
della concorrenza effettuata dalla Commissione al fine di destinare le proprie risorse ai casi
più gravi, quali cartelli sui prezzi e accordi di spartizione del mercato. A sostegno di questo
orientamento, la Commissione ha sottolineato la necessità di salvaguardare il suo particolare
ruolo propulsivo nella promozione e nell’evoluzione del diritto comunitario della
concorrenza e, come anticipato, ha espressamente usato, talvolta anche con eccessiva
enfasi, l’argomento dell’insostenibile mole di lavoro e delle lentezze burocratiche causate
dall’ingente numero di notifiche.
Un simile argomento non sembra validamente riferibile anche alle autorità nazionali di
concorrenza e le ragioni per cui è lecito credere che sia così sono facilmente percepibili: la
scelta della Commissione è supportata dalla giurisprudenza comunitaria, che le ha
riconosciuto il potere di operare scelte di politica della concorrenza volte alla definizione
degli obiettivi principali da perseguire. In effetti, nella sentenza Automec del 1992, il
Tribunale di primo grado, nel ricondurre la discrezionalità di cui gode la Commissione alla
sua “funzione generale di vigilanza”, ha infatti riscontrato come essa“assegni gradi di priorità
differenti alle questioni che vengono sottoposte al suo esame (…)”46.
I principi di cui alla citata sentenza sono ulteriormente sviluppati nella Comunicazione del
1997 relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni nazionali per l’applicazione degli
articolo 85 e 86 del Trattato47. Con specifico riferimento ai poteri di attuazione diretta degli
artt. 81(1) e 82 del Trattato CE negli ordinamenti nazionali, la Comunicazione enfatizza il
ruolo “sussidiario” attribuito alle autorità nazionali che, in ragione della maggiore vicinanza
alle attività delle imprese sottoposte al loro controllo, rivestono una posizione più incisiva
rispetto alla Commissione nella tutela della concorrenza. Alla luce di queste considerazioni,
è comprensibile l’invito della Commissione alle imprese a rivolgersi più spesso alle autorità
garanti della concorrenza degli Stati membri. Tuttavia, l’efficacia dell’azione delle autorità
nazionali è strettamente correlata ai poteri di accertamento, agli strumenti di diritto e alle
sanzioni di cui esse dispongono. Peraltro, sulla base di questi criteri, la Comunicazione
prevede il diritto della Commissione di respingere una denuncia prescrivendo però, per tale
ipotesi, un obbligo di motivazione della decisione in oggetto in merito sia alla mancanza o
all’insufficienza di interesse comunitario, sia alle concrete possibilità di“salvaguardare in
maniera soddisfacente i diritti del denunciante” in ambito nazionale (§§ 43-45 della
Comunicazione).
46 Cfr. sentenza del Tribunale di primo grado del 18 settembre 1992, T-24/90, Automec Srl c. Commissione delle Comunità
Europee, cit. punti 84 e ss.
47 Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni nazionali per l’applicazione degli articolo
85 e 86 del Trattato CE, n.97/C 313/03, pag. 3-11 , cit. paragrafi 3 e 4.
77
Tale impostazione è stata, da ultimo, ribadita nella recente Comunicazione sulla cooperazione
nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza, che evidenzia il ruolo della
Commissione quale “garante”dello sviluppo della politica della concorrenza nei casi relativi
a più Stati membri, lasciando agli organi nazionali il compito “esecutivo” di assicurare la
piena ed efficace applicazione dell’articolo 81 del Trattato CE nelle altre ipotesi.
In conclusione, le autorità nazionali non appaiono quindi godere di poteri di orientamento
della politica di concorrenza analoghi a quelli spettanti alla Commissione. Ed invero, per
stare al caso italiano, nella propria prassi decisionale, l’Autorità ha ritenuto di dover
assumere provvedimenti anche in materia di intese di limitatissimo rilievo. Tale circostanza
è emersa anche in casi in cui la valutazione dell’Autorità era stata sollecitata attraverso una
comunicazione volontaria. Giova notare come siffatto approccio goda dell’avallo della
giurisprudenza amministrativa che ha elaborato un principio di leale cooperazione tra le
imprese e l’Autorità, in virtù del quale quest’ultima non può esimersi dal dovere di
esaminare i comportamenti delle imprese che vengono sottoposti alla sua attenzione. Per
l’esattezza, in una sentenza del 2001, il Consiglio di Stato ha stabilito che: “ove l’autore di un
comportamento astrattamente valutabile ai sensi degli articolo 2 e 3 l. 287/90, si attivi spontaneamente per
portarlo a conoscenza dell’autorità, ha il diritto di ottenere una verifica in tempi certi o, in subordine, a
conoscere tempestivamente se e quali elementi ostino a tale verifica o, comunque, l’avviso dell’autorità stessa
circa l’inidoneità degli elementi trasmessi agli effetti del decorso del termine di cui all’articolo 13, in modo da
poter determinare in conseguenza la propria condotta”48. Sulla scorta di tali principi, si può ritenere
quindi che l’assenza, in capo all’Autorità, di un grado di discrezionalità equiparabile a quello
della Commissione, nonché la specifica funzione di garanzia dei diritti delle parti ad essa
demandata a fronte del mancato avvio di un’istruttoria in sede comunitaria, depongano a
favore del mantenimento del sistema di comunicazione preventiva delle intese in ambito
nazionale indipendentemente dall’importanza del caso.
3.4
La pressione sulle risorse
Ferme restando le considerazioni di cui sopra, è opportuno esaminare l’argomentazione
relativa alla eccessiva pressione sulle risorse dell’Autorità che deriverebbe dal mantenimento
di un sistema di comunicazione volontaria.
Come più volte ribadito, questa argomentazione è stata formulata dalla Commissione per
giustificare il passaggio ad un sistema di eccezione legale ed è strettamente connessa alla
necessità di evitare di concentrare risorse su di un numero elevato di accordi non sempre
48
Cit. sentenza del Consiglio di Stato, sezione IV, del 20 luglio 2001, n. 4053, punto 11.4.
78
rilevanti. Tuttavia, tale preoccupazione circa il rischio di burocratizzazione dell’operato della
Commissione, deve essere analizzata in relazione ad un contesto giuridico ad oggi mutato
rispetto a quello che aveva determinato l’accumulo di notifiche sulle scrivanie negli anni
passati.
Infatti, a partire dall’adozione, nel 1999, del regolamento di esenzione per alcune categorie
di accordi verticali e successivamente delle linee guida sulle intese verticali, nonché dei
regolamenti di esenzione relativi ad alcune tipologie di intese orizzontali di cooperazione e
di ricerca e sviluppo, ed infine della comunicazione sugli accordi di importanza minore, è
stato notevolmente chiarito il contesto applicativo delle norme sulle intese.
Conseguentemente, il numero ed il tipo di intese per le quali è necessario procedere ad una
comunicazione è stato considerevolmente circoscritto.
La presenza di questi ed altri strumenti interpretativi, come pure la crescente rilevanza
giuridica dei documenti privi di efficacia vincolante, facilita il self-assessment delle intese ad
opera delle imprese ed induce a ritenere che queste si assumano l’alea della comunicazione
(essendo l’esito non sempre certo, come mostra proprio l’esperienza italiana) solo ove
sussistano seri dubbi in merito alla conformità o meno delle loro scelte commerciali col
divieto di intese.
In questi casi, è difficile negare l’opportunità di conservare un sistema di comunicazione da
parte delle imprese, sia in termini di certezza giuridica e di tutela dell’affidamento per le
imprese stesse, che in funzione della salvaguardia degli obiettivi di politica della
concorrenza. D’altro canto, è proprio in considerazione di tali elementi che il considerando
38 del Regolamento prevede la facoltà per le imprese di formulare quesiti interpretativi alla
Commissione per i casi maggiormente complessi.
3.5
L’opportunità della comunicazione di intese
In conclusione, non paiono sussistere limiti alla previsione, per le autorità nazionali, di un
sistema di comunicazione delle intese che conduca eventualmente ad una dichiarazione di
non voler procedere ai sensi dell’articolo 5(2) del Regolamento: con particolare riferimento
all’Autorità italiana, potrebbe rinviarsi al modello previsto dall’articolo 2 del Regolamento
17/62 relativo alle comunicazioni di intese alla Commissione ai fini dell’ottenimento di un
accertamento ai sensi dell’articolo 81 del Trattato CE (già allora in un contesto di
valutazione ex-post) ovvero a quello già operante in virtù dell’articolo 13 della l. 287/90.
Del resto, i vantaggi connessi alla comunicazione volontaria delle intese risultano tanto più
chiaramente se si considera che vi sono tipologie di accordi che implicano ingenti
79
investimenti o sforzi organizzativi in virtù dei quali, oltre che per evitare il rischio della
sanzione, le imprese potrebbero vantare un interesse legittimo ad ottenere preventivamente
un margine accettabile di certezza giuridica.
Tuttavia, non si dovrebbe limitare la possibilità della comunicazione preventiva alle
cosiddette intese “strutturali”, quali le alleanze strategiche o le joint-ventures cooperative.
Esistono casi in cui le imprese possono aver bisogno di un orientamento, per evitare il
rischio di essere multate per comportamenti che potrebbero in principio ritenersi leciti. La
guidance ottenibile mediante la comunicazione eliminerebbe il rischio che le imprese, per
eccesso di prudenza, non intraprendano azioni o strategie commerciali perfettamente lecite
se non addirittura benefiche per la concorrenza. Un esempio palese di un’ipotesi in cui il
dinamismo imprenditoriale potrebbe essere frenato dall’incertezza giuridica è quello dello
scambio di informazioni, i cui principi guida appaiono tuttora in via di formazione e
risultano particolarmente problematici, in ragione dell’attenzione con cui l’Autorità è solita
verificare gli esiti potenzialmente collusivi della cooperazione oligopolistica.
3.6
Conclusioni sulla comunicazione delle intese e un caveat
In conclusione, un meccanismo di comunicazione delle intese all’Autorità, quale quello
previsto dall’articolo 13 dell’attuale l. 287/90, non sembrerebbe di per sé incompatibile né
con un sistema di eccezione legale, né con la lettera del Regolamento, fino a risultare, in
determinate circostanze, quanto mai opportuno. Ferme restando le giustificazioni di ordine
giuridico e fattuale addotte a supporto del mantenimento del modello delineato dall’articolo
13 della l. 287/90, un ulteriore quesito potrebbe riguardare le modalità di applicazione della
norma in esame nell’ambito di un regime di valutazione ex post delle intese ai sensi
dell’articolo 81 del Trattato CE. In particolare, ci si potrebbe chiedere se, una volta
eliminata la notifica di un’intesa a fini meramente autorizzatori, i termini entro i quali
l’Autorità è chiamata ad esercitare i suoi poteri istruttori non siano, come ad oggi definiti,
troppo stringenti. Pertanto, se permanesse in capo all’Autorità il potere di decidere sulle
comunicazioni volontarie di intese, potrebbe ipotizzarsi un’estensione dell’attuale termine di
120 giorni ai fini dell’apertura dell’istruttoria; ovvero si potrebbe eliminare qualsiasi termine
e trasformare la previsione dell’articolo 13 attribuendo espressamente all’Autorità il potere
di rilasciare attestazioni negative49, una possibilità che, come precisato, non pare essere
preclusa dall’articolo 5(2) del Regolamento.
Come noto, l’articolo 2 del Regolamento 17/62, relativo alle attestazioni negative prevedeva che “ la Commissione può
accertare, su domanda delle imprese e associazioni di imprese interessate, che, in base agli elementi a sua conoscenza, essa non ha motivo di
intervenire, a norma dell’articolo 85, paragrafo 1, o dell’articolo 86 del trattato, nei riguardi di un determinato accordo, decisione o pratica”.
49
80
Per completezza d’esposizione, è però opportuno chiarire che il sistema “decentrato”di
applicazione del diritto comunitario, prospettato dal Regolamento comporta il
coinvolgimento della Commissione e della rete delle autorità nazionali e si fonda
essenzialmente sulla fruttuosità della loro collaborazione. Pertanto, la questione
dell’opportunità dell’introduzione di un sistema di comunicazione va valutata non solo in
astratto o in relazione ai rapporti tra la Commissione ed un’autorità nazionale, ma anche
con riguardo ai rapporti tra le singole autorità nazionali.
È indubbio che, se la maggioranza delle autorità nazionali dovesse rinunciare a sistemi di
comunicazione, ragioni di uniformità e di parità di trattamento imporrebbero l’abbandono
del meccanismo contemplato dall’articolo 13 della l. 287/90 anche al fine di impedire che il
verificarsi di fenomeni di forum shopping svuoti di contenuto il progetto del Regolamento.
4. Complementi: l’opportunità e le possibilità di introduzione di un
programma nazionale di clemenza
Il passaggio ad un sistema basato sull’eccezione legale solleva un’ulteriore tematica relativa
alle modalità di enforcement della competition policy. Affinché l’applicazione decentrata delle
norme comunitarie possa dirsi pienamente uniforme, non è sufficiente che gli ordinamenti
nazionali si conformino sul piano sostanziale al contenuto dell’articolo 81 del Trattato CE,
così come richiesto dal Regolamento, ma è necessaria un’ulteriore opera di armonizzazione
relativa alla disciplina dei procedimenti, all’esercizio dei poteri istruttori e all’applicazione
delle sanzioni. Con particolare riferimento a queste ultime, un terreno oggetto di particolari
sviluppi negli ultimi tempi è quello riservato ai programmi di clemenza. È proprio il
successo di questi programmi a richiedere di non trascurare le esigenze di omogeneità
dell’azione repressiva, al fine di assicurare una parità di trattamento tra le imprese e di
evitare fenomeni di forum shopping.
4.1
L’ efficacia dei programmi di clemenza e le esigenze di coordinamento
L’efficacia dei programmi di clemenza nella lotta ai cartelli è ampiamente dimostrata sia
dalla prassi della Commissione che dall’esperienza statunitense e da quella di alcuni Stati
membri.
In seguito all’adozione del nuovo programma di clemenza, lanciato dalla Commissione con
la Comunicazione del 2002, a far data dal 13 febbraio 2002 sono già state presentate venti
richieste di immunità (per lo più in una fase anteriore all’avvio delle indagini), provenienti
da imprese disposte a collaborare con la Commissione, a fronte delle sedici richieste,
81
principalmente di riduzione della pena, pervenute (ad indagini già iniziate) durante i sei anni
di applicazione del “vecchio” programma. Inoltre, sulla base dei dati di cui al Competition
Policy Report del 2002, la nuova politica di clemenza, dopo solo dieci mesi di attuazione,
avrebbe permesso di individuare ben dieci cartelli in Europa. Benché sia ragionevole
attendere l’esito dei procedimenti comunitari in corso prima di esprimere un giudizio
complessivo sulla funzionalità del nuovo programma, i risultati dell’esperienza relativa
all’applicazione dell’originario programma di clemenza, adottato nel 1996, sollevano già
alcuni spunti di riflessione50.
Malgrado l’assenza di alcun riferimento ai programmi di clemenza nel Regolamento, tanto
l’obbligo di convergenza di cui all’articolo 1 della l. 287/90, tanto le esigenze di consistenza
sollevate dal Regolamento stesso imporrebbero un adeguamento nei contesti nazionali al
modello comunitario. La Comunicazione della Commissione sulla cooperazione delle autorità garanti
della concorrenza nell’ambito della rete contiene indicazioni concernenti l’ipotesi in cui
un’impresa, coinvolta in un cartello, intenda richiedere l’immunità dalla sanzione o una
riduzione della stessa in cambio della collaborazione offerta, nella fase investigativa
dell’illecito, all’autorità che presumibilmente istruirà il caso. Tuttavia, si tratta di disposizioni
di mero coordinamento, per di più prive di efficacia vincolante, che si limitano a prevedere
obblighi di informazione, a carico delle autorità che hanno ricevuto una richiesta di
clemenza, nei confronti della Commissione o delle altre autorità della rete, nonché a
garantire il non utilizzo, da parte di altri organi, a fini investigativi o probatori, delle
informazioni comunicate ad un’autorità allo scopo di fruire della clemenza senza il
consenso delle parti51. Nonostante ciò, gli interessi delle imprese possono risultare
pregiudicati dall’incertezza in merito all’individuazione dell’autorità competente e,
soprattutto, in ragione della disponibilità dei programmi di clemenza solo in alcuni Stati
membri. Pur ammettendo che, per ovviare ad ogni inconveniente ed ottenere l’immunità o
la riduzione della pena, l’impresa sopporti il costo di presentare una richiesta di clemenza a
tutti gli organismi potenzialmente competenti ad istruire il caso oppure decida di
impugnare, di fronte al Tribunale di primo grado, la decisione di allocazione del caso ad
un’autorità ove il suo interesse ad ottenere clemenza viene leso, è evidente che un sistema
di tal sorta si rivelerebbe alla lunga impraticabile.
Cfr. Comunicazione sulla non imposizione o sulla riduzione delle ammende nei casi d’intesa fra imprese, 96/C 207/04 e Comunicazione
sulla non imposizione o sulla riduzione delle ammende nei casi d’intesa fra imprese 2000/C 45/03, pag. 3-5; cfr. Commissione
Europea, La politica di concorrenza dell’Unione Europea, XXXII Relazione sulla Politica di Concorrenza 2002, pag. 18; Van
Barlingen, The European Commission’s 2002 Leniency Notice after one year of operation, in Competition Policy Newletter, n. 2,
summer 2003.
51 Cfr, Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza, paragrafi 37 e
ss.
50
82
La rilevanza dei programmi di clemenza non deve pertanto essere sottovalutata in quanto,
ai fini di un adattamento alle tendenze emerse a livello comunitario, si renderebbero
indispensabili, nel nostro ordinamento, delle modifiche procedimentali la cui definizione
richiede, preliminarmente, un breve esame dello scopo perseguito da tali programmi e delle
loro modalità di funzionamento, con specifico riferimento alle previsioni contenute nella
Comunicazione della Commissione del 2002.
4.2
Programmi di clemenza e procedure istruttorie
Il principio a fondamento dei programmi di clemenza può essere così sintetizzato: la
prospettiva per un’impresa di un’immunità totale dall’ammenda, o di una riduzione della
stessa, costituisce un incentivo così forte da indurla all’abbandono e persino alla denuncia
della cospirazione di cui essa è parte. Quindi, la possibilità che un’impresa, al fine di
usufruire di un trattamento di favore, decida di divulgare dati sull’esistenza e sul
funzionamento di un cartello rileva sia per garantire il più agevole reperimento delle
informazioni e la repressione in tempi rapidi delle pratiche collusive, sia, a priori, al fine di
promuovere effetti deterrenti particolarmente incisivi mediante la destabilizzazione del
cartello stesso.
Se, per un verso, la concessione della clemenza si concilia con la graduazione della sanzione
basata sul riscontro di circostanze attenuanti, per altro verso la peculiarità di tutti i
programmi di clemenza è quella di subordinare la riduzione della sanzione o l’immunità
totale dalla stessa al verificarsi di alcune condizioni precise inerenti alla natura delle
informazioni fornite dall’impresa coinvolta. In questo senso, il nuovo programma di
clemenza, lungi dal premiare la mera collaborazione delle imprese durante il procedimento,
accorda il beneficio dell’immunità dalle ammende esclusivamente alla prima impresa che
consegni dati relativi all’esistenza di un cartello tali da consentire alla Commissione di
effettuare un’ispezione ovvero di individuare un’infrazione dell’articolo 81 del Trattato CE.
