IL MOVIMENTO CROCIATO Tratto da Franco Cardini, Il movimento crociato, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972 AVVERTENZA Invece di affrontare il tradizionale tema le crociate, con tutto l’esotico e fascinoso ma storicamente poco sicuro coacervo di notizie sulle vicende e sulla cultura dell’oriente che ciò abitualmente comporta, abbiamo preferito mettere a fuoco il movimento crociato: inserire cioè il nostro tema più a fondo possibile nella problematica dell’occidente medievale e sottolineare fino a che punto le crociate abbiano costituito la risposta a certi grandi problemi d’ordine sociale, economico e spirituale dell’Europa latino-germanica. Ciò è stato possibile anche perché ormai la critica più recente ha definitivamente gettato a mare la leggenda che i crociati siano partiti per rispondere a chissa quali invocazioni d’aiuto loro rivolte da parte dei cristiani di Bisanzio e d’Asia. Nella storia del vicino oriente, la crociata rappresenta solo una spiacevole catena di episodi guerreschi e di piccole ma nefaste «invasioni barbariche»: in quella europea, essa è viceversa il risultato di vivissime componenti e rimane pur sempre – nonostante le crisi, gli orrori e le delusioni che ha generato – un fondamentale veicolo di progresso. Indice generale 1 Le occasioni e le cause reali..............................................................................................................6 1.1 Una società in movimento.........................................................................................................6 1.2 Rinascita e pellegrinaggi............................................................................................................7 1.3 L’opera della Chiesa..................................................................................................................8 1.4 L’appello di Clermont................................................................................................................9 1.5 La crociata dei «Pauperes Christi»…......................................................................................11 1.6 … e quella dei baroni...............................................................................................................13 2 La Terrasanta, conquista effimera....................................................................................................16 2.1 Il regno di Gerusalemme..........................................................................................................16 2.2 Gli ordini monastico-militari...................................................................................................18 2.3 Mercanti e colonie commerciali..............................................................................................19 2.4 La riscossa musulmana............................................................................................................22 2.5 Dallo spirito crociato allo spirito missionario..........................................................................23 3 Agonia di un ideale..........................................................................................................................27 3.1 Le «teorie» della crociata: sistemazione, estensione e deviazione..........................................27 3.2 La reazione dell’opinione pubblica..........................................................................................28 3.3 Ancora qualche tentativo.........................................................................................................30 4 I testi................................................................................................................................................33 4.1 La leggenda di Pietro l’Eremita...............................................................................................33 4.2 II discorso di Urbano a Clermont (27 novembre 1095)...........................................................34 4.3 La strage degli Ebrei (maggio 1096).......................................................................................34 4.4 Martiri cristiani........................................................................................................................35 4.5 Fanatismo crociato...................................................................................................................36 4.6 Elogio dei Turchi.....................................................................................................................37 4.7 La caccia alle reliquie..............................................................................................................37 4.8 Assedio e conquista di Gerusalemme......................................................................................38 4.9 I Luoghi Santi..........................................................................................................................39 4.10 Il nuovo regno........................................................................................................................41 4.11 Le colonie latine.....................................................................................................................42 4.12 Vecchia e nuova «Militia»: i Templari...................................................................................42 4.13 Una bolla pontificia...............................................................................................................43 4.14 Hierusalem capta est..............................................................................................................44 4.15 Innocenzo III e il concilio lateranense del 1215....................................................................46 4.16 Dalla crociata alla missione: il francecanesimo.....................................................................47 4.17 Una canzone di crociata.........................................................................................................50 4.18 …pro rimedio animae suae…................................................................................................51 4.19 Come si predicava la croce....................................................................................................52 4.20 Alcune voci contrarie.............................................................................................................53 4.21 Fautori del «passagium»: una santa.......................................................................................57 4.22 Fautori del «passagium»: un umanista...................................................................................57 4.23 I Fiorentini e Maometto II.....................................................................................................58 1 Le occasioni e le cause reali 1.1 Una società in movimento Si è per generazioni intere discusso su quali siano state le cause delle crociate, e se si debbano ricercare in oriente o in occidente, nella mentalità religiosa o nelle necessità economiche, nella volontà di papi e di teologi o nell’entusiasmo del «Popolo di Dio». Di tali problemi si ode talvolta ancora parlare, ma in fondo essi sono criticamente superati. Non perché – intendiamoci – ne sia stata trovata una vera e propria soluzione; ma semplicemente perché la comprensione delle crociate come fenomeno storico non riposa nel coglierne le cause occasionali bensì nel farne riaffiorare i motivi nascosti, le ragioni intime, le condizioni effettive che le resero necessarie al di là del calcolo politico o della pietas, del fanatismo o della sete di guadagno dei loro protagonisti. Cause profonde, quindi, tanto che a un primo esame potrebbero sembrare anche remote nel tempo e nello spazio dal fenomeno di cui vogliamo occuparci, rispetto al quale presentano però, una volta ben valutate, legami stretti e perentori: esaminiamole. Il secolo XI fu, fino dal suo nascere, un secolo di espansione economica e demografica. La popolazione rurale europea, rompendo gli angusti confini delle terre coltivate propri delle epoche precedenti, si dette a strappare alla foresta e alla brughiera nuove aree da dissodare; i feudatari – prima forse gli ecclesiastici, poi anche i laici – favorirono, dopo un iniziale momento d’incertezza, questo movimento ch’era suscettibile di recar loro nuove fonti di guadagno. Si crearono così, soprattutto nelle zone periferiche della vecchia area carolingia (il sud della Francia, le terre germaniche oltre il Reno e il Danubio), nuovi spazi coltivabili e città fondate di fresco grazie alla concessione di eccezionali franchigie. Ci si abituò allo spettacolo di gruppi anche numerosi di contadini che si spostavano di luogo in luogo in cerca di terre e di lavoro. Anche nelle città, da poco fondate o risorte dopo la stasi altomedievale, cominciò a circolare una nuova linfa: si aprirono opifici, si dette impulso al commercio e all’artigianato. I grandi mercati stagionali che si tenevano ogni anno soprattutto nei punti di convergenza delle vie di comunicazione terrestri e fluviali erano protetti dalla pax dei governanti laici o da quella della Chiesa, la pax Dei: nessuno poteva taglieggiare arbitrariamente o comunque disturbare chi vi conveniva o vi sostava per i suoi commerci, pena le più gravi sanzioni temporali e spirituali. In Italia, dove lo slancio demografico e il rifiorire cittadino appaiono più deboli che non oltralpe – ma bisogna pensare che la penisola non aveva mai conosciuto, nemmeno nei secoli più «bui», una totale depressione – cominciarono in cambio a nascere le potenze marinare di Genova e di Pisa: potenze tirreniche prima, che contendevano agli Arabi di Sardegna e d’Africa la loro libertà di navigazione, potenze mediterranee più tardi. Sull’Adriatico, Venezia commerciava da tempo e con sicurezza fino a Costantinopoli, in Siria e in Alessandria; né si deve dimenticare Amalfi, la prima fra le città italiane ad acquistare una forza indipendente e rigogliosa sul mare, anche se il secolo XI la vedeva già in decadenza. Questa rinascita fu accompagnata dappertutto da un positivo ottimismo, da una rinata fiducia nella vita e nelle capacità umane. Nonostante le carestie, che spesso fecero la loro comparsa in Europa – soprattutto nel quarto e poi nel nono decennio del secolo – e nonostante le praticamente ininterrotte guerre feudali, anche le condizioni private di vita e di sicurezza migliorarono, al punto che alcuni studiosi (L. White jr.) hanno voluto spiegare l’incremento demografico ricorrendo ai miglioramenti dietetici determinati attorno a quegli anni dall’introduzione delle leguminose nell’alimentazione. Del resto la mobilità di sempre più numerose e frequenti masse di persone da una città all’altra, da un mercato all’altro, da una zona dissodata a una da dissodare, non sarebbe concepibile senza un netto miglioramento delle vie di comunicazione da un lato e delle condizioni di sicurezza dall’altro. Le incursioni dei secoli immediatamente precedenti si erano esaurite: gli Ungari, cristianizzati, si erano definitivamente stanziati in Pannonia; i Normanni nella Francia del nord-ovest da cui sareb- bero balzati in Italia meridionale e in Inghilterra; i corsari saraceni d’Africa, di Sardegna e delle Baleari non solo avevano diradato le aggressioni, ma erano essi stessi costretti a loro volta a subir l’incalzare delle marinerie cristiane. 1.2 Rinascita e pellegrinaggi La Chiesa comprese immediatamente l’importanza della nuova situazione, e in parte la favorì e in parte curò addirittura d’incrementarla. Non proprio tutto, nella leggenda dei «terrori dell’anno mille» e nel mito storiografico derivatone, è frutto esclusivo di fantasia: in effetti quell’età ferrea ch’era stata il secolo X – le strutture ecclesiastiche in piena crisi, gli epigoni dell’impero carolingio crollati, gli Arabi padroni del Mediterraneo – aveva conosciuto un rafforzarsi delle attese escatologiche cristiane e un effettivo espandersi del millenarismo. Abbone di Fleury, che scriveva nel 998, «aveva ascoltato da giovane, a Parigi, un predicatore annunziare per l’anno mille la fine del mondo, subito seguita dal Giudizio Universale» (H. Focillon). Notizie e paure del genere correvano per l’Europa; opuscoli annunzianti il prossimo regno dell’Anticristo e la successiva Seconda Venuta del Cristo si moltiplicavano, e spingevano i fedeli alla penitenza. Ben presto i movimenti penitenziali erano divenuti un fatto abituale, una pratica generale che la Chiesa – guidata soprattutto dal più attivo e intelligente ordine monastico del tempo, quello di Cluny – era riuscita a disciplinare incanalandola soprattutto entro due forme: la costruzione di nuove chiese e il pellegrinaggio. La costruzione di chiese nuove fu un fatto di eccezionale importanza nella vita del secolo: «Era – scrive un cronista del tempo, Rodolfo Glabro – come se il mondo si fosse scosso e, liberandosi dalla sua vecchiaia, si fosse rivestito di un candido manto di chiese». La chiesa – e soprattutto la cattedrale, centro e simbolo della risorta vita cittadina – veniva sì costruita da maestranze specializzate, ma con pietre recate (spesso a braccia) dai penitenti. Essa diveniva così il simbolo effettivo della pace e della riconciliazione tra i cristiani, era la Gerusalemme Celeste in terra, la copia della Città di Dio eretta grazie a un collettivo sforzo di purificazione. Si cercavano anche da lontano reliquie che potessero renderla celebre e degna di esser visitata dai pellegrini; alla sua ombra cresceva la prosperità dei cittadini perché la festa del santo cui era dedicata si faceva coincidere con un mercato («fiera» da feria = festività sacra). Contemporaneamente, la pratica della visita a luoghi particolarmente sacri della cristianità diveniva sempre più diffusa: contribuivano a renderla popolare il rinato bisogno di spostarsi da un luogo all’altro, connesso sia alle necessità economiche di visitare questo o quel mercato, sia al desiderio di trovare terre più fertili e lavoro più redditizio; oppure, era il richiamo di una scuola famosa per i suoi maestri e i suoi codici a suggerire il viaggio. Si andava in pellegrinaggio per pregare, per ammirare un santuario, per implorare una grazia, ma ci si poteva anche andare per commerciare o per imparare; la Chiesa (e soprattutto l’ordine cluniacense) favoriva il movimento aprendo ospizi, dichiarando la persona del pellegrino sotto la sua protezione, caldeggiando l’apertura e la manutenzione di strade e il restauro delle antiche vie di comunicazione che tornavano a essere usate dopo secoli di semi-abbandono. Talvolta si viaggiava in sconto di peccati particolarmente gravi: era la peregrinatio paenitentialis. Il peregrinus poteva quindi essere di tutto: un devoto, un mercante, uno studioso, un criminale pentito, un uomo in cerca di lavoro, un predicatore itinerante, un bandito o un parassita. Ma la sensibilità del tempo ne faceva prima di tutto un «cercatore di Dio»: la vita stessa era un viaggio della cui mèta la chiesa o la tomba del santo verso la quale si pellegrinava erano solo un simbolo inadeguato, un pallido riflesso. Ancora, il pellegrino era, per definizione, un «povero». Fu, quello, il tempo dei grandi santuari e delle città-santuario: Santiago de Compostela, Mont-SaintMichel, Chartres, Roma, San Michele del Gargano, Gerusalemme. Lungo le strade che portavano a questi luoghi si ordinava una lunga serie di tappe minori, di stationes: ciascuna col suo santo, la sua reliquia miracolosa, la sua chiesa dove lucrare indulgenze; ospizi e mercati si susseguivano. Il viag gio del pellegrino si svolgeva sotto la costante difesa della pax Dei; la sua persona e i suoi averi erano sacri, e i distintivi che portava indosso (signa super vestes) erano il simbolo esteriore della mèta e quindi del rispetto che la Chiesa imponeva nei suoi confronti a tutti i cristiani: la conchiglia per Santiago, la croce per Roma o per Gerusalemme, la palma per Gerusalemme. L’ordine cluniacense si era fatto soprattutto promotore del pellegrinaggio verso Santiago, e ben presto il culto dell’Apostolo aveva assunto caratteri particolari, di tipo militare. La Spagna era difatti terra di contesa fra cristiani e mori, e Santiago era destinato a divenire il simbolo della Reconquista che la Chiesa incoraggiava offrendo ai combattenti in ciò impegnati indulgenze analoghe a quelle che si accordavano ai pellegrini. L’idea del pellegrinaggio si fuse quindi ben presto con quella di salvezza ultraterrena da un lato, di lotta contro l’infedeledall’altro. La celebre Chanson de Roland, della seconda metà del secolo XI, vede Rolando cadere a Roncisvalle. Il passo di Roncisvalle è la via battuta dai pellegrini di Santiago: Così disse Rolando: – Qui subiremo martirio e ora so bene che non ci resta molto da vivere. Ma sarà fellone chi non si venderà caro. Colpite, signori, con le spade forbite, e disputate la vostra morte e la vostra vita, sì che la dolce Francia non sia disonorata. Quando Carlo, il mio signore, verrà su questo campo e vedrà un tale massacro di saraceni che per uno dei nostri ne troverà morti quindici, non potrà non benedirci. Chanson de Roland, vv. 1922-1931. Tutta l’Europa conosceva questi versi, tra i più commoventi dell’epopea rolandiana, che si cantavano di mercato in mercato, di castello in castello: quanti pellegrini, sul cammino di Spagna, avranno ripensato alla fine del Paladino e avranno scoperto la vocazione alla crociata! 