La formula dell’amore generativo CxC=C2 Avevo poco più di vent’anni, quando al chiaror sottile di un sole primaverile, mentre le prime ombre delle rondini inglesi, sfogliavano con me le pagine di un libro d’aforismi, mi cadde la vista su alcune parole di mistico valore. Il sole cascava dietro i palazzi fuori dal perimetro della confusione della città, finiva per tutti una giornata, solo che per ciascuno in maniera diversa. La mia finiva davanti ad una formula chimica che mescola luppolo orzo e lievito, come nella più classica delle tradizioni anglosassoni. La scienza allevia le pene, e rende la vita semplice attraverso sofisticati e machiavellici sistemi, elaborati algoritmi, teorie su particelle subatomiche.. insomma un fottuto inferno, per una pace hic et nunc. Suonava nelle mie orecchie e solo per me Monsieur Setie il suo primo “Gymnopedie” e sentivo le sue mani molli appoggiarsi come d’improvviso su quei tasti, mentre un soave amaro in bocca accompagnato dal leggero vento di Greenwich, riportò alla mia mente delle parole che poco tempo prima avevo letto: “Come un gas, l'anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato. S. Weil”. Quella frase era rivoluzionaria, mi parlava di scienza, c’era della scienza dentro, mi parlava dell’anima e del culto dell’amore. Cercai una sorta di algoritmo che potesse spiegare la dimensione e lo spazio che si accordato alla mia anima. Era geniale, non era solo filosofia, era misticismo, un culto dell’innamoramento del Divino in noi. Genio. Dopo qualche anno scoprii che apparteneva ad un testo dal titolo “L’ombra e la grazie”di S. Weil, un opere ricca di pensieri come questo che solo una mente di donna poteva partorire. “Come un gas, l'anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato “. Il mio pensiero era fisso, quasi ossessivo. E fù lì, in quell’ossessione, fra le bestemmie di un paio di vecchi ubriaconi ululanti ad una luna maculata fra la rete di un povero pescatore della propria squadra, che mi sentii al sicuro, cosicché formulai un costrutto teorico con finalità scientifiche per spiegare qualcosa di profondamente arcano come: l’amore. “ Il pressupposto di partenza è quello che, in fisica, un modo per identificare una costante è il simbolo C. Una costante fisica è una grandezza fisica che è universale in natura e indipendente dal tempo. Detto ciò possiamo affermare l’assioma per cui, ad ogni costante corrisponde un essere umano, quindi diveniamo tutti un ipotetico valore C, ovvero un numero finito, fatti di materia definita e destinata a deteriorarsi. Postulato 1 : Il piano Fisico Le relazioni che vedono coinvolti gli essere umani seppur con milioni di sfaccettare hanno tutte con un principio logico sottostante. Il modo in cui la relazione si forma sarà il principio in cui la coppia svilupperà il proprio avvenire. Adattando il principio d’indeterminazione di Heisenberg da cui si evince che di una particella, per l’esattezza, possiamo calcolare o la velocità o la posizione rispetto ad un sistema di riferimento; nel nostro caso si tradurrà con: “il modo o il tempo in cui le due persone (o costanti) si incontrano e si uniscono, sarà fondamentale per l’avvenire dei due”. E tutto ciò dettato dal gioco del caso. Postulato 2 : il piano Matematico Le relazioni in fisica sono tradotte con le operazioni “+” e “×” rispettivamente, addizione e moltiplicazione. Bene, nella maggior parte delle relazioni, le persone tendono a sommarsi, e sul piano matematico la formula viene tradotta con: C+C=2C In queste relazioni, l’altro è qualcosa che rimarrà sempre un po’ estraneo, perché non genera qualcosa di nuovo in noi (e rispettivamente noi in lui). L’amore perde quel valore generativo, “che divora” usando un termine junghiano, rimanendo un semplice incontro tra due entità. L'uomo , ostinandosi a comprimere l'anima fra le quattro pareti di un involucro che crede eterno (e nient’altro è che materia che si deteriora), non la lascia espandersi, mentre se potesse, l’anima, occuperebbe spazi ben più vasti, ritrovando la leggerezza che i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro stesso vivere le negano.Due anime divise con un po’ di spazio da doversi combattere. E allo stesso modo in cui l'essere umano comprime l'anima così comprime l'amore in un cerchio quasi sempre chiuso. Altro tipo di relazioni, invece, sono quelle in cui queste due entità si moltiplicano, generando un valore nuovo, qualcosa di completamente estraneo, forse anche lontano dalla nostra visione, ma pur sempre possibile. CxC=C2 In queste relazioni le due entità si scambiano, si mescolano, e di quelle anime, ne rimane una sola, con uno spazio accordato veramente ampio. Armonico. Postulato 3: Il piano visivo Spostandosi da un piano puramente scientifico ad uno ideografico, possiamo immaginare che ogni essere umano, in questo caso ogni costante, sia la metà di un cerchio. Nel Simposio di Platone, si narra di come Aristofane dà la sua opinione sull'amore narrando il mito per cui gli uomini erano esseri perfetti e non v'era la distinzione tra uomini e donne, finché non intervenne Zeus che invidioso, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà. Tralasciando il mito della perfezione teniamo in mente il concetto che per ogni C, corrisponda la metà di un cerchio e applichiamola alle nostre 2 formule: C+C=2C C + Ɔ ○ Dunque possiamo notare come la somma di 2C configuri un cerchio chiuso, e dunque la chiusura della coppia. Per quanto concerne, invece l’altra formula quella che definiremo “dell’amore generativo” possiamo cosi rappresentarla: CxC=C2 C x Ɔ In questa forma di amore, invece, le “anime” tendono a formare qualcosa in più di un cerchio, ma qualcosa meno di due cerchi distinti, dunque due cerchi che si toccano. Questi due cerchi danno origine ad una nuova figura indicata col termine lemniscata che nel mondo delle scienze identifica il concetto di infinito. L'infinito (dal latino finitus, cioè "limitato" con prefisso negativo -in) in filosofia è la qualità di ciò che non ha limiti. -Come un gas, l'anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato.- ora, questo ha un senso nuovo, un senso al quale madame Weil sarebbe arrivata di certo, se non se la fosse portata via il suo essere un numero finito.” Poggiai la penna sul foglio pieno di segni, sul tavolo scarseggiava luce e nel bicchiere birra (entrata a sorsi costanti per circa un paio d’ore). Mi fermai. Ero esausto. Alzai lo sguardo finalmente al cielo, misi a fuoco, era notte, era freddo, ed io, come cretino, ero ancora all’aperto. Bestemmie alle spalle, continuai a fissare il cielo per un po’, era di un incantevole purezza, liscio come solo un Dio inglese saprebbe fare. Costante. Nella sua vuotezza, i colori erano scivolati uno sopra all’altro, con garbo si erano lasciati il posto mantenendo sempre un certo fascino e una metodica tradizionalista tipica di questo paese. Quel blu vangoghiano si interruppe di li a poco. Una luce, una semplice luce aveva spezzato una meraviglia come quella. Una stella, era diventata la mia inquietudine. Non mi mossi, ero a mia volta divenuto una stella inquieta.