Se si considera l’ulteriore requisito richiesto ai fini dell’immunità, vale a dire l’insufficienza
di prove a disposizione della Commissione al momento della comunicazione delle
informazioni da parte dell’impresa, si comprende come esso miri a che le richieste di
immunità vengano addirittura avanzate in una fase anteriore all’istruttoria. Per contro, le
imprese che, per carenza di tempestività, non possono più fruire dell’immunità, ma siano
comunque interessate ad ottenere una riduzione dell’importo dell’ammenda, sono indotte a
formulare la loro istanza di collaborazione ad indagini già avviate, ma, in ogni caso, non
oltre la data della notificazione della comunicazione degli addebiti. Tuttavia, esse sono
tenute a trasmettere gli “elementi di prova della presunta infrazione che costituiscano un valore aggiunto
significativo rispetto agli elementi di prova già in possesso dalla Commissione” (§ 21).
83
Il funzionamento del sistema, si fonda, inoltre, su una serie di atti procedurali che regolano
il rapporto tra le imprese e la Commissione, fra i quali va evidenziata la “decisione
condizionata” che quest’ultima ha il potere di emettere, a favore dell’impresa, con la riserva
di confermare o revocare la concessione della clemenza al termine del procedimento.
E’ importante sottolineare che un programma di clemenza, indipendentemente dal modello
prescelto, ha l’effetto di condizionare l’andamento del procedimento, incidendo sulle
modalità di ottenimento delle informazioni da parte dell’autorità e sui rapporti con le
imprese interessate. Per l’esattezza, sono le imprese a subirne in maniera più incisiva gli
effetti trovandosi nella condizione di dover fornire per prime le informazioni rilevanti ai
fini dell’ottenimento della piena immunità.
4.3
La normativa sulle sanzioni nella legge 287/90 e la possibilità di introdurre
programmi nazionali di clemenza
Si ritiene pertanto opportuno valutare entro quali limiti normativi e interpretativi l’impianto
sanzionatorio antitrust adottato in ambito nazionale sia compatibile con il recepimento
della politica della Commissione in materia di clemenza.
Soffermandosi sull’efficacia dei programmi, la stessa Autorità, nella sua relazione annuale
del 2001, ha riconosciuto che “là dove sono stati introdotti i programmi di clemenza stanno dando
risultati assai promettenti” e che “l’Autorità italiana guarda con interesse alla loro applicazione (…)”.
Ciò nonostante, l’Autorità ha anche aggiunto che “la normativa italiana ancora non consente
pienamente l’utilizzo di questi strumenti”52.
Per la verità, in una decisione del 199753, l’Autorità, richiamando espressamente la
Comunicazione sulla Leniency del 1996, ha accordato il beneficio dell’immunità totale ad
un’impresa che aveva fornito per prima le informazioni utili ai fini dell’individuazione di
una serie di accordi concernenti la fissazione dei prezzi, la ripartizione dei mercati e lo
scambio di informazioni tra i produttori del settore degli esplosivi da mina, prima che
l’Autorità stessa ne venisse a conoscenza54. Si tratta, tuttavia, di un caso isolato, al quale non
sono seguite né altre decisioni che abbiano rinviato alla politica comunitaria in materia di
clemenza né provvedimenti che abbiano concesso la piena amnistia alle imprese di un
cartello.
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Relazione sull’attività svolta nel 2001, pag.10.
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, provvedimento n. del 26 giugno 1997, Operatori nel settore degli esplosivi
da mina, punto 211.
54 La posizione dell’Autorità è stata confermata dal TAR del Lazio con la sentenza n. 1920 del 10 giugno 1998.
52
53
84
In effetti, la prassi dell’Autorità si distingue notevolmente da quella della Commissione,
caratterizzandosi piuttosto per la graduazione della sanzione in considerazione del
“ravvedimento operoso” dimostrato, nel corso di un procedimento già avviato, dagli autori
dell’illecito, attraverso la consegna di elementi di prova rilevanti, l’adozione di iniziative
volte ad eliminare le conseguenze dell’infrazione nel corso dell’istruttoria o, infine, il ricorso
ad altri comportamenti di tipo collaborativo.
Ad esempio, col provvedimento n. 5084 del 1997, Produttori di vetro cavo, l’Autorità ha
riconosciuto una sostanziale riduzione dell’importo delle ammende alle parti di un cartello
in ragione dell’intervenuta sospensione dei comportamenti anticoncorrenziali e della
cooperazione prestata durante l’istruttoria attraverso la fornitura tempestiva delle
informazioni richieste55.
In un’altra decisione del 2000 sul caso Assirevi/Società, l’Autorità ha inteso accordare una
riduzione della sanzione tenendo conto dell’adozione, da parte delle imprese, di iniziative
volte a terminare le infrazioni durante l’istruttoria, dell’agevolazione prestata per gli
accertamenti e dell’aiuto alla comprensione delle strategie di mercato fornito attraverso la
consegna di elementi rilevanti di prova56.
Ancora, nel caso Selea/Ordine dei Farmacisti del 2002, il ruolo propulsivo svolto da alcune
imprese ai fini della rimozione dell’infrazione nella fase anteriore alla comunicazione delle
risultanze istruttorie è stato considerato come una valida attenuante nel computo della
sanzione57 .
In ossequio all’obbligo di conformità di cui all’articolo 1, comma 4, della l. 287/90,
l’Autorità ha mostrato di fare esplicito riferimento ai principi comunitari in materia di
commisurazione della sanzione applicando coerentemente la Comunicazione del 1998 in
tema di Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’articolo 15, par. 2 del Reg.
n.17/6258. Ciò è avvenuto, ad esempio, nella decisione Compagnie Aeree /Fuel Charge del
2002, in cui le ammende sono state graduate sulla base dell’entità e della cronologia delle
iniziative delle singole imprese volte a limitare gli effetti dell’illecito anticoncorrenziale59.
Tuttavia, in tutti questi casi il parametro normativo di riferimento ai fini del computo della
sanzione è stato piuttosto quello delle circostanze attenuanti di cui all’articolo 11 della l.
Cfr. provvedimento dell’Autorità n. 5084 del 12 giugno 1997, Produttori di vetro cavo, punto 184 e ss.
Cfr. provvedimento dell’Autorità n. 7979 del 28 gennaio 2000, Assirevi/Società, punto 239 e ss.
57 Cfr. provvedimento dell’Autorità n. 10418 del 14 febbraio 2002, Selea/Ordine dei Farmacisti, punto 225 e ss.
58 Comunicazione della Commissione 98/C 9/03
59 Cfr. provvedimento dell’Autorità n. 11038 del agosto 2002, Compagnie Aeree /Fuel Charge, punto 311 e ss.
55
56
85
689/81, richiamato nell’articolo 31 della l. 287/90, il quale è da intendersi come il principale
ostacolo al recepimento in ambito nazionale della politica comunitaria in materia di
clemenza. In particolare, l’articolo 11 della l.689/81 nel definire i criteri per l’applicazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni accessorie facoltative, dispone che,
a tal fine, “si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per la eliminazione o
attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni
economiche”.
Peraltro, in questa sede, rileva maggiormente il contesto delle modifiche al sistema penale
in cui si inquadra la l. 689/81, poiché come ha chiarito il Consiglio di Stato con la sentenza
n. 1671 del 2001, l’ancoraggio dell’impianto sanzionatorio antitrust nazionale ai principi
generali della l. 689/81 testimonia l’intento del legislatore di attribuire alla sanzione
amministrativa irrogata in sede antitrust “connotati punitivi affini a quelli penali”, tra i quali
emerge in primis la doverosità della pena a fronte della commissione di un illecito
concorrenziale grave, quale si configura certamente un cartello60.
Malgrado numerosi interventi con cui i giudici amministrativi hanno dimostrato, negli
ultimi anni, una maggiore apertura verso i principi comunitari in materia di
commisurazione della sanzione, lasciando presumere la volontà di circoscrivere sempre più
la portata applicativa dei criteri di rilevanza penale, il dettato dell’articolo 11 della l. 689/81
potrebbe costituire tuttora uno scoglio interpretativo al recepimento del programma
comunitario di clemenza nella prassi dell’Autorità.
Resta inoltre il dubbio circa la rilevanza di altri ostacoli alla possibilità per l’Autorità di
applicare liberamente la Comunicazione della Commissione del 2002. V’è da chiedersi, in
particolare, se il testo della l. 287/90 consenta, allo stato attuale, l’introduzione di una
politica di clemenza sulla falsariga di quella della Commissione. A tale riguardo, va
osservato che con la modifica dell’articolo 15, comma 1, della l. 287/90 da parte
dell’articolo 11 della l. 57/2001, sono state create le condizioni per un ulteriore
ravvicinamento tra la prassi dell’Autorità e quella della Commissione. Da un lato, infatti,
l’estensione del fatturato rilevante ai fini del computo delle ammende rispecchia la tendenza
comunitaria ad accentuare la funzione dissuasiva delle sanzioni; dall’altro, l’eliminazione del
minimo edittale risponde all’esigenza di una maggiore flessibilità verso quelle imprese che,
in ragione della loro limitata partecipazione all’intesa, potrebbero essere destinatarie di una
sanzione meramente simbolica ovvero, in virtù della loro fruttuosa collaborazione con
60 Cit. sentenza del Consiglio di Stato, IV, n. 1671/01, Fornitura pezzi di ricambio caldaie a gas, del 20 marzo 2001 in Foro
amm., 2001, pag. 625.
86
l’Autorità, tanto nel corso delle indagini che in una fase anteriore, potrebbero beneficiare
anche dell’immunità totale.
Nondimeno, stante l’imperativo della trasparenza e della certezza della politica
sanzionatoria, la realizzazione di programmi di clemenza a livello nazionale imporrebbe una
rivisitazione dell’articolo 31 della l. 287/90 nonché un adeguamento delle disposizioni
procedurali. Infatti, fermo restando il rinvio al sistema penale operato da detta norma, il
sopra citato articolo 11 della l. 689/81 si limiterebbe ad indicare i criteri per l’applicazione e
per la graduazione delle sanzioni amministrative pecuniarie ed osterebbe al pieno
riconoscimento di un potere discrezionale dell’Autorità in merito all’an dell’applicazione
della sanzione. In questa prospettiva, occorrerebbe, pertanto, ripensare al dettato
dell’articolo 31 della l. 287/90 laddove prescrive che “Per le sanzioni amministrative pecuniarie
conseguenti alla violazione della presente legge si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute
nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689”. Ammesso che le sanzioni antitrust
vengano spogliate di ogni possibile connotato penalistico, sarebbe peraltro opportuno
elaborare un preciso disegno contenente chiare indicazioni in merito alle condizioni di
accesso al trattamento favorevole, alla correlazione, proporzionata e certa, tra la riduzione
della sanzione ed il grado di cooperazione delle imprese, e, in generale, in relazione a tutti
quegli elementi che determinano l’affidabilità e l’efficacia nel lungo periodo di un
programma di clemenza.
87
‘MODERNIZZARE’ LA DISCIPLINA ANTITRUST ITALIANA?
di Roberto Pardolesi
I.- Il Regolamento Ce 1/2003 rappresenta un passo cruciale (non necessariamente l’ultimo,
ma per certo il più significativo) in un processo che potremmo definire, con sano realismo,
di rinunzia all’identità del modello antitrust comunitario: se si preferisce, di riallineamento
all’archetipo della disciplina antimonopolistica. Curioso destino, si direbbe, per una pièce
legislativa che, secondo un malvezzo alla moda inteso a cortocircuitare in radice ogni rilievo
critico, s’intitola alla ‘modernizzazione’ (quanto dire che le voci fuori dal coro andrebbero
iscritte automaticamente al novero dei conservatori, peggio dei passatisti ad oltranza!).
II.- Provo a spiegarmi nel modo più sintetico possibile. Il Regolamento è percorso da due
(anzi, tre) linee portanti.
La prima è data dalla decentralizzazione del potere (di cui all’articolo 81.3 del trattato) di
dichiarare inapplicabile il paragrafo 1. Si tratta di una devolution in libertà vigilata –dato
l’elevato numero di espedienti intesi ad assicurare che la Commissione conservi un
controllo cogente sul dispiegarsi della prassi applicativa in ordine ai profili che contano–, a
completamento di un quadro che da sempre rimetteva alle istanze periferiche il compito di
presidiare i divieti di intese restrittive e di abuso di posizione dominante. Nemmeno a dirlo,
tale compito non ammetteva discrezionalità diversa da quella rimessa al giudice nell’àmbito
della sua attività ermeneutica. Se c’era margine di manovra, esso era tutta concentrato nel
potere, strategico, di esenzione: non a caso, riservato alla Commissione e, da domani,
trasferito alle autorità giurisdizionali nazionali.
Il secondo architrave è costituito dalla caducazione del sistema di controllo ex ante delle
intese. Il pre-screening è ora sostituito dal self-assessment, con tanto di scrutinio a posteriori.
Meno evidente, ma fors’anche più pregnante, il terzo tratto saliente. Occorre andare a
scovarlo nel ‘considerando’ n. 9 del regolamento. Vi si legge che gli artt. 81 e 82 “hanno
l’obiettivo di proteggere la concorrenza sul mercato”. Troppo ovvio, si dirà: salvo il fatto
che non importa tanto il fine indicato, quanto quelli sottaciuti. Nel momento in cui abdica
alla gestione diretta del solo potere discrezionale (e, pertanto, strategico) previsto dalla
normativa, la Commissione toglie dal giro le finalità alternative che avevano, sin qui,
ispirato il suo enforcement.
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Queste tre linee portanti hanno l’effetto di azzerare le caratteristiche che avevano
contribuito a fare, dell’antitrust comunitario, un modello autoctono, con forti velleità
espansive, ossia: 1) il meccanismo della notificazione preventiva, con conseguente
autorizzazione/esenzione; 2) la gestione accentrata del potere di esenzione; 3) l’ispirazione
multi-valued dell’approccio antimonopolistico europeo, che da sempre annoverava, tra i suoi
obiettivi indeclinabili, l’integrazione del mercato.
III.- Per comprendere appieno il senso del mutamento, basta fare un esercizio in
‘amarcord’. Volgerci, cioè, a com’eravamo ancora due lustri fa.
Mi limiterò ad un paio di esempi, fra i molti che reclamerebbero l’attenzione.
Il primo concerne le ricadute pratiche della concentrazione del potere discrezionale di
esenzione in capo alla Commissione. Sul piano effettuale, essa si risolveva nello sbarrare la
strada all’introduzione della “rule of reason”, meglio nel suo appiattimento rigido sui
quattro descrittori di cui all’articolo 81.3. Se a questo si aggiunge l’impronta
onnicomprensiva assegnata al divieto di cui al paragrafo 1 – impronta in ragione della quale,
sulla scorta dell’insegnamento della Scuola di Friburgo, si partiva dal presupposto che
costituisse restrizione della concorrenza qualsivoglia limitazione alla libertà d’azione
dell’impresa, col risultato, abbastanza paradossale, di mettere in crisi teorica qualsiasi
impegno contrattuale –, si approdava al risultato di prospettare, in linea di principio, una
disciplina davvero draconiana. Naturalmente, un siffatto integralismo concettuale riusciva
inconciliabile con le esigenze della realtà, che furono perseguite, in difetto d’alternativa,
attraverso un mare di notifiche. I numeri, insostenibili, richiesero il ricorso alle esenzioni
per categoria, ossia ad iniziative regolamentari che, per evitare che gli uffici della DG IV
fossero sommersi dalle carte, ribadivano il divieto, ma decretavano, sempre
pregiudizialmente, l’esenzione in blocco, ove fossero rispettati taluni requisiti. E qui si
sconfinava nell’ipocrisia più plateale: come ebbe ad osservare uno spaesato responsabile
antitrust di un paese della transizione, col candore tipico della denuncia innocente della
nudità del re, tutto era vietato ex ante, ma tutto, o quasi, era poi permesso, sempre ex ante.
Non c’era bisogno, in Europa, di affannarsi su quelli che, oltre Atlantico, si sogliono
etichettare come “problemi di caratterizzazione”; ma il prezzo pagato per questa (solo)
apparente nitidezza era salato quanto mai.
Ancora più significativo, se possibile, il secondo esempio, ritagliato sul preteso carattere
multi-purpose dell’antitrust europeo, con enfasi particolare sull’obiettivo dell’integrazione.
Com’è noto, gli organi preposti all’enforcement comunitario paventavano il pericolo che le
imprese ricostruissero, a livello negoziale, le barriere statuali che il Trattato mirava a
spianare. Di qui, una politica estremamente aggressiva nei confronti dei contratti di
89
distribuzione e delle licenze di diritti di proprietà intellettuale, sospettati, appunto, di ricompartimentalizzare, secondo confini nazionali, un mercato che si voleva portare a
matrice autenticamente unitaria. Accadeva così, fra lo stupore dei più, che, mentre negli
U.S. la giurisprudenza GTE-Sylvania sottraeva le intese verticali –con la sola eccezione
dell’imposizione del prezzo di rivendita, che reca le stimmate del “tampering with price”—
ai rigori della per se rule, nel continente i contratti di distribuzione si candidassero,
inopinatamente, al ruolo di villain, di ‘cattivo’ da combattere con determinazione risoluta.
Non tutti, però. Anzi, l’aspetto forse più sconcertante della vicenda era proprio
rappresentato dal patchwork applicativo risultante dal contributo dei vari formanti.
Spigolando in giro, si scopriva così che: le esclusive di vendita e di approvvigionamento
fruivano di esenzione per categoria (tramite il Regolamento 67/67, prima, e i Regolamenti
1983 e 1984/83, poi); la distribuzione selettiva qualitativa si collocava fuori dal divieto di
cui all’articolo 81.1; quella quantitativa incorreva nei fulmini della repressione giudiziale più
arcigna; il franchising –notoriamente, il ‘favorito della regina’– era stato redento dalla Corte
di giustizia e poi officiato da apposito regolamento. A chi, a questo punto, avesse obiettato
che i confini tra selezione distributiva qualitativa e quantitativa sono evanescenti, oppure
che i baffi del favorito sono alquanto posticci –che, fuor di metafora, i tratti distintivi del
franchising, come delineati dal Regolamento 4087/88, sono volatili quanto basta per
rendere incomprensibile la pretesa di fondare, sull’intuitus personae asseritamene a base di
quel rapporto, una così marcata disparità di trattamento rispetto ad altri tipi contrattuali con
spiccatissime somiglianze--, si rispondeva con l’espediente di negare, con sufficienza, ogni
confronto: l’antitrust comunitario era, semplicemente, diverso. Solo più in là, di fronte
all’impossibilità di tenere il punto, sarebbe emersa una ricostruzione in termini di periodo
formativo e necessità contingenti: quasi un esercizio aggiornato di machiavellismo
giustificazionistico, che – si sa - torna utile a molti scopi, ma non a quello di fare buon
diritto.
Potrei continuare a lungo ad esercitarmi nell’arte del dileggio. Ma sono convinto che
maramaldeggiare sia atteggiamento precluso anche a chi abbia visto troppe volte respinti i
propri argomenti in nome della diversità. Proprio quella che ora viene dimessa, ancorché in
sordina (e fra molte, neppure inconfessate, resistenze).
IV.- Conviene ora cambiar quadrante e volgersi all’esperienza italiana, meglio, ai suoi
esordi. Caratterizzati da una singolare distonia: sul piano formale, una declamata fedeltà al
modello comunitario, reificata dall’articolo 1, comma 4, l. 287/90; all’atto pratico, uno
svolgimento in parte almeno autoctono. Fu fatto implicitamente tesoro del consiglio di chi
aveva ammonito che arrivare ultimi era una buona opportunità per evitare gli errori di
quanti ci avevano preceduti. In altre parole –e vado così a tessere l’elogio del buon senso
dimostrato negli anni dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato–, si capitalizzò
90
il prestigio del modello europeo, senza però lasciarsi intrappolare nell’irrigidimento della
forbice tra articolo 2 e articolo 4. Chiave di volta di questa parabola fu la valorizzazione del
parametro della consistenza dell’intesa, che permetteva di imbastirne una valutazione
sostanzialmente unitaria e introduceva, sia pure surrettiziamente, una sorta di ‘regola di
ragione’. Non a caso, direi, fu a lungo schivato (scrupolosamente?) e continua a rimanere in
relativa penombra il versante delle intese verticali.