1.3 L’opera della Chiesa Naturalmente la protezione accordata ai pellegrini, ai costruttori di cattedrali, ai combattenti della Reconquista, non era fine a se stessa: era, al contrario, parte di una strategia complessa e serrata. La società ecclesiastica del secolo XI era in pieno fermento: all’opera degli imperatori sassoni e franconi, che avevano potentemente contribuito a moralizzarla ma che al tempo stesso l’avevano troppo strettamente legata al carro del potere laico, era seguito un movimento di riforma che aveva il suo centro nell’opera di teologi, canonisti, prelati e mistici il cui ambiente iniziale era stato quello lorenese ma il cui solido nucleo era comunque, una volta ancora, Cluny. Approfittando della minor età dell’imperatore Enrico IV, i riformatori erano passati all’offensiva nella seconda metà del secolo: mentre inauguravano una politica anche dogmaticamente parlando assai rigida – che doveva condurre nel 1054 allo «scisma d’oriente» –, lavoravano a tagliare i legami di subordinazione all’autorità laica proclamandone col concilio del 1059 l’incompetenza a intervenire nell’elezione del pontefice romano e cercando di minare l’istituzione dei vescovi-conti che, voluta da Ottone I, aveva trasformato i capi delle diocesi in funzionari imperiali. Nella «lotta delle investiture» che ne seguì e che ebbe come protagonisti il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV (lotta nella quale, è bene ricordarlo, molti vescovi presero le parti imperiali, mentre il clero regolare si schierò in blocco dalla parte del pontefice) la Curia romana ebbe modo di elaborare ulteriormente la dottrina della supremazia del pontefice romano fino a postularne la superiorità rispetto agli stessi re: si era agli ideali teocratici che ponevano il vescovo di Roma guida e sovrano, dopo Dio, della cristianità tutta. Il programma egemonico dei riformatori ecclesiastici era ben articolato e utilizzava con accortezza una pluralità di strumenti: primo fra tutti, l’appoggio ai movimenti religioso-popolari a base laica che, come la «pataria» soprattutto nel Milanese, si proponevano di risanare i costumi corrotti del clero; o che, come le «leghe di pace» in Francia, si organizzavano militarmente contro i feudatari che avessero osato infrangere la tregua o la pax Dei. Ai capi di questi gruppi, che spesso eleggevano la povertà e il combattimento a caratteristiche specifiche, il papa accordava il vexillum Sancti Petri: la bandiera, cioè, simbolo della particolare predilezione dell’Apostolo ma anche dei doveri vassallatici di fedeltà che colui che riceveva il vexillum veniva a contrarre nei confronti della Santa Sede (la bandiera era uno degli elementi consueti nelle investiture feudali). Né tale onore si riservava solo ai capi-partito fedeli. C’era una gran quantità di conquistatori che non desideravano niente di meglio, per crearsi un titolo giuridico tale da permettere loro di possedere a buon diritto quanto avevano conquistato con la forza delle armi, che dichiararsi fideles del Principe degli Apostoli. E concedendo il suo vessillo a Guglielmo di Normandia che invadeva l’Inghilterra, agli Altavilla che dilagavano nel meridione d’Italia, ai principi castigliani e aragonesi che strappavano lembo dietro lembo ai mori la terra di Spagna, il papa legittimava sì quanto altrimenti sarebbe stato un puro atto di violenza, ma al tempo stesso si presentava ai potenti e ai popoli come signore feudale di quanti accettando le sue insegne gli prestavano omaggio e come sovrano eminente delle loro terre. Potrà sembrare strano che il vescovo di Roma, a cui molti prelati negavano ancora o a malapena accordavano la supremazia sulla cristianità per le cose spirituali, ambisse tanto ad affermarla per le cose terrene che meno direttamente lo toccavano. Ma era la fatale logica della lotta per le investiture che da contrasto su alcuni punti precisi si era andata sempre più trasformando in scontro fra due poteri ecumenici dei quali uno, l’imperatore romano-germanico, era tradizionalmente considerato il capo in temporalibus della cristianità ma partecipava al tempo stesso di un quid di sacrale che faceva anche di lui un rex et sacerdos, David e Melchisedech insieme secondo gli ideali carolingi e ottoniani. La chiave per comprendere il feroce contrasto fra le due massime autorità ecumeniche medievali sta certamente nei loro conflitti di potere e di competenza: ma sta anche, e ben più profonda mente, nella loro radicale simiglianza, nella loro fallita complementarità. Non esisteva una sfera religiosa e una laica, un mondo sacro e uno profano: si viveva in «una sola società, cioè la Chiesa, dove tutto si amalgama», come si sarebbe espresso di lì a qualche decennio Ottone di Frisinga. Ed ecco che assistiamo, verso la fine del secolo, a un fenomeno ben strano: un pontefice che, arrogandosi le prerogative di guida anche in temporalibus dei cristiani, li chiama alla guerra oltremare; questa, almeno, è la visione tradizionale dei fatti. Esaminiamo quanto di vero ci sia in essa. 1.4 L’appello di Clermont Nel marzo 1088 l’ex-priore di Cluny, Oddone di Lagery, veniva eletto papa. La sua era una posizione difficile: il partito della riforma, ch’egli guidava, era a un passo dalla vittoria mentre le fortune di Enrico IV declinavano a vista d’occhio; pure, focolai scismatici resistevano ancora e l’antipapa d’obbedienza imperiale Clemente III (Guiberto di Ravenna) era padrone della stessa Roma. Nell’autunno del 1094 il papa iniziava un viaggio durante il quale toccava alcuni fra i centri principali dell’Italia centro-settentrionale e del sud-est francese. Intendeva serrare le fila dei suoi partigiani per la vittoria definitiva, attraverso una serie di concili che avrebbero chiarito una volta per tutte la situazione vuoi dogmatica, vuoi politica, vuoi disciplinare della Chiesa. Nel marzo 1095, a Piacenza, ricevette anche degli ambasciatori greci: è verosimile che trattasse con loro i problemi della riunificazione delle due Chiese con il relativo risanamento dello scisma del 1054, ma la tradizione, impadronitasi dell’episodio, vuole ch’essi gli abbiano chiesto anche aiuto contro i Turchi. Comunque, nel novembre di quello stesso anno, Urbano II tenne a Clermont-Ferrand in Alvernia un nuovo concilio a chiusura del quale pronunziò quella famosa allocuzione con cui si suole aprire la storia delle crociate propriamente detta. Non è possibile ricostruire il discorso pontificio: esso ci è tramandato in quattro distinte versioni da altrettanti cronisti, i quali scrivevano tutti qualche tempo dopo la conquista di Gerusalemme, allor- ché la crux peregrina era diventata carne e sangue della cristianità: naturale quindi che proiettassero nelle parole di Urbano quanto era accaduto poi, cercando di trasformare in un «manifesto» della crociata quel che era viceversa soltanto un’esortazione calda ma abbastanza generica al pellegrinaggio. Infatti le nostre quattro fonti sono d’accordo soprattutto sul fatto che il papa avrebbe deplorato le continue lotte fraticide tra cristiani e avrebbe suggerito loro il pellegrinaggio alla Terra Promessa come mezzo di purificazione dei peccati; volgendo i passi verso quella mèta, essi avrebbero potuto anche soccorrere la Chiesa orientale minacciata dagli infedeli (e questo argomento potrebbe essergli stato suggerito dall’ambasceria bizantina a Piacenza). Insomma, ci sembra chiaro che a Clermont non fu bandita alcuna «crociata» nel senso che a questo termine usiamo attribuire: ad una conquista armata del Sepolcro probabilmente il papa non pensava neppure lontanamente. A lui premevano soprattutto due cose: primo, indicare alla feudalità europea – molta della quale si era compromessa ai suoi occhi abbracciando la causa imperiale – una peregrinatio paenitentialis che l’avrebbe ricondotta alla pace con la Chiesa, l’avrebbe liberata dai peccati e infine avrebbe dato un po’ di ristoro al l’occidente da troppo tempo sconvolto; secondo (e ciò a nostro avviso già molto in sottordine), inviare all’imperatore di Costantinopoli – il quale usava assoldare guerrieri occidentali come mercenari da impiegare contro i Turchi in Anatolia – dei cavalieri che avrebbero contribuito con la loro opera a riallacciare i rapporti con la cristianità greca. A questo punto è necessario mettere in guardia chi volesse interessarsi più a fondo di questi problemi, affinché non cada nella trappola tesagli dai cronisti occidentali: questi ultimi, per dimostrare la necessità oggettiva della crociata e sottolineare al tempo stesso la malvagità e l’ingratitudine dei Bizantini (i quali non mostrarono di gradire troppo lo scompiglio che i crociati causarono prima nell’ordinata compagine del loro impero, poi in tutta la politica orientale), si dettero a parlare senz’altro di esortazioni accorate dell’imperatore di Costantinopoli agli occidentali, di aspra politica dei Turchi nei confronti dei cristiani, di inaudite sofferenze patite dai pellegrini e così via. C’è voluto tutto il rigore critico e filologico degli orientalisti moderni (pensiamo soprattutto a C. Cahen) per dimostrare che dietro questa visione delle cose, divenuta tradizionale e accettata da storici anche acuti, si celava un brulicare di malintesi e di più o meno premeditate distorsioni della realtà. Quanto ad Alessio I Comneno, che allora regnava sulla città del Bosforo, egli aveva parecchi buoni motivi per andare d’accordo con i Turchi e quasi altrettanti per non fidarsi degli occidentali. La pressione selgiuchide gli aveva, è vero, strappato l’Anatolia: ma ben presto si era giunti ad una situazione di compromesso, anche perché i Turchi si erano dati a frazionare le loro forze in una miriade di staterelli in perpetua tensione fra loro, in mezzo ai quali la sapiente diplomazia bizantina aveva buon gioco. Viceversa fino dal 1081, anno in cui Alessio aveva preso il potere, i suoi rapporti con la Chiesa latina erano stati tesi: egli aveva appoggiato il suo collega d’occidente Enrico IV e il papato aveva da parte sua risposto invitando i Normanni di Roberto il Guiscardo a invadere l'impero dalla parte dell’Epiro. L’invasione era stata respinta grazie soprattutto all’aiuto dei grandi amici di Costantinopoli, i Veneziani: ma il solco dei rancori e delle recriminazioni non si era chiuso neppure dopo il riavvicinamento degli anni successivi, di cui l’ambasciata greca a Piacenza è un effetto. Anche per ciò che riguarda il comportamento dei saraceni nei confronti dei cristiani bisogna sgombrare il campo da molte idee approssimative. Nelle terre sottomesse all’Islam i cristiani, salvo brevi e particolarissimi episodi dovuti a cause contingenti (per esempio la distruzione del Sepolcro voluta nel 1009 dal califfo del Cairo Hakim, eretico per lo stesso Islam), venivano rispettati: erano organizzati in comunità semiautonome, potevano esercitare una moderata libertà di culto ed erano obbligati solo al pagamento di certe tasse. Condizioni queste, sia detto per inciso, che i pochi musulmani adattatisi a vivere nelle terre riconquistate dai cristiani non si sognavano neppure. Oltre a ciò, lo scisma che dal secolo X in poi aveva diviso la comunità islamica in due tronconi, ligio l’uno al califfo di Baghdad e l’altro a quello del Cairo, aveva fatto sì che i principati siriaco-palestinesi, barcamenandosi fra l’una e l’altra obbedienza come spesso accade nelle zone di frontiera, avessero finito con l’essere di fatto indipendenti; ciò aveva ulteriormente favorito i cristiani locali, che erano numericamente forti e potevano quindi costituire un buon appoggio politico, il che suggeriva che era prudente trattarli con un certo riguardo. Neppure l’arrivo dei Turchi selgiuchidi alla metà del secolo XI e lo stabilirsi della loro egemonia nell’area d’obbedienza al califfato di Baghdad dovette cambiare troppo le cose. Il dominio turco era in genere più rozzo e militaresco di quello arabo e i nuovi arrivati inoltre, neofiti dell’Islam, erano in quanto tali meno tolleranti: tuttavia non pare che le condizioni dei cristiani locali si aggravassero sostanzialmente.Vero è che verso il 1055 si verificarono episodi di particolare violenza a danno dei pellegrini occidentali, ma si è avuto troppa fretta ad attribuirli ai Turchi sulla quasi esclusiva base della coincidenza cronologica con i primi tempi del loro dominio: a Gerusalemme, le autorità musulmane consideravano protettore dei cristiani di ogni confessione l’imperatore di Bisanzio, e funzionari a lui fedeli sovrintendevano al Sepolcro e alla disciplina dei pellegrini. Si era all’indomani dello scisma del 1054: le chiese latine in Gerusalemme furono temporaneamente chiuse, ma la colpa non era dei Turchi i quali non si ingerivano nelle questioni interne delle varie comunità cristiane e neppure nei loro rapporti reciproci; l’ordine era venuto dal patriarca di Costantinopoli. Vero è che l’entrata alla città e ai Luoghi Santi era condizionata al pagamento di certi diritti, ed è si curo che ciò abbia originato frequenti abusi di potere; così come presso gli xenodochia (ospizi) gestiti da e per i Latini o al Sepolcro stesso le provocazioni e le vessazioni non dovevano essere cosa eccezionale: i dazi da pagare, i rischi, le lunghe attese facevano dei pellegrinaggi qualcosa di ben raramente simile a un viaggio di piacere. Ma la prova migliore che si trattava di condizioni ben lungi dall’essere insostenibili risiede nel fatto che nella seconda metà del secolo i pellegrinaggi andarono progressivamente moltiplicandosi. Questa la situazione oggettiva. Non bisogna però dimenticare che in occidente quel che accadeva in Asia era in massima parte o ignoto o incomprensibile. Qui, poco o niente si sapeva delle comunità cristiane orientali e meno ancora dei rapporti fra Arabi e Bizantini, fra Turchi e Arabi e così via. Il pellegrino reduce dal suo viaggio aveva sempre la sua brava dose di pericoli, di disagi, di umiliazioni da raccontare a casa: e il responsabile di ciò era sempre e soltanto l’infedele, l’uomo «diverso», che le Chansons de Geste raffiguravano come un pagano, un adoratore di demoniaci idoli, un semidemonio egli stesso. Il saraceno si prestava così assai bene alla parte del «nemico metafisico» che la società cristiana del tempo andava inquietamente cercando: fecero il resto la crisi non ancor superata delle strutture ecclesiastiche, la virulenza dei movimenti religioso-popolari con tutto il carico di problemi sociali che confusamente esprimevano, i predicatori che vivevano ai margini della gerarchia ecclesiastica e frequentavano le fiere e i santuari profetando la rigenerazione del mondo per ignem. L’appello di Clermont fece repentinamente maturare tutti questi eterogenei elementi ben al di là dei propositi e delle stesse intenzioni pontificie: e una volta avviato, il movimento potè a stento restar contenuto negli argini delle moderatrici prescrizioni ecclesiastiche. La crociata nasceva così. 1.5 La crociata dei «Pauperes Christi»… La tradizione assegna, nella genesi della crociata, una gran parte all’opera di Pietro d’Amiens detto «l’Eremita». Il personaggio è sicuramente storico, date le molte testimonianze in proposito: ma ben presto la leggenda e l’epica si sono impadronite del suo nome facendone assurgere la figura a una fama ben superiore al ruolo ch’egli ebbe negli avvenimenti del suo tempo. Pietro era un predicatore vagante, un propheta, come si diceva allora: l’apposizione «eremita» non ci dice con chiarezza quale ruolo rivestisse in seno alla Chiesa, né si può escludere che fosse addirittura un laico. Godeva certo fama di santità e si era reso celebre, qualche tempo prima, per aver promosso un movimento salvazionista tra i cui scopi c’era fra l’altro quello della redenzione delle meretrici: e difatti uno stuolo di mulierculae lo accompagnerà sempre, secondo i cronisti, nei suoi spostamenti. Verso la fine del 1095 cominciò a predicare il pellegrinaggio cominciando dal Berry, non lontano cioè da Clermont; si spostò poi verso l’Orleanese e di là puntò sulla Champagne e sulla Lorena, due tra le zone più densamente popolate, e quindi più ricche di contrasti sociali, del tempo. Lo troviamo, il Sabato Santo dell’anno seguente, predicare a Colonia dove si teneva una fiera pasquale assai rinomata. Non erano certo male scelti né il tempo – la festa della Resurrezione, la più adatta a parlare di Gerusalemme – né il luogo giacché da Colonia, teatro nel 1074 d’una rivolta cittadina contro il vescovo che ne era anche il signore temporale, si era propagato alle altre città renane il movimento comunale. Pietro non tardò a trovare emuli e seguaci: segnaliamo un prete, Gottschalk, e un cavaliere non privo di qualità militari, Gualtieri detto «Senza Averi», il che ne designa bene la condizione, chiarendo – in parte almeno – i moventi del suo entusiasmo. La tecnica della loro propaganda era semplice ma efficace: descrizione dei Luoghi Santi e delle tribolazioni dei pellegrini, esecrazione dei saraceni cui faceva seguito quella degli ebrei «nemici di Gesù», esibizione di reliquie e spesso di lettere – i famosi excitatoria – che s’immaginavano scritte da grandi del presente o del passato o addirittura cadute dal Cielo o consegnate da Divini Messaggeri a qualche pellegrino. Ma soprattutto l’evocazione di Gerusalemme, della Terra Promissionis: non solo della Gerusalemme Terrestre, quella ben calata nella storia e nella geografia, ma di quella Celeste dell’Apocalisse, la capitale del Regno di Dio, la mèta ultima del Millennio dopo l’assalto dell’Anticristo. E fatalmente la Gerusalemme alla cui volta muovere i passi assumeva i contorni della seconda, il pellegrinaggio si trasformava nel ritorno alla Casa del Padre. Un messaggio del genere, per confuso che fosse, era potentemente e profondamente evocativo. Vi prestavano orecchio i cascami della gerarchia feudale, quei poveri cavalieri che non erano riusciti a trovare la fortuna mischiandosi alle lotte dei grandi; i chierici e gli agitatori religiosi che – dopo aver fino a qualche anno prima sollevato le genti di tutta Europa contro i vescovi corrotti, il clero simoniaco e concubinario, i nobili che rifiutavano di osservare la disciplina della tregua Dei – si trovavano respinti nell’ombra della Chiesa ufficiale la quale, riformatasi sotto la spinta degli ideali gregoriani, ambiva ormai chiaramente a stabilire un ordine rigidamente ancorato alle direttive papali e ben lungi dalle libertà evangeliche che aveva lasciato trapelare negli anni della lotta; gli umili abituati a spostarsi di terra in terra in cerca di suoli da dissodare o di lavoro nelle manifatture cittadine. Nel 1077, a Cambrai, si era avuta una rivolta di tessitori guidati dal prete Ramihrdus contro il vescovo simoniaco; in Fiandra, il famoso Tanchelmo aveva fatto della predicazione contro la ricchezza e la rapacità dei prelati il nucleo della sua rivolta religiosa; ora i postumi di questa confusa turbolenza sociale sboccavano nella crociata, e vi si univano i poveri abituati a peregrinare accattonando per i quali il pellegrinaggio era una dimensione esistenziale; e ancora i contadini rifugiatisi nelle città la cui aria «rendeva liberi» per sottrarsi alle obbligazioni feudali (un altro mito storiografico, quello del «servo fuggitivo», che non manca di addentellati con la realtà) ma che non sempre riuscivano a inserirsi felicemente nell’ambiente urbano. I primi gruppi «crociati» partirono dunque così, a ondate, male armati e privi di un’organizzazione sia pur embrionale. La più parte di essi si sciolse, in circostanze spesso tragiche, dopo aver risalito alla rinfusa le valli del Reno e del Danubio saccheggiando le campagne, assalendone le città e massacrandone le comunità giudaiche là prosperanti sotto la protezione dei vescovi: i prelati che si opponevano a questa barbarie venivano a loro volta aggrediti. Alcuni storici (R. Grousset), forse ingannati dalle innegabili somiglianze esteriori, hanno cercato di paragonare queste esplosioni di violenza alle cosiddette jacqueries, le rivolte armate dei contadini contro i nobili e le città nella Francia trecentesca. Ma il paragone non regge proprio perché nelle jacqueries il carattere antiborghese è, con quello antifeudale, evidente e prevalente, mentre le azioni della «crociata popolare» sono catalizzate quasi esclusivamente contro l’alto clero e gli ebrei (che erano i prestatori di denaro dei vescovi). Si ha in altri termini l’impressione che i massacri, indebolendo l’autorità vescovile e sgombrando il terreno dai rivali della borghesia già avviata alle operazioni finanziarie, abbiano favorito gli interessi di quest’ultima: e non a caso, al tempo della prima crociata e anche nel secolo successivo, vediamo i borghesi scendere in campo al fianco dei «crociati» contro i vescovi e partecipare ai massacri di ebrei. Comunque sia, i malanni compiuti da questi strani pellegrini – che giustificheranno la pur superficiale visione voltairiana della crociata come «sacca» della delinquenza europea – non potevano essere tollerati dagli stessi principi cattolici: al massacro si rispose col massacro. I pochi che giunsero a Costantinopoli, dove non si astennero dal combinare i soliti guai, furono precipitosamente fatti passare in terra turca, e là il primo impatto con gli infedeli li ridusse letteralmente a pezzi: vecchi, malati, donne e bambini, che costituivano ma- gna pars della spedizione, non furono risparmiati. I superstiti, fra cui Pietro d’Amiens sopravvissuto a se stesso, riguadagnarono Costantinopoli da dove ripresero il pellegrinaggio qualche tempo dopo al seguito delle milizie baronali. È chiaro che la piega assunta dagli avvenimenti non aveva mancato, già sul nascere, di turbare profondamente Urbano II la cui massima preoccupazione restava il riordinamento della Chiesa uscita debole e lacera dalla lotta per le investiture. Le direttive papali contro le partenze indiscriminate per il pellegrinaggio – si stabiliva che i chierici dovessero ottenere l’assenso dei superiori gerarchici, le persone sposate quello del coniuge – dimostrano chiaramente che il pontefice si preoccupava che l’ordine sociale non fosse sconvolto e che le novità rientrassero nell’alveo della tradizione. Che del resto i semplici fedeli partissero – magari indebolendo la fazione ecclesiastica mentre l’imperatore non era ancor del tutto debellato – non poteva essere soverchiamente apprezzato dalla Curia. Ci si rivolgeva invece insistentemente ai principi, incitandoli a partire. Essi avrebbero potuto affrontare convenientemente i Turchi e avrebbero intanto liberato l’occidente dalla loro ingombrante presenza. 