Risultato. Notifiche possibili, ma numero ridotto di istanze in tal senso. Ancora più esigua
la pattuglia delle (richieste di) esenzioni, che finiscono col contarsi sulle punte delle dita di
una mano mozza. Nessun regolamento di esenzione per categoria, ma neppure alcun serio
bisogno di farvi ricorso. Si dirà, ed è vero, che le block exemptions campeggiavano sullo
sfondo. Ma resta il fatto che nessuno ha sentito il bisogno d’invocarne l’introduzione.
Almeno sul piano formale, la barocca struttura dell’enforcement comunitario non è stata
tradotta in italiano.
V.- Il sistema europeo è entrato in crisi sul finire degli anni ’90, quando il formalismo
giuridico che lo trascorreva – offrendo in contropartita le suggestioni della certezza del
diritto (ancorché di un diritto discutibile) - ha cominciato a mostrare segni vistosi di
cedimento di fronte all’ansia di approccio autenticamente economico, che altrove aveva da
tempo incontrato vasto favore.
Dovessi additare una vicenda emblematica, non avrei dubbi ad individuarla nel caso Adalat.
La decisione, resa il 10 gennaio 1996, coronava un percorso impegnativo, che aveva
drenato molte energie della Commissione, specie nell’anno precedente. Il massiccio
documento condannava senza remissione la politica commerciale delle controllate francese
e spagnola di una multinazionale farmaceutica che, a fronte delle massicce correnti di
commercio parallelo da paesi a prezzi amministrati verso mercati concorrenziali, avevano
elaborato un programma di limitazioni (basate sugli ordinativi storici, con un delta
percentuale in aumento) dei quantitativi di prodotto disponibile per i grossisti.
Intendimento dichiarato, quello di far fronte all’emorragia verso le piazze più lucrose. La
Commissione, per parte sua, aveva negato il carattere unilaterale della decisione e
ricostruito l’intesa nei termini (incerti) della sequenza: richiesta (dei grossisti) — rifiuto di
contrattare (della casa farmaceutica)—tentativi falliti di aggirare il rifiuto — acquisto finale
dei quantitativi messi a disposizione (e, quindi, acquiescenza al Diktat). Si trattava,
all’evidenza, del più compiuto tentativo di volgere la normativa antitrust al servizio della
politica di sostegno delle importazioni parallele, viste – in mancanza di disciplina ad hoc-come panacea agli squilibri derivanti dall’inesistenza di un mercato europeo del farmaco.
Appena qualche mese più tardi, il Tribunale di I grado, capitanato dal Presidente Saggio,
sospese la decisione. E cominciò così un braccio di ferro, durato quasi otto anni, che si
91
avvia ora a conclusione, preannunciata, da un lato, dalle Conclusioni dell’Avvocato generale
Tizzano, dall’altro dalla sentenza, fresca di conio, del Tribunale di I grado nel caso
Volkswagen, che potrà dispiacere a taluno, ma certamente sta a ricordare che: a) l’intesa è
una vicenda a due, e non un anelito unilaterale: b) il sospetto che una circolare del
produttore (VW, appunto) sia stata recepita, e magari voluta dai suoi concessionari, non
basta a corroborare l’onere probatorio a carco dell’autorità procedente.
Va da sé, in ogni caso, che la rivoluzione copernicana ha, quale punto di riferimento
sostanziale, il Regolamento 2790/99, che per primo – vero regalo di Natale! — erodeva il
potere discrezionale di esenzione, riconducendo la valutazione ex articolo 81, nelle sue
tradizionali articolazioni, ad un unico step. Fu, quello, il più chiaro segno del nuovo corso,
che prometteva un ritorno alla normalità, all’antico: proprio l’obiettivo perseguito, nei fatti,
dalla Modernizzazione.
VI.- Date queste premesse –che si risolvono nel convincimento che il Regolamento 1/2003
segni l’abbandono di un calco che l’esperienza italiana non ha mai fatto proprio–, la
risposta da assegnare all’interrogativo di fondo –quali misure si rendono necessarie per
adattare la l. 287/90 al nuovo corso? – mi sembra pressoché scontata. Non c’è bisogno di
scossoni traumatici.
Ci si può chiedere se non sia il caso di abrogare gli artt. 4 e 13. Magari sottolineando che, a
lasciar le cose come stanno, potrebbero verificarsi inconvenienti neppure marginali: specie
nel caso di procedimento di applicazione parallela (ex articolo 3, comma 1, Regolamento
1/2003), posto che le parti potrebbero pur sempre chiedere, ex articolo 4 l. 287/90,
un’esenzione non più disponibile ex articolo 81.3.
Tutto vero, ma con un paio di caveat. Sul piano della valutazione d’insieme, l’eliminazione
dei meccanismi di autorizzazione preventiva si raccomanderebbe con urgenza laddove essi
comportassero un cospicuo assorbimento di risorse in un’attività di monitoraggio per
definizione inadatta a portare alla luce i misfatti della black economy: dopo tutto, i cartelli,
quelli che nuocciono, non vengono certo notificati. Assai meno urgente un siffatto
intervento demolitorio là dove, come in Italia, la notificazione preventiva è stata poco
utilizzata. In ogni caso, sul piano pratico, non sarebbe problematico ipotizzarne una
gestione soddisfacente in base a linee-guida, che l’AGCM ha mostrato di saper governare
con grande duttilità e sensibilità: penso, in particolare, al caso Pirelli Pneumatici/Rivenditori, in
cui si è ritenuto che il mancato rispetto di condizioni specifiche non meritevoli di esenzione
ai sensi del Regolamento 1400/2002, non valesse a precludere il riconoscimento della liceità
dell’intesa. Adelante, dunque, ma con tutta la calma che si conviene.
92
Qualche altra modifica dovrà riguardare il completamento dei poteri dell’AGCM, che
apparirebbe ‘anatra zoppa’ se investita dei poteri della Commissione (ex articolo 5 reg.
1/2003), senza poter disporre degli stessi (accettare impegni, emettere misure cautelari)
quando fa impiego dell’articolo 2 l. 287/90.
VII.- In cauda venenum, come da copione.
La caduta della discrezionalità (ghettizzata nel solo ambito del controllo delle
concentrazioni) esalta il ruolo ‘giustiziale’ dell’AGCM, che, nell’applicazione della disciplina
comunitaria, svolge lo stesso compito dell’autorità giudiziaria ordinaria. Possibile
immaginare che questo compito sia diverso quando sono in discussione gli artt. 2-4 l.
287/90? Non viene così negata la ragione per preservare la giurisdizione esclusiva (di
legittimità) del giudice amministrativo?
93
L’APPLICAZIONE DIRETTA DELLE NORME ANTITRUST COMUNITARIE
∗
NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
di Mario Libertini
1.
La tutela della concorrenza nel diritto comunitario
Sul piano delle norme sostanziali, la tutela della concorrenza ha, nel trattato istitutivo della
CE, non solo una espressa rilevanza, ma anche un ruolo centrale. Non si ripropongono
dunque, sul terreno del diritto comunitario, le complesse discussioni che hanno ritardato
l’affermazione del riconoscimento della concorrenza come bene giuridico di rilevanza
costituzionale nel diritto interno.
Del Trattato CE si devono, in particolare, richiamare:
l’art. 2, che pone tra i compiti della Comunità quello di promuovere “un alto
grado di competitività”;
l’art. 3, comma 1, lett. g, che pone tra gli obiettivi del trattato quello di
realizzare “un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel
mercato comune”;
l’art. 3, comma 1, lett. t, che pone, sempre tra gli obiettivi del trattato, quello
di fornire “un contributo al rafforzamento della protezione dei consumatori”;
l’art. 4, comma 1, che impone agli stati membri l’obbligo di adottare una
politica economica “condotta conformemente al principio di un’economia di
mercato aperta e in libera concorrenza”.
A queste disposizioni di principio si aggiungono, sempre nel Trattato CE, le norme che
regolano specificamente la materia, che sono contenute negli articoli da 81 a 89.
Se dunque non può esservi dubbio sulla diretta rilevanza e sulla centralità del bene giuridico
“concorrenza”, nell’impianto del Trattato, è da dire che neanche nel diritto comunitario si
riscontra una definizione ufficiale di “concorrenza”.
∗
Lo scritto riproduce la versione attuale di un capitolo di una trattazione generale sul diritto antitrust nazionale, in corso
di avanzata elaborazione. Ciò spiega lo stile espositivo adottato.
94
2. Il coordinamento fra diritto comunitario e diritto nazionale nella disciplina
antitrust. Problemi generali
La coesistenza fra norme comunitarie e norme nazionali nella disciplina della concorrenza
ha posto tre ordini di problemi:
1) la determinazione del campo d’applicazione delle norme comunitarie della concorrenza;
2) l’individuazione degli strumenti atti a garantire effettività di applicazione delle norme
comunitarie, e ad evitare che le stesse siano contraddette o frustrate dall’applicazione di
norme di diritto interno;
3) la determinazione di regole il più possibile uniformi anche nelle discipline nazionali
sulla concorrenza, al fine di favorire l’integrazione delle diverse economie nazionali e
fornire una base competitiva tendenzialmente paritaria ai diversi sistemi nazionali di
imprese.
Il primo problema è stato risolto con norme comunitarie (infra, n. 3), che hanno lasciato un
certo margine di elasticità in sede interpretativa, ma nel complesso hanno funzionato senza
creare incertezze gravi.
Il secondo e il terzo problema possono essere risolti solo attraverso una attiva e leale
collaborazione fra autorità comunitarie e autorità nazionali competenti in materia di
concorrenza. Anche sotto questo profilo il bilancio attuale può essere positivo (e il risultato
non era affatto scontato, data la delicatezza del tema e i timori che inizialmente si avevano,
in ordine alle concrete possibilità di ridurre la libertà d’azione dei governi nazionali nei
rapporti con i rispettivi sistemi di imprese).
In ordine ai criteri di soluzione di questi ultimi problemi possono oggi distinguersi, dopo
più di quaranta anni di esperienza del diritto comunitario, due fasi: nella prima, l’esigenza
principale è stata quella di garantire il pieno rispetto delle norme comunitarie sulla
concorrenza, mantenendo un controllo tendenzialmente accentrato sull’applicazione delle
stesse ed attribuendo alle autorità nazionali un ruolo soltanto ausiliario, ed al contempo
lasciando ai singoli stati ampia autonomia politica nelle scelte relative alla disciplina
nazionale della concorrenza, per i fenomeni che si svolgevano al di sotto della soglia
comunitaria; nella seconda fase, la raggiunta egemonia del diritto comunitario, con
conseguente tendenziale omogeneizzazione dei contenuti dei vari diritti nazionali, ha
portato a coltivare l’idea di un’applicazione sempre più decentrata delle norme comunitarie,
con conseguente concentrazione dell’intervento delle autorità comunitarie ai casi ritenuti
più importanti, di cui appaia opportuna l’avocazione al livello centrale di decisione, per il
livello degli interessi coinvolti e per il valore di precedente che può essere attribuito alle
relative decisioni.
95
3. La determinazione del campo di applicazione delle norme di diritto comunitario
La determinazione della “soglia di rilevanza” delle fattispecie concorrenziali, ai fini
dell’applicazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, è stata fatta con criteri diversi
per quanto attiene, da un lato, alle operazioni di concentrazione e, dall’altro alle intese e agli
abusi di posizione dominante.
3.1. Le operazioni di concentrazione
Per le operazioni di concentrazione, che statisticamente costituiscono la gran parte
dell’attività amministrativa delle autorità antitrust, si è privilegiato un criterio più certo e
formale di delimitazione delle competenze.
L’art. 1, comma 2, Reg. 139/2004/CE del 20 gennaio 2004 stabilisce infatti (confermando i
criteri già sanciti nel precedente Reg. 4064/89) che un’operazione di concentrazione ha
dimensione comunitaria quando sussistano i seguenti requisiti:
- “il fatturato totale realizzato a livello mondiale da tutte le imprese interessate è
superiore a 5 miliardi di EUR”;
- “il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle
imprese partecipanti all’operazione di concentrazione è superiore a 250 milioni di EUR”;
- ciascuna delle imprese interessate non realizzi più di 2/3 del fatturato all’interno di un
solo e medesimo Stato membro.
L’art. 1, comma 3, estende l’attribuzione di dimensione comunitaria alle operazioni di
concentrazione che abbiano, sempre cumulativamente, i seguenti requisiti:
- il fatturato mondiale delle imprese interessate è superiore a 2,5 miliardi di EUR;
- “il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle
imprese interessate è superiore a 100 milioni di EUR”;
- “in ciascuno di almeno tre degli Stati membri, il fatturato totale realizzato dall’insieme
delle imprese interessate è superiore a 100 milioni di EUR”;
- in ciascuno di almeno tre stati membri, il fatturato individuale di almeno due delle
imprese interessate supera i 25 milioni di EUR;
- ciascuna delle imprese interessate non realizzi più di 2/3 del fatturato all’interno di un
solo e medesimo Stato membro.
96
Con apposita comunicazione della Commissione61, è stato chiarito che il calcolo del
fatturato deve prendere in considerazione l’intero gruppo di imprese a cui appartiene il
soggetto che, sul piano giuridico, compie l’operazione di concentrazione (il termine
“impresa”, nelle norme richiamate, va inteso come riferito all’intero gruppo).
La ratio delle disposizioni richiamate, al di là dell’apparente complessità, è abbastanza
chiara. Il riconoscimento di dimensione comunitaria è ancorato, da un lato, all’elevata
dimensione complessiva dell’operazione sul mercato mondiale, e dall’altro, al fatto che le
imprese interessate abbiano una presenza rilevante in più d’uno degli stati della Comunità.
L’altra ratio fondamentale delle norme in materia è quella, già ricordata, della certezza
applicativa. Si è preferito ricorrere a un criterio “grossolano”, qual è quello del fatturato, e
rinunciare a criteri in linea di principio più appropriati (quale, in primo luogo, quello delle
quote di mercato interessate), perché questi ultimi avrebbero dato luogo a incertezze e
contestazioni.
3.2. Intese e abusi di posizione dominante
Nel campo delle intese e degli abusi di posizione dominante, l’attribuzione di dimensione
comunitaria è fondata su criteri sostanziali, che possono dare luogo a incertezze applicative,
finora evitate e per il controllo giudiziario centralizzato esercitato dalla Corte di Giustizia e
per la disponibilità collaborativa che si è avuta fra la Commissione CE e le autorità antitrust
nazionali.
3.2.1. Il pregiudizio al commercio fra gli Stati membri
Il requisito fondamentale, che dà rilevanza comunitaria ad una fattispecie restrittiva della
concorrenza (intesa o abuso), e che si trova sancito nell’art. 81 (ex 85), comma 1, e nell’art.
82 (ex 86), comma 1, Tr. CE (nonché nell’art. 87, riguardante la disciplina degli aiuti
pubblici alle imprese), è quello del “pregiudizio al commercio tra Stati membri”. Ad esso si
aggiunge poi un requisito dimensionale, fissato in maniera molto generica dal testo del
Trattato, e che sarà ripreso più avanti.
La ratio della previsione del requisito del pregiudizio al commercio intracomunitario si
riconduce a quello che era all’origine il fine principale della politica comunitaria della
concorrenza, e cioè l’integrazione fra mercati nazionali che erano stati divisi per lungo
tempo dalle barriere doganali. Un’intesa restrittiva della concorrenza, o un abuso di
posizione dominante, può esaurire i suoi effetti economici all’interno dei confini di un solo
61
Pubblicata in G.U.C.E., 1994, C 385.
97
Stato, nel senso di non avere influenza su flussi di beni o servizi, attuali o potenziali (in un
futuro prossimo), fra diversi Stati membri. In tal caso la fattispecie è considerata irrilevante
per le norme comunitarie della concorrenza.
La mancanza di pregiudizio al commercio intracomunitario può derivare dalla ridotta
dimensione del mercato interessato dalla fattispecie anticoncorrenziale (ad esempio un
accordo sui prezzi di vendita di merci deperibili consumate su mercato locale e a domanda
rigida) oppure dal fatto che il mercato, seppur ampio (ad esempio riguardante l’intero
territorio nazionale) sia impermeabile a flussi di merci fra Stati diversi. Ciò può accadere per
l’esistenza di determinate barriere, amministrative o di altro tipo (ad esempio linguistiche: si
pensi ad un accordo sui prezzi dei prodotti editoriali in lingua italiana, che ben difficilmente
può influire sull’esportazione all’estero di tali prodotti o sull’importazione in Italia di
prodotti editoriali in lingua straniera, essendo ambedue questi flussi limitati ad una
domanda specialistica e tendenzialmente rigida62) o perché in un mercato, sempre a
domanda rigida, tutte le merci provengono da un’unica fonte produttiva (ad esempio i
pezzi di ricambio di determinati macchinari, prodotti in un unico stabilimento63).
La scelta del legislatore comunitario, di legare la “soglia di rilevanza” comunitaria, anzitutto,
al requisito del “pregiudizio al commercio fra Stati membri”, reca ormai vistosamente il
segno dei tempi. Con essa il mercato comune europeo è visto ancora più come una somma
di mercati nazionali da integrare fra loro che come un mercato unico, il cui funzionamento
dev’essere valutato nella sua globalità. Può accadere così (per quanto raramente) che
un’intesa di portata nazionale, che può avere, a livello di sistema, un effetto distorsivo
pesante, sia priva di rilevanza comunitaria, e che invece sia rilevante un’intesa di
dimensione minore, che però in qualche modo influisce sui flussi di merci tra Stati diversi.
In ragione di tali possibili incongruenze, l’interpretazione giurisprudenziale delle norme
richiamate, per ciò che attiene al requisito del pregiudizio al commercio intracomunitario,
ha portato a rendere sempre più sfumata la portata della previsione.
In primo luogo, si è ritenuto che non è necessario, perché si determini un pregiudizio al
commercio intracomunitario, che all’intesa partecipino imprese aventi sede in stati diversi64:
è di intuitiva evidenza, del resto, che un accordo fra imprese aventi sede in un unico Stato
può servire proprio ad ostacolare le importazioni di merci provenienti dall’estero.
Cfr. A.G.C.M., provv. n. 471/1992 del 27.4.1992, Associazione Italiana Librai, in A.I.D.A., 1993, 765.
Cfr. Corte Giust. CE, 31.5.1979, C 22/78, Hugin, in Foro it., 1981, IV, 164.
64 Cfr. Corte Giust. CE, 18.3.1970, C 43/69, Bilger/Jehle. In senso contrario (ma si tratta, a mio avviso, di un obiter dictum, e
comunque di una presa di posizione isolata), Cass., 28 luglio 1995, n. 8251, in Giust. civ., 1996, I, 1411, con nota critica di
C. GIOVANNETTI.
62
63
98
Un’ulteriore estensione interpretativa si è avuta, poi, dando rilievo non solo al pregiudizio
effettivo ai flussi commerciali già in atto, ma anche al pregiudizio che può riguardare il
commercio potenziale fra Stati membri65. Questo profilo della concorrenza potenziale non
va inteso, ovviamente, in astratto (perché allora la nozione si allargherebbe all’infinito), ma
tenendo conto della concreta prossimità dei mercati interessati.
3.2.2. La regola “de minimis” in materia di intese
Può accadere peraltro –come si è già detto- che un fatto restrittivo della concorrenza, pur
avendo una certa influenza negativa sul commercio fra Stati membri, abbia oggettivamente
scarso interesse, da un punto di vista comunitario (si pensi, per fare un esempio scolastico,
ad un mercato locale che sia posto a cavallo della frontiera fra due Stati membri).
Per evitare che le autorità antitrust comunitarie siano gravate da una quantità eccessiva di
procedimenti di scarsa importanza, occorre dunque delimitare anche verso il basso la soglia
di rilevanza comunitaria.