1.6 … e quella dei baroni Nell’estate del 1096 cominciarono a muoversi i primi contingenti guidati da alcuni tra i nomi più prestigiosi della cristianità del tempo. Partì Ugo di Vermandois fratello del re di Francia, attraversando l’Italia fino a Bari e lì passando il canale d’Otranto per giungere a Costantinopoli in ottobre; Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, lasciò con i fratelli Eustachio e Baldovino le sue terre in agosto, e seguendo il corso del Danubio giunse sul Bosforo a Natale. Poco dopo la Pasqua arrivava laggiù Boemondo d’Altavilla, principe di Taranto e figlio di Roberto il Guiscardo; non molto più tardi, attraverso l’Italia settentrionale e il litorale balcanico dell’Adriatico, giunse Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, col quale viaggiava il Legato pontificio Ademaro vescovo di Le Puy. Ultimi arrivarono Roberto conte di Fiandra, Roberto duca di Normandia (figlio di Guglielmo il Conquistatore) e suo cognato Stefano conte di Blois e Chartres. L’imperatore bizantino Alessio non fu certo felice di vedere nelle sue terre una tale quantità di «Franchi» – così Greci, Turchi e Arabi chiamavano gli Europei d’occidente –, tanto più che né il loro comportamento era disciplinato né chiare le loro intenzioni. Li colmò di onori e di doni, ma fece loro intendere di considerarli mercenari al suo servizio, costringendoli a giurargli fedeltà e trasferendoli poi precipitosamente al di là del «Braccio di San Giorgio», sulla sponda asiatica, in modo che non potessero concentrarsi nella o attorno alla sua capitale. Così, nel giugno 1097 – d’estate: non si sarebbe potuto trovare stagione meno propizia – le truppe feudali e quel che restava dei pauperes si misero in marcia attraverso la penisola anatolica e, dopo due anni di peripezie e di sofferenze, giunsero a espugnare la città di Gerusalemme il 15 luglio 1099: la popolazione saracena ed ebraica venne quasi totalmente massacrata. Non crediamo necessario dedicare spazio alla narrazione delle vicende che condussero alla presa della Città Santa, poiché esse sono anche manualisticamente note. C’interessa semmai fare alcune osservazioni più atte, crediamo, a chiarire le idee. Innanzitutto diciamo qualcosa a proposito della composizione sociale di quelle schiere, partendo dai capi. Si ripete troppo spesso che il nerbo della crociata fu costituito dai piccoli cavalieri, soprattutto coloro ai quali la indivisibilità del «feudo franco» impediva di entrare in possesso di una parte del patrimonio avito e che quindi erano costretti a cercar fortuna ingaggiando la spada al servizio di un signore. Naturalmente, il seguito dei grandi baroni poteva essere formato anche da gente di questo tipo; ma non si può fare a meno di notare che alla crociata partecipò essenzialmente la più alta feudalità europea, e per giunta quella nelle cui terre si verificava lo sviluppo demografico, sociale ed economico più netto: Fiandra, Lorena, Provenza. Perché al rigoglioso progresso dei sudditi corrispose l’allontanamento dei sovrani? Certo non furono i primi a provocare direttamente la crisi dei secondi – giacché di crisi si tratta –: non ancora, almeno. Purtuttavia il rapporto c’è, e non di pura coincidenza. La crociata mise a nudo non una malattia nel, bensì del sistema feudale. Assillati da sempre più difficili rapporti con le loro città, largamente incapaci a comprendere in che direzione si stessero sviluppando le cose, questi potenti baroni avevano pure ciascuno il loro immediato e concreto motivo per cambiare aria. Goffredo di Lorena era oppresso dall’ipoteca del suo pesante passato politico (era stato fra i sostenitori più accesi di Enrico IV): la sua, più o meno scopertamente, era una peregrinalo paenitentialis. Roberto di Normandia era in urto col fratello Guglielmo II re d’Inghilterra e non poteva sostenerne la pressione. Raimondo di Tolosa era incalzato da Guglielmo IX duca d’Aquitania che vantava diritti sui suoi feudi. Boemondo d’Altavilla, infine, era stato emarginato in Italia meridionale dal fratellastro Ruggero Bursa e dallo zio Ruggero di Sicilia, né aveva speranza di recuperare la perduta preminenza. Al seguito dei principi, alcuni dei quali – come il conte di Tolosa – avevano fatto voto di non torna re più in patria (e anche ciò è indicativo), marciavano parecchi dei loro vassalli; non mancava chi aveva condotto la famiglia con sé. Ma gli eserciti medievali non erano composti di soli combattenti: vi era sempre una certa quantità di accoliti di vario genere, mercanti, artigiani, chierici e così via; né bisogna dimenticare che la crociata era un pellegrinaggio prima ancora che una spedizione militare e che le schiere baronali avevano raccolto per strada i residui – in numero probabilmente non trascurabile – delle precedenti spedizioni pauperistiche. Sarebbe interessante poter sapere qualcosa sul numero effettivo dei pellegrini; ma purtroppo ciò è impossibile, e le congetture avanzate al riguardo, per ingegnose che siano, sono tutte insicure e arbitrarie. Le uniche fonti che potrebbero in ciò aiutarci, le cronache, offrono talvolta dati quantitativi: si tratta però sempre di cifre generiche, approssimative nel migliore dei casi, ma solitamente iperboliche o soggette a schemi simbolici. Fonti d’altro genere mancano quasi del tutto. Oggi gli studiosi tendono a valutare che i crociati fossero una decina di migliaia, in rapporto di un cavaliere ogni dieci pedites: ma anche su questi dati si ha ragione di essere scettici per parecchi motivi. Intanto, le fonti si occupano principalmente dei capi e dei guerrieri, e noi ignoriamo quale rapporto numerico vi fosse tra combattenti e non. Poi, partendo dal numero dei superstiti che giunsero in Terrasanta – argomento sul quale possediamo qualche dato quantitativo in più – è comunque impossibile dedurre qualsiasi cosa sul numero di quelli che partirono dall’Europa perché sappiamo con certezza che, lungo la strada, molti si aggregavano alla spedizione e molti l’abbandonavano; a prescindere, ovviamente, dai caduti. Il più affascinante fra i problemi sollevati dalla prima crociata resta comunque quello del suo successo finale. I cristiani erano armati in modo inadatto sia alle condizioni ambientali e climatiche dei luoghi nei quali erano costretti a operare, sia al sistema di combattimento abituale ai Turchi, che consisteva in rapidi spostamenti e in massiccio impiego della cavalleria leggera e degli arcieri; non conoscevano i luoghi che attraversavano, né l’uso delle guide greche o indigene si rivelò felice; le loro cognizioni di poliorcetica erano nettamente inferiori al bisogno, tanto che Gerusalemme fu conquistata grazie in parte al casuale intervento di una flotta genovese provvista di maestri abili nella costruzione di ordigni d’assedio. Né si deve dimenticare gli odii e le rivalità che dividevano principi e popoli e che spesso avevano sospinto l’impresa sull’orlo del fallimento, soprattutto quando – dopo la morte del Legato pontificio Ademaro – venne a mancare il mediatore rispettato. Giovò certamente loro la sorpresa: i saraceni che occupavano l’Anatolia e la Siria (dilaniati essi stessi dai conflitti intestini e frazionati in molteplici staterelli) non si attendevano un’offensiva tanto repentina e caparbia, e tardarono a rendersi conto di quanto stava accadendo. I crociati ebbero inoltre la fortuna di trovare sul loro cammino comunità cristiane – armene, libanesi, siriane monofisite – che furono ben liete di aiutare dei fratelli in Cristo, anche se poi ebbero ampie ragioni di pentirsi delle scelte fatte e di rimpiangere il dominio saraceno. Sarebbe però un grave errore trascurare la fede, l’entusiasmo religioso, l’attesa messianica di quegli uomini, la loro sensibilità – acuita forse dai patimenti – che li faceva vivere in un’atmosfera tesa, densa di prodigi che i cronisti puntualmente riferiscono e che sarebbe un errore attribuire sbrigativamente al «genere letterario» epico o agiografico, come hanno fatto troppi storici i cui sforzi sembrano essere stati tesi non tanto a comprendere le intime ragioni delle cose quanto piuttosto a «demitizzarle» usando magari gli argomenti frusti di un grossolano razionalismo che oggi ormai gli studiosi migliori – non sordi alle necessità di porre la storia in rapporto fecondo con le scienze umane – si sono fortunatamente lasciati alle spalle. Così, il superamento delle gravi difficoltà fu determinato probabilmente da una fortunata coincidenza di fattori, molti dei quali imponderabili; ma fu anche il risultato della fede, della volontà, dell’eroismo, valori tutti da non dimenticare nel momento stesso in cui si sottolineano i motivi sociali, politici ed economici che determinarono l’esperienza crociata. 2 La Terrasanta, conquista effimera 2.1 Il regno di Gerusalemme All’indomani della conquista di Gerusalemme, Goffredo di Lorena fu eletto dai principi crociati Advocatus del Santo Sepolcro. A quel punto, i Franchi avevano conquistato un’ampia zona della Siria settentrionale – a sud-est dell’Antitauro e intorno al bacino dell’Alto Eufrate –, la stretta fascia costiera siro-libanese, che peraltro non controllavano del tutto perché molte città del litorale erano ancora in mano saracena, e tendevano ad assicurarsi il bacino del Giordano. Al nord, già si erano create due signorie autonome: il principato di Antiochia in mano a Boemondo di Taranto e la contea di Edessa sotto Baldovino di Boulogne. Questi due principi si erano estraniati dall’impresa e si erano dati a organizzare i loro nuovi possessi: in fondo, erano venuti oltremare per questo. Gli altri, mano a mano che scendevano verso sud, cercavano di ritagliarsi ciascuno un dominio personale. Il sistema feudale, languente in Europa, si riproduceva in oriente e rendeva fin da principio impossibile l’instaurazione di un forte regno. Ma perché, invece dell’incoronazione di un re, si ebbe la designazione di un Advocatus? I cronisti ne attribuiscono l’iniziativa al clero nel quale abbondavano i Normanni e gli amici personali di Boemondo: bisogna a questo punto ricordare che, durante la lotta per le investiture, il papato aveva sempre considerato i Normanni lo scudo della Chiesa. La giustificazione ufficiale fu che «non era opportuno cingere corona d’oro là dove il Cristo era stato coronato di spine»: ma in realtà si voleva con ciò sottintendere che il dominio eminente sulle nuove conquiste spettava alla Chiesa, com’è provato dal fatto che nel linguaggio giuridico del tempo il termine Advocatus designava tecnicamente il laico posto a cura e a difesa degli interessi temporali dei vari enti ecclesiastici. Del resto, l’abitudine d’infeudare le conquiste recenti alla Chiesa e riaverle da essa come vassalli per crearsi così un valido titolo legale di dominio era – lo abbiamo già visto – diffusa in quel tempo. Ma, mentre in Inghilterra e in Italia meridionale ciò era servito a creare dei solidi regni accentrati, a Gerusalemme accadeva il contrario: i vari capi, grandi o piccoli, intendevano restare il più possibile liberi da ipoteche sovrane. In Europa, la partenza di tanti feudatari alla volta dell’oriente era stata una liberazione per i re e aveva reso possibile il progresso di quelle che sarebbero poi diventate le grandi «monarchie nazionali»: ma in Terrasanta quella classe di falliti e di emarginati si trascinava dietro le vecchie tendenze anarcoidi e centrifughe. La nuova società franco-siriaca nasceva sotto il segno di strutture storicamente arretrate. Anche la scelta di Goffredo è indicativa. Contro una tradizione edificante corroborata dalla leggenda epico-romanzesca e perpetuatasi, dal secolo XVI in poi, attraverso la poesia del Tasso, il «pio Buglione» non era mai stato il capo assoluto e incontrastato dei crociati. La crociata, anzi, non aveva mai avuto capi, e l’unico che vi aveva goduto di un’auctoritas universalmente riconosciuta era stato il Legato pontificio Ademaro immaturamente scomparso. Se però c’era uno che si era atteggiato a capo della spedizione, questi era non certo Goffredo, ma Raimondo di Tolosa che, gettando ricchezze e speranze nell’impresa, si era tagliato dietro le spalle i ponti con l’Europa e nei momenti cruciali aveva anche assunto atteggiamenti quasi messianici compiacendosi di apparire il difensore dei pauperes. Tra le sue file abbondavano i mistici, i visionari, ch’egli proteggeva: sua, o comunque del suo ambiente, era stata l’iniziativa d’inaugurare il culto della cosiddetta «Santa Lancia d’Antiochia» che – a parte il suo valore come reliquia, troppo scopertamente dubbio – aveva effettivamente donato ai crociati una sferzata d’entusiasmo effimero ma salutare. Fu proprio a causa della sua forte personalità, del suo carattere indomito e violento, che quest’uomo di grande prestigio personale fu scartato; inoltre se ne temevano forse i troppo stretti legami con l’imperatore di Bisanzio, derivanti in gran parte dall’odio comune per i Normanni. Gli si preferì Goffredo, un uomo finito e già seriamente infermo,; che le fonti – parte il lorenese Alberto d’Aix, inventore del suo «culto» – sono d’accordo nel descrivere buon soldato, ma principe debole e irresoluto. Comunque stessero le cose, egli rimaneva il solo grande feudatario crociato disponibile una volta scartato Raimondo – giacché Boemondo e Baldovino non intendevano mischiarsi nelle cose di Gerusalemme; il conte di Fiandra e il duca di Normandia, da parte loro, avevano sciolto il voto e ambivano solo rientrare in patria. Mentre quindi Raimondo cercava di conquistarsi in feudo la città di Tripoli – cosa che riuscì solo più tardi (1109) al suo erede Bertrando – Goffredo si dava alla difesa militare del Sepolcro, secondo le competenze che il titolo di Advocatus gli accordava, lasciando che fosse il patriarca latino di Gerusalemme Daiberto a governare. Ma quando il duca di Lorena morì (18 luglio del 1100) fu impossibile impedire che i suoi fedeli chiamassero a succedergli il fratello Baldovino: tempra ben altrimenti positiva, questi lasciò la contea di Edessa al cugino e accorse nella Città Santa, domò le resistenze, cinse la corona di re di Gerusalemme e con un’opera energica e al tempo stesso accorta riuscì non solo a tenere a freno i suoi vassalli diretti, ma anche a costringere il principe d’Antiochia e i conti di Edessa e di Tripoli a giurargli fedeltà, mentre caldeggiava d’altro canto la ripresa economica delle terre conquistate e guidava la completa conquista del litorale e il ristabilimento della sicurezza lungo le strade di pellegrinaggio e le carovaniere fino ad allora dominio incontrastato dei predoni e dei ribelli saraceni, sì che le comunicazioni tra il mare e l’entroterra e fra le varie città cristiane erano rese quasi impossibili. Dal regno di Baldovino I (1100-1118) a quello di Baldovino IV (1174-1185), gli stati franco-siriaci si presentarono come una triade (la contea provenzale di Tripoli, il principato normanno di Antiochia, il regno stesso: escludiamo Edessa, che cadde nel 1146) di grandi signorie sotto il formale dominio eminente della corona gerosolimitana; ma ad Antiochia si faceva sentire forte la influenza dell’imperatore di Costantinopoli che non aveva mai rinunziato alla città e considerava quella di Beomondo un’usurpazione. Naturalmente ciascuno dei tre sovrani aveva i propri vassalli, e quelli del re – soprattutto i feudatari del Giordano – erano particolarmente riottosi e difficili da controllare. Anche se per tutto il XII secolo il trono di Gerusalemme resse, le frequenti contese familiari e l’insubordinazione dei nobili preparavano l’anarchia che avrebbe dominato incontrastata negli anni a venire e che avrebbe affrettato la rovina dei Franchi. Né mancavano i problemi sociali: i crociati, al loro arrivo in Terrasanta, erano assai pochi e il loro numero si era ulteriormente ridotto perché molti, sciolto il voto sulla pietra del Sepolcro, avevano fatto ritorno in Europa. La minoranza franca si era dunque trovata in una terra ostile; inoltre le stragi indiscriminate nei primi tempi della conquista avevano spazzato musulmani ed ebrei (i pochi superstiti si erano affrettati a rifugiarsi in terra islamica) recidendo alla base la vita economica delle ricche città litoranee quali Acri, Tiro, Tripoli, Beirut, Sidone, la cui prosperità risiedeva appunto nell’operosità di quella borghesia di mercanti e di artigiani. Restavano, è vero, gli indigeni cristiani: libanesi, siriani, al nord anche greci e armeni; essi medesimi erano però guardati con sospetto dai nuovi padroni che li trovavano troppo simili ai saraceni, tacendo poi il fatto che le loro stesse attività perdevano di efficacia economica se tagliate fuori dal contatto con i grandi mercati saraceni quali Aleppo, Damasco, Mossul. Migliore era forse la situazione della campagna, dove il contadinato in gran parte musulmano non fu fatto oggetto delle stragi che si erano verificate entro la cerchia muraria delle città conquistate, e dove i feudatari – forse perché più aperti a comprendere le esigenze rurali, simili a quelle dei loro vecchi possessi europei, che non i problemi complessi della società urbana orientale ch’era loro estranea – si affrettarono a rimettere in piedi un minimo di strutture produttive. Al vuoto creatosi nelle città si cominciò a rimediare dopo che, con la conquista di Tiro del 1124, tutta la costa siriaco-libano-palestinese fu in mano ai Franchi. S’inaugurò allora una politica di tolleranza che indusse molti borghesi musulmani a stabilirsi di nuovo in quelle città che – chiunque ne fosse il padrone – restavano importanti perché erano i porti delle carovaniere provenienti, attraverso Siria e Mesopotamia, dalla Persia e dall’oriente estremo. Anche le colonie commerciali latine, createsi nel frattempo, contribuivano a riempire il vuoto demografico: di ciò riparleremo. 2.2 Gli ordini monastico-militari Più grave era il problema della difesa: i cavalieri franchi rimasti in Terrasanta erano pochi, e della popolazione indigena non ci si poteva fidare. I coloni latini erano sì atti alle armi, ma conducevano una vita autonoma rispetto al potere feudale e, come osservava il cronista Giacomo di Vitry, badavano essenzialmente a salvaguardare la propria libertà. Periodicamente – e soprattutto per la Pasqua, quando all’inizio della primavera si apriva anche la stagione della navigazione e dei traffici – giungevano dei pellegrini, e molti di loro «davano una mano» in spedizioni stagionali: poi ripartivano però quasi immediatamente, con la palma di Gerico in ricordo del voto sciolto, e il regno restava nella sua cronica povertà di uomini validi aggravata dal fatto che, riavutosi dal primo stupore, l’Islam si stava riorganizzando alle frontiere e dinanzi al nuovo inatteso nemico pareva addirittura superare gli atavici conflitti intestini. A ciò si aggiunga che, nei due secoli di vita del regno gerosolimitano, gli «aiuti» dell’occidente si rivelarono spesso controproducenti. Sia le sette grandi crociate seguite alla prima e risoltesi tutte in altrettanti insuccessi, sia le spedizioni particolari di questo o quel grande signore europeo – pellegrinaggi armati, in fondo piccole «crociate» – avevano il denominatore comune di non conoscere la situazione della Terrasanta e di concepire la guerra, la strage, il saccheggio come il solo modo di trat tare con gli infedeli. Ai crociati giunti di fresco, dunque, i signori franco-siriaci che vivevano e vestivano alla orientale, che conoscevano l’arabo, che ostentavano la loro amicizia con emiri e mercanti saraceni, che spesso erano imparentati con casate indigene, parevano corrotti e traditori della cristianità. Quanto più i rapporti tra Franchi e musulmani si qualificavano come risolvibili al livello politico, tanto più era necessario disporre di una forza militarmente stabile ed efficace ma anche buona conoscitrice dei problemi dell’ambiente nel quale era chiamata a operare. Tali esigenze parvero risolte con la creazione di parecchi ordini monastico-militari, i più importanti dei quali furono Templari, Ospedalieri di San Giovanni – più tardi detti Cavalieri di Rodi e poi di Malta – e Teutonici. La fondazione di ordini di monaci che includessero la guerra fra i loro obblighi e le loro consuete attività costituisce uno dei fenomeni più sconcertanti ma anche più qualificanti nella storia della Chiesa, e dimostra sia come essa abbia saputo inserirsi nella società guerriera del tempo, sia come la crociata, da episodio inizialmente semicasuale, fosse diventato un problema che toccava in profondità la coscienza cristiana anche al livello del pensiero e dell’atteggiamento disciplinare ecclesiastico. Originariamente sorti forse come libere associazioni di poveri cavalieri che avevano fatto voto di difendere i pellegrini, tenere sgombre dai predoni le strade che da Gerusalemme portavano al mare e combattere gli infedeli, gli ordini monastico-militari si dettero più tardi una vera e propria regola e una struttura approvata dalla Chiesa. Ciascun appartenente ad essi pronunziava, oltre ai tradizionali voti di castità, obbedienza e povertà personale, anche quelli particolari di fedeltà al papa e di guerra senza quartiere all’infedele. Il problema della guerra fu difficile da inquadrare negli ideali monastici. La Chiesa latina, a differenza di quella greca, aveva sempre tenuto un atteggiamento distinzionistico al riguardo: mentre i teologi greci condannavano l’assassinio in qualunque sua forma, i latini preferivano sviluppare la teoria agostiniana della «guerra giusta» e permettere ai cristiani l’uso delle armi quando ve ne fosse causa giusta e legittima, fermo restando l’obbligo – sancito con fermezza dai canonisti del secolo XI – di far penitenza dopo aver ucciso, sia pur con ragione, il fratello in Cristo. Ma il cristianesimo non conobbe mai un ideale paragonabile alla «guerra santa» per la propagazione e per la difesa della fede, come invece esisteva presso i musulmani. La guerra rimaneva radicalmente estranea alla lettera e allo spirito del Vangelo. Nonostante ciò, già la cristianizzazione della cavalleria e la propaganda per la cacciata dei mori dal suolo spagnolo ponevano la questione in modo un po’ diverso: pur indicando ai cavalieri mète sante quali la difesa degli oppressi, dei deboli, della terra natia e via dicendo – cioè costringendoli a combattere appunto solo per giuste cause – restava il fatto che non si poteva accogliere completamente nel proprio seno una categoria di uomini (i cavalieri appunto) il cui compito specifico e caratteristico era il guerreggiare, senza modificare alquanto l’atteggiamento nei confronti della guerra in sé. In un primo tempo la Chiesa eluse il problema fondamentale e pose l’accento sulla santificazione del cavaliere che, morendo in battaglia nel nome della fede, veniva avvicinato al martire: era il martirio che giustificava e sublimava il sacrificio del guerriero cristiano, redimendone anche i passati errori. Questa posizione s’incontra con chiarezza nelle Chansons de Geste. Ciò era già molto, ma non bastava ancora. Fu Bernardo di Clairvaux a tentare una cristianizzazione integrale degli ideali cavallereschi e una loro totale funzionalizzazione rispetto alla fede cristiana e alla disciplina ecclesiastica. Nel Liber de laude novae militiae, a buon diritto considerato il «manifesto» dell’ordine templare, il santo si scagliava contro la mondanità e lo sfarzo, la violenza privata e la vanagloria dei cavalieri del suo tempo, e a essi contrapponeva appunto i milites novi, i Templari, dei quali esaltava la povertà assoluta e la lotta contro gli infedeli che – una volta accettata come unica ragione di vita – diveniva simbolo della psicomachia», la lotta del Bene contro il Male che si combatte a livello cosmico dal tempo della Creazione e che ciascun cristiano rivive quotidianamente nell’anima sua. La lotta temporale era svalutata a mera apparenza di quella spirituale, l’uccisione dell’infedele diventava «malicidio». Naturalmente, Bernardo non giunge a sostenere che l’infedele va ucciso in quanto tale né che dev’essere soppresso se non si converte (sebbene questo fosse prati camente il pensiero di molti crociati): la crociata resta una guerra di difesa contro l’oppressione saracena e di liberazione di quella Terra Promissionis che spettava alla cristianità in quanto erede d’Israele. Ciò nonostante, questa difesa della milizia templare e questa giustificazione della nuova figura del monaco combattente non potevano non approdare, come di fatto accadde, a una rivalutazione pratica della guerra in sé, qualunque ne fosse il contesto. Forti del consenso ecclesiastico, gli ordini crebbero enormemente, e i loro monasteri-fortezze si eressero ben presto a guardia di tutta la Terrasanta. Il loro coraggio, la loro disciplina, la loro iniziale povertà li fecero stimare da tutti, saraceni compresi. Ben presto «commende» di essi si aprirono anche in Europa, mentre lasciti e donazioni frequenti li arricchivano; poi furono loro affidati anche compiti finanziari, come la raccolta delle decime ecclesiastiche e la custodia e gestione di molti beni. Tanta potenza economica non tardò a tradursi in termini politici: gli ordini si dettero a perseguire fini propri, a comportarsi come altrettanti stati nello stato in cui agivano. Con i saraceni facevano guerra o trattavano la pace indipendentemente dal parere e dalle necessità dei feudatari laici di Terrasanta; le loro contese con questi ultimi, ma anche fra loro – la rivalità di Ospedalieri e Templari divenne celebre – pregiudicavano la vita dell’oltremare cristiano, mentre la loro prosperità economica faceva invidia a molti. Sui Templari inoltre – senza dubbio i più odiati – pesava, oltre all’invidia per le loro enormi ricchezze e all’astio per la loro rissosità e tracotanza (il detto «superbo come un Templare» era passato in proverbio), la voce pubblica che li voleva in collusione con i saraceni e dediti a oscuri studi di magia. La perdita totale della Terrasanta, con la caduta di Acri (1291), sembrò dar l’ultimo colpo all’utilità pratica degli ordini: i Templari furono liquidati nel 1312 da papa Clemente V, costretto a favorire in ciò il re di Francia Filippo IV che ambiva metter le mani sulle fi nanze dei cavalieri ed eliminare nel contempo dal suo regno in via di organizzarsi centralisticamente una forza fedele al pontefice. L’abolizione del Tempio segnò la fine degli ordini monastico-militari non come tradizione, ma come forza qualificata e indipendente nella cristianità. I Teutonici, cui da tempo era affidato l’incarico di evangelizzare il nord-est europeo, rimasero confinati in Prussia dove all’alba del Cinquecento passarono alla Riforma protestante; l’ordine di Malta – ultima veste assunta nel tempo dagli Ospedalieri giovanniti – sopravvive ancora, caratterizzato in modo del tutto particolare: ma le sue funzioni sono ovviamente ridottissime, pur rimanendo esso ancor oggi fedele alla sua primitiva vocazione assistenziale. 2.3 Mercanti e colonie commerciali «Iliade di baroni, Odissea di mercanti»: con questa efficace definizione è stato colto il nucleo della diversa forma mentis secondo la quale la crociata fu sentita nel mondo delle armi e in quello dei traffici. La possibilità di aprirsi uno sbocco nel Mediterraneo orientale non fu immediatamente colta in tutta la sua importanza dagli armatori e dai marinai occidentali. Tra le città marinare di allora, l’unica che potesse permettersi dei traffici internazionali era Venezia, dato che qualche altra presenza negli scali per esempio bizantini – alludiamo ad Amalfi – non era in grado di farle concorrenza e volgeva del resto rapidamente alla decadenza. I Veneziani, oscillando fra l’ossequio formale e l’accorto appoggio politico, si erano ingraziati gli imperatori di Bisanzio e con la loro fiducia non avevano rivali nell’Adriatico, nello Ionio, nell’Egeo, dove il problema dei corsari saraceni praticamente non esisteva. Un trattato del 1082, ch’era in effetti un premio per l’appoggio prestato alle armi bizantine in occasione dell’offensiva di Roberto il Guiscardo in Epiro, consentiva loro di commerciare senza impacci daziari in tutto il territorio dell’impero e di tenere nella capitale e in altre città fiorenti colonie con relativi fondaci. Inoltre era abbastanza frequente per loro toccare città come Antiochia, Laodicea e la stessa Alessandria. I prodotti orientali che, con sicurezza già almeno dal secolo X, affluivano in quantità sia pur limitata in Europa, giungevano prevalentemente a Venezia e di là venivano inoltrati soprattutto per la via fluviale del Po. Diversa era stata, fino al secolo XI, la condizione di Genova e di Pisa, il cui autonomo sviluppo era stato impacciato prima dai Longobardi e poi dalle strutture feudali franche. Oltre a questo, il Tirreno era stato teatro delle incursioni piratesche arabe che il sostegno delle potenze marinare infedeli in Sardegna, in Sicilia e nell’Africa settentrionale rendeva continue e virulente. L’affermarsi progressivo delle città tirreniche sul mare procedette quindi di pari passo con le lotte contro gli infedeli: e c’è da dire che, se è vero che tali lotte avevano significato un momento caratteristicamente espansionistico al livello politico-economico, è anche vero che i motivi religiosi vi si mischiavano naturalmente in un mondo nel quale il linguaggio della fede era praticamente l’unico a disposizione di chi volesse esprimere qualunque tipo di tensione, di sensazione, di necessità o di volontà. La cattedrale di Pisa fu iniziata all’indomani dell’assalto del porto di Palermo (1063), con i proventi di quel saccheggio; ventiquattro anni dopo, il vessillo vermiglio di Pisa garriva sulle torri di al-Mahdiah, città corsara al nord del golfo di Gabes, e un anonimo Carmen in Victoria Pisanorum celebrava la conquista come fatta nel nome di Dio e dell’Apostolo Pietro. Toni non dissimili si trovano nelle fonti genovesi di poco posteriori (in Caffaro soprattutto), e per il loro carattere hanno permesso ad alcuni nostri studiosi di definire «precrociate» tali imprese. Certo è che nel Mediterraneo avvenivano tali cose mentre in Spagna si attuava la Reconquista e mentre i pellegrinaggi al Santo Sepolcro si intensificavano: tutto pareva convergere verso la spedizione a Gerusalemme. Ma quando i primi contingenti cominciarono a partire per la Terrasanta, né a Genova né a Pisa se ne registrarono echi. Le due città erano in gravi travagli interni (si trattava in entrambi i casi della nascita del movimento comunale) e d’altra parte gli scopi dell’impresa proclamata a Clermont non erano chiari. Genova si mosse per prima, pare su diretta sollecitazione papale, con due spedizioni navali nel 1097 e nel 1099, la seconda delle quali aiutò i crociati a costruire gli ordigni d’assedio che servirono per la presa di Gerusalemme. Seguì Pisa, con una flotta che giunse a Laodicea nel settembre del 1099; da allora, per i primi due decenni del secolo, si ebbe un ininterrotto seguito di spedizioni delle due città che furono determinanti nella conquista del litorale siro-babilonese. Venezia, da parte sua, guardò all’inizio con diffidenza alla nuova situazione che minacciava il monopolio dei suoi traffici orientali e che era sempre più malvista dalla sua grande alleata, la corte di Bisanzio: si ha notizia, addirittura, di scontri fra navi veneziane e navi pisane. Ma alla fine dovette prevalere l’idea che, dal momento che la nuova situazione creatasi nel Mediterraneo orientale era irreversibile, diventava necessario parteciparvi. Da allora i Veneziani, pur non perdendo di vista il fatto che il centro dei loro traffici era e restava Bisanzio, né tralasciando di curare i rapporti con i mercati egiziani, intervennero al pari delle altre città marinare in Terrasanta; più tardi, si aggiunse anche la concorrenza provenzale e catalana. Nell’opera dei marinai italiani in appoggio alla crociata è necessario distinguere due aspetti. Dapprima, l’assalto e la conquista delle città saracene venne da parte loro considerato solo un buon affare immediato: ne conseguivano saccheggi e massacri spietati, da cui si tornava carichi di bottino e anche di reliquie lasciandosi alle spalle delle vere città morte. Nel contempo, però, si strappavano ai signori feudali franchi dei privilegi di commercio che furono fatti valere più tardi, quando si cominciò a sfruttare la situazione in modo più illuminato. A quel punto, si fondarono le vere e proprie colonie commerciali, piccoli comuni all’interno delle città economicamente più importanti. Si otteneva l’uso di un quartiere o almeno d’una strada e piazza con tutte le installazioni necessarie a una vita sociale autonoma: chiesa, fontana, forno, botteghe, fondachi, portici e case di abitazione. Nel corso del XII e del XIII secolo in Gerusalemme e in tutte le città più importanti della Terrasanta – Antiochia, Tripoli, Acri, Tiro, Giaffa e così via – si ebbero così una piccola Venezia, una piccola Pisa, una piccola Genova, ciascuna governata dai propri magistrati («consoli» o «baiuli») inviati dalla madrepatria o scelti dai coloni stessi. I rapporti di queste colonie con l’autorità feudale franca erano – a quanto risulta dalle leggi d’oltremare, le Assises de Jérusalem – improntati alla massima indipendenza delle prime rispetto alla seconda, e sappiamo che perfino il clero che serviva presso i coloni tendeva a non considerarsi legato all’episcopato franco ma piuttosto al vescovo della madrepatria. Meno chiari sono i rapporti, appunto, tra madrepatria e colonie, che talvolta sembrano assai stretti mentre talaltra si assiste addirittura alla rispettiva assunzione di linee politiche opposte. Il contributo di questi nuclei di mercanti latini allo sviluppo dell’oltremare cristiano, al riallacciamento dei contatti con l’entroterra asiatico e alla rinascita economica dell’occidente fu assai ampio, ma ampi furono anche gli inconvenienti. Già la debole compagine statale del regno di Gerusalemme soffrì molto per la presenza delle colonie latine che godevano di privilegi troppo larghi – concessi quando lo sviluppo delle cose era imprevedibile – e che spesso sconvolgevano le città con le loro lotte civili che riproducevano le inimicizie dell’occidente. Oltre a ciò, la presenza dei mercanti era infida in periodo di guerra perché essi, dato il loro mestiere, tenevano molto all’amicizia dei potentati musulmani e si acconciavano spesso alla funzione di spie nei confronti dei loro fratelli in Cristo; né si deve passare sotto silenzio che erano mercanti cristiani a fornire ai saraceni, nonostante i divieti comunali e le scomuniche della Chiesa, certe merci di cui il mondo islamico scarseggiava e che erano fondamentali per la guerra, quali il legname, la pece, il ferro, le armi. Infine, così come l’interesse mercantile aveva facilitato l’instaurarsi dei principati franchi, il superamento di tale interesse ne affrettò la caduta. Le piazze commerciali siro-palestinesi erano buone, ma non ottime: le spezie, per esempio, giungevano in maggior quantità e più a buon mercato ai porti saraceni di Damietta e d’Alessandria, dove non c’era pericolo che il flusso delle merci venisse intralciato o interrotto in periodo di crociata. Di qui l’interesse dei mercanti per i centri del delta del Nilo, ch’essi cercavano di sfruttare direttamente: sia tentando di persuadere i crociati a conquistarli sia – visto che ciò non era possibile – trasferendosi di preferenza là e abbandonando al suo destino l’economia della Terrasanta. Al Nilo si volsero soprattutto le attenzioni veneziane mentre Genova guardava con crescente interesse alle sponde del Mar Nero dal quale – soprattutto dopo le grandi conquiste mongole del Duecento – era possibile allacciarsi alla «via della seta» e all’Asia profonda. Solo i Pisani, il respiro della cui politica si faceva sempre più corto, rimanevano ancorati ai mediocri orizzonti palestinesi: e ciò fu, in misura non piccola, causa e al tempo stesso effetto della loro decadenza (la battaglia della Meloria, 1284, segnò com’è noto il tracollo della potenza politica pisana: se ne noti la quasi assoluta contemporaneità rispetto alla finale liquidazione del regno di Gerusalemme, 1291). Né per i mercanti l’esaurirsi progressivo del movimento crociato fu un male: al contrario, esso coincise con un enorme allargarsi dei vecchi orizzonti commerciali, fino all’India e alla Cina, i cui tesori erano prima attingibili solo attraverso la mediazione degli empori musulmani. E insieme ai viaggiatori presero ad avviarsi i missionari, sì che l’ampliamento del nome cristiano, che non si era ottenu to con la spada, si ottenne invece con i contatti lucrosi dovuti alla ragione di mercatura. Senza Marco Polo non ci sarebbe stato Giovanni di Montecorvino. 