Per quanto riguarda le intese, il dato testuale dell’art. 81 Tr. CE non offre a tal fine un
preciso supporto testuale. La Commissione ha tuttavia interpretato estensivamente la
previsione secondo cui un’intesa è vietata in quanto abbia “per oggetto o per effetto di
impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”.
L’effetto restrittivo della concorrenza “all’interno del mercato comune” è stato inteso nel
senso che l’effetto restrittivo è rilevante solo se in qualche modo incide sul funzionamento
dell’intero mercato comune.
Sulla base di questa interpretazione (ragionevole e condivisibile), la Commissione ha
sostanzialmente esercitato un potere discrezionale, disponendo, in via generale, che certi
accordi, definiti “di importanza minore” sono automaticamente considerati inidonei a
causare effetti anticoncorrenziali nel mercato comune e quindi possono considerarsi, nella
sostanza, irrilevanti rispetto al divieto dell’art. 81.
E’ stata così affermata quella che viene usualmente denominata come la “regola de
minimis”. Essa ha trovato base in “comunicazioni” della Commissione, sicché può dirsi
che non è fondata su una fonte di diritto in senso formale, ma su un atto amministrativo
della Commissione (sostanzialmente, una “circolare”), con cui quest’ultima comunica i
65 Cfr. Trib. I Grado CE, 12.6.1997, C 504/93, Tiercé Ladbroke; Trib. I Grado CE, 22.10.1997, c 213/95, Stichting Certificatie
Kraanverhnerberdrijf; v. anche Trib. Milano, 3.4.1990, in Giur .it., 1990, I, 2, 62.
99
criteri con cui intende interpretare ed applicare l’art. 81, comma 1 Tr. CE. Per tale ragione
la comunicazione non pregiudica la possibilità di diverse interpretazioni dello stesso art. 81,
comma 1, e da parte delle autorità giurisdizionali comunitarie, e da parte delle autorità degli
Stati membri.
Nella sua attuale formulazione, la regola de minimis è sancita nella comunicazione 2001/C
368/0766. La regola fondamentale è quella per cui un’intesa non ricade nel divieto dell’art.
81 quando “la quota di mercato aggregata detenuta dalle parti dell’accordo non supera il
10% su nessuno dei mercati rilevanti interessati dall’accordo” (se si tratta di intese
orizzontali [cioè fra concorrenti diretti] o miste), ovvero il 15% (se si tratta di intese
verticali [cioè fra imprese che operano a diversi livelli del mercato, come ad esempio un
produttore e un distributore]).
L’applicazione del criterio richiede dunque che sia previamente determinato il “mercato
rilevante”, cioè l’ambito economico su cui l’intesa può produrre effetti anticoncorrenziali.
La regola de minimis subisce una deroga in pejus (per le imprese interessate) per le intese
considerate più gravi per il loro contenuto, e precisamente quelle aventi per oggetto o per
effetto la fissazione di prezzi o la ripartizione rigida di mercati o di fonti di
approvvigionamento.
La regola de minimis non esaurisce i casi in cui un’intesa può essere valutata come
irrilevante per le norme comunitarie, ma determina solo una presunzione (per alcuni aspetti
assoluta, per altri relativa) in tal senso. L’interpretazione dell’art. 81, comma 1, sopra
esposta, per cui l’effetto restrittivo dell’intesa è rilevante solo se in qualche modo incide sul
funzionamento dell’intero mercato comune, consente di giungere ad una valutazione di
irrilevanza anche di intese che superino la soglia de minimis di quote di mercato, e tuttavia
abbiano ugualmente uno scarso impatto sul funzionamento complessivo del mercato
comune.
In tale prospettiva, nel diritto comunitario vivente si finisce per richiamare analogicamente,
anche in materia di intese, la regola fissata in tema di posizioni dominanti (v. n. succ.), in
base alla quale una fattispecie anticoncorrenziale, per essere rilevante, deve abbracciare, sul
piano geografico, almeno una “parte sostanziale” del mercato comune.
Si deve però aggiungere che, in diritto comunitario, la valutazione giuridica di un’intesa
restrittiva della concorrenza può variare nel tempo per l’operare del c.d. effetto cumulativo
66
Pubblicata in G.U.C.E., n. C368 del 22 dicembre 2001.
100
di più intese parallele. Può accadere, infatti, che in un mercato sia introdotta una pratica
commerciale di tipo nuovo (ad es. un patto di approvvigionamento esclusivo di una certa
marca di birra in una catena di pizzerie), che copra meno del 15% del mercato rilevante,
rientrando quindi nella regola de minimis. Se però a questo primo patto se ne aggiungono
altri simili, può accadere che, ad un certo punto, la maggior parte del mercato sia coperta da
accordi di approvvigionamento esclusivo, con relativa difficoltà di presenza nel mercato da
parte di altri produttori che non hanno voluto o potuto utilizzare patti di tal genere. In tal
caso, il singolo patto, anche se individualmente rientrante nella regola de minimis, non
potrà più avvalersene, perché il moltiplicarsi di accordi simili ha creato effetti distorsivi
sull’intero mercato, e il singolo accordo dev’essere rivalutato alla luce del contributo che
esso dà al raggiungimento di tali effetti distorsivi.
3.2.3. La dimensione minima del mercato in materia di posizioni dominanti
Per quanto riguarda gli abusi di posizione dominante, l’art. 82 Tr. CE riproduce, anzitutto,
il requisito del “pregiudizio al commercio fra gli stati membri”; contiene però anche un
ulteriore dato testuale, atto a delimitare una soglia minima di rilevanza del fenomeno per il
diritto comunitario. La disposizione suona infatti nel senso che la posizione dominante
rileva per il diritto comunitario solo quando riguardi l’intero mercato comune “o una parte
sostanziale di esso”.
Il concetto di “parte sostanziale” è (per cosciente scelta legislativa) poco definito, e
conseguentemente la sua determinazione è affidata all’elaborazione giurisprudenziale.
L’interpretazione giurisprudenziale sul punto si è ormai consolidata intorno a due soluzioni:
- l’intero territorio di uno Stato della Comunità è considerato sempre “parte sostanziale”
del mercato comune67;
- “parte sostanziale” del mercato comune può essere anche una parte del territorio di
uno Stato, quando questa sia comunque una grande regione economica, il cui
funzionamento può avere effetti sull’intera Comunità68 (se si pensa che, fra gli Stati della
Comunità, ve ne sono alcuni, come l’Irlanda o la Finlandia, che hanno una popolazione
inferiore a quella delle più grandi regioni italiane, ci si rende facilmente conto di come
questa conclusione, combinata sistematicamente con la precedente, comporti un notevole
ampliamento del campo di applicazione potenziale della regola comunitaria; e ciò anche se
la casistica si è finora riferita a parti cospicue del territorio di grandi paesi, come la
67 Cfr., ad esempio, Corte Giust. CE, 13.7.1989, C 385/87, Tournier, in Foro it., 1989, IV, 405; Trib. I grado CE,
21.10.1997, C 229/94, Deutsche Bank, in Racc., 1997, II, 1689; Trib. Milano, 11.1.1990, in Riv.dir.ind., 1992, II, 259.
68 Cfr., come più recente, Trib. I grado CE, 6.4.1995, C 141/89, Trèfileurope, in Racc., 1995, II, 791.
101
Germania, o a mercati transfrontalieri, che non coprivano l’intero territorio di un paese
comunitario).
Nel diritto comunitario vivente si è spesso qualificato come “parte sostanziale” del mercato
comune anche il mercato costituito da un unico grande porto o aeroporto69. Questa
conclusione è talora apparsa come frutto di una ulteriore evoluzione, in senso restrittivo,
della nozione di “parte sostanziale” del mercato comune70. Ma questa opinione sembra
frutto di un equivoco: la dimensione di un mercato non si misura in funzione della parte di
territorio in cui si produce il bene o il servizio (questa può ben essere assai ristretta, e
limitarsi ad un singolo stabilimento), bensì in funzione della parte di territorio in cui si
forma la domanda relativa. E in questo senso può ben dirsi che il porto di Genova o
l’aeroporto di Malpensa hanno un mercato rilevante, in senso geografico, di dimensioni
addirittura mondiali; e ciò perché da tutto il mondo affluisce una domanda di servizi, non
facilmente sostituibili, prodotti da queste strutture.
4. L’applicazione decentrata delle norme antitrust comunitarie e le discipline
antitrust nazionali. La prima fase del diritto comunitario71
Determinato il campo di applicazione delle norme comunitarie, si poneva il problema,
come accennato all’inizio, di garantirne l’effettività di applicazione e di prevenire i possibili
conflitti con le discipline antitrust nazionali.
A tal fine l’art. 83 (ex 87) Tr. CE attribuisce al Consiglio (che inizialmente poteva deliberare
in materia solo all’unanimità, mentre oggi può deliberare anche a maggioranza) il potere di
dettare regolamenti e direttive in materia di concorrenza.
69 Cfr. Corte Giust. CE, 17.7.1997, C 242/95, GT Link, in Racc., 1997, II, 4449; Trib.Genova, 13.1.996, in Dir.mar. 1996,
1083; App. Genova, 30.1.1996, in Foro it., 1997, I, 3275.
70 Cfr., ad esempio, F.GHEZZI, in Commentario breve al diritto della concorrenza, a cura di P.Marchetti e L.Ubertazzi, Cedam,
Padova, 1997, 63.
71 BIBLIOGRAFIA: F. DENOZZA, Un nuovo modello per i rapporti tra diritto comunitario e diritto antitrust nazionale: la
barriera unica omogenea, in Quadrimestre, 1992, 641; F. MUNARI, La legge 10 ottobre 1990, n. 287, e il diritto
comunitario della concorrenza, in Contr. e impr., 1992, 602; O. PORCHIA, L’applicazione degli artt. 85-86 del Trattato
CE da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. commercio internaz., 1995, 839; P. AUTERI, I
rapporti tra la normativa antitrust nazionale e quella comunitaria dopo la legge comunitaria 1994, in Contratto e impresa /
Europa, 1996, 535; L. DI VIA, L’applicazione del principio di sussidiarietà nel diritto della concorrenza italiano e
comunitario, in Contratto e impresa / Europa, 1996, 71; F. ROSSI, La “legge comunitaria” per il 1994 e le nuove norme
in materia di concorrenza, in Riv.ital.dir.pubbl.comun., 1996, 1355; A. PERA / P. CASSINIS, Applicazione decentrata del
diritto comunitario della concorrenza: la recente esperienza italiana e le prospettive della modernizzazione, in
Dir.commercio internaz., 1999, 701; M. LIBERTINI, Diritto comunitario e diritto nazionale nella disciplina antitrust, in
Economia dell’azienda e diritto dell’impresa, 2000, 46.
102
A differenza di quanto è accaduto in molti altri campi del diritto privato, la Comunità, in
quasi mezzo secolo di vita, ha fatto scarso uso del potere di direttiva in materia di
concorrenza, almeno per ciò che attiene alla disciplina generale della stessa.
Ragioni di prudenza politica hanno indotto a privilegiare l’obiettivo dell’effettiva
applicazione delle norme comunitarie sulla concorrenza a quello dell’uniformazione delle
discipline antitrust dei singolo Stati. Si è preferito lasciare alla maturazione politica, anziché
all’intervento formale attraverso direttive, il compito di raggiungere quel risultato di
uniformazione. Questa strategia si è rivelata lungimirante, perché l’avvicinamento delle
legislazioni si è in effetti realizzato per il maturare spontaneo di esigenze di omogeneità nel
diritto della concorrenza (le esperienze più vistose sono state quelle dell’Italia, che per
lunghi anni non ha avuto alcuna disciplina antitrust interna, e della Gran Bretagna, che fino
a pochi anni fa aveva una disciplina antitrust interna impostata in modo diverso da quella
comunitaria, e a un certo momento ha deciso di uniformarsi).
Il potere di direttiva, in materia di concorrenza, è stato così usato solo a livello di disciplina
di mercati settoriali, e in tal senso ha svolto, soprattutto nell’ultimo decennio, una funzione
dirompente: attraverso direttive comunitarie si è avviata una importantissima azione di
liberalizzazione di mercati che, per lungo tempo, erano stati soggetti a regimi di monopolio
legale nazionale (telecomunicazioni, elettricità, ecc.).
A differenza del potere di direttiva, il potere regolamentare è stato invece esercitato dalla
Comunità in modo continuativo, e ciò sia con riguardo alla disciplina generale della
concorrenza (con integrazione non solo dei profili sostanziali delle norme del Trattato, ma
anche e soprattutto di quelle procedurali), sia con riguardo alle discipline speciali di
esenzione per categoria di determinati tipi di intese.
Tornando alle norme del trattato CE in materia, bisogna subito richiamare l’art. 84 (ex 88),
che detta una disposizione transitoria, che però ha finito per assumere col tempo un valore
di indicazione di massima, tanto da essere confermata anche dopo la revisione compiuta nel
1997 con il Trattato di Amsterdam, divenendo così sostanzialmente norma definitiva.
In base all’art. 84, fino all’emanazione dell’apposito regolamento di attuazione delle norme
del Trattato in materia di concorrenza, le autorità nazionali avrebbero deciso in merito ai
comportamenti anticoncorrenziali, “in conformità del diritto nazionale interno e delle
disposizioni dell’articolo 85, in particolare del paragrafo 3, e dell’articolo 86”.
103
La norma ha stabilito dunque due regole fondamentali, rimaste finora invariate (può dirsi
un caso singolare di disposizione, storicamente nata come transitoria, che ha finito per
divenire una disposizione di principio):
- la sopravvivenza dei diritti antitrust nazionali anche dopo l’entrata in vigore delle
norme comunitarie;
- la diretta applicabilità delle norme comunitarie da parte delle autorità (amministrative e
giudiziarie) nazionali.
Sul secondo punto (relativo all’applicazione decentrata delle norme comunitarie), la
soluzione, inizialmente dettata come transitoria, è stata poi in parte confermata e in parte
ridimensionata dal fondamentale Reg. CE 17/62, che per lungo tempo è stato una sorta di
testo-base del diritto comunitario della concorrenza72.
Il Reg. 17/62 ha svolto un ruolo fondamentale nella storia del diritto antitrust comunitario.
Essendo ormai stato sostituito dal reg. 1/2003, non è necessario riferirne dettagliatamente i
contenuti. Si deve però sottolineare che esso denotava ancora un atteggiamento prudente
nei confronti dell’applicazione decentrata del diritto comunitario: il decentramento era
affermato in linea di principio, ma era anche depotenziato dal fatto che le autorità nazionali
potevano applicare le norme comunitarie solo per la parte attinente al contenuto precettivo
fondamentale dei divieti, ma non anche per le parti attinenti alle eventuali sanzioni
pecuniarie comunitarie, né per quelle attinenti alle eventuali autorizzazioni in deroga. Ne
veniva fuori un’applicazione decentrata “asimmetrica”, spiegabile sul piano storico, ma
portatrice di una incoerenza sistematica. L’applicazione decentrata diveniva anche, infatti,
un’applicazione “parziale” delle norme comunitarie, con il rischio che essa divenga anche
incoerente con le ragioni ispiratrici della disciplina sostanziale.
Inoltre, la soluzione dettata dal Reg. 17 lasciava oscuro soprattutto il punto relativo alla
coesistenza fra diritto antitrust comunitario e diritti antitrust nazionali. In particolare, non
era chiaro se l’applicazione dei diritti nazionali potesse avvenire in via cumulativa, o
Con tale regolamento il legislatore comunitario sostituì alla disciplina transitoria dell’art. 84 una disciplina permanente
articolata su tre regole:
72
a)
immediata efficacia degli artt. 81 e 82 del Trattato anche negli ordinamenti degli Stati membri, e
applicazione diretta degli stessi da parte delle autorità nazionali, a meno che la Commissione non abbia già iniziato
apposita procedura;
b)
riserva del potere di esenzione delle intese dal divieto di cui all’art. 81 alla Commissione CE, con
esclusione di potere delegato delle autorità nazionali (il reg. 17 richiamava infatti il 1°, e non anche il 3° comma dell’art. 85
di allora);
c)
104
contemporanea operatività delle norme antitrust contenute nei rispettivi diritti nazionali.
alternativa, o soltanto sussidiaria (nel senso che le norme nazionali possano applicarsi solo
alle fattispecie che non siano già coperte dal diritto comunitario). La lettera consentiva
diverse interpretazioni, e non desta quindi stupore il fatto che il punto sia stato, e sia ancora
per qualche aspetto, controverso.
4.1. Conflitti fra norme comunitarie e norme interne: la teoria della “doppia
barriera” e la posizione della Corte di giustizia
In una prima fase di applicazione del diritto comunitario, quando era ancora prevalente
l’ideologia del primato del diritto nazionale, al problema segnalato fu spesso data risposta
con la teoria c.d. della “doppia barriera”. In base ad essa, l’applicazione delle norme
antitrust comunitarie e di quelle nazionali sarebbe indipendente e parallela. Ciò creerebbe
un sistema di possibili veti incrociati.
Questa tesi potrebbe però portare alla frustrazione di decisioni delle autorità comunitarie
(in particolare, una decisione comunitaria di esenzione potrebbe essere paralizzata da un
divieto imposto da un’autorità nazionale). La teoria è dunque oggi ritenuta inaccettabile
nella sua formulazione estrema.
La Corte di Giustizia è stata investita della questione e si è pronunciata nel caso Wilhelm
del 196973. Con tale decisione essa ha sancito che il problema va affrontato alla luce del
primato del diritto comunitario. Le norme nazionali “non devono impedire la piena e
uniforme applicazione delle norme comunitarie”; dunque esse non possono essere
applicate in modo tale da contrastare le norme comunitarie, nella loro portata applicativa,
così come determinata dalle autorità competenti. Non è invece esclusa un’applicazione
delle norme interne in funzione integrativa.
Le soluzioni affermate sulla scorta del Reg. 17/62 e della giurisprudenza della Corte
apparvero, dopo un certo tempo, non del tutto soddisfacenti.
Esse nascevano dall’esigenza di rendere di fatto più efficace l’intervento sanzionatorio delle
autorità nazionali, senza giungere a delegare alle stesse i pieni poteri della Commissione. Da
ciò la conseguenza per cui le norme comunitarie dovevano essere applicate dalle autorità
nazionali solo per i profili di divieto e non anche per le possibilità di esenzione.
73Corte
Giust. CE, 13.2.1969, C 14/68, Wilhelm, in Foro it., 1969, IV, 81, con nota di N. CATALANO; cfr. anche Corte
Giust. CE, C 213/78 e 1-3/79, Guérlain, in Foro it., 1981, IV, 81, con nota di R. PARDOLESI..
105
E’ bensì vero che, attraverso l’applicazione dei regolamenti di esenzione per categoria,
molti casi sono stati automaticamente risolti, ma è anche vero che rimaneva uno spazio,
non indifferente, nel quale l’applicazione solo “in negativo” della norma comunitaria
avrebbe comportato una sostanziale distorsione della stessa.
Il punto è che le esenzioni dai divieti antitrust, secondo i principi del diritto comunitario,
non costituiscono disposizioni di privilegio o atti eccezionali di benevolenza. Non si tratta
di norme di eccezione ai princìpi, sì che una loro applicazione restrittiva possa apparire
sistematicamente giustificata. Al contrario, si tratta di deroghe aventi la propria ratio nel
riconoscimento, a certi atti, pur formalmente restrittivi della concorrenza, di una funzione
positiva per il mercato (si pensi, ad esempio, ad un patto di esclusiva che consente ad una
piccola impresa di penetrare in un mercato da cui altrimenti sarebbe esclusa). Ne consegue
che un’applicazione delle norme comunitarie, limitata al profilo del divieto, rischiava di
tradire la ratio delle norme stesse.