2.4 La riscossa musulmana La caduta di Edessa del 1146, che provocò l’inutile seconda crociata, era il sintomo di un fatto assai importante: l’Islam stava abbandonando il particolarismo e puntava, lentamente ma inesorabilmente, verso una nuova unità. Il dramma del mondo maomettano del secolo XI era stato il frazionamento politico accresciuto dalla fitta rete di odii e di rivalità – reciproco disprezzo fra Arabi e Turchi, scisma religioso fra sunniti e sciiti – che faceva capo alla drammatica divisione fra i due concorrenti califfati, quello abbàside di Baghdad e quello fatimida del Cairo: Siria e Palestina, essendo geograficamente al confine tra i due massimi potentati, ne soffrivano tutte le conseguenze. Ma nel corso del secolo successivo le cose iniziarono a maturare. Zinki, atabeg (governatore) di Mosul e di Aleppo, riuscì a crearsi fra il Tigri e l’Oronte un forte regno nominalmente soggetto a Baghdad, ma di fatto indipendente: e dette immediati segni di voler conquistare tutta la Siria. I principi crociati mancarono in quell’occasione di senso politico: non seppero allearsi con quelle forze musulmane che avevano interesse a non venire assorbite da Zinki e – quand’egli morì – da Nur edDin, suo figlio e successore. La seconda crociata (1147-1148) si accanì proprio contro quella Damasco che, per paura del vicino potente correligionario, avrebbe potuto essere l’unica valida alleata dei Franchi. Fra i generali di Nur ed-Din vi era un curdo a nome Salah ed-Din Yusuf : è a lui – il celebre Saladino – che si deve principalmente il rinnovato periodo di potenza musulmana nello scorcio del secolo. Egli seppe riunificare l’Islam sopprimendo il califfato sciita dal Cairo, ma soprattutto riuscì a soppiantare i suoi antichi padroni e a crearsi un sultanato personale dall’Egitto al Tigri, che minacciava di soffocare i principati francosiriaci. Difatti, al momento opportuno, egli scatenò una dura offensiva: il 4 luglio del 1187 sconfiggeva i Franchi a Hattin e poche settimane più tardi, il 2 ottobre, entrava trionfante in Gerusalemme. La terza crociata, organizzata precipitosamente sulle ali della terribile notizia che la Città Santa era caduta e a cui parteciparono i più grandi sovrani europei (l’imperatore Federigo I, il re di Francia Filippo Augusto e quello d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone) si risolse in un nulla di fatto. La capitale del regno franco si spostava ad Acri, mentre Gerusalemme e tutta la costa a sud di Giaffa restavano in mani saracene. Vero è che la terza crociata aveva portato una nuova terra ai principi franchi: Cipro, che Riccardo Cuor di Leone aveva strappato ai Bizantini e costituito in regno per la famiglia dei Lusignano da lui protetta; ben presto il re di Cipro, per avere al possesso dell’isola un titolo giuridico più forte di quello dell’occupazione di fatto, si rivolse all’imperatore romano-germanico Enrico VI per avere da lui l’isola in feudo. Poiché lo stesso fece il re armeno della Cilicia, a questo punto gli interessi svevi si estendevano – dalla Sicilia ch’era ormai il loro centro – per tutto il Mediterraneo orientale. L’imperatore Enrico VI era certo dotato di grande lungimiranza e di un elevato concetto della monarchia universale, ma la sua morte (1197) ne troncava lo slancio politico mentre, nel 1198, un matrimonio univa le corone di Cipro e di Gerusalemme – che però non si fusero – nella persona di Amalrico di Lusignano, il quale potè parzialmente ristabilire l’ordine in Siria, approfittando del fatto che dopo la morte del Saladino il suo grande impero si era frazionato tra gli eredi in lotta. Sarebbe stato forse il momento opportuno per una nuova crociata, e sul trono pontificio sedeva l’uomo adatto a ordinare un nuovo sforzo armato della cristianità: ma Innocenzo III fallì proprio in questo, e la quarta crociata (1202-1204), deviata sul Bosforo, finì con un’ibrida e infelice creazione politica, l’impero latino di Costantinopoli, utile solo alle mire espansionistiche di Venezia. Innocenzo non disarmava e nel concilio lateranense del 1215 additava nel passagium universale il primo e necessario dovere cristiano: ma la spedizione, che nel 1217 partì guidata da Andrea II d’Ungheria e si concluse ingloriosamente nel 1221 dopo un’inutile occupazione di Damietta, fu l’unico e poco brillante risultato della sua iniziativa. Vero è d’altronde che a quell’ultima data il grande pontefice era sceso da cinque anni nel sepolcro e che le responsabilità politiche e strategiche della sconfìtta si dovettero tutte al Legato papale cardinal Pelagio, uomo dotato d’una miope e ostinata intransigenza. Era una crociata sui generis quella che, nel 1229, recuperava Gerusalemme alla cristianità. L’imperatore Federigo II, dopo aver lungamente tergiversato, aveva infine preso la croce sotto l’incalzare della scomunica di Gregorio IX: un accordo col sultano cairota Malik al-Kamil, della stirpe del Saladino, a lui legato da comuni interessi mediterranei e forse da una profonda simpatia intellettuale, lo rese di nuovo padrone della Città Santa. Si trattava però di un patto assai fragile, per il quale i cristiani rientravano in possesso d’una città le cui fortificazioni erano state smantellate e che era praticamente alla mercé dei saraceni all’intorno. Anche l’effetto propagandistico, per il quale l’imperatore si attendeva di venir salutato come il recuperatore del Sepolcro, venne capovolto: egli, scomunicato, aveva ardito metter piede su quel sacro suolo e negoziare una pace vergognosa con gli infedeli! Comunque, lo scalpore nella cristianità non fu molto quando, nel 1244, una tribù di Turchi nomadi e fuggiaschi si impadronì di nuovo di Gerusalemme massacrando e saccheggiando. A quel tempo, i Mongoli si erano affacciati sulla soglia dell’Europa orientale e per un attimo era sembrato che ne travolgessero le difese: quella era adesso la «grande paura», né c’era posto per la Terrasanta. Vi pensò unicamente san Luigi, che nel 1248 partì per una disastrosa crociata in direzione dell’Egitto. Egli nutriva grandi speranze, inclusa quella d’un’intesa con i Mongoli: ma il suo tentativo franò nella prigionia, liberato dalla quale egli tentò invano di accordare fra loro i feudatari franco-siriani e di coordinarne le forze. Stremato e affranto, riprendeva nel 1254 la via dell’Europa: un’altra impresa crociata lo avrebbe atteso, di lì a sedici anni, e con essa la pestilenza e la morte sul lido tunisino. Grandi cambiamenti si verificavano frattanto nel mondo islamico. Proprio mentre Luigi IX era prigioniero in Egitto, la casta degli schiavi-guerrieri (i cosiddetti Mamelucchi), che teneva virtualmente in mano il potere al Cairo, aveva deciso di dar l’estremo bando alle ultime finzioni e di eliminare gli epigoni del Saladino per eleggersi un sultano di sua scelta. I Mamelucchi erano ben più rozzi e crudeli dei predecessori, e non facevano mistero delle loro intenzioni riguardo ai principati francosiriaci. Un ultimo barlume di speranza venne forse dalla Persia, dove il mongolo Hulagu Khan aveva eliminato nel 1258 l’ultimo califfo abbàside: ma l’avanzata mongola, fermata con la battaglia degli «Stagni di Golia» (1260), non giunse fino in Egitto, e si ha l’impressione che anche i cristiani abbiano tirato un sospiro di sollievo per questo. Iniziò così l’ultimo atto del soffocamento dei feudi crociati: nel 1265 cadevano Cesarea, Haifa e Arsuf; nel 1268 il porto di Giaffa; nel 1289 Tripoli; fi nalmente, nel 1291, Acri, Tiro e le piazzeforti restanti. L’occidente aveva assistito allo sfacelo incapace di reagire. La crociata generale proclamata nel 1274 da Gregorio X al concilio di Lione non aveva avuto seguito; altri bandi di crociata uscirono dalla cancelleria pontificia, e tutti caddero ugualmente nel vuoto. La Terrasanta era irrecuperabile; e, del resto, l’attenzione della cristianità era ormai volta altrove. 2.5 Dallo spirito crociato allo spirito missionario Per quanto solitamente si tenda a metterla in rapporto con l’intolleranza religiosa, la crociata prescindeva dal problema della liceità o meno che esistessero religioni non cristiane, per limitarsi a rivendicare alla cristianità il possesso della Terrasanta e la libertà del pellegrinaggio. Vero è che spesso le fonti – soprattutto quelle epiche – presentano i cristiani nell’atto di proporre ai «pagani» vinti la scelta tra il battesimo o la morte, e in quel caso la dimensione intollerantistica è senza dubbio presente: mai però si faceva guerra agli infedeli propriamente per convertirli (la scolastica proclamerà anzi apertis verbis che ciò non è lecito), e quindi eventuali tentativi in quel senso restavano isolati, nonché estranei al tessuto della crociata che non è «guerra santa» tout court ma, come abbiamo visto, un tipo circoscritto e particolare di essa (ammesso pure che di «guerra santa» nella sfera cristia na si possa veramente parlare). Le cognizioni che l’occidente cristiano aveva sull’Islam e su Maometto restarono comunque, fino al secolo XII inoltrato, assai confuse e grottesche: si faceva della religione musulmana un misto di «idolatria» – cioè paganesimo classico –, giudaismo e connubio col demonio, né era infrequente scorgere in Maometto una prefigura dell’Anticristo, come dirà alla fine del secolo Gioacchino da Fiore e come molti ripeteranno anche più tardi. Oppure si ripeteva la leggenda che faceva del Profeta un ex-cristiano e della sua legge, quindi, un’eresia cristiana. Fu per iniziativa di un gruppo di intellettuali rotanti attorno a Pietro il Venerabile che si cominciò a studiare l’arabo e la teologia maomettana, giungendo così a una prima traduzione del Corano a opera di Roberto di Chester. È da notare tuttavia che questi fecondi contatti avvenivano non in Terrasanta ma in Spagna, che è da considerarsi il tramite più importante tra i due mondi. Lo stesso svolgersi delle vicende crociate, del resto, non poteva non avere la sua naturale conseguenza nella curiosità prima, nell’interesse poi dei cristiani per i musulmani. Coloro che – in Spagna come in Sicilia come in Siria – si trovavano per qualsiasi motivo a contatto con i saraceni, non potevano non accorgersi di quanto grossolana e fallace fosse la visione che in Europa si aveva di loro e che la poesia epica perpetuava, né potevano continuare a ignorare i profondi legami che univano cristianesimo e Islam al ceppo veterotestamentario e quindi fra loro, il rispetto e l’affetto che il Corano mostrava per Gesù e per Maria, la sostanziale somiglianza delle due leggi al livello morale. Tutto ciò mentre – con il fallimento della seconda crociata che aveva rappresentato la traduzione in pratica degli ideali bernardiani di lotta senza quartiere – una profonda sfiducia nella possibilità di domare la mezzaluna con le armi si era impadronita dell’Europa. È a questo punto che bisogna situare un fatto capitale: il viaggio di Francesco d’Assisi in oriente durante la quinta crociata e la sua predicazione «nella presenza del Soldan superba». Francesco era un pellegrino al seguito della crociata: era egli stesso crociato, poiché abbiamo visto che tale non è soltanto chi combatte. Pure, il suo atteggiamento è ben profondamente innovatore e non – si badi bene – solo perché egli cercava la corona del martirio, come amano ripetere quanti vogliono per forza scavare un abisso tra crociate e missione ponendo proprio come spartiacque l’episodio che vede Francesco protagonista. Il martirio era la giustificazione fondamentale dell’esperienza crociata: martire era così chi cadeva in battaglia contro l’infedele come l’inerme da questo ultimo trucidato, e le fonti cronistiche mostrano ciò con estrema consapevolezza, usando il linguaggio preciso dei martirologi e della letteratura agiografica. Ma la novità introdotta da Francesco è ben altra: essa risiede nella discussione, nel confronto delle due leggi e dei rispettivi effetti, nell’ansia di dimostrare la superiorità del proprio credo, nell’amore per l’avversario che traspare da quella stessa sete di commuovere e di convincere. I francescani furono fedeli all’insegnamento del loro maestro: a essi (e anche ai domenicani) si dovettero le fondazioni degli Studia Arabica dove i giovani si esercitavano nello studio della lingua e del messaggio di Maometto e affinavano le armi della confutazione alla luce di una cognizione di causa circa le idee da confutare. Può sembrare strano che gli ordini mendicanti assolvessero a due tanto diverse funzioni, da un lato monopolizzando – come di fatto monopolizzarono fino a tutto il Quattrocento – la predicazione e la propaganda crociata, dall’altro incoraggiando studi e attività in chiara alternativa con la «guerra santa» contro l’infedele. Ma il fatto è che l’alternativa, che a noi sembra lampante, non lo era per gli uomini di quel tempo: crociata e missione potevano benissimo andare di pari passo o addirittura presentarsi come complementari, mirando la prima a tenere lontani i pagani dall’eredità del Popolo di Dio, la seconda a salvarne le anime. Lo stesso millenarismo di marca gioachimita, che tanta importanza ebbe in certi settori del francescanesimo, poteva giocare in tal senso: se è vero che in Maometto si vedeva una prefigura dell’Anticristo, è altresì vero che la conversione di tutti i popoli al Cristo era sentita come condizione fondamentale della Seconda Venuta. Non si deve tacere poi il fatto che la cultura scolastica assolse una funzione forse fondamentale nella elaborazione dello spirito missionario: il metodo della discussione, della confutazione, del con- fronto sottile con l’avversario era caratteristico della scolastica e della stessa pratica universitaria di quel periodo, ed era appunto a quel metodo che guardavano coloro che intendevano affrontare la predicazione in terra pagana. Né l’Islam era l’unica terra incolta da lavorare: col Duecento il mondo tartaro si era svegliato ed era entrato in contatto con l’occidente. Era un mondo giovane, che faceva paura ma che al tempo stesso affascinava, sia per i vantaggi economici che avrebbe ottenuto chi fosse riuscito a penetrarlo, sia per le strane leggende che aleggiavano intorno a esso. Ai Mongoli si ricollegava la stirpe dei Re Magi e quel mitico re-sacerdote chiamato «Prete Gianni» che avrebbe dovuto muoversi dall’oriente in aiuto dei cristiani: e in effetti, comunità cristiano-nestoriane erano frequenti tra quelle tribù. Nacque così l’idea, dura a morire, che fosse possibile convertire i Tartari e farsene degli alleati per la crociata: tale idea sarebbe stata una grande illusione per tutto il Duecento. Ormai il mondo da cui la crociata era nata si stava incommensurabilmente allargando, e i vecchi ideali si rivelavano inadeguati. Due grandi filosofi francescani – Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone – non esitavano a criticare severamente le spedizioni crociate e a guardare alle religioni non cristiane con occhi sereni, pronti a coglierne i punti universali di contatto col cristianesimo. Su questa strada proseguirà quell’originale e per molti aspetti sconcertante pensatore che fu il catalano Raimondo Lullo, francescano egli stesso, zelatore della crociata ma contemporaneamente animatore dell’attività missionaria, indagatore geniale del mondo filosofico e scientifico arabo ed ebraico e dei relativi contatti con la Rivelazione cristiana. Queste aspirazioni ecumeniche lasceranno una forte impronta nella cristianità: un’opera fondamentale per chi voglia indagare il mondo religioso umanistico, quel De pace Fidei nel quale Nicolò Cusano accomuna tutti i popoli in un suggestivo coro delle nationes in lode dell’Altissimo, ne è la prova. 3 Agonia di un ideale 3.1 Le «teorie» della crociata: sistemazione, estensione e deviazione Come abbiamo detto, la crociata rappresentò al suo nascere una sintesi originale di elementi già vivi nella spiritualità cristiana, quali il pellegrinaggio e la guerra contro l’infedele. All’inizio la Chiesa non si preoccupò troppo di chiarirne le linee teoriche, ma si limitò al massimo a disciplinarne la pratica all’interno della sua dottrina e della sua scienza giuridica: prendere la croce significava pronunziare un voto che era vincolante solo dietro sanzione ecclesiastica, e al quale erano annesse indulgenze nel caso di adempimento e punizioni nel caso di rottura ingiustificata. Dinanzi al problema delle famiglie dei combattenti, che – partiti essi – potevano restare in balìa degli avversari o dei creditori, il diritto canonico non tardò a sancire l’intangibilità del crociato, della sua famiglia e dei suoi beni finché egli non fosse tornato dal pellegrinaggio. Ciò, naturalmente, cominciò a creare attorno alla pratica del passagium le prime ombre: l’oltre-mare era un’ottima scusa per evitare o almeno dilazionare il pagamento dei debiti. Noi siamo abituati a contare genericamente otto grandi crociate: la verità è però che esse furono molte di più, non tanto e non solo perché ogni pellegrinaggio armato, tipo quelli che stagionalmente si continuarono a fare si può dire ogni Pasqua finché i principati franco-siriaci ressero, si poteva chiamare una «crociata», quanto piuttosto perché conditio sine qua non affinché essa potesse dirsi tale era una bolla pontificia con cui il papa bandiva la spedizione fissandone la data di partenza e specificandone i premi spirituali e temporali per chi fosse partito come le pene per chi avesse rotto unilateralmente il voto pronunziato. Tale bolla ricalcava tradizionalmente la Quantum praedecessores di Eugenio III del 1145. Una volta che il cristiano avesse «preso la croce», si trovava dunque inserito nel mondo disciplinare della Chiesa: come crociato la sua persona era intangibile al pari di quella dei chierici, ma d’altro canto il suo voto era un vincolo che non si poteva rescindere. Il papa si trovava così a disposizione delle forze utilizzabili per il recupero o la salvaguardia del Sepolcro, ma gli interessi della Chiesa non erano solo quelli. E allora? La scienza canonistica venne in aiuto ai pontefici, e per tutto l’arco del Duecento si assiste a una si stemazione sempre più rigida e minuziosa della crociata finché essa diviene un perfetto strumento di teocrazia. Si cominciò con l’osservare che la crociata aveva come fine la restituzione alla cristianità e alla Chiesa di quelle terre che la Rivelazione e l’impero romano avevano ad esse assegnato. Ma se la Chiesa si proclamava erede dell’impero, il cui fine era stato il conculcare i «barbari», era inevitabile che essa ne accettasse anche la missione: ricordando però che, dopo la venuta di Cristo, i barbari non erano più i noncittadini romani, ma i non-cittadini della Gerusalemme Celeste. Erano barbari, insomma, tutti gli infedeli. E non c’erano infedeli solo in Terrasanta: essi erano anche in Spagna, e infatti già Urbano II aveva raccomandato agli Spagnoli di non accorrere in oltremare, ma di combattere in casa la propria crociata. Più tardi – poiché il saraceno non era l’unico tipo d’infedele sulla faccia della terra – san Bernardo aveva caldeggiato la estensione dei privilegi crociati a quanti combattevano gli slavi pagani nel nord-est europeo, e in ciò era stato più tardi seguito da Innocenzo III. Ormai v’era chi prendeva la croce per combattere non in Terrasanta, ma sui piani della Castiglia o nelle lande pomerane. Né questo bastava: una volta identificati gli interessi della cristianità con quelli del papato teocratico, si scopriva che ben altri nemici si celavano nel cuore della Europa, «peggiori degli stessi saraceni», a dirla con la cancelleria pontificia. I saraceni – questo era il parere del più grande canonista duecentesco, Enrico di Susa – avevano strappato la Terrasanta ai cristiani, ma gli eretici minacciavano addirittura di strappare loro la cristianità stessa, di lacerare la tunica inconsutile del Cristo: per cui la crux cismarina era ben altrimenti logica e necessaria che non la crux transmarina. Già due secoli prima, del resto, i polemisti riformatori avevano asserito che l’uccisione di uno scomunicato era meno grave di quella di un infedele: dalla teocrazia gregoriana del secolo XI a quella innocenziana del XIII non vi è soluzione di continuità. Questa estensione della crociata era resa necessaria dal dilagare del catarismo in tutta Europa, soprattutto nella Francia meridionale: il risultato fu la «crociata degli Albigesi» (1209-1229) che spense la florida e raffinata civiltà provenzale e valse alla Curia romana, con l’odio imperituro di tanti trovatori cacciati dalla loro terra, la condanna di molti fra i suoi stessi fedeli. Né ciò bastava: all’equivalenza pagano-eretico, già discutibile, teneva dietro quella eretico-nemico politico; scomunicando i propri avversari ed equiparando ogni scomunicato a un nemico della fede, la Curia poteva per esempio bandire «crociate» contro i ghibellini o in generale contro chi si opponeva ai suoi disegni. La dottrina canonistica della commutazione dei voti serviva mirabilmente allo scopo. La promessa di partire per la crociata d’oltremare poteva esser cambiata con la partenza effettiva alla volta di un’altra crociata, mantenendo gli stessi privilegi spirituali e temporali; oppure si riscattava versando alla Chiesa una certa quantità di denaro (il che praticamente equivaleva all’acquisto venale di un’indulgenza). Molti venivano poi, in punto di morte, persuasi a destinare una parte dei loro averi pro passagio generali in suffragio della loro anima e a sconto di certi particolari peccati, per esempio l’usura. La crociata si era ormai andata mutando in una macchinosa operazione politica ed economica, in un complesso gioco di potere che interessava vescovi, abati, re, collettori di elemosine, banchieri. E in tale gioco – per quanto sembri paradossale – era proprio il Sepolcro di Gesù a non avere alcun peso. Due secoli d’insuccessi avevano dimostrato non solo che l’Europa era incapace di conservare la Terrasanta, ma anche che lo sforzo crociato era inutile. Il rilancio del culto eucaristico perseguito dalla teologia del secolo XIII approdava in fondo a questo: ogni chiesa, ogni altare, ogni ciborio contenevano realmente corpo, sangue, anima e divinità del Cristo; non serviva andare in oriente a visitare una tomba vuota, quando ogni messa e ogni consacrazione rinnovavano il Sacrificio del quale i pellegrini di Gerusalemme cercavano solo i ricordi. Tornavano le parole evangeliche dell’Angelo alle Marie: perché cercate fra i morti Colui che vive? E dall’esaurirsi della crociata anche il pellegrinaggio – sulla bontà del quale del resto i teologi non erano mai stati concordi – risultava svalutato. Nell’anno 1300, Bonifacio VIII inaugurava il Giubileo: con esso ciascun cristiano, andando a Roma, lucrava le medesime indulgenze che avrebbe guadagnato rischiando la vita nella crociata. Nel prendere questo momento e questo tanto discusso personaggio a simbolo dell’affossamento della crociata, giovi ricordare le parole di Dante che esprimono il dolore per la Terrasanta perduta e l’orrore per «la croce portata contro i cristiani»: 3.2 La reazione dell’opinione pubblica Da quanto abbiamo detto sopra non si deve pensare che la Curia romana abbia in qualche modo sconfessato mai, ufficialmente, l’ideale della crociata in Terrasanta. Ciò non poteva accadere, dal momento che su quell’ideale appunto si basavano le stesse posteriori costruzioni teologiche e canonistiche, l’apparato dei voti e delle decime, la giustificazione delle crociate volte contro i nemici del papato a qualunque livello: perché, insomma, la crociata era per i pontefici un modo di porsi non solo spiritualmente ma anche temporalmente – vorremmo dire militarmente – a capo dell’Europa. Accadde però che, per reazione agli abusi e ai sofismi che in suo nome si commettevano e si sostenevano, la crociata (come tale, quindi in tutti i sensi e comunque si manifestasse) divenisse il bersaglio polemico di ogni sorta di oppositori della politica pontificia e di danneggiati da essa. In un primo tempo, al sorgere di questo atteggiamento critico non fu estranea la delusione per i rovesci militari seguiti al miracoloso successo della prima crociata. La mentalità religiosa dell’epoca era permeata dall’idea di un’immanente giustizia di Dio (si pensi alle ordalie): in questo quadro la vittoria e la sconfitta in battaglia acquistavano il valore di altrettanti signa divini di approvazione o di disapprovazione, e ci si chiedeva come fosse mai possibile che il Signore abbandonasse proprio coloro che combattevano in Suo nome. Le spiegazioni di ciò erano varie: la colpa veniva gettata ora sui prelati mondani, ora sui principi prevaricatori, ora sui pellegrini che dimentichi della loro santa opera continuavano a peccare. In questo senso le sconfitte erano altrettante punizioni e al tempo stesso prove che il Cielo imponeva ai suoi figli. Faceva però la sua comparsa anche l’interrogativo angoscioso se la crociata fosse davvero voluta da Dio. Salimbene da Parma riferisce che nel 1251, mentre Luigi IX era prigioniero dei saraceni, in Francia era impossibile raccogliere elemosine per la crociata poiché la gente mostrava nei confronti di essa il più violento disprezzo e diceva che Maometto era più potente di Cristo. Il buon frate si scandalizza per quelle bestemmie: in realtà passa però sotto silenzio la disperata delusione che è facile leggere sotto l’amara violenza delle invettive di cui parla; e «dimentica» altresì che i francescani e i domenicani che chiedevano elemosine per la crociata in quella Francia il cui re era in mano degli infedeli, non intendevano affatto organizzare una nuova spedizione per liberarlo. Tale questua era difatti a beneficio della «crociata» contro lo scomunicato Corrado IV di Svevia: mentre il più santo fra i re cristiani giaceva in catene, la Curia faceva accattare pro Christi nomine danaro da destinare alla crociata contro un cristiano! Episodi del genere non erano del resto nuovi: la poesia trobadorica abbonda d’invettive contro Roma che lascia Gerusalemme nell’obbrobrio per scannare i cristiani, e la propaganda ghibellina aveva buon gioco nel ripetere – in buona o in mala fede – queste accuse. D’altro canto, la resistenza e la diffidenza che ormai erano provocate dalla predicazione per la crociata si alimentavano anche di motivi economici precisi. Le decime e le elemosine imposte dalla Chiesa, gestite spesso da collettori senza scrupoli oppure concesse ai sovrani territoriali o appaltate a rapaci banchieri, avevano finito col provocare un moto crescente d’insofferenza: Lutero, all’alba del Cinquecento, raccoglierà frutti i cui semi erano stati sparsi da secoli. E alla classe mercantile in ascesa le proibizioni papali in materia di commercio con gli infedeli nuocevano non poco, così come nuoceva loro la stasi dei traffici e l’aumento dei prezzi delle merci orientali in tempo di «guerra guerreggiata» fra crociati e saraceni. Siccome spesso i mercanti – e soprattutto quelli delle città marinare – erano in rapporti d’affari e d’amicizia politica con la Curia, noi li sorprendiamo chiedere e ottenere di frequente – a peso d’oro, beninteso – lettere di deroga che permettessero loro di commerciare anche durante i periodi nei quali la cristianità cercava d’imporre il «blocco economico» nei confronti degli infedeli. Con premesse del genere, è facile immaginare l’efficacia di questi tentativi! La verità era che la crociata non interessava più a nessuno. Nata da una società semimobile alla disperata ricerca di sbocchi, non serviva più ad una società urbana ormai stabilizzata come quella duetrecentesca, nella quale il motivo fondamentale del mettersi in viaggio era l’accudire ai propri affari, che avevano appunto bisogno di pace per svilupparsi. Il Duecento conobbe una gran quantità di predicatori e di teorici della crociata; nella seconda metà del secolo gli scritti sul modo di recuperare la Terrasanta divennero anzi un genere letterario assai diffuso; ma si trattava di voci inascoltate. Eppure, Gerusalemme aveva ancora chi la sognava. Non, si badi bene, quella terrestre, bensì quella celeste, confusa con la prima in una nebulosa ma violenta aspettazione escatologica. Il Nuovo Regno, la Gerusalemme Celeste, erano già stati le componenti d’un mito egualitario durante la prima crociata: lo furono ancora di più nel Due e nel Trecento, secoli profondamente toccati dalle speranze nel «Millennio». Dalla «crociata degli innocenti» del 1212 a quella detta dei pastoureaux che aveva percorso la Francia nel 1251 ai movimenti flagellanti del 1260 alle ondate pauperistiche del 1309 e del 1320, e poi attraverso i torbidi religiosi che accompagnarono la crisi economico-sociale trecentesca e la Peste Nera del 1347-1350 fino al movimento dei «Bianchi» sulle soglie del Quattrocento: è un seguito di avvenimenti spesso eterogenei fra loro, talvolta pacifici talvolta violenti – vere e proprie rivolte contro la società urbana che si appuntavano soprattutto sui ricchi, i preti, gli ebrei – ma dotati sempre di due fondamentali caratteristiche. Primo, l’essere espressione di un disagio tanto più forte quanto più si scendevano i gradini della scala sociale per giungere agli sfruttati della città e della campagna, quelli che vivevano ai margini d’un mondo del quale solo le fatiche, ma non il benessere li riguardavano, gli «esclusi». Secondo, il parlar un linguaggio di redenzione anche sociale – quello millenaristico, appunto – che tanti contatti anche esteriori aveva con le «crociate popolari» dei secoli precedenti e che soprattutto, dietro il mito della riconquista di Gerusalemme e della fine dei tempi, maturava l’ideale vigoroso anche se ambiguamente espresso d’un regno di giustizia. 3.3 Ancora qualche tentativo Il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone (1309) assorbì la Chiesa in problemi essenzialmente interni: restavano quasi unici, a pretendere un nuovo massiccio intervento contro i musulmani, i cavalieri dell’Ospedale che si erano trasferiti a Rodi e stavano divenendo una potenza marinara, nonché il re di Cipro al quale interessava soprattutto il blocco economico. Difatti, se la Curia pontifìcia avesse sancito la definitiva inagibilità dei porti saraceni per i mercanti cristiani, Famagosta sarebbe divenuta automaticamente il centro di smistamento delle merci orientali verso l’Europa e il primo emporio del Mediterraneo. Pretese del genere incontravano però, inutile dirlo, la ferma resistenza delle repubbliche marinare e soprattutto di Venezia. Ma nella seconda metà del secolo le prospettive cambiarono assai. La crisi economica, sociale e demografica si era fatta lentamente strada in occidente per scoppiare poi in tutta la sua gravità in occasione dell’epidemia; in Francia, la guerra dei Cent’Anni e le ipoteche della corona francese sulla Curia rendevano sempre meno consigliabile al papa la dimora avignonese contro la quale si levavano alte le proteste di tanti fedeli. Il ritorno a Roma non era però concepibile senza una pacificazione all’interno della cristianità tormentata da guerre e da ogni tipo di conflitto; e la crociata sembrava una volta di più l’unico ideale adatto a riportare la concordia nell’Europa cattolica e a proiettare la violenza al di fuori di essa, dirigendola a uno scopo sentito come opera salutare. In questo senso i mistici che la predicavano con zelo ed entusiasmo – si pensi a santa Caterina da Siena – la consideravano prima di tutto un mezzo per affratellare nuovamente i cristiani e per eliminare le lotte fratricide. La crociata avrebbe dovuto essere «l’ultima delle guerre» e concludersi con l’instaurazione perpetua della pace e della giustizia. Guerra nel metodo era, insomma, «antiguerra» negli scopi. Al contrario di quanto si sperava, il rientro del papa nella tradizionale sede di Pietro segnò nella vita della Chiesa l’inizio d’un periodo di nuove incertezze e di più accanite lotte destinato a durare oltre settantanni: al Grande Scisma d’occidente (1378-1417), chiuso col concilio di Costanza, seguì dopo un ventennio il Piccolo Scisma (1439-1449) in cui si riproponevano i grandi problemi relativi al rapporto fra papa e concilio e alla struttura in capite della gerarchia ecclesiastica. Eppure, si profilava all’orizzonte un pericolo quale non aveva mai prima d’allora minacciato l’Europa. Una nuova tribù turca, l’ottomana, si era insediata in Anatolia all’inizio del secolo e, sfruttando i conflitti endemici che travagliavano i piccoli sultanati della penisola, era andata espandendo il suo potere in direzione di Bisanzio. L’impero greco, restaurato nel 1261 dopo la parentesi di cinquantasette anni dovuta all’occupazione latina, non era più che l’ombra di se stesso, angustiato per giunta da guerre civili continue. Nel 1354 i Turchi occupavano Gallipoli, sulla sponda europea dei Dardanelli; nel ‘62 la vittoria ottomana di Adrianopoli, mentre spezzava le mire espansionistiche serbe, completava l’aggiramento di Costantinopoli. Sarebbe ormai bastata una piccola stretta. Era dal tempo dell’invasione mongola, a metà Duecento, che l’Europa non subiva più minacce sul suo stesso territorio. Le crociate non erano mai state determinate dal bisogno di respingere un’offensiva, né i mori di Spagna avevano mai più dato segno di voler passare i Pirenei dopo l’VIII secolo. Adesso però l’avanzata ottomana metteva in pericolo tutto il corso inferiore del Danubio, i Balcani, l’Ungheria. Una crociata organizzatasi in gran fretta subì nel 1396, a Nicopoli, una tremenda sconfitta in gran parte dovuta anche all’imprudenza della cavalleria francese. Vero è che pochi anni dopo (battaglia di Ankara, 1402) gli Ottomani parvero travolti dalla furia di Tamerlano: ma è anche vero che la stella del grande conquistatore tartaro tramontò rapidamente com’era sorta e il suo sterminato impero asiatico si frantumò dopo la sua morte (1405). Viceversa gli Ottomani, fiaccati ma non schiacciati dalla sconfitta, ben presto si riebbero e presero ad espandersi verso Tracia, Bulgaria e Macedonia mentre nel contempo strangolavano lentamente l’impero bizantino in pratica ridotto alla sola capitale. Furono ancora una volta i papi a farsi centro delle iniziative tendenti a rintuzzare l’offensiva musulmana. Ciò era molto importante per loro, in quanto li riproponeva quasi automaticamente alla guida dell’occidente e allontanava il problema delle rivalità fra gli stati europei, intervenendo nelle quali Roma era costretta a mettere di continuo in gioco il suo prestigio e in discussione la sua auctoritas. Inoltre vi era il miraggio dell’unificazione della Chiesa latina con quella greca, che i pontefici intendevano imporre all’imperatore di Bisanzio come conditio sine qua non per l’intervento delle potenze cattoliche sul Bosforo. Ciò costituiva, dal punto di vista del sovrano greco, un prezzo abbastanza modico se si trattava di salvare la corona: nel 1437 Giovanni VIII Paleologo venne difatti in Europa per visitare personalmente le corti d’occidente, e nel 1439 l’unione veniva solennemente proclamata al concilio di Firenze, nella chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Fedele agli impegni assunti, papa Eugenio IV bandiva nel 1443 la crociata. Ma l’appello del pontefice, mentre sollevò un’ondata di speranze nei paesi danubiano-balcanici, lasciò freddo il resto d’Europa. La guerra dei Cent’Anni non era ancora terminata; l’imperatore Federico III d’Asburgo non si fidava degli Ungheresi (che sarebbero stati i maggiori beneficiari d’una crociata vittoriosa) né del papa, e teneva una politica ambigua fra Corte papale e vescovi scismatici riuniti a Basilea; in Italia la nuova potenza impiantatasi nel meridione, l’Aragonese, concentrava su di sé l’attenzione degli altri stati; inoltre né Genova, né Venezia, né Firenze, che iniziava allora ad occuparsi dei traffici marittimi in oriente, avevano alcuna intenzione di rovinare i propri interessi impegnandosi apertamente a contrastare il sultano. Restava Costantinopoli, sola con la sua paura: ma anche lì, l’opinione pubblica era tutt’altro che monolitica. Intanto c’era una forte corrente turcofila, alimentata dai motivi più eterogenei: il tornaconto economico, il timore di mali peggiori, il desiderio d’un potere comunque stabile, il rancore contro la dinastia regnante. Vi si aggiungeva lo stesso clero e soprattutto i monaci, araldi da sempre dell’odio contro i Latini; la Chiesa greca scorgeva chiaramente, e non a torto, che il compromesso accettato a Firenze era in realtà una capitolazione che risolveva i problemi dogmatici, teologici, liturgici e disciplinari a totale e unilaterale vantaggio delle tesi romane e a scapito della tradizione ortodossa. Un’occupazione ottomana, passate che fossero le tribolazioni dei primi tempi, avrebbe lasciato libertà alla Chiesa greca secondo le tradizioni tollerantistiche musulmane che i Turchi, pur nella loro rozzezza, non avevano motivo di mettere da parte: la «liberazione» latina, viceversa, avrebbe coinciso con la fine dell’autocefalìa. Meglio dunque, si diceva a voce sempre più alta, il turbante ottomano che la tiara romana. L’aiuto militare dell’occidente, del resto, non si mostrava troppo efficace. Nel 1444, a Varna, i crociati subirono una sconfitta paragonabile a quella di Nicopoli di mezzo secolo prima. Nel 1453 il giovane sultano Maometto II, dopo un memorabile assedio, s’impadroniva di Costantinopoli ponendo fine al millenario impero del Bosforo. L’eco sollevata dalla notizia che la «Seconda Roma» era caduta preda degli Ottomani provocò un’ondata di sgomento. Niccolò V, in una bolla emanata il 30 settembre di quell’anno, tornava ai simboli apocalittici: Maometto era il dragone rosso della visione giovannea, il vessillifero dell’Anticristo. In Francia, con la rioccupazione francese della Normandia e della Guienna, la guerra dei Cent’Anni era ormai in via di esaurimento; in Italia la pace di Lodi segnava nel 1454 la fine della guerra per la successione al ducato di Milano e le parti in causa additavano nell’avanzata turca la ragione del loro accordo, anche se i motivi reali erano un po’ diversi. Difatti la caduta di Costantino poli nuoceva soprattutto agli interessi commerciali veneziani: Francesco Sforza temeva però che la corona francese – adesso che era liberata dalla pressione militare dell’Inghilterra – rivendicasse l’eredità viscontea di Milano, dal momento che i Visconti erano imparentati con gli Orléans. Una serie di contingenze sembravano quindi rendere possibile uno sforzo unitario dell’Europa cristiana, al quale si dichiaravano disposti soprattutto Alfonso d’Aragona re di Napoli e il duca Filippo di Borgogna. Ma in realtà anche queste speranze si rivelarono ben presto fallaci: la crescente poten za borgognona preoccupava Francia e impero, mentre in Italia Veneziani e Fiorentini si contendevano il favore del sultano per cercare di soppiantarsi vicendevolmente nei mercati d’oriente; le forze cattoliche, insomma, avevano ben altro a cui pensare. L’ultimo grande paladino della crociata, Pio II Piccolomini, convocava nel 1459 a Mantova un congresso per discutere con i principi cristiani i particolari della spedizione: il fatto che tale solenne assise andasse quasi deserta fornì la misura del disinteresse europeo per la questione e della generale tendenza a disimpegnarsi. Non si trattava solo di calcolo politico né d’insensibilità religiosa: la diplomazia occidentale aveva preso atto che i Turchi erano una potenza politica come tutte le altre, che si poteva combattere ma con la quale ci si poteva anche accordare con reciproca utilità. Alla base di ciò vi era, fra l’altro, un mutamento abbastanza importante delle categorie mentali usate nell’ambito della società cristiana. La nuova cultura umanistica aveva recuperato alcuni valori irenistici propri del cristianesimo primitivo, corroborati dall’ideale della renovatio saeculi del quale si faceva il perno d’un nuovo sentire ecumenico. Nel De Pace Fidei Nicolò Cusano estendeva fino ai Turchi e ai pagani tutti la speranza di fraternità e di rinnovamento; e nel 1461 lo stesso Pio II, che pur doveva morire di lì a tre anni col sogno della crociata nel cuore, redigeva una strana Epistola a Maometto sul cui significato fervono ancora le discussioni, ma che esprimeva comunque un’ammirazione profonda per il sultano e giungeva ad augurargli audacemente la conquista del mondo a patto che si convertisse. Questo profondo desiderio di pace e d’incontro di tutti i popoli in un cristianesimo rinnovato, più intimo, più aderente alla lettera e allo spirito evangelici, doveva trovare di lì a poco il più lucido e commovente interprete in Erasmo da Rotterdam. Si potrebbe pensare che a sorreggere l’ideale della guerra contro i Turchi restava comunque l’incentivo economico. Ma ci si sbaglierebbe. Non tanto perché, intendiamoci, si poteva benissimo commerciare con i Turchi, dal momento che se ciò è vero, è vero anche che se certi empori fossero stati totalmente in mano cristiana i vantaggi che i mercanti occidentali avrebbero potuto trarne sarebbero stati assai maggiori di quanto non furono dovendo fare i conti con le pastoie e gli arbitri delle autorità ottomane. Il fatto principale era un altro: il bacino orientale del Mediterraneo stava diventando sempre meno importante come nodo di collegamento fra Asia ed Europa. La circumnavigazione dell’Africa, compiuta a opera dei Portoghesi, faceva affluire sui loro mercati i prodotti orientali a prezzi di concorrenza mentre le coste egiziane e siro-palestinesi, a causa della cattiva amministrazione mamelucca, perdevano quasi del tutto importanza e la stessa Costantinopoli – ormai divenuta Istanbul – decadeva. La scoperta dell’America fece il resto: da centro del mondo commerciale, l’asse Venezia-Istanbul-Alessandria si trovava sbalzata alla periferia orientale dei traffici, il cui epicentro si spostava invece sulle coste atlantiche facendo la fortuna dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra. Che cosa restava dunque della crociata, che aveva riempito di sé tanta parte della storia basso-medievale? Poco più che il ricordo, rinverdito magari talvolta da particolari contingenze che sembravano resuscitare i vecchi ideali ma che si rivelavano immancabilmente fuochi di paglia: la lunga contesa contro i corsari barbareschi nel Mediterraneo, la battaglia di Lepanto del 1571, la liberazione di Vienna dall’assedio turco nel 1683 grazie a Giovanni Sobietzki fecero ancora una volta lampeggiare la secolare contesa fra croce e mezzaluna sollevando effimeri entusiasmi. Ma era, naturalmente, illusione. 