4.2. L’applicazione decentrata delle norme comunitarie. La fase attuale
Queste incoerenze, legate ad una fase storica iniziale del diritto comunitario, sono state
progressivamente superate nell’ultimo decennio.
Le autorità comunitarie hanno, ad un certo momento, maturato la convinzione circa la
necessità e la possibilità di un’applicazione decentrata, ma omogenea, delle norme
comunitarie, da parte delle autorità nazionali (sia giudiziarie che amministrative).
Questa convinzione ha trovato espressione, anzitutto, in due importanti Comunicazioni
della Commissione: la comunicazione 93/C 39/0574, riguardante la collaborazione tra la
Commissione e i giudici nazionali, e la comunicazione 97/C 313/0375, riguardante la
collaborazione tra la Commissione e le autorità amministrative antitrust dei singoli Stati.
L’orientamento, che si desume da tali atti, si incentra sull’opportunità di favorire
l’applicazione diretta delle norme comunitarie da parte delle autorità nazionali, limitando
l’intervento in proprio da parte della Commissione a pochi casi più importanti, selezionati
in funzione del valore di precedente che possono assumere76.
Pubblicata in G.U.C.E, C39 del 13.2.1993.
Pubblicata in G.U.C.E., C313 del 15.10.1997.
76 La Commissione ha cura di precisare che il ruolo delle autorità giudiziarie, in materia di disciplina della concorrenza, è
diverso da quello delle autorità amministrative. Le prime possono intervenire solo su richiesta di privati e al fine di
concedere rimedi di carattere individuale (nullità, risarcimenti, inibitorie individuali). Tuttavia, la Commissione riconosce
che tali rimedi individuali possono avere in molti casi un buon valore deterrente, tale da garantire effettività di rispetto
della norma comunitaria, senza bisogno di un intervento diretto della Commissione medesima.
74
75
106
Il sistema così delineato presentava però ancora una incoerenza vistosa: la mancata
attribuzione alle autorità nazionali del potere di emanare autorizzazioni in deroga al divieto
comunitario delle intese.
Come già detto, l’autorizzazione in deroga non è una concessione graziosa, bensì è parte
integrante ed essenziale del divieto delle intese. La scelta favorevole all’applicazione
decentrata non poteva convivere a lungo con una scelta di accentramento del potere di
compiere quella che è la valutazione complessiva e conclusiva sull’ammissibilità o meno di
un’intesa.
D’altra parte, è anche vero che, sul piano formale, attribuire ad una singola autorità
nazionale il potere di emanare un’autorizzazione amministrativa in deroga, avente effetto
sull’intero territorio della Comunità, può apparire non conforme ai principi di riparto delle
competenze amministrative fra autorità comunitarie e autorità nazionali.
La soluzione del contrasto non può che essere radicale. Finché il divieto delle intese era
costruito concettualmente come un divieto generale, ma suscettibile di deroga
discrezionale, il decentramento pieno non poteva apparire coerente ai principi.
Se però, come è possibile e corretto, la “somma algebrica” di effetti economici positivi e
negativi viene ricondotta ad una dimensione di analisi tecnico-economica, scevra da
connotati di discrezionalità politica (e anche di discrezionalità amministrativa in senso
proprio), è possibile considerare la stessa come parte integrante del contenuto primario del
divieto, senza la necessità logica di costruire un divieto di principio suscettibile di
autorizzazione in deroga.
E’ stato così introdotto un nuovo principio giuridico, che è quello per cui l’autorità amministrativa comunitaria deve
intervenire, aprendo un procedimento, solo quando sussista un interesse comunitario in tal senso.
In presenza di una possibilità di efficace applicazione decentrata del diritto comunitario, un vero e proprio interesse
comunitario ad aprire un procedimento in sede centrale, non sussiste. In pratica, l’interesse comunitario sorge solo se
un’intesa o un abuso di posizione dominante interessano più Stati.
La soluzione può essere giustificata anche alla luce del fondamentale principio di sussidiarietà. Essa sembra, inoltre, degna
di approvazione sul piano dell’efficienza (per molte fattispecie, sia pure di rilevanza comunitaria, le autorità nazionali sono
senza dubbio più attrezzate per compiere rapidamente ed efficacemente la necessaria istruttoria).
A fronte di questo indirizzo di applicazione il più possibile decentrata e puntuale delle norme comunitarie, la
Commissione, nelle comunicazioni richiamate, predispone e descrive tutta una serie di possibili raccordi informali tra
autorità europee e autorità nazionali (scambi di informazioni, risoluzione di quesiti giuridici, ecc.), al fine di facilitare e
rendere omogenea l’applicazione decentrata delle norme sulla concorrenza.
107
4.3. L’applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza nel Reg.
1/2003. La “ratio” della nuova disciplina77
Questo passaggio, che costituisce una vera e propria rivoluzione concettuale per il diritto
comunitario della concorrenza, è stato prima annunciato nel Libro bianco sulla
modernizzazione delle regole di applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato, pubblicato
dalla Commissione il 28.4.199978, e poi attuato con il fondamentale Reg. CE 1/2003, che ha
sostituito il Reg. CE 17/62.
La scelta politica di fondo del Reg. 1/2003 è stata quella di consentire alla Commissione di
evitare gran parte del lavoro di routine, per potersi dedicare ad interventi repressivi sui
grandi cartelli e i monopoli di dimensione sovranazionale.
A tale fine il sistema di divieto/esenzione è stato sostituito con un sistema di “eccezione
ope legis” al divieto. In sostanza, è stata adottata una soluzione legata al modello americano
di applicazione della norma antitrust sulla scorta della rule of reason. La valutazione circa la
portata degli effetti anticoncorrenziali sarà quindi possibile anche in via decentrata ed anche
attraverso la decisione di un singolo giudice o di una autorità amministrativa nazionale.
Per giungere a tale risultato, la Commissione ha dovuto prima preannunciare, e poi
applicare, una interpretazione dell’art. 81, § 3, del Trattato CE, completamente diversa da
quella che era stata seguita per circa mezzo secolo. Il testo in questione recita nel senso che
“le disposizioni [divieto delle intese] di cui al paragrafo 1 possono essere dichiarate
inapplicabili” alle intese che abbiano determinati requisiti. Il testo era stato sempre
interpretato nel senso che la “dichiarazione di inapplicabilità” avesse valore costitutivo, e
quindi operasse sostanzialmente come un’autorizzazione in deroga al divieto, senza la quale
l’intesa rimaneva comunque illecita e nulla (anche se in possesso dei requisiti sostanziali per
ottenere l’autorizzazione). Con la nuova interpretazione la “dichiarazione di inapplicabilità”
assume valore ricognitivo, sicché l’intesa in possesso dei requisiti previsti dalla legge è lecita
e valida ab initio, senza necessità di alcun esame preventivo da parte dell’autorità antitrust.
77 BIBLIOGRAFIA: L. TOFFOLETTI, Riforma del diritto antitrust comunitario: giudizio di esenzione e diritti dei singoli, in
Governo dell’impresa e mercato delle regole – Scritti giuridici per Guido Rossi, Giuffrè, Milano, 2002, t.II, 995 ss.; L.
PIGNATARO, La riforma del diritto comunitario della concorrenza: il regolamento n. 1/2003 sull’applicazione degli
articoli 81 e 82 del Trattato CE, in Contratto e impresa/Europa, 2003, 233; P. MENGOZZI, La giurisprudenza del
Tribunale delle Comunità Europee in materia di concorrenza e l’applicabilità da parte dei giudici nazionali del
Regolamento del Consiglio n. 1/2003, in Contratto e impresa/Europa, 2003, 210; M. VINCENTI – L. VENTURINI, La
nuova disciplina comunitaria in materia di concorrenza, In Nuove leggi civili commentate, 2003, 537 ss.; A. PERA – V.
FALCE, The modernisation of EC competition law and the role of the National Competition Authorities – revolution or
evolution?, in Dir. Unione eur., 2003, 433 ss.
78 Cfr. G. ROCCA, Livre blanc sur la modernisation des règles d’application des articles 81 et 82 du Traité, in Competition Policy
Newsletter, 3/1999, 1.
108
Questa vicenda, molto interessante anche sul piano dell’esperienza giuridica79, è stata resa
possibile dal fatto che l’interpretazione dei testi normativi comunitari è concentrata in capo
alla Commissione e alla Corte di Giustizia, sicché il processo di maturazione dei mutamenti
interpretativi può essere molto più rapido di quanto avviene in sistemi di applicazione
decentrata del diritto, che richiedono il lento formarsi di una communis opinio fra soggetti
di pari rango.
In ogni caso, il passaggio interpretativo era necessario per giungere ad una effettiva
applicazione decentrata e condivisa del diritto comunitario in tutti i paesi della Comunità.
L’averlo compiuto indica che è stata raggiunta la fiducia politica nella possibilità di una
piena e convinta condivisione delle regole, e che vi è fiducia anche nel livello tecnico di
maturazione delle regole applicative selezionate attraverso quasi mezzo secolo di accumulo
di precedenti delle autorità comunitarie nell’interpretazione delle norme antitrust CE.
In realtà, l’apertura di una fase di esperienza inedita, qual’è quella di un’applicazione
decentrata delle norme antitrust comunitarie, impone a tutti gli interpreti un particolare
impegno (ed una relativa responsabilità) nell’opera di razionalizzazione delle giurisprudenza
comunitaria alla luce di una individuazione, per quanto possibile precisa, dei valori e degli
interessi tutelati dalla disciplina della concorrenza.
4.4. Violazione delle norme antitrust comunitarie e rimedi civili di diritto nazionale
Sul piano dei contenuti, il Reg. 1/2003 conferma anzitutto (artt. 5 e 6) la regola per cui le
autorità nazionali (amministrative e giudiziarie) sono competenti ad applicare gli artt. 81 e
82 del Trattato. La norma comunitaria ha diretta efficacia per ciò che concerne la
competenza dell’autorità giudiziaria (che è, per principio, generale, fatti salvi i criteri di
riparto interno delle funzioni fra vari organi giudiziari, stabiliti dall’ordinamento nazionale).
Invece, per le autorità amministrative (che hanno, per principio, competenza
tassativamente limitata alle materie ad esse attribuite dalla legge nazionale), occorre una
norma interna attributiva della competenza in materia di antitrust comunitario. Questa è
stata dettata, in Italia, con l’art. 54, l. 6 febbraio 1996, n. 52 (e non richiede conferme per il
sopravvenire di nuove norme antitrust comunitarie).
79 Difficilmente può darsi un esempio più chiaro della distinzione concettuale fra “testo” [o “disposizione”, nella
terminologia preferita dai pubblicisti] (come insieme di parole, costituenti un enunciato normativo, a cui
convenzionalmente si riconosce valore vincolante in una determinata materia) e “norma” (come risultato
dell’interpretazione giuridica, che sceglie, sulla base di giudizi di valore, fra gli n-significati che possono essere logicamente
ricostruiti in continuità con il testo convenzionalmente accettato come vincolante). In argomento v., per tutti, M.
BESSONE (a cura di), Interpretazione e diritto giudiziale, Giappichelli, Torino, 1999.
109
Le autorità nazionali (amministrative e giudiziarie) devono applicare le norme antitrust
comunitarie sulla base dei nuovi criteri di interpretazione, resi vincolanti dal regolamento
stesso, e quindi in base alla rule of reason a cui si è accennato.
In particolare, per quanto riguarda l’autorità giudiziaria, le sole regole dettate dal diritto
comunitario sono quelle relative alla “nullità” delle intese anticoncorrenziali e alla
dichiarazione di illiceità delle medesime intese, nonché degli abusi di posizione dominante.
I rimedi giudiziari contro l’illecito (risarcimento, inibitoria, provvedimenti cautelari, o altro)
sono affidati al diritto nazionale.
Ciò comporta una serie di conseguenze applicative:
a)
la nullità dell’intesa anticoncorrenziale, di cui parla l’art. 81, § 2, Tr. CE, è, per
espressa disposizione del trattato, “nullità di pieno diritto”; anche se la concreta struttura
del rimedio invalidativo è demandata al diritto nazionale80, nel nostro ordinamento diventa
normale il richiamo alla nullità di cui agli artt. 1418 ss. c.c.81, con le relative conseguenze in
termini di disciplina (legittimazione, prescrizione, ecc., nonché –particolarmente
importante- la possibilità di nullità parziale); non si tratta, peraltro, di nullità per violazione
di norme imperative, perché l’art. 81 Tr. CE non contiene divieti tassativi di stipulazione di
determinati accordi: dal combinato disposto dei commi 1 e 3 si desume che, di caso in caso,
è necessario procedere ad un esame di meritevolezza dell’interesse concretamente
perseguito dalle parti; si tratta dunque di un caso di nullità del contratto per illiceità della
causa;
b)
la peculiarità del meccanismo sancito dall’art. 81 fa sì che, sul giudizio di liceità
della causa, può incidere decisivamente il fattore tempo: intese inizialmente lecite possono
divenire illecite per il sopravvenuto mutamento delle condizioni di mercato, anche per il
possibile operare dell’effetto cumulativo di più intese parallele (in teoria, ma ben più di
rado, può avvenire anche il contrario); ciò comporta che eventuali giudicati in materia di
nullità di intese devono ritenersi soggetti al principio rebus sic stantibus;
c)
la nullità riguarda anche i contratti abusivi stipulati dall’impresa dominante,
anche se, a questo proposito, l’opinione prevalente ritiene che debba parlarsi di nullità
speciale a carattere relativo82;
d)
è molto discussa l’estensibilità della nullità dell’intesa principale ai contratti
stipulati con parti terze in esecuzione dell’intesa vietata (punto sul quale il diritto
Cfr. Corte Giust. CE, 14 dicembre 1983, Ciments et Bétons / Kerper.
Cfr., per tutti, A. FRIGNANI – M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE4, Utet, Torino, 1996, p. 469 ss.
82 Cfr. M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv.dir.comm., 2002, p. 456 ss.
80
81
110
comunitario non si pronuncia, rinviando in toto la soluzione ai diritti nazionali83): secondo
l’opinione che appare più corretta, non può accettarsi l’idea di una nullità derivata a
carattere generale; si dovrà piuttosto verificare se l’oggetto o la causa del contratto
esecutivo siano a loro volta viziati (come può accadere, ad esempio, per un patto di
boicottaggio o di prezzo imposto ecc.); altrimenti, ad essere viziato può essere solo il
comportamento illecito di una delle parti, che abbia imposto all’altra prezzi o condizioni
contrattuali inique, in attuazione dell’intesa illecita; in tale prospettiva, si avrà solo un’azione
di danno extracontrattuale in capo al contraente leso84; vi è però da considerare che il
Cfr. Corte Giust. CE, 20 settembre 2001, C-453/99, Courage.
Per qualche sviluppo di tale argomentazione v. ancora LIBERTINI, op.cit., p. 450 ss., ove indicazioni dottrinali e
giurisprudenziali.
Si può aggiungere che, nel tempo trascorso dopo la pubblicazione dello scritto citato, le discussioni in materia sono
continuate con molta vivacità.
In giurisprudenza, vanno segnalate:
-Cass., sez. III, 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., 2004, I, c. 466 ss., che ha decisamente respinto la tesi della nullità
derivate dei contratti puramente esecutivi di intese illecite (ritenendo invece che tali contratti possano dar luogo solo ad
azioni di risarcimento del danno);
-T.A.R. Lazio, sez. I, 10 marzo 2003, n. 1790, in Foro amm., 2003, p. 1645 (con nota adesiva di P. PAGLIARA), che, in
relazione a contratti stipulati da pubbliche amministrazioni a seguito di risultati di gara alterati da intese restrittive della
concorrenza, ha ugualmente escluso che tali contratti “possano essere considerati illeciti in alcuno dei loro elementi costitutivi”,
ritenendo invece applicabile la disciplina del dolo contrattuale (determinante o incidente; nel caso dei contratti della
pubblica amministrazione rilevabile anche in sede di autotutela).
In dottrina si ricordano (senza pretesa di completezza):
- R. PARDOLESI, Cartello e contratto dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it., 2004, I, c. 469 ss., che ripropone la tesi
della nullità derivata, affermando che “il contratto che lega l’impresa all’utente finale costituisce lo strumento attraverso cui la prima
attualizza l’oggetto della collusione predisposta con i suoi pari e, nella misura in cui consente alle imprese coinvolte di trarre i frutti della propria
condotta, finisce inevitabilmente per assorbirne la natura illecita” (affermazione non condivisibile, dal momento che non può
discorrersi, ai fini del giudizio di nullità, di una “natura” illecita del contratto, bensì solo dell’illiceità di suoi elementi quali
la causa o l’oggetto; quanto all’illiceità dei comportamenti delle parti nella fase della negoziazione, è insegnamento
risalente che possono dar luogo a vizi negoziali ben diversi dalla nullità, quali l’annullabilità per dolo, la rescissione ecc.);
- F. FERRO-LUZZI, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e “aurea aequitas” (ovvero delle convergenze parallele), in Foro it.,
2004, I, c. 475 ss., il quale prima afferma recisamente “l’impermeabilità del contenuto del contratto alla disciplina antitrust”, ma poi
riconosce la legittimazione della parte lesa a far dichiarare la nullità del contratto per violazione “di un diritto giuridicamente
rilevante… all’equità del rapporto” (con argomentazioni che, per ambedue gli enunciati, appaiono così personali da risultare
non valutabili alla stregua dei normali criteri di comunicazione giuridica);
- G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, I, c.
479 ss., il quale ritiene anzitutto che, nell’ambito della legge antitrust, l’interesse del consumatore sia “un interesse di mero
fatto, come tale non tutelabile in via giurisdizionale”, per poi recuperarne, in via indiretta, la rilevanza, sulla scorta di un diritto
soggettivo pieno del consumatore alla correttezza dei rapporti contrattuali, che sarebbe sancito dall’art. 1, comma 1, lett. e,
l. 30 luglio 1998, n. 281; ed infine concludere nel senso che il consumatore, in caso di violazione di tale diritto da parte
dell’impresa che porta a compimento il proprio illecito antitrust, potrebbe alternativamente chiedere “la correzione
dell’equilibrio sinallagmatico” o “l’inibitoria delle clausole contrattuali abusive” [anche qui lascia perplessi la premessa, perché: (i)
non si vede perché la violazione, da parte dell’impresa, delle norme di condotta poste dalla legge antitrust, non sia
suscettibile di creare di per sé danni ingiusti verso i consumatori, risarcibili alla stregua della clausola generale dell’art.
2043; (ii) dato e non concesso che, per fondare il rimedio risarcitorio, occorra accertare l’esistenza di un diritto soggettivo,
appar dubbio che esso possa ritrovarsi nell’art. 1, l. 281/1998, ove il termine “diritto” è usato nell’accezione generica che è
propria delle disposizioni di principio, e quindi non appare sufficiente per costruire situazioni soggettive immediatamente
azionabili; (iii) dato e non concesso che il contratto esecutivo di intese illecite per violazione di norme antitrust violi un
diritto soggettivo fondato su norme imperative, non si vede perché il rimedio non debba essere la ordinaria nullità (totale
o parziale) del contratto].
83
84
111
contratto dipendente può essere frutto di un abuso di posizione dominante collettiva, con
le relative conseguenze in termini di “nullità di protezione”;
e)
l’illecito concorrenziale per violazione di norme comunitarie costituisce fonte di
responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.; è oggi aperta la discussione sulla
legittimazione diretta del singolo consumatore: una corrente di pensiero, condivisa da una
nota sentenza della Cassazione85, ha letto le norme antitrust come poste esclusivamente a
tutela di imprese, con ciò negando la legittimazione diretta del consumatore ad esperire
rimedi civili per violazione di norme antitrust (e, con ciò, l’applicabilità della regola di
competenza dell’art. 33, l. 287/1990)86; non si vede però perché la violazione, da parte
dell’impresa, delle norme di condotta poste dalla legge antitrust, non sia suscettibile di
creare di per sé danni ingiusti verso i consumatori, risarcibili alla stregua della clausola
generale dell’art. 2043 c.c.87;
f)
può dirsi sempre aperta anche la discussione sull’inibitoria, dal momento che
non si è formata –nella dottrina e nella giurisprudenza italiane- una communis opinio circa
la possibilità di rinvenire una fondamento generale del rimedio88; non credo però che
possano esservi dubbi circa l’esperibilità dell’azione inibitoria da parte di imprenditori
pregiudicati dall’illecito antitrust, potendosi richiamare in tal caso le norme generali in
materia di concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale89.
4.5. Regole specifiche del Reg. 1/2003 in materia di applicazione decentrata delle
norme comunitarie da parte dei giudici nazionali
Da quanto esposto, può dirsi che, per quanto riguarda il profilo sostanziale dei rimedi, il
diritto comunitario si rimette ai diritti nazionali, ma impone a questi di rispettare un
principio generale di effettività della tutela (espresso nella disposizione che impone la
In conclusione, sembra che la giurisprudenza si muova nelle stesse direzioni che sono indicate nel testo, mentre la recente
dottrina appare lontana dal trovare punti di equilibrio.
85 Cass., sez. I, 9 dicembre 2002, n. 17475, in Foro it., 2003, I, c. 1121.
86 La sentenza, com’è noto, ammette però che il consumatore possa far valere (secondo le regole di competenza ordinarie)
non meglio precisati diritti soggettivi, fondati su norme diverse da quelle antitrust. Una razionalizzazione di tale
orientamento (che non sembra adeguatamente motivato, nella sentenza in esame) può vedersi nello scritto di Guizzi,
citato nella nota 21.
87 E v. infatti, in tal senso, la successiva Cass., sez. III, 17 ottobre 2003, n. 15538, in Foro it., 2003, I, 2938, che ha rimesso
la questione alle Sezioni Unite (che non si sono ancora pronunciate).
Sul punto v. da ultimo, in senso conforme a quanto sostenuto nel testo, PARDOLESI, op.cit., c. 474.
88 Chi scrive ha in più sedi sostenuto la tesi secondo cui tale fondamento generale può rinvenirsi nelle stesse norme
generali sulla responsabilità civile, attraverso il combinato disposto degli artt. 2043 e 2058 c.c. (cfr. M. LIBERTINI, Nuove
riflessioni in tema di tutela civile inibitoria e di risarcimento del danno, in Riv.crit.dir.priv., 1995, p. 405 ss.), ma la tesi è rimasta finora
minoritaria (v., per un’aggiornata analisi dei problemi, A. D’ADDA, Il risarcimento in forma specifica, Cedam, Padova, 2002).
89 V., per tutti, G. M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato, Giuffrè, Milano, 2002, p.140 ss.
112
“nullità di pieno diritto” e poi sistematicamente allargato dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia sulla generalità della tutela risarcitoria a fronte di illeciti comunitari).
Sul piano delle norme procedimentali, il Reg. 1/2003 fissa però una serie di regole puntuali
molto importanti, e già operative anche nel diritto interno.
a)
Nei procedimenti civili per violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza
vige una regola speciale sull’onere della prova (art.1, Reg. 1/2003 CE): in linea di principio
spetta alla parte attrice provare l’illecito antitrust (e con questo si rimane nell’ambito delle
regole generali); tuttavia, se l’azione è fondata sull’esistenza di un’intesa, spetta alla parte
convenuta provare i requisiti necessari per l’esenzione.
b)
L’art. 11, comma 6, Reg. 1/2003 impone poi, in caso di pendenza di una procedura
dinanzi alla Commissione, la sospensione di eventuali procedimenti amministrativi
nazionali, ma non estende in via generale tale disposizione ai procedimenti giudiziari. Non
c’è dunque una pregiudiziale amministrativa.
E’ prevista però la possibilità di sospensione facoltativa del procedimento, e l’impiego di
tale strumento da parte del giudice apparirà in molti casi doverosa, alla stregua del principio
di applicazione uniforme del diritto comunitario (v. n. succ.). L’art. 16, Reg. 1/2003 sembra
in proposito chiaro nel limitare la discrezionalità del giudice nazionale, imponendo a
quest’ultimo di “evitare decisioni in contrasto con una decisione contemplata dalla
Commissione in procedimenti da essa avviati” (ove, per decisione “contemplata”, dato che
il procedimento non è concluso, deve intendersi una decisione ancora solo prospettata
nell’atto di avvio del procedimento o nelle conclusioni istruttorie).
c)
L’art. 16, Reg. 1/2003, contiene appunto una norma generale di applicazione
uniforme del diritto comunitario, che impone ai giudici nazionali di adeguarsi a quanto
disposto da decisioni adottate dalla Commissione in materia.
Le decisioni di cui si tratta sono quelle relative al caso in esame. Non può dunque ritenersi
vigente –almeno in via diretta- un principio di rispetto delle decisioni della Commissione
alla stregua di precedenti vincolanti. Indirettamente, però, tale regola può dirsi
sostanzialmente operativa: se il legislatore italiano ha imposto una regola di rispetto del
diritto comunitario vivente nell’applicazione delle norme antitrust nazionali, tale regola
deve ritenersi a fortiori vigente in caso di applicazione diretta delle norme comunitarie da
parte del giudice nazionale.
113
d)
L’art. 15, comma 2, Reg. 1/2003, dispone poi l’obbligo di trasmissione alla
Commissione di copia delle sentenze che risolvono casi di applicazione diretta degli artt. 81
e 82 del Trattato.
Il testo della disposizione citata pone l’obbligo di trasmissione della copia a carico degli
“Stati membri”, ma aggiunge che “la copia è trasmessa senza indugio dopo che il testo
integrale della sentenza scritta è stato notificato alle parti”. Un’interpretazione letterale della
disposizione creerebbe qualche problema applicativo, perché la notificazione in senso
proprio della sentenza avviene a cura della parte interessata, e potrebbe anche mancare,
mentre l’obbligo di trasmissione della copia alla Commissione è posto a carico dello Stato e
non della parte. Al fine di rendere efficace la disposizione, si deve dunque ritenere che la
locuzione “è stato notificato” debba intendersi in senso non letterale, e quindi
corrispondente a “è stato reso disponibile alle parti”. In altri termini, l’obbligo di
trasmissione della copia “senza indugio” sorge, a carico dello Stato, nel momento in cui la
sentenza è depositata in cancelleria. Sembra ovvio poi che l’ufficio statale competente in
materia sia lo stesso ufficio giudiziario che ha emanato il provvedimento.
Benché la disposizione in esame parli solo di comunicazione dei testi delle sentenze, la ratio
impone un’interpretazione estensiva: dovranno essere dunque comunicati anche
provvedimenti giudiziari di altro tipo (che saranno, di norma, provvedimenti cautelari) che
però, sul piano sostanziale, siano allo stesso modo provvedimenti giudiziari applicativi degli
artt. 81 o 82 del Trattato.
e)
L’art. 15, comma 3, Reg. 1/2003, prevede poi una facoltà di intervento dell’Autorità
antitrust nazionale, e, “se necessario”, della stessa Commissione, nei procedimenti giudiziari
di applicazione delle norme antitrust comunitarie. La disposizione, in effetti, distingue la
presentazione di semplici osservazioni scritte, che viene garantita in ogni caso dalla norma
comunitaria, dalla partecipazione alle discussioni orali, che è soggetta ad autorizzazione
della giurisdizione competente. Adattando la disposizione alle caratteristiche del rito civile
italiano, riterrei più lineare interpretare la norma nel senso del riconoscimento di una
facoltà di intervento dell’autorità antitrust, analoga all’intervento facoltativo del Pubblico
Ministero, di cui all’art. 70, ult.comma, c.p.c.
E’ escluso, in ogni caso, che l’autorità antitrust possa considerarsi litisconsorte necessario.
f)
L’art. 15, comma 1, Reg. 1/2003, prevede anche che la Commissione possa essere
coinvolta nel procedimento giudiziario nazionale in altro modo, e cioè su iniziativa dello
stesso giudice, che può chiedere alla Commissione ”informazioni” e “pareri”. Sembra
chiaro che tale richiesta sia prevista come potere d’ufficio del giudice. Il ruolo della
114
Commissione non può equipararsi, in tal caso, a quello di un consulente tecnico d’ufficio
(che è un ausiliario del giudice), ma si avvicina di più a quello di un organo consultivo,
chiamato ad esprimere un parere facoltativo nell’ambito di un procedimento
amministrativo.
La richiesta di parere potrebbe avere dunque contenuti disparati, e potrebbe anche limitarsi
ad un punto specifico della controversia.
Il parere, in linea di principio, non è dunque obbligatorio, né vincolante. Non vale neanche,
formalmente, il vincolo di uniformità di cui all’art. 16 del Regolamento, dal momento che la
richiesta di parere non equivale all’acquisizione di un “progetto di decisione” da parte della
Commissione.
In base ad un principio generale in materia di procedimenti di natura pubblicistica, del
contenuto del parere, ancorché formalmente non vincolante, dovrà essere dato adeguato
conto nella motivazione del provvedimento finale. Ciò significa che, di fatto, ben
difficilmente il giudice nazionale potrà legittimamente discostarsi dalle indicazioni
contenute nel parere della Commissione.
g)
Lo stesso tipo di collaborazione consultiva su richiesta del giudice non è previsto,
dal Reg. 1/2003, per l’autorità antitrust nazionale. Il giudice nazionale dovrà dunque
sempre rivolgersi alla Commissione, la quale potrà avvalersi della collaborazione
dell’autorità antitrust nazionale, ai sensi dell’art. 11 del Reg. 1/2003, ma rimarrà sempre
formalmente titolare dell’atto consultivo.
Al di fuori di questo caso, l’iniziativa del giudice nei confronti dell’Autorità Garante della
Concorrenza potrà svolgersi solo entro i confini della richiesta di informazioni alla pubblica
amministrazione, di cui all’art. 213 c.p.c.
h)
Sia l’autorità nazionale, sia la Commissione, hanno invece il potere (art. 15, comma
3, Reg. 1/2003) di chiedere al giudice nazionale la trasmissione di documenti del
procedimento, al fine di valutare l’opportunità di esercitare la propria facoltà d’intervento.
La norma deve intendersi come riferita ai soli procedimenti civili, perché in quelli di fronte
al giudice amministrativo l’autorità nazionale è parte e può esercitare solo i diritti che, in
tale veste e nel rispetto del principio del contraddittorio, le sono riconosciuti dalle regole
processuali generali.
115
i)
Un’ultima regola processuale speciale è quella posta dall’art. 21, comma 3, del Reg.
1/2003, che prevede la necessità di un’autorizzazione preliminare dell’autorità giudiziaria
nazionale ai fini dell’esecuzione di accertamenti ispettivi in locali diversi dagli uffici
dell’impresa (comprese le abitazioni private di amministratori o dipendenti).
L’autorizzazione dev’essere data sulla base della valutazione della regolarità formale della
richiesta e del rispetto del principio di proporzionalità (cioè, in altri termini, della necessità
ed urgenza dell’ispezione al fine del reperimento di un certo dato probatorio). La
valutazione del giudice può dunque sindacare il periculum in mora, ma non può estendersi
alla valutazione del fumus boni juris.
Se il legislatore nazionale non si pronuncerà per tempo sull’individuazione del giudice
competente a rilasciare questa autorizzazione, il problema relativo a tale individuazione non
sarà facilmente risolvibile. Da un lato, il tipo di valutazioni richieste farebbe ritenere
appropriata la competenza dei giudici penali; tuttavia, considerata l’irrilevanza penale della
materia, sembrerebbe più prudente pensare ad una competenza del giudice civile. Questo
dovrebbe essere allora il Tribunale, in virtù della competenza residuale spettantegli ai sensi
dell’art. 9 c.p.c.
5. Regole specifiche sull’applicazione diretta delle norme antitrust comunitaria da
parte di autorità amministrative nazionali
Per quanto riguarda i poteri delle autorità (amministrative) antitrust nazionali90, il Reg.
1/2003 è molto più dettagliato che per ciò che riguarda i rimedi giudiziari (ciò, del resto,
appare conforme alla prevalente tradizione europea relativa alla tipicità degli atti
amministrativi). In particolare, l’art. 5 del regolamento attribuisce alle autorità antitrust
nazionali i seguenti poteri:
- “ordinare la cessazione di un’infrazione;
- disporre misure cautelari;
- accettare impegni;
- comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto
nazionale”.
90 Il regolamento comunitario consente agli Stati membri anche la soluzione di concentrare tutte le competenze antitrust
in capo all’autorità giudiziaria. Ma questa soluzione, come già ricordato, è stata scartata dal legislatore italiano.
116
In particolare, sull’ultimo punto, è opinione corrente fra gli interpreti91, suffragata anche dai
lavori preparatori, che le sanzioni per gli illeciti antitrust comunitari, che possono essere
applicate dalle autorità nazionali, non sono quelle previste dalle norme comunitarie, bensì
quelle (anche diverse) che siano eventualmente disposte da norme nazionali.
La soluzione è praticamente inopportuna. La possibilità di sanzioni diverse (in qualche
Stato più severe di quelle previste dal diritto comunitario; in un altro, in ipotesi, nessuna) dà
luogo a disparità di trattamento e a diversità di incentivi all’investimento e alla scelta dei
mezzi concorrenziali, nei diversi ordinamenti nazionali (con effetti negativi sul processo di
effettiva uniformazione delle regole di funzionamento del mercato comune europeo).
Si deve peraltro osservare che il testo dell’art. 5 non impone la soluzione sopra criticata:
l’espressione “qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale” può essere
agevolmente intesa come aggiuntiva rispetto alle altre (“ammende, penalità di mora”), e
non necessariamente come inclusiva anche delle prime. Questa interpretazione appare
tanto più corretta in quanto la nozione di “ammenda” e di “penalità di mora” è dettata
dallo stesso regolamento, sicché l’art. 5, anche se letto nel senso che le autorità nazionali
debbano irrogare solo ammende e penalità di mora previste dalle leggi nazionali,
implicitamente impone agli ordinamenti nazionali di prevedere, appunto, ammende e
penalità di mora per le violazioni delle leggi antitrust (salvo poi il potere discrezionale di
prevedere “qualsiasi altra sanzione”). Ma se così è, sarebbe poi incoerente con le esigenze
di armonizzazione del mercato interno che poi ciascuno Stato membro prevedesse
ammende e penalità di mora di entità diversa (o applicabili a soggetti o con criteri diversi),
rispetto a ciò che è sancito nelle norme comunitarie.
In altri termini, la disposizione citata dev’essere letta, a mio avviso, nel senso che gli Stati
membri devono introdurre, nei loro ordinamenti, con norma espressa (sempre in rispetto
del principio di legalità, che regge i poteri delle autorità amministrative) ammende e penalità
di mora uguali a quelle previste dal diritto comunitario, salvo la possibilità di prevedere
sanzioni aggiuntive. Disposizione, quest’ultima, anch’essa politicamente inopportuna, a mio
avviso, ma spiegabile per la gelosa volontà di alcuni Stati di mantenere in materia strumenti
repressivi propri, e in particolare sanzioni penali.
In Italia, il problema è praticamente risolto per ciò che riguarda le ammende, in quanto il
già richiamato art. 54, l. 52/1996, estende agli illeciti antitrust comunitari l’applicazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie di diritto interno (che sono determinate in misura
identica a quella prevista del diritto comunitario).
V. per tutti MENGOZZI, op.cit., 227-8, che critica peraltro la soluzione, affermando che, con essa, si è perduta
“l’occasione per operare un’opportuna uniformizzazione”.
91
117
Rimane invece, per ora, priva di base normativa interna l’applicabilità delle penalità di mora
per ritardata ottemperanza agli ordini dell’Autorità.
A parte questo punto, deve ancora segnalarsi che l’applicazione decentrata delle norme
comunitarie da parte dell’autorità antitrust amministrativa nazionale è sospesa nel caso in
cui il caso sia avocato a sé dalla Commissione CE. La stessa regola non vale nel caso in cui
una norma comunitaria sulla concorrenza sia invocata dinanzi ad un giudice nazionale. Non
c’è dunque una pregiudiziale amministrativa comunitaria (anche se vi sono procedimenti in
corso, sullo stesso caso, dinanzi alla Commissione CE). E’ però stabilito (art. 16, Reg.
1/2003 CE) che anche il giudice nazionale deve uniformarsi alle decisioni della
Commissione, se già adottate.
6. Il dovere di disapplicazione delle norme interne contrastanti con il diritto
comunitario della concorrenza92
L’applicazione diretta delle norme comunitarie comporta anche, in base al principio del
primato del diritto comunitario e dell’integrazione fra diritto comunitario e diritti nazionali,
l’inefficacia delle norme interne contrastanti con le norme comunitarie direttamente
applicabili93.
In applicazione di tali principi, l’art. 86 (ex 90) CE è stato da tempo interpretato come un
vincolo alla discrezionalità politica degli Stati, nella creazione di monopoli legali o di regimi
di diritti speciali od esclusivi a favore di determinate imprese. Ciò ha consentito alla Corte
di Giustizia di dichiarare l’illegittimità comunitaria di norme nazionali che riservavano allo
Stato determinate attività economiche (come, ad esempio, i servizi postali speciali o il
collocamento dei lavoratori)94 ed ha consentito, soprattutto, agli organi di governo della
92BIBLIOGRAFIA:
M. LIBERTINI, La disapplicazione delle norme contrastanti con il principio comunitario di tutela della
concorrenza, in Giorn. dir. amm., 2003, 1135 ss.; C. RIZZA, L’obbligo delle autorità nazionali di disapplicare le norme
interne contrarie al Trattato e i conseguenti limiti alla proponibilità della “State action defense” (Causa C-198/01,
CIF/Autorità Garante), in Giur.comm., 2004, II, 6 ss.; R. CARANTA, La disapplicazione di disposizioni nazionali in
contrasto con il diritto comunitario della concorrenza, in Urbanistica e appalti, 2004, 158 ss.
93 Cfr., per tutti, G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Laterza, Bari, 1999, cap.VII. V. anche Corte Cost., 8 giugno
1984, n.170.
94 Cfr. Corte Giust. CE, 23 aprile 1991, C-41/90, Hoefner; C.Giust. CE, 19 maggio 1993, C-320/91, Corbeau; Corte Giust.
CE, 11 dicembre 1997, C-55/96, Job Centre.
E’ interessante notare che, nella sua ratio originaria, l’art. 86 Tr. CE garantiva il mantenimento dei monopoli pubblici
nazionali, anche se limitava la deroga alle esigenze di rispetto della “specifica missione” affidata a tali imprese dai diritti
nazionali. L’art. 86, al primo comma, vieta però agli Stati membri di dettare misure che consentano alle imprese titolari di
diritti speciali od esclusivi di abusare della propria posizione dominante. Da qui le premesse per la giurisprudenza della
Corte che, ritenendo in certi casi inevitabile che la misura di regolazione nazionale comportasse violazioni sostanziali del
118
Comunità di emanare il corpus di direttive che ha portato alla liberalizzazione dei principali
settori tradizionalmente regolati attraverso lo strumento dei diritti speciali ed esclusivi per
finalità di servizio pubblico (telecomunicazioni, energia, poste, ferrovie).
Al di là dei settori economici che sono stati investiti dalle nuove regolazioni amministrative
proconcorrenziali, rimaneva però il vasto mare delle regolazioni amministrative, spesso di
antica origine, di tipo lato sensu corporativo, e quindi anticoncorrenziale. Anche con
riferimento a questi fenomeni, i principi di rispetto del diritto comunitaria della
concorrenza sono stati affermati con una recente sentenza, che ha avuto molto risalto95.
In particolare, la Corte di Giustizia ha sancito che:
1. gli artt. 81 CE e 82 Tratt. CE, in combinato disposto con l’art. 10 Tratt. CE, obbligano
gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore norme legislative o regolamentari
idonee ad eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese;
2. il principio del primato del diritto comunitario impone che sia disapplicata qualsiasi
disposizione nazionale in contrasto con una norma comunitaria;
3. tale dovere di disapplicare una normativa nazionale in contrasto con il diritto
comunitario incombe non solo sul giudice nazionale, ma anche su tutti gli organi dello
Stato, comprese le autorità amministrative;
4. se la norma nazionale impone alle imprese un dovere di attuare il comportamento
anticoncorrenziale, essa costituisce, per il periodo precedente la decisione di
disapplicazione, una causa giustificatrice del comportamento, e sottrae quindi le
imprese interessate a qualsiasi conseguenza per la violazione delle norme poste a tutela
della concorrenza;
5. dal momento in cui la decisione di cui al punto 4 diviene definitiva, le imprese non
possono più invocare una causa di giustificazione, e il loro comportamento diventa
passibile di sanzioni;
6. se la legge nazionale si limita a sollecitare o a facilitare l’adozione di comportamenti
anticoncorrenziali autonomi da parte delle imprese, essa non fornisce alle imprese una
causa di giustificazione, ma può essere valutata come circostanza attenuante.
Resta però necessario qualche approfondimento sui modi in cui norme interne di
regolazione amministrativa possono essere sindacate alla luce dei principi di tutela della
concorrenza, essendo questo passaggio meno semplice di quanto possa apparire dalla
lettura della sentenza.
divieto di abuso, ha sostanzialmente invalidato le norme nazionali istitutive del monopolio legale. In tal modo, l’art. 86
Tr.CE, da norma di garanzia per gli Stati membri, è divenuta norma limitativa dell’autonomia legislativa degli stessi in
ordine alla possibilità di creare o mantenere monopoli legali.
95 Corte Giust. CE, 9 settembre 2003, C-198/01, Consorzio Italiano Fiammiferi.
119
A tal proposito, si deve muovere da una prima considerazione: gli artt. 81 e 82 Tratt. CE si
applicano solo ai comportamenti di imprese, per cui il problema di un’applicazione diretta
di tali norme può prospettarsi solo nel caso in cui le regolazioni amministrative lascino, alle
imprese di cui si tratta, spazi di autonomia per determinare le modalità di funzionamento di
un determinato mercato.
Se invece le regole anticoncorrenziali sono direttamente fissate da una legge o da un
regolamento, sicché le imprese che ne godono non hanno alcun margine di autonomia in
ordine a possibili modificazioni (si pensi alla disciplina delle farmacie), si può prospettare il
diverso problema della violazione dell’art. 86 Tr.CE da parte dello Stato (con eventuale
procedura di infrazione in sede comunitaria)96, ma non un problema di violazione degli artt.
81 o 82 da parte delle imprese interessate. La disapplicazione potrà essere eventualmente
invocata (per opporsi all’applicazione di una sanzione prevista dal diritto interno) solo da
un’impresa che abbia violato una norma interna di divieto, avente un contenuto
contrastante con i principi del diritto comunitario della concorrenza.
A parte ciò, un secondo presupposto per l’eventuale disapplicazione di norme interne
contrastanti con i principi comunitari di tutela della concorrenza, sta nel fatto che questi
principi si applicano solo alle restrizioni della concorrenza che comportino, altresì, un
“pregiudizio al commercio fra gli Stati membri”.
Per quanto tale nozione possa essere interpretata estensivamente (come già ricordato), fino
a comprendervi anche situazioni di concorrenza potenziale, restano comunque numerose
situazioni in cui i confini del mercato rimangono strettamente nazionali (o subnazionali): ad
esempio, per l’operare della barriera linguistica, o per gli elevati costi di trasporto dei
prodotti, o per altre ragioni ancora.
Ciò significa che rimangono al di fuori dell’ambito di applicazione dei principi affermati
nella sentenza diversi mercati amministrativamente regolati: taxi, bar, ristoranti, editoria
locale, vari servizi alle imprese o alle persone, ecc.
In tali casi il contrasto (di principio) con la norma comunitaria non può avere rilevanza, e
l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato vedrà limitati i suoi poteri dall’art. 21, l.
10.10.1990, n.287: dovrà dunque limitarsi ad esercitare il proprio potere di segnalazione al
Governo e al Parlamento o agli altri enti pubblici competenti con riguardo alla regolazione
96
Conf. C. RIZZA, op.cit., 11.
120
contestata. Non potrà invece irrogare diffide o sanzioni nei confronti delle imprese
interessate97.
Con riguardo ai mercati in cui il contrasto con la norma comunitaria può direttamente
rilevare, si impone una ulteriore considerazione: l’art. 81 CE, nella lettura datane dal Reg.
1/2003 CE (supra, § 8), non è una norma che vieta in modo assoluto limitazioni della
libertà di iniziativa economica e di concorrenza delle imprese; è, piuttosto, una norma che
ammette limitazioni della libertà d’iniziativa individuale, se e in quanto tali limitazioni si
accompagnino a quei risultati positivi, per il buon funzionamento del mercato, che sono
indicati nell’art.81 § 3 CE (miglioramento dell’offerta, progresso tecnologico, benefici per i
consumatori, ecc.).
Questi criteri di valutazione, che sono dettati per le intese fra privati, devono valere anche
per le regolazioni amministrative, che risulteranno dunque incompatibili con il divieto
dell’art.81 §1 CE solo quando siano prive di quegli effetti positivi, che sono indicati
nell’art.81 §3 CE.
Se così è, il sindacato di legittimità comunitaria delle norme di regolazione amministrativa
dei mercati deve svolgersi attraverso un preciso esame dell’oggetto e dell’effetto delle
regolazioni stesse, e deve anche vagliare le possibilità di interpretazione conservativa delle
norme interne.
In altri termini, è possibile che una norma istituisca “programmi e controlli” (ai sensi
dell’art. 41, comma 3, Cost.) per l’esercizio di determinate attività economiche, senza però
prevedere limiti numerici, o prezzi imposti, o altri contenuti prima facie restrittivi della
concorrenza.
In questi casi la disciplina, ancorché storicamente risalente, dev’essere interpretata in modo
conforme ai vigenti principi di tutela della concorrenza, sicché l’autorità amministrativa
avrà il potere discrezionale di fissare requisiti tecnici, finanziari od organizzativi per
l’esercizio dell’attività, in modo proporzionato e funzionale all’interesse dei consumatori, e
potrà anche, se la norma lo prevede, delineare programmi di sviluppo e modalità di
controllo sull’attività delle imprese. Sarà invece illegittimo qualsiasi atto che disponga
limitazioni non indispensabili della concorrenza (esempio: prezzi imposti) o comunque
produca effetti restrittivi della concorrenza non giustificati da maggiori effetti benefici per il
97 Rimane solo la possibilità che il giudice, adito da un soggetto interessato, sollevi, sulla base di una lettura
filoconcorrenziale dei principi costituzionali interni (art.41 e art.117 Cost.), una questione di legittimità costituzionale della
norma istitutiva del potere regolatorio contestato.
121
mercato e i consumatori, alla stregua di quella “somma algebrica” che è richiesta dall’art. 81
§3 CE.
Non si pone in questi casi, dunque, un problema di disapplicazione delle norme interne di
regolazione, bensì di corretta applicazione delle stesse alla luce dei principi di tutela della
concorrenza. Su questa base, la regolazione potrà contenere anche legittime disposizioni
restrittive della libertà di concorrenza (ad esempio: controlli sull’accesso al mercato,
standardizzazione di prodotti), che siano giustificate da una o più di quelle ragioni che la
stessa Autorità antitrust ha individuato nella sua comunicazione AS 226 del 20 dicembre
2001 (situazioni di monopolio naturale, presenza di esternalità negative, asimmetrie
informative, esigenze di servizio universale).
Ciò significa, in altri termini, che le autorità amministrative, che dispongano di poteri di
intervento autoritativo in certi mercati, hanno il dovere di motivare gli atti di loro
competenza (sia quelli a contenuto generale, sia quelli a contenuto particolare), anche alla
stregua dei criteri stabiliti nell’art. 81 §3 CE.
L’eventuale atto regolativo illegittimo sarà dunque soggetto ai rimedi invalidativi e
risarcitori previsti dalle norme generali dell’ordinamento, senza necessità di disapplicare la
norma istitutiva del relativo potere. Se poi il soggetto titolare della potestà regolatoria è un
ente associativo al quale partecipano le imprese interessate (es. consorzio obbligatorio,
ordine professionale, ecc.) tale ente (a prescindere dalla sua qualificazione, come pubblico o
privato, di diritto interno) sarà qualificato come “associazione di imprese” ai sensi delle
norme antitrust e potrà essere anche soggetto alle relative sanzioni.
Il problema si pone in termini diversi quando la norma interna espressamente preveda
misure incompatibili con le norme di diritto comunitario della concorrenza (come, ad
esempio, la determinazione di prezzi minimi o di contingentamenti della produzione).
In tali casi il contrasto con la norma comunitaria non potrà essere evitato attraverso la
corretta interpretazione della norma interna, per cui si dovrà ricorrere alla disapplicazione
della stessa per contrasto con il diritto comunitario. Disapplicazione che, di solito, potrà
limitarsi alle disposizioni effettivamente incompatibili, lasciando poi che il residuo corpus di
norme regolatorie rimanga in vigore, assumendo la stessa portata delle norme di
regolazione non necessariamente anticoncorrenziali, di cui si è discorso in precedenza.
Il potere-dovere di disapplicare spetta a qualsiasi autorità pubblica che sia chiamata ad
applicare la norma illegittima per contrasto con il diritto comunitario. Ciò comporta, in
primo luogo, un potere-dovere di autocorrezione (attraverso la disapplicazione delle norme
122
illegittime) in capo alla stessa autorità titolare dei poteri contestati. Infatti il contrasto con il
diritto comunitario determina ipso iure l’invalidità e l’inefficacia della norma interna. Non
occorre dunque, in linea di principio, una pronuncia del giudice o dell’Autorità antitrust o
di altra autorità amministrativa indipendente.
Ci si può dunque chiedere, sempre in linea di principio, se possa essere posto un problema
di colpevole difetto di autocorrezione da parte del soggetto competente ad applicare la
normativa contestata.
La soluzione dev’essere, nella maggior parte dei casi, negativa, perché l’autorità
amministrativa competente potrà almeno invocare un errore scusabile. Infatti, il contrasto
con la norma comunitaria può affermarsi solo dopo che sia accertato il superamento della
soglia comunitaria nei confini del mercato rilevante (il “pregiudizio al commercio fra gli
stati membri”), e sia altresì accertata la produzione di un effetto anticoncorrenziale
incompatibile con il diritto comunitario, alla stregua di quella sorta di rule of reason, che è
sancita nell’art. 81 §3 CE. Si tratta di accertamenti alquanto complessi, che sono stati spesso
ritenuti di natura tecnico-discrezionale. Salvo casi estremi, è dunque difficile che possa
imputarsi come colpevole l’azione di un’autorità amministrativa, che abbia applicato una
norma interna formalmente in vigore, ma sostanzialmente contrastante con il diritto
comunitario della concorrenza. E ciò è tanto più vero in quanto, per tutte le regolazioni
amministrative contestate (si pensi, in primo luogo, alla disciplina delle professioni
intellettuali), sono frequenti le opinioni (di giuristi anche prestigiosi) che sostengono la
piena compatibilità con i principi del diritto comunitario.
La valutazione dell’azione amministrativa ovviamente cambia quando vi siano stati una
decisione giudiziaria, o un provvedimento dell’Autorità Garante, che abbiano sancito la
contrarietà della norma interna al diritto comunitario. Se le decisioni non sono ancora
definitive, l’autorità competente ha il dovere di tenerne conto, ma può ancora
discostarsene, motivando adeguatamente i propri atti. Se invece la decisione è passata in
giudicato, o il provvedimento è divenuto definitivo, l’autorità amministrativa competente
non potrà più avanzare giustificazioni e dovrà anch’essa disapplicare la norma giudicata
illegittima.
Discorso diverso vale per le imprese interessate98. Queste sono obbligate a rispettare il
provvedimento dell’Autorità Garante prima ancora che sia divenuto definitivo, a meno che
98 Secondo RIZZA, op.cit., 14, tale conclusione vale solo per le imprese che siano state formalmente parte del
procedimento amministrativo. L’affermazione è formalmente corretta, perché la disapplicazione non equivale ad
abrogazione della norma. Tuttavia, se è vero quanto affermato nel testo, e cioè che le autorità amministrative competenti
dovranno uniformarsi ai provvedimenti dell'Autorità Garante, una volta divenuti definitivi, ciò sostanzialmente deve
123
non venga sospeso dal T.A.R. Sul piano soggettivo, quindi, l’efficacia del provvedimento è
già sufficiente a fondare un giudizio di colpa, sufficiente sia per un eventuale giudizio civile
di responsabilità, sia per un’eventuale applicazione di sanzioni amministrative per
inottemperanza.
Quanto detto si riflette però diversamente sul problema dell’imputabilità dell’infrazione alle
imprese direttamente interessate, a titolo di colpa o dolo (situazione che costituisce
presupposto per la legittimità dell’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, oltre
che per i giudizi di responsabilità civile), prima della emanazione di un provvedimento
dell’Autorità Garante.
In proposito, si deve muovere dall’ovvia considerazione che l’impresa, come soggetto
privato, non ha il potere, e tanto meno il dovere, di disapplicare una norma giuridica
interna formalmente in vigore.
E’ vero che la giurisprudenza comunitaria ha da tempo enunciato il criterio sostanzialistico
secondo cui, quando una regolazione amministrativa è frutto dell’azione dei privati
interessati, poi solo formalmente avallata dal soggetto pubblico, i privati potranno essere
considerati responsabili dell’infrazione alle norme antitrust, che essi stessi hanno
programmato. Si può anche convenire con questo orientamento del diritto comunitario
(che costituisce una sorta di parallelo giuridico della teoria economica della “cattura” dei
regolatori da parte degli interessi regolati). E’ però a dire che la prova di una sostanziale
strumentalità del soggetto pubblico rispetto a decisioni private non sarà, di solito, semplice
né lineare.
Nei casi normali, l’esistenza di una norma giuridica interna legittimante dovrebbe costituire
piena causa di giustificazione, per l’impresa privata.
In proposito, la Corte di Giustizia, nella sentenza richiamata99 distingue tra il caso in cui la
norma imponga un certo comportamento restrittivo della concorrenza, dal caso in cui
semplicemente lo autorizzi. Solo nel primo caso vi sarebbe un’esimente; nel secondo vi
sarebbe solo un’attenuante.
Si è già detto sopra che questa soluzione è convincente quando la norma interna abbia un
contenuto generico, e solo in sede di applicazione il potere regolatorio sia stato indirizzato
verso esiti anticoncorrenziali. In questo caso, l’azione dei soggetti titolari del potere può
riflettersi anche sui comportamenti e sulle aspettative delle imprese interessate (e non può essere privo di conseguenza
anche ai fini del giudizio di colpevolezza in caso di controversie fra privati).
99 Supra, nota 31.
124
essere, in certo senso, equiparata a quella di un soggetto privato che abbia abusato della
propria autonomia per negoziare accordi in violazione delle norme antitrust.
Diversa mi sembra invece la valutazione da dare nel caso in cui la norma interna
espressamente autorizzi (anche se non imponga) un comportamento restrittivo della
concorrenza (ad esempio: imponga un prezzo massimo, ma non fisso, oppure preveda la
stipulazione di accordi fra gli operatori di un settore per autodisciplinare alcuni aspetti del
funzionamento di un certo mercato). In questi casi, le stesse esigenze garantistiche che,
secondo la Corte, impongono di riconoscere come causa di giustificazione l’adempimento
di un dovere, imporrebbero anche di estendere la giustificazione all’ipotesi in cui può
parlarsi di esercizio di un diritto. Credo che l’equiparazione delle due situazioni risponda ad
una indicazione di principio, presente in tutti i diritti degli stati dell’Unione europea.
In sostanza, credo che la massima indicata dalla Corte di Giustizia richieda una distinzione,
al proprio interno, fra i casi in cui le imprese interessate si siano avvalse di un generico
potere di autonomia (non importa se in veste privata o in veste amministrativa), dal caso in
cui abbiano posto in essere un comportamento espressamente autorizzato da una norma
legale o regolamentare o amministrativa, emanata da un’autorità ad esse esterna. In
quest’ultimo caso non può negarsi la ricorrenza di una causa di giustificazione putativa,
perché il comportamento è (apparentemente) qualificato come lecito da una norma esterna,
e l’applicazione di una sanzione amministrativa richiederebbe invece la qualificazione del
comportamento stesso come illecito, determinando un’evidente contraddizione fra norme.
Il punto non è privo di importanza, anche per i possibili riflessi che possono aversi sulle
pretese risarcitorie di privati danneggiati100.
7. Diritto comunitario e diritto nazionale nella legge antitrust italiana
Premesso che il legislatore nazionale non ha il potere di disattendere le regole comunitarie,
deve riconoscersi che il legislatore antitrust italiano, con la legge 287 del 1990 è sembrato
consapevole della fase di transizione che attraversava il diritto comunitario della
concorrenza e dell’opportunità di garantire, in primo luogo, una piena omogeneità di
contenuti fra norme comunitarie e norme nazionali.
100
Cfr., sul punto, RIZZA, op.cit., 12.
125
Da qui alcune soluzioni originali del problema, nelle scelte del legislatore
e
nell’applicazione che ne ha dato, nei primi anni, l’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato.
In primo luogo, rinunziando ad ogni malinteso spirito nazionalistico, la legge 287, ha
esplicitamente escluso ogni soluzione in termini di “doppia barriera”, per quanto attenuata.
L’art. 1, comma 1, dispone infatti chiaramente che le norme nazionali si applicano solo alle
fattispecie che non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme comunitarie. Si è in tal
modo adottata una soluzione netta, in termini di “barriera unica” ovvero di “esclusione
reciproca”.
Tale soluzione è destinata a rimanere ferma anche se l’art. 3, Reg. 1/2003 CE, sancisce la
regola della “doppia barriera”, nella versione attenuata in conseguenza del rispetto del
principio del primato del diritto comunitario (supra, § 4). La disposizione del regolamento
deve intendersi come un’autorizzazione data agli Stati nazionali a mantenere in vigore
proprie norme nazionali antitrust applicabili, in via puramente integrativa, a fattispecie già
rilevanti per il diritto comunitario. Ciò non significa che lo Stato nazionale abbia l’obbligo
di far ciò. Se uno Stato, come è avvenuto per la Repubblica italiana, rinunzia alla facoltà di
dettare norme integrative, e preferisce adottare il criterio della “barriera unica”, cioè
dell’applicazione alternativa delle norme comunitarie o di quelle nazionali, tale soluzione
non determina alcun contrasto con il diritto comunitario e deve considerarsi pertanto
perfettamente valida.
Il dato letterale della disposizione richiamata ha fatto poi prospettare anche una tesi
estrema, secondo cui le norme delle legge nazionale 287 in materia di concentrazioni non si
applicherebbero a quelle fattispecie che, pur non rientrando nell’ambito di applicazione del
regolamento comunitario 4064/89 in materia di concentrazioni, possano comunque
presentare profili di applicabilità dell’art. 81 o dell’art. 82 del Trattato101. Questa
conclusione sarebbe però contraria alla ratio delle stesse norme comunitarie relative al
riparto di competenze fra autorità antitrust europee e nazionali, che il legislatore italiano ha
certo voluto assecondare. La scelta del legislatore italiano in termini di “esclusione
reciproca” è dunque diretta a realizzare un controllo completo sulle fattispecie
anticoncorrenziali, con una razionale divisione di compiti fra le due autorità.
E’ dunque prevalsa, in dottrina102 e nell’applicazione pratica, la soluzione interpretativa per
cui il criterio dell’esclusione reciproca va applicato distintamente per ciascuna fattispecie,
Cfr. M.BIN, Antitrust : la normativa italiana sulle concentrazioni ha qualche reale ambito di applicazione ?, in Contratto e impresa /
Europa, 1996, 1 ss.
102 Cfr. AUTERI, op.cit., 540.
101
126
sicché un’operazione di concentrazione non rientrante nel campo di applicazione delle
norme comunitarie sulle concentrazioni sarà senz’altro soggetta alle norme italiane in
materia (se a sua volta supera le soglie dimensionali stabilite nell’art. 16, legge 287). E ciò
indipendentemente dal fatto che possano prospettarsi, in astratto, altri e diversi profili di
rilevanza comunitaria della fattispecie.
Il comma 3 dell’art. 1 della legge 287 dispone poi –conformemente a prescrizioni ormai
tradizionali del diritto comunitario (v. ora l’art. 11, comma 6, Reg. 1/2003), che, “per le
fattispecie in relazione alle quali risulti già iniziata una procedura presso la Commissione
delle Comunità europee...l’Autorità sospende l’istruttoria”.
E’ esclusa quindi la possibilità di un conflitto positivo di competenza, ed anche quella di
un’applicazione rafforzativa o integrativa delle norme nazionali, per la medesima fattispecie
oggetto di procedimento comunitario.
Rimaneva a questo punto la possibilità di conflitti negativi di competenza, o comunque di
vuoti applicativi delle norme antitrust.
A tal proposito, il comma 2 dell’art. 1 L.287/1990, dispone che l’Autorità italiana, se ritiene
che una fattispecie al suo esame non rientri nell’ambito di applicazione della legge
nazionale, ne informa immediatamente la Commissione C.E., ma non sospende la
procedura. La disposizione va interpretata nel senso che non è neanche ammessa una
sospensione facoltativa, non solo perché questa dovrebbe essere pur sempre prevista dalla
legge, ma anche perché essa potrebbe determinare ritardi e vuoti nell’applicazione della
disciplina, in contrasto con l’intenzione del legislatore.
La sospensione diviene invece obbligatoria nel caso in cui la Commissione abbia avviato
una procedura centralizzata con un atto autoritativo e formale. Non è a tal fine sufficiente
una iniziativa informale della Commissione (ad esempio: richieste di informazioni, incontri
informali, e simili)103. Ancor meno rilevante può essere un’iniziativa di parte, in termini di
denunzia e di notificazione di un’intesa.
A questo punto, se l’Autorità deve continuare la procedura, per una fattispecie che essa
ritiene di rilevanza comunitaria, le norme sostanziali da applicare saranno quelle
comunitarie e non quelle nazionali104.
Cfr. Corte Giust. CE, 6.2.1973, C 48/72, Brasserie de Haecht, in Racc., 1973, 101. In dottrina A.SAGGIO, op.cit., 702.
tal senso, infatti, A. FRIGNANI, in Diritto antitrust italiano, a cura di Frignani e aa., Zanichelli, Bologna, 1993, 136 ss.;
F. MUNARI, in Concorrenza e mercato, a cura di V. Afferni, Cedam, Padova, 1995, 22 ss. Il legislatore italiano,
nell’interpretazione delle norme della legge 287 data in un primo tempo dall’Autorità Garante, sembrava però avere scelto
103
104In
127
La soluzione è stata espressamente sancita dall’art. 54. l. 52/1996. Tale legge ha
sostanzialmente riconosciuto all’Autorità antitrust nazionale un potere che già le spettava,
in base alle norme comunitarie. Tuttavia, come già sopra ricordato, ha avuto l’importante
ruolo di rafforzare i poteri dell’Autorità Garante, attribuendole, anche quando agisce come
autorità decentrata di diritto comunitario, tutti i poteri di cui alla legge 287, compreso
quindi quello di applicare sanzioni pecuniarie105, con l’esclusione –anch’essa destinata ora a
cadere con l’entrata in vigore del Reg. 1/2003, del solo potere di esenzione di cui all’art.81,
comma 3, Tr. CE.
7.1. Incertezze marginali nell’applicazione del principio di esclusione reciproca
Anche se il legislatore italiano ha voluto evitare il più possibile conflitti positivi o negativi di
competenza, rimane qualche possibilità di interferenza tra le due normative.
Se la Commissione ha avviato una procedura in base alle norme comunitarie, l’Autorità
deve sospendere la propria procedura (art. 1, comma 3).
Se però la procedura comunitaria si conclude con un’attestazione negativa, occorre
verificare se tale attestazione è motivata in considerazione della mancanza di effetti
anticoncorrenziali, ovvero della mancanza di pregiudizio al commercio fra gli stati membri,
o ancora, della mancanza di interesse comunitario ad intervenire.
un’altra via, ugualmente ed anzi più rispettosa del diritto comunitario. La soluzione era fondata su due punti-base: l’avere
dettato norme proibitive interne contenutisticamente conformi alle norme comunitarie, e l’avere sancito, nel comma 4
dell’art.1, che l’interpretazione delle norme del titolo I della legge 287 (cioè di quelle norme che si pongono in parallelo
con analoghe norme comunitarie) “è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di
disciplina della concorrenza”. Una volta garantita una piena omogeneità di contenuto fra norme antitrust nazionali e
comunitarie, l’Autorità garante ha potuto affermare, nei primi anni di applicazione della legge, che non esistevano spazi,
nell’ordinamento italiano, per un’applicazione diretta degli artt. 85 e 86 del Trattato CE da parte dell’autorità nazionale.
Questo orientamento, per quanto formalmente eterodosso rispetto ai principi, non è stato contestato dalle autorità
comunitarie, e ciò fa pensare che esso rispettasse sostanzialmente il principio del primato del diritto comunitario.
L’Autorità nazionale, applicando norme sostanziali interne di contenuto identico a quello delle norme comunitarie, poteva
esercitare quei pieni poteri di valutazione, che invece apparivano preclusi in caso di applicazione diretta delle norme
comunitarie. La soluzione, benché interessante e sostanzialmente anticipatoria dell’evoluzione del diritto comunitario
indicata nel sopra citato “Libro bianco”, è stata però modificata con l’ art.54, comma 5, l. 6.2.1996, n. 52. Con tale
disposizione è stato sancito che l’A.G.C.M., “in quanto autorità nazionale competente in materia di concorrenza,
applica… gli artt. 85 [ora 81], paragrafo 1, e 86 [ora 82] del Trattato… utilizzando i poteri ed agendo secondo le
procedure” di cui alla legge 287 del 1990. La modifica riconduce la disciplina nazionale nell’alveo dell’ortodossia formale
comunitaria.
105 Conf., sul punto, AUTERI, 549. Contra, tuttavia, O. PORCHIA, L’applicazione degli artt. 85-86 del Trattato CE da parte
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. commercio internaz.,1995, 871 (per la quale il riferimento ai “poteri”
attribuiti dalla legge 287 si riferirebbe solo a quelli istruttori; ma tale interpretazione restrittiva depotenzierebbe, contro la
ratio della scelta legislativa, l’efficacia della soluzione adottata).
128
Nel primo caso, la valutazione delle autorità comunitarie sarà sostanzialmente vincolante
per l’autorità nazionale.
Nel secondo caso, non vi sono preclusioni di diritto comunitario alla riapertura del
procedimento interno. Questa è anzi obbligatoria, e ad essa non fa ostacolo il termine di
120 giorni per l’avvio dell’istruttoria, previsto dall’art. 13 della legge 287. Nei casi in
questione, infatti, l’istruttoria era stata già avviata, e il tempo trascorso è dovuto ad un
factum principis (il procedimento dinanzi alla Commissione) e non è imputabile all’Autorità
garante.
Nel terzo caso, l’Autorità nazionale dovrà continuare la procedura ed applicare le norme
comunitarie.
Il comma 3 dell’art. 1 della legge 287, nel sancire l’obbligo di sospensione del procedimento
da parte dell’Autorità garante, in caso di avvio del procedimento comunitario, fa poi salvi
“gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale”.
Questo inciso, per la verità eccessivamente sintetico, ha dato luogo a due diverse
interpretazioni.
Per la prima, esso si riferisce ai casi in cui la fattispecie, su cui è stato avviato l’esame della
Commissione, ha contenuto complesso, e presenta aspetti concettualmente scindibili (ad
esempio una o più clausole del contratto), che certamente non hanno rilevanza
comunitaria. In tal caso, l’Autorità nazionale potrebbe continuare l’istruttoria su questi
aspetti, senza bisogno di attendere una pronuncia di attestazione negativa della
Commissione 106.
Per la seconda, l’inciso avrebbe una rilevanza soltanto procedimentale, e si riferirebbe ai
compiti di collaborazione delle Autorità nazionali con la Commissione, che sono sanciti
dagli artt. 11 e segg. del Reg. 1/2003 107.
Con questa seconda interpretazione, la norma nazionale sarebbe però del tutto superflua,
perché le norme di un regolamento comunitario, come erano quelle del Reg. 17/62, non
106Cfr.
M. MEROLA - G. RIZZA BAJARDO, Tutela della concorrenza nella legge n.287 del 1990: rapporti con l’ordinamento
comunitario, in Giur.it., 1991, IV, 532. Non condivisibile una diversa nozione di “scindibilità”, proposta da A. GUARINO,
Sul rapporto fra la nuova legge antitrust e la disciplina comunitaria della concorrenza, in Contratto e impresa, 1991, 649 ss., che prospetta
una scindibilità degli effetti e quindi una possibile disapplicazione delle esenzioni comunitarie.
107Cfr., già nel vigore del Reg. 17/62, A. FRIGNANI, in Diritto antitrust italiano, cit., 136 ss.
129
possono essere legittimamente derogate o modificate con legge nazionale. Perciò non è
plausibile che il legislatore abbia voluto semplicemente confermarne la vigenza108.
La prima interpretazione è dunque più plausibile. Essa si giustifica anche con ragioni di
economia processuale. Tuttavia, essa pone delicati problemi, in un sistema normativo che,
come si è visto, ha cercato di eliminare del tutto (finora riuscendovi) eventuali occasioni di
conflitto con l’ordinamento comunitario. Il rispetto di questa esigenza di carattere generale
impone pertanto un’interpretazione restrittiva della norma: è da ritenere che l’Autorità, se
intende proseguire l’istruttoria su aspetti scindibili, debba comunque prima ricercare,
almeno in via informale, il consenso della Commissione CE su questa scissione.
8. Il criterio di interpretazione filocomunitaria delle norme antitrust nazionali
Il già ricordato comma 4 dell’art.1 della l. 287/1990 dispone che le norme del titolo I della
legge stessa (cioè gli artt. 1-9, che fissano i princìpi della legge e determinano le fattispecie
vietate o comunque soggette a controllo) devono essere interpretate “in base ai principi
dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”.
Il legislatore ha così dettato una norma speciale interpretativa che, come si desume dai
lavori preparatori, ha una triplice ratio:
a) realizzare la massima coerenza possibile, sul piano degli obiettivi di politica della
concorrenza, fra ordinamento interno e ordinamento comunitario; e ciò anche al fine di
evitare, il più possibile, duplicazioni o conflitti;
b) assicurare alle imprese la certezza del diritto, e cioè un alto grado di prevedibilità delle
decisioni dell’Autorità; certezza e prevedibilità assai importanti, soprattutto per la novità dei
contenuti dell’antitrust rispetto alle tradizioni dell’ordinamento italiano;
c) limitare la discrezionalità dell’Autorità garante, nello stesso momento in cui ad essa si
garantisce l’indipendenza dal potere governativo; e ciò per evitare di attribuire un eccessivo
peso politico ad un organo politicamente irresponsabile.
Queste rationes sono tutte serie e condivisibili. Non paiono pertanto condivisibili le
preoccupazioni di parte della dottrina, che ha visto criticamente questa disposizione
108A
parte la considerazione che la Corte costituzionale ha considerato illegittime anche le norme interne semplicemente
ripetitive di norme di regolamenti comunitari, perché in tal modo verrebbe pur sempre alterata la collocazione della
norma comunitaria nel sistema delle fonti. Anche in questa prospettiva dunque la norma in esame, così interpretata,
sarebbe costituzionalmente illegittima. La tesi va perciò respinta anche in applicazione del canone di interpretazione
filocostituzionale.
130
interpretativa speciale, come se avesse un contenuto eversivo, ed ha cercato di conseguenza
di delimitarne l’impatto nel sistema (109).
Si giustifica, per contro, una interpretazione estensiva della stessa norma interpretativa110. Il
fatto che il legislatore abbia parlato di una interpretazione “in base ai principi” non significa
che abbia voluto dare solo un’indicazione di massima e richiamarsi solo alle disposizioni di
principio del diritto comunitario111. Se così fosse, rimarrebbero frustrati gli obiettivi di cui
alle lettere b e c. Evidentemente, il vincolo al potere dell’autorità, e la conseguente
prevedibilità delle decisioni, devono essere più definiti.
D’altra parte, l’espressione “in base ai principi” non implica una scelta restrittiva. Il
legislatore non avrebbe potuto dire correttamente “in conformità alle disposizioni”, perché
le disposizioni sono oggetto, piuttosto che criterio di interpretazione. E del resto, il
parallelismo dei testi normativi fondamentali, in materia di concorrenza, era stato già
realizzato dal legislatore, nel dettare i singoli articoli della legge 287, nelle parti in cui vi
sono interferenze con il diritto comunitario.
Il legislatore ha dunque perseguito l’obiettivo della massima possibile conformità delle
“norme” interne e comunitarie in materia di concorrenza; e per norma qui intendiamo il
“risultato” dell’attività interpretativa, la regola di diritto che viene costruita dall’interprete in
continuità con i testi normativi ed in coerenza con i principi dell’ordinamento.
A tal fine, l’indicazione testuale della “conformità ai principi” può essere già sufficiente.
Un’alternativa astrattamente possibile era quella di vincolare l’interpretazione del diritto
interno ai precedenti del diritto comunitario. Ma questa scelta era anche in parte superflua:
infatti, l’interpretazione delle norme comunitarie, data dalla Corte di Giustizia, è già
vincolante per le autorità nazionali, secondo l’indicazione desumibile dall’art. 177 del
Trattato. E per contro, l’attribuzione di un valore giuridico vincolante a decisioni di
Questa interpretazione riduttiva della disposizione in esame fu però sostenuta da diversi autori, nella prima fase di
vigenza della legge 287. In particolare va segnalata, per la sua autorevolezza, la presa di posizione in tal senso del primo
presidente dell’A.G.C.M. (F. SAJA, L’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato: prime esperienze e prospettive di applicazione
della legge, in Giur. comm., 1991, I, 458). Posizioni ancora più accentuate, nel senso della svalutazione della norma
interpretativa speciale, sono state poi sostenute da A. GUARINO, op.cit., e da M. PINNARO’, Diritto di iniziativa economica
e libertà di concorrenza, in Giur. comm., 1993, I, 430 ss. Da ultimo, su questa linea di pensiero, è anche M. RICOLFI,
Antitrust, in Tratt. dir. comm., a cura di G. Cottino, vol.II, Cedam, Padova, 2001, p. 556 ss.
Ha tentato una sintesi delle diverse posizioni, analizzando la concreta prassi applicativa dell’Autorità Garante, F. P.
CROCENZI, L’articolo 1, 4° comma, della l. 287/90: ortodossia o eterodossia dell’Autorità Garante rispetto all’antitrust europeo?, in
Concorrenza e mercato, 5/1997, 165 ss..
110 In tal senso v., soprattutto, DENOZZA, op.cit., 649 ss.
111 V. supra, nota 46.
109
131
un’autorità governativa, e non giurisdizionale, qual è la Commissione CE, costituiva
soluzione troppo distante dalle tradizioni della nostra cultura giuridica.
Tuttavia, il risultato oggettivamente determinatosi, con l’introduzione della norma
interpretativa in esame, non è molto distante da quello che si sarebbe determinato con
l’esplicita introduzione della tecnica del precedente.
Infatti, il vincolo interpretativo imposto dall’art. 1, comma 4, per realizzare i suoi obiettivi
di coerenza e di certezza, deve fare riferimento a quello che potremmo chiamare il diritto
comunitario “vivente” in materia di concorrenza. Mutuando l’espressione “diritto vivente”
dalla terminologia costituzionalistica, ad essa possiamo fare riferimento tanto per le
sentenze della Corte di Giustizia, quanto per gli orientamenti interpretativi consolidati della
Commissione.
In questa prospettiva, si è detto che la norma del comma 4 opera come una norma di
“interpretazione autentica”112. L’espressione è sicuramente impropria, perché
l’interpretazione autentica, per definizione, dev’essere successiva all’entrata in vigore della
disposizione interpretata, e presuppone l’esistenza di una controversia interpretativa in atto.
Oltretutto, si tratterebbe di una interpretazione autentica particolare, perché i suoi
contenuti sono determinati per relationem.
Ciò che conta è che si tratta di una norma interpretativa vincolante, all’interno
dell’ordinamento italiano, sicché le eventuali decisioni dell’Autorità, che si discostino dal
diritto comunitario vivente della concorrenza, sarebbero viziate di illegittimità per
violazione di legge.
Per le stesse ragioni, la norma interpretativa è vincolante anche per i giudici nazionali, e non
solo per l’autorità amministrativa.
In conclusione, non si deve pensare ad una mortificazione dell’attività interpretativa delle
autorità italiane. L’attività interpretativa ha sempre un ruolo “creativo”, quali che siano i
dati di partenza. Anche nei paesi in cui è stabilito il valore del precedente, le sottili
discussioni sulla ratio decidendi, e quindi sull’effettiva portata del valore vincolante del
precedente, consentono aperture sistematiche e richiami ai principi, non meno profondi di
quelli che sono possibili in sistemi di diritto positivo legale.
Così, nel dibattito parlamentare sul punto, ebbe a pronunciarsi l’on.Viscardi. Ma l’espressione è stata ripetuta in
dottrina (GRANDI, op.cit.; M.V.BENEDETTELLI, Sul rapporto fra diritto comunitario e diritto italiano della concorrenza, in Foro
it., 1990, IV, 235).
112
132
La norma interpretativa della legge 287 impone all’interprete italiano di affrontare i
problemi interpretativi della legge stessa, quando essi presentino caratteri analoghi a quelli
che si pongono nel diritto comunitario, come se si trattasse di problemi di diritto
comunitario, e cioè ponendosi in una prospettiva “interna” all’ordinamento CE; ed impone
altresì, all’interprete italiano, di considerare gli orientamenti interpretativi, affermatisi
nell’ordinamento comunitario, come base di partenza da rispettare, anche in vista di uno
sviluppo razionale delle soluzioni.
Su questa base, l’interprete italiano ha pur sempre ampio spazio, anche per contribuire
all’evoluzione del diritto comunitario della concorrenza.
133
GLI AUTORI
ANTONIO SAGGIO, Presidente di Sezione, Corte Suprema di Cassazione
STEFANO MICOSSI, Direttore generale Assonime
AURELIO PAPPALARDO, Avvocato, Bonelli-Erede-Pappalardo
FRANCESCO DENOZZA , Professore ordinario di diritto commerciale, Università statale di
Milano
MARIO SIRAGUSA, Avvocato, Cleary Gottlieb Steen Hamilton
ERIKA GUERRI, Avvocato, Cleary Gottlieb Steen Hamilton
CRISTOFORO OSTI¸ Professore associato di diritto privato comparato, Università di Lecce
ALBERTO PERA, Gianni Origoni Grippo & Partners
ROBERTO PARDOLESI, Professore ordinario di diritto privato comparato, LUISS
MARIO LIBERTINI, Professore ordinario di diritto industriale, Università di Roma La
Sapienza
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