4 I testi 4.1 La leggenda di Pietro l’Eremita Per quanto la critica di questi ultimi decenni ne abbia molto ridimensionato l'importanza, Pietro d'Amiens resta pur sempre, tradizionalmente, il «padre» della crociata. Per questo, mentre rimandiamo chi voglia approfondirne gli aspetti sicuramente storici a H. HAGENMEYER, Peter der Eremite, Leipzig, 1879, paghiamo volentieri il nostro tributo alla tradizione presentando, sullo stesso personaggio, una versione «edificante» del secolo XII. (Da ALBERTO D'AIX, Historia Hierosolymitana, in Recueil des Hist. desCrois., Occ., IV, pp. 272-273). Un certo sacerdote di nome Pietro, già eremita, nato in Amiens città dell'occidente nel regno di Francia, cominciò a predicare con tutte le sue forze il pellegrinaggio partendo dal Berry, nel medesimo regno. Dietro le sue continue sollecitazioni, tutti presero lietamente la via indotti dal desiderio di far penitenza: vescovi, abati, chierici, monaci, poi nobilissimi laici, principi di regni diversi, e il popolo tutto, sia puri che impuri, adulteri, omicidi, ladri, spergiuri, predoni; insomma ogni genere di cristiani, donne comprese. Con quali intenzioni e in seguito a quale occasione l'eremita abbia predicato questo pellegrinaggio e l'abbia iniziato egli stesso, lo diremo subito. Qualche anno prima dell'inizio del viaggio [=della crociata], questo sacerdote era andato a Gerusalemme per sua devozione, e nell'oratorio del Sepolcro del Signore aveva visto cose illecite e nefande, che non poteva tollerare: ne fremette di sdegno, e implorò Dio di punire le scelleratezze di cui era stato testimone. Intanto, scandalizzato da questi orrori, interrogò il patriarca di Gerusalemme chiedendogli perché mai si sopportasse che gli infedeli e gli empi profanassero i santuari asportandone le offerte dei fedeli, si servissero delle chiese per farne delle stalle, percuotessero i cristiani, pretendessero a torto del danaro dai santi pellegrini e li angustiassero con ogni sorta di soperchierie. Il patriarca e venerabile sacerdote del Sepolcro del Signore, udite queste cose, rispose piamente con flebile voce: «O tu, il più fedele dei cristiani, perché tormenti su ciò la paternità nostra, dal momen to che le nostre forze non sono da considerare più di quelle d'una formica di fronte alla superbia di tanti infedeli? La nostra vita, bisogna riscattarla con tributi continui se non vogliamo esser messi a morte; e cosa speriamo di giorno in giorno di scampare a più gravi pericoli, a meno che non giungano da parte dei cristiani aiuti, che noi per tuo tramite imploriamo». E Pietro gli rispose così: «Padre venerabile, ora ne so abbastanza e vedo bene quanto deboli siano i cristiani che stanno con te e a quante prepotenze da parte degli infedeli soggiaciate. Perciò, per la grazia di Dio, la vostra liberazione e la preservazione di ciò che è sacro da ogni ingiuria io, se con l'aiuto divino tornerò vivo là donde sono venuto, visiterò prima il papa e poi tutti i principi cristiani – re, duchi, conti e governanti – facendo a tutti presente lo stato miserabile della vostra schiavitù e le vostre intollerabili sofferenze…». Intanto già calavano le tenebre e Pietro tornò per pregare al Santo Sepolcro dove, stanco per le veglie trascorse in orazione, fu colto dal sonno. Gli apparve allora la maestà del Signore Gesù, e si degnò di apostrofare così un uomo mortale e fragile: «Pietro, figlio dilettissimo fra i cristiani! Appena ti sveglierai, tornerai dal mio patriarca e prenderai da lui una lettera credenziale che ti faccia mio ambasciatore, sigillata col sigillo della santa croce. Avutala, ti affretterai quanto più possibile a tornare in patria, dove narrerai le calunnie e le offese arrecate al mio popolo e ai luoghi santi e inciterai i cuori dei fedeli a purificare i luoghi santi di Gerusalemme e a ripristinare le sacre cerimonie. Infatti, attraverso pericoli e tentazioni, le porte del Paradiso si apriranno ai chiamati e agli eletti». Dopo questa mirabile rivelazione divina, la visione scomparve e Pietro si svegliò. Uscì sul far dell'alba dal Tempio, andò dal patriarca, gli narrò ordinatamente la visione e gli chiese una lettera credenziale della divina ambasciata col sigillo della santa croce; questi non gliela ricusò, anzi gliela concesse e lo ringraziò. Congedatosi, [Pietro] fedele alle istruzioni fece subito volta verso la patria. Dopo un viaggio per mare assai pericoloso, sbarcò a Bari e senza indugio proseguì per Roma. Là incontrò il papa e gli riferì ciò che aveva udito e saputo da Dio e dal patriarca sulle scelleratezze degli infedeli e sulle ingiurie sofferte dalle cose sacre e dai pellegrini. 4.2 II discorso di Urbano a Clermont (27 novembre 1095) Delle redazioni del famoso discorso presentiamo quella più efficace e intelligente, anche se (proprio per questo) aumentano le probabilità che si tratti di un'abile forzatura per quanto concerne parecchi argomenti. (Da FULCHERIO DI CHARTRES, Historia Iherosolymitana, in Recueil des Hist. des Crois., Occ., III, pp. 323-324). Poiché, o figli di Dio, gli avete promesso di osservare tra voi la pace e di custodire fedelmente le leggi con maggior decisione di quanto siate soliti, è il caso d'impegnare la forza della vostra onestà (ora che la correzione divina vi ha rinvigoriti) in qualche altro servizio a vantaggio di Dio e vostro. È necessario che vi affrettiate a soccorrere i vostri fratelli orientali, che hanno bisogno del vostro aiuto e lo hanno spesso richiesto. Infatti, come a molti di voi è già stato detto, i Turchi, gente che viene dalla Persia e che ormai ha moltiplicato le guerre occupando le terre cristiane sino ai confini della Romània1 uccidendo molti e rendendoli schiavi, rovinando le chiese, devastando il regno di Dio, sono giunti fino al Mediterraneo cioè al Braccio di San Giorgio2 Se li lasciate agire ancora per un poco, continueranno ad avanzare opprimendo il popolo di Dio. Per la qual cosa insistentemente vi esorto - anzi non sono io a farlo, ma il Signore - affinché voi persuadiate con continui incitamenti, come araldi di Cristo3, tutti, di qualunque ordine (cavalieri e fanti, ricchi e poveri), affinché accorrano subito in aiuto ai cristiani per spazzare dalle nostre terre quella stirpe malvagia. Lo dico ai presenti e la comando agli assenti, ma è Cristo che lo vuole. Per tutti quelli che partiranno, se incontreranno la morte in viaggio o durante la traversata o in battaglia contro gli infedeli, vi sarà l'immediata remissione dei peccati: ciò io accordo ai partenti per l'autorità che Dio mi concede. Che vergogna sarebbe se gente così turpe, degenere, serva dei demoni, sconfiggesse uomini forniti di fede in Dio e resi fulgidi dal nome di Cristo! E quante accuse il Signore stesso vi muoverà, se non aiutate chi come voi si trova nel nòvero dei cristiani! Si affrettino alla battaglia contro gli infedeli, che avrebbe già dovuto incominciare ed esser portata felicemente a termine, coloro che prima erano soliti combattere illecitamente contro altri cristiani le loro guerre private! Diventino cavalieri di Cristo, quelli che fino a ieri sono stati briganti! Combattano a buon diritto contro i barbari, coloro che prima combattevano contro i fratelli e i consanguinei! Conseguano un premio eterno, coloro che hanno fatto il mercenario per pochi soldi! Quelli che si stancavano danneggiandosi anima e corpo, s'impegnino una buona volta per la salute di entrambi! Poiché quelli che sono qui tristi e poveri, là saranno lieti e ricchi; quelli che sono qui avversari del Signore, là Gli saranno amici. Né indugino a muoversi: ma, passato quest’inverno, affittino i propri beni per procurarsi il necessario al viaggio e si mettano risolutamente in cammino. 4.3 La strage degli Ebrei (maggio 1096) È questa una delle purtroppo molte pagine tristi della crociata, che noi riportiamo non per amore di facile polemica, ma perché anche queste turpitudini furono – insieme con gli atti di puro eroismo e di sincera religiosità – parte integrante della vita e della mentalità dei pellegrini combattenti. È comunque amaro constatare fino a che punto in questo racconto (scritto, non dimentichiamolo, da un cristiano) i soldati di Gesù somiglino a quelli di Erode. (Da ALBERTO D’AIX, Historia Hierosolymitana, p. 292). 1 Con tale termine si designava abitualmente l'impero bizantino, che anche i musulmani chiamavano, da «Roma», Rūm. 2 Il Bosforo. 3 Qui il pontefice si rivolge agli ecclesiastici presenti al concilio. Di là, non so se per giudizio di Dio o per qualche errore del loro animo, cominciarono ad infierire crudelmente contro gli Ebrei dispersi in alcune città e ne fecero crudelissima strage, specialmente in Lorena, asserendo che questo era il modo giusto di cominciare la spedizione e ciò che i nemici della fede cristiana meritavano. Questa strage di Ebrei cominciò a opera dei cittadini di Colonia che, gettatisi d'un tratto su un piccolo gruppo di essi, ne ferirono moltissimi a morte: poi misero sottosopra case e sinagoghe, dividendosi il bottino. Vista questa crudeltà circa duecento [Ebrei] di notte, in silenzio, fuggirono con delle barche a Neuss; ma i pellegrini e i crociati, imbattutisi in essi, li massacrarono fino all'ultimo e li spogliarono degli averi. Poi, senza indugio, [i crociati] si riversarono in gran folla su Magonza, come avevano stabilito. Là il conte Emicho4, un nobile potentissimo in quella ragione, aspettava con una forte schiera di Tedeschi l'arrivo dei pellegrini che confluivano sulla via reale da parecchie direzioni. Gli Ebrei di quella città, avendo saputo della strage dei loro fratelli e comprendendo di non poter sfuggire a una così forte schiera, si rifugiarono sperando di essere salvati presso il vescovo Rotardo, e gli affidarono in custodia i loro enormi tesori e la loro stessa fiducia; speravano molto nella sua protezione, dal momento ch'egli era il vescovo della città. Il presule nascose con cura il molto denaro affidatogli e si stemò gli Ebrei in uno spaziosissimo nascondiglio nella sua stessa dimora, lontano dal conte Emicho e dai suoi, affinché in quel luogo sicuro restassero sani e salvi. Ma Emicho e gli altri, consigliatisi, assalirono sul far dell’alba gli Ebrei in quel medesimo nascondiglio con lance e frecce. Spezzate porte e chiavistelli, ne massacrarono circa settecento che cercavano disperatamente di resistere all'attacco di tante migliaia; uccisero anche le donne, e passarono a fil di spada perfino i bambini d'ambo i sessi. Allora gli Ebrei, vedendo che i cristiani non risparmiavano neppure i piccolini e non avevano pietà per nessuno, si gettarono essi stessi sui fratelli, sulle donne, sulle madri, sulle sorelle e si uccisero vicendevolmente. E la cosa più straziante fu che le stesse madri tagliavano la gola ai figli lattanti oppure li trapassavano, preferendo ch'essi morissero per loro propria mano piuttosto che uccisi dalle armi degli incirconcisi. 4.4 Martiri cristiani In questo episodio, avvenuto durante l'assedio di Antiochia (ottobre 1097 - giugno 1098), si respira il profumo dei martirologi e della contemporanea poesia epica. Il martirio corona l'esperienza crociata e ne giustifica la santità, così come avviene per l'azione cavalleresca presentata nelle Chansons de Geste. (Da TUDEBODE, Historia de Hierosolymitano itinere, in Recueil des Hist. des Crois., Occ., III, pp. 51-52). Un altro giorno i Turchi portarono sulle mura della città un nostro nobile cavaliere, di nome Rinaldo Porchetus, che da lungo tempo tenevano in dura prigionia, e gli dissero che parlasse con i pellegrini cristiani per convincerli a riscattarlo mediante una forte somma di danaro: altrimenti gli sarebbe stata tagliata la testa. Ma questi, appena fu in piedi sulle mura, cominciò a gridare ai nostri principi: «Signori, per quanto mi riguarda, è come se fossi già morto: e vi prego come fratelli di non offrire per me alcun riscatto. Ma siate certi, per la fede in Cristo e nel Santo Sepolcro, che Dio è e sarà sempre con voi. Avete uc ciso tutti i più egregi e audaci in questa città, cioè dodici emiri e millecinquecento nobili, e non è rimasto nessuno capace di misurarsi con voi e di difendere la città». Allora i Turchi chiesero al dragomanno5 che cosa dicesse Rinaldo, ed egli rispose: «Niente di buono sul vostro conto». Allora l'emi4 Emicho di Leiningen è passato nella saga germanica. Lo si raffigura chiuso in una montagna, donde uscirà alla fine dei tempi. La stessa leggenda – che per Emicho acquista tratti demoniaci – viene invece con accenti messianici rife rita a Carlomagno, al Barbarossa e a Federigo II: essi non sono morti ma dormono in attesa d'una divina renovatio che restituirà al mondo l'ordine tradizionale (cfr. R. FOLZ, L’idée d’empire en occident, Paris, 1953, p. 128 sgg.). 5 Cioè interprete: forse un cristiano indigeno o un rinnegato. ro Yaghi-Siyan gli ordinò subito di scendere dalle mura e gli domandò per mezzo del dragomanno: «Rinaldo, vuoi vivere e godere tranquillamente con noi?». Rispose Rinaldo: «Come potrei vivere tranquillamente con voi senza commettere peccato?». «Rinnega il Dio che adori e nel quale credi – rispose l'emiro – e credi in Maometto e negli altri nostri Dei 6 [2]. Se farai ciò, ti daremo tutto quel che vorrai: oro, argento, cavalli, mule o ogni altro ornamento, e mogli e ricchezze; e ti arricchiremo col più grande onore». E Rinaldo: «Datemi un po’ di tempo, per pensarci sopra», cosa che l'emiro concesse volentieri. Allora Rinaldo si pose in preghiera, a mani giunte vòlto ad oriente, implorando umilmente Iddio che lo aiutasse e si degnasse di accogliere l'anima sua nel seno di Abramo. L'emiro, scortolo, chiamò il dragomanno e gli chiese: «Che cosa sta facendo Rinaldo?», e questi rispose: «Non rinnegherà per nulla il suo Dio; al contrario, rifiuta le tue offerte e i tuoi Dei». Udendo ciò l'emiro andò su tutte le furie e ordinò che [Rinaldo] fosse immediatamente decapitato: e i Turchi lo decapitarono con grande gioia. Allora gli angeli, accogliendo a gara la sua anima, la portarono fra cori e danze al cospetto di Dio, per amore del Quale egli aveva sofferto il martirio. L'emiro fu grandemente irato per non essere riuscito a convertire Rinaldo ai suoi Dei. Comandò che gli fossero portati subito dinanzi tutti i pellegrini che erano in città con le mani legate dietro la schiena: giunti che furono, li fece spogliare nudi e poi legare tutti insieme. Indi fece ammucchiare intorno a loro della legna insieme con paglia e fieno, e – da quel nemico di Dio che era – fece appiccare il fuoco al rogo. E i cristiani, anzi diciamo i soldati di Cristo, gridavano alto: e le loro voci risanavano verso il cielo, fino a quel Dio per l'amore del Quale le loro carni e le loro ossa ardevano. Furono tutti martirizzati in un medesimo giorno, e recarono in cielo al cospetto di Dio, per il Quale avevano fedelmente subito il martirio, le loro candide stole7. 4.5 Fanatismo crociato Ancora un episodio tratto dall'assedio di Antiochia e dalla medesima cronaca: ma quale diversità! All'elevatezza del racconto martirologico - che pure sfumava nel retorico e nel letterario – succede un'estrema crudezza realistica, resa ancor più dura dal tono barbaricamente trionfante del cronista. Pure, questo e il precedente episodio sono entrambi, con pari diritto, esempi della logica di ogni «guerra santa». (Da TUDEBODE, Historia de Hierosolymitano itinere, cit., p. 49). …il giorno dopo, all'alba, altri Turchi uscirono dalla città e raccolsero tutti i fetenti cadaveri dei loro morti che riuscirono a trovare, eccetto quelli che erano finiti nel fiume, e li seppellirono presso la moschea che sta al di là del ponte davanti alla porta della città. Insieme con quelli seppellirono mantelli, monete d'oro, archi e frecce e moltissime altre cose sulle quali non ci dilunghiamo. I nostri, udendo che i Turchi morti erano stati sepolti, subito si prepararono e si affrettarono alla volta di quel diabolico luogo, e presero com'era giusto a sradicare e spezzare le loro tombe e a trarre i morti fuori dalle sepolture. Poi gettarono tutti i cadaveri in una fossa comune e riportarono le teste tagliate ai nostri accampamenti in modo che si conoscesse il numero dei nemici uccisi, eccetto quattro cavalli carichi di quelle teste che furono inviati sulla riva del mare agli ambasciatori dell'emiro di Babilonia8. Vedendo ciò, i Turchi ne furono sconvolti e addolorati fino alla morte e ne piangevano dirottamente; ma non potevano far altro che piangere e urlare. Da parte nostra, dopo tre giorni cominciammo tutti insieme, felici e baldanzosi, a costruire le fortificazioni di cui abbiamo parlato con quelle stesse pietre tombali che avevamo tolto dal cimitero turco. 6 L'islamismo è qui rappresentato, secondo un pregiudizio riscontrabile anche nella poesia epica, come una religione politeista. 7 Cioè le loro anime immacolate: il simbolo è d’origine apocalittica, ma era vivo nel linguaggio liturgico e fu adottato più tardi anche nel Paradiso dantesco. 8 Il califfo fatimida del Cairo. 4.6 Elogio dei Turchi Occidentali e Turchi cominciarono presto, combattendosi, a conoscersi e a rispettarsi reciprocamente: e il primo gradino di tale avvicinamento fu – com'era naturale in due popoli guerrieri – il riconoscimento del valore militare dell'avversario. In occidente divenne popolare anche la leggenda che faceva di Franchi e di Turchi due popoli etnicamente fratelli, e di questi ultimi la rinascente cultura classica favoleggiava l'origine troiana (notare la somiglianza fra le due parole Turci e Teucri: spesso i Turchi venivano anzi designati con il secondo di questi due nomi). (Da Histoire anonyme de la première croisade, éd. par L. BRÉHIER, Paris, 1964², p. 50). Chi sarà tanto dotto o sapiente da osar dipingere la sagacità, le capacità militari e il valore guerriero dei Turchi? Essi credevano di spaventare il popolo dei Franchi con la minaccia delle frecce, così come hanno atterrito Arabi, Saraceni, Armeni, Siriani, Greci: ma, a Dio piacendo, non ce la faranno mai con i nostri. In verità essi si dicono della stessa razza dei Franchi e pretendono che nessuno, a parte i Franchi e loro stessi, abbia il diritto di chiamarsi cavaliere. Debbo dire a questo punto una verità che nessuno oserà contestare: certamente, se essi fossero rimasti fermi nella fede di Cristo e nella santa cristianità, se avessero voluto confessare un solo Signore in tre persone, un Figlio di Dio nato da una Vergine che ha sofferto, è resuscitato dai morti ed è salito al cielo dinanzi al Suoi discepoli, e ha inviato la perfetta consolazione dello Spirito Santo; se avessero voluto credere con fede e dritto giudizio ch'Egli regna in cielo e sulla terra, non si troverebbe nessuno pari a loro in potenza, coraggio, scienza militare: e nonostante ciò, per grazia di Dio, essi furono vinti dai nostri. 4.7 La caccia alle reliquie Il culto delle reliquie non è tipico della sola religione cristiana: pure, in essa ha giocato, soprattutto durante le crociate, un ruolo essenziale. Durante il secolo XI l'ordine di Cluny lo caldeggiò con ogni mezzo e la poesia epica lo rese popolare: si ricordi Durendal, la spada di Rolando, che nella Chanson di Turoldo è presentata come un vero e proprio reliquiario. Il primo brano riportato è, ancora, un episodio della battaglia di Antiochia: i crociati avevano preso la città ma erano stati costretti a rinchiudervisi dall'arrivo di altre truppe turche; la scoperta di una reliquia che fu fatta passare per la lancia che aveva trafitto il costato del Salvatore dette loro la forza di operare una sortita liberatrice (28 giugno 1098). (Da RAIMONDOD’AGUILERS, Historia Francorum qui ceperurnt Iherusalem, in Recueil des Híst. des Crois., Occ., III, p. 257 sgg.). Segue un episodio di «pirateria religiosa» compiuto nel 1098 a Myra nel golfo di Volo da una flotta genovese. (Da JACOPO DA VARAGINE, Legenda translationis beatissimi Johannis Baptistae Genuam, ivi Recueil des Hist. des Crois., Occ., V, p. 231). Infine, abbiamo voluto inserire la breve descrizione del cosiddetto «Sacro Catino» ancor oggi conservato nella cattedrale di Genova e conquistato sempre dai Genovesi nel saccheggio di Cesarea (maggio 1101). Il «Catino» era, secondo la leggenda, quello usato da Gesù durante l'ultima cena (cfr. C. MERCENARO, Il museo del tesoro della cattedrale a Genova, Genova, 1969, tav. I). Per una visione approfondita di questi problemi cfr. Pellegrinaggi e culto dei santi in Europa fino alla I crociata (Convegni del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale - IV, Todi, 8-11 ottobre 1961), Todi 1963. (Da GUGLIELMO DI TIRO, Historia in partibus transmarinis gestarum, in Recueil des Hist. des Crois., Occ., I, p. 419). a) …per quanto avessimo scavato dal mattino fino a sera9, al cadere del vespro qualcuno cominciò a disperare di trovar la lancia. Il conte10 se n'era intanto andato per il turno di guardia alla cittadella; ma al posto suo e di altri che a furia di scavare non ne potevano più, avevamo chiamato uomini freschi affinché continuassero l'opera. Il giovane che ci aveva detto della lancia 11, vedendo che eravamo stanchi, si spogliò e a piedi scalzi, con la sola camicia indosso, discese nella fossa e ci scongiurò di pregare Iddio che ci concedesse la Sua lancia per il conforto e la vittoria del Suo popolo. Allora, 9 Nella chiesa metropolitana di San Pietro sotto l'altare maggiore. 10 Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa. 11 Si tratta di Bartolomeo, un contadino provenzale grazie alle cui visioni si era intrapresa la ricerca della reliquia. in grazia della di lui devozione, Dio concesse di mostrarci la Sua lancia. E io che ho scritto queste cose, appena la punta apparve dalla fossa, subito la baciai. Non posso descrivere quanta gioia ed esultanza riempì allora la città… Due notti dopo, il beato Andrea apparve al giovane per mezzo del quale la lancia ci era stata data, e gli disse: «Ecco che Dio ha donato al conte ciò che non aveva mai voluto dare a nessuno, e lo ha costituito gonfaloniere di codesto esercito poiché egli ha perseverato nell'amore verso di Lui»12 … b) Poi i Genovesi, tornando in patria, fecero scalo al porto di Patara presso la città di Myra o Stami ra; là, sapendo che san Nicola era stato vescovo di Myra e vedendo che la città era priva di abitanti e di mura, convennero pienamente sul fatto che il corpo del beato Nicola, se essi lo avessero portato a Genova, vi sarebbe stato conservato con maggiore devozione e riverenza. Noi crediamo che sia stata la Divina Provvidenza a dirigerci là sulla via del ritorno per rivelarsi dalle imperscrutabili profondità e riportare alla luce del sole le ossa nascoste del Suo Precursore. Dirigendosi dunque i Genovesi, con un così santo e lodevole proposito, alla chiesa del servo di Dio Nicola, vi trovarono alcuni venerabili monaci che servivano in quella chiesa il Dio del cielo pregandolo e cantandone le lodi: rivolsero loro molte accurate domande sul corpo di Nicola, chiedendo loro devotamente e umilmente [anche] altre reliquie. Ma quelli risposero: «Illustri fratelli! Sappiate per certo che quel che la vostra devozione cerca ci è stato strappato con la violenza!». I Genovesi però non credettero alle loro chiacchiere e pieni di devozione cominciarono a cercare con ogni cura quel corpo scavando sotto l'altare; e là dapprima trovarono una vasca vuota di marmo, dalla quale il corpo del beato Nicola era stato asportato a opera dei Baresi. Cercando meglio, sollevarono con gioia una cassa di marmo che avevano trovato sopra quella vasca e la portarono di corsa ai compagni ritenendo di aver trovato il corpo santissimo del servo di Dio Nicola. E i monaci andarono loro dietro fino al mare, implorando con grande clamore di grida e di pianti: «O illustri fratelli! Se davvero adorate Cristo Signore come veri fedeli, quali dite di essere, vi preghiamo e vi scongiuriamo nel Signore di renderci nel Suo nome quanto ci avete preso! Vi assicuriamo difatti nel nome di Cristo che quel che state portando via non è il corpo di san Nicola!». Siccome però i Genovesi non si curavano affatto delle loro lamentele, dal momento che credevano di aver trovato ciò che cercavano, alla fine i monaci rivelarono con voce flebile che cos'era in realtà quel che avevano preso, giurando che si trattava delle reliquie di san Giovanni Battista che essi e i loro padri avevano fin lì conservate pure con riverenza. Udito ciò i Genovesi, ancora più lieti, pretesero a gran voce che le venerande reliquie fossero divise e distribuite a ciascuna nave; ciò fatto, salparono con vento favorevole. Ma ecco scatenarsi una grande tempesta: i marinai, vedendo che c'era pericolo di naufragio, innalzavano piangendo preghiere a Dio. In quella un sacerdote che era lì esclamò che gli era stato rivelato che se non avessero ricomposte le sante reliquie che si erano divise non avrebbero avuto scampo. Allora, pur non potendo salire sulle singole navi a causa del maltempo, i marinai giurarono che avrebbero fatto quanto prima ciò che il sacerdote aveva detto. Subito, per clemenza di Dio, cadde il vento, il mare si calmò e venne una gran bonaccia… e con ogni letizia fecero felice ingresso nel porto di Genova. c) …un recipiente di color verde acceso, foggiato a forma di catino, che i Genovesi, credendolo di smeraldo, …portarono via per porlo quale meraviglioso trofeo nella loro chiesa. 4.8 Assedio e conquista di Gerusalemme Torna il contrasto fra religiosità e ferocia: alla commozione che pervade i pellegrini alla vista della Città Santa (da TUDEBODE, Historia de Hierosolymitano itinere, cit., p. 105) e che il Tasso ha saputo con tanta finezza cogliere nel suo poema, succede il più efferato e cieco massacro fin sulle so12 Qui la nostra fonte scopre le sue ragioni apologetiche nei confronti del conte di Tolosa. glie stesse del Sepolcro (da RAIMONDO D’AGUILERS, Historia Francorum qui ceperunt Iherusalem, cit., p. 300) là dove i guerrieri abbandonano le armi, si scalzano e tornano pellegrini d’un Dio d'Amore. a) …[in vista di Gerusalemme] i vescovi e i preti consigliarono che si facesse una processione intorno alla città. E vescovi e preti dunque, a piedi nudi, vestiti dei paramenti sacri e portando in mano delle croci, vennero dalla chiesa di Santa Maria sul Monte Sion alla chiesa di Santo Stefano Protomartire cantando e pregando che il Signore Gesù Cristo liberasse la Sua Santa Città e il Suo Sepolcro dai pagani e li mettesse nelle mani dei cristiani che si sforzavano di fare il Suo santo servizio. I chierici erano dunque parati per la cerimonia; presso di loro stavano i cavalieri e i sergenti armati. Quando i cristiani giunsero alla chiesa di Santo Stefano e, com'è uso nelle nostre processioni, vi fecero sosta, i saraceni da sopra le mura si misero a berciare sconciamente, a suonare strumenti a fiato e insomma a fare tutto il baccano che potevano. Poi, davanti a tutti i cristiani, battevano con un bastone la santissima croce per mezzo della quale il Cristo ha redento l'umano genere con l'effusione del Suo sangue; e inoltre, per addolorare maggiormente i cristiani, tentavano di spezzarla sbattendola contro le mura e gridando: «Frangi, agip salip!», che nella nostra lingua significa: «Franchi, ecco la vera croce!». b) …Tra i primi entrarono Tancredi [d'Altavilla] e il duca di Lorena, che in quel giorno versò una quantità incredibile di sangue. Dietro di loro tutti gli altri salivano le mura, e i saraceni erano ormai sopraffatti. Ma, udite meraviglia!, per quanto la città fosse a quel punto quasi tutta nelle mani dei Franchi, tuttavia coloro che stavano dalla parte [dove si era schierato] il conte [di Tolosa] continuavano a resistere. Appena però i nostri ebbero occupato le mura e le torri della città, allora avresti potuto vedere cose orribili: alcuni, ed era per loro una fortuna, avevano la testa troncata; altri cadevano dalle mura crivellati di frecce; moltissimi altri infine bruciavano tra le fiamme. Per le strade e le piazze si vedevano mucchi di teste; mani e piedi tagliati; uomini e cavalli correvano tra i cadaveri. Ma abbiamo ancora detto poco: veniamo al Tempio di Salomone, nel quale i saraceni erano soliti celebrare le loro solennità religiose. Che cosa vi era avvenuto? Se diciamo il vero, non saremo creduti: basti dire che nel Tempio e nel portico di Salomone si cavalcava col sangue all'altezza delle ginocchia e del morso dei cavalli. E fu per giusto giudizio divino che a ricevere il loro sangue fosse proprio quel luogo stesso che tanto a lungo aveva sopportato le loro bestemmie contro Dio. Essendo la città piena di cadaveri e di sangue, molti fuggirono alla torre di David e chiesero sicurtà al conte Raimondo al quale consegnarono la fortezza. Ma, presa la città, valeva davvero la pena di vedere la devozione dei pellegrini dinanzi al Sepolcro del Signore, e in che modo gioivano esultando e cantando a Dio un cantico nuovo. E il loro cuore offriva a Dio vincitore e trionfante lodi inesprimibili a parole. Il giorno straordinario, la nuova e perpetua letizia, lo sforzo fatto nella fatica e nella devozione esigevano nuove parole e nuovi canti. Questo giorno celebre nei secoli a venire cambiò, lo affermo, ogni nostro dolore e sofferenza in gioia e in esaltazione; questo giorno, lo affermo, segnò la fine dei pagani, il rafforzamento della cristianità, il rinnovamento della fede nostra… In questo giorno il signor Ademaro, vescovo di Le Puy 13, fu visto in città: e molti giurarono di averlo visto salire per primo sulle mura e incitare i compagni e il popolo tutto… In quel giorno cantammo l’uffizio della Resurrezione, perché appunto in quel giorno Colui che per Sua virtù resuscitò dai morti aveva per Sua grazia resuscitato anche noi. 4.9 I Luoghi Santi Per quanto la crociata sia suscettibile, come abbiamo visto, delle interpretazioni più varie, non si può dimenticare il fascino costante esercitato sui cristiani d'ogni tempo e d'ogni luogo da Gerusalemme e dai luoghi storici di Gesù: fascino tenuto vivo dalle Scritture, dalla liturgia, dall'abbon13 Era il Legato pontificio, morto ad Antiochia l'anno precedente. dante letteratura costituita, già a partire dal secolo IV, dai vademecum per i pellegrini. Qui diamo tre brani diversi ed estranei fra loro per origine e destinazione: un estratto dal racconto del pellegrino russo Daniele (secolo XII) (da G. AULETTA, Pellegrini e viaggiatori in Terrasanta, Bologna, 1963, pp. 110-111), la visita a Betlemme del fiorentino Lionardo Frescobaldi alla fine del Trecento (da L. FRESCOBALDI - S. SIGOLI, Viaggi in Terrasanta, a cura di C. ANGELINI, Firenze, 1944, pp. 124-126), e infine una predica sui Luoghi Santi dovuta a San Bernardino da Siena (da S. BERNARDINO DA SIENA, Le prediche volgari inedite, a cura di D. PACETTI, Siena, 1935, pp. 527528), tutta piena del desiderio di uguagliare le pene umane di Gesù (imitatio Christi). a) Io, Daniele, indegno egumeno russo, l'ultimo di tra i monaci, rattristato per i miei numerosi peccati e per l'insufficienza delle mie buone opere, fui spinto, prima dall'idea e poi dal desiderio impaziente di vedere la santa città di Gerusalemme e la Terra Promessa. Per grazia di Dio, giunsi nella santa città di Gerusalemme e vidi i Luoghi Santi; visitai tutta la Galilea e tutti i Luoghi Santi attorno alla Santa Città di Gerusalemme che Cristo, nostro Dio, calpestò con i suoi piedi e dove si manifestò con sorprendenti miracoli. Ho visto tutto, con questi miei occhi di peccatore, e Dio, nella sua clemenza, si è degnato mostrarmi quello che da tempo desideravo… Ed ecco la descrizione del Santo Sepolcro. È una piccola grotta scavata nella roccia, con un ingresso così basso che un uomo vi può appena entrare ginocchioni e curvandosi; l'altezza è minima e le dimensioni, uguali in lunghezza e in larghezza, sono appena di quattro cubiti. Appena entrati in questa grotta attraverso la piccola apertura, si vede a destra una specie di banco scavato nella roccia della grotta e su questo sacro banco, attualmente ricoperto da lastre di marmo, fu deposto il corpo di Nostro Signore Gesù Cristo… b) Partimoci al dì XXI del detto mese di novembre, e andamo verso Betelem, e appresso a questo luogo trovamo una moscheta, che già fu chiesa di cristiani, ed è dove Adam fece penitenza cento anni de' peccati suoi, e poi ingenerò Seth suo figliuolo. Poi a sei miglia si trova dove Abram vide tre e adorò uno, significando la Deità eterna. E questo medesimo dì giugnemmo in Betelem dove nacque il nostro Signore Gesù, nel quale luogo è una chiesa bellissima e grande, e di molta divozione; nella quale facemo le nostre cerche e processioni, ardendo assai cera, secondo l'usanza de' peregrini… Ivi a lato è un'altra cappella, dove furono gittati molte migliaia di corpi di fanciulli innocenti, quando furono uccisi dal crudele re Erode. Poi entramo nella chiesa, e a mano ritta è dove Cristo fu circonciso; ed evvi una cappella a lato all'altare maggiore; dall'altro lato si è uno altare dove i Magi offersono al Nostro Signore oro, incenso e mirra, e insino ivi gli accompagnò la stella, e poi isparì. Di sotto all'altare maggiore si è una cappella in una spilonca di pietra sotterra, là dove nacque il Nostro Signore Gesù Cristo. E ivi circa a quattro braccia di lungi, e al dirimpetto a tre gradi più basso si è la mangiatoia, dove Cristo fu posto tra ‘l bue e l'asino. Di fuori a questa circa un trarre d'arco si è la chiesa di San Niccolò, dove stette la Nostra Donna a lattare Cristo prima che fuggisse in Egitto. c) …Poi, andando al monte Calvario, quando fu alla porta, comincia a contemplare: «Qui cadde el mio dolce amore!». Incomincia a piangere, inginòcchiasi, comincia a basciare dov'era caduto per la debilezza della carne. Poi gionse a monte Calvario, dove fu crocifisso Cristo Iesu, e comincia a contemplare, dicendo: «O dolce Signor mio Iesu, che fusti qui confitto in sulla croce per la mia salute!». E quivi li pareva vedere Iesu confitto in croce, e piangendo abracciava la terra con forti pianti… Così piangendo contemplava tutte le parole che disse in su la croce, parévali udire quando disse: «Sitio!» cioè dell'anima tua. Allora disse: «Se tu hai sete dell'anima mia, Signore mio, io ti prego che tu la tiri a te…». E stando in questo, l'anima sua andò a l'altra. E posesi in ginocchioni in quello proprio luogo dove fu posta la croce di Cristo. E famigli suoi, quando viddero che era morto, el dissero nella città, me nandovi medici: e non potevano comprèndare di che costui fosse morto. Domandaro della sua condizione e della vita; e loro li dissero e suoi modi. Allora compresero e medici che esso era morto d'amore. Volendolo vedere, fécierli isparare, e viddero che nel suo cuore era scolpito d'oro di léttare: IESU. Et aveva fesso el cuore… 4.10 Il nuovo regno Fra i molti aspetti dai quali sarebbe interessante studiare il regno di Gerusalemme, ne indichiamo a puro titolo di esempio due, così come si presentano attraverso le fonti; un brano del cronista Fulcherio di Chartres che celebra in tono biblico le ricchezze della sua nuova patria (da FULCHERIO DI CHARTRES, Gesta Francorum Hierusalem peregrinantium, cit., p. 468); un documento relativo a certi possedimenti rurali concessi alla chiesa del Santo Sepolcro dei re Baldovino II (dal Cartulaire del’église du Saint-Sépulcre de Jérusalem, éd. par E. DE ROZIÈRE, Paris,1847, n. 30, pp. 5657). a) Eccoche noi, che fummo occidentali, siamo diventati orientali. L'Italico o il Franco di ieri è divenuto, una volta trapiantato, un Galileo o un Palestinese. Il cittadino di Reims o di Chartres si è mutato in Siriaco o in Antiocheno. Abbiamo già dimenticato i nostri luoghi d'origine: molti dei nostri li ignorano o addirittura non ne hanno mai sentito parlare. Qui c'è chi già possiede casa e servi con tanta naturalezza come se li avesse ricevuti in eredità dal padre; chi ha preso per moglie – anziché una compatriota – una Siriana, un'Armena o magari una Saracena battezzata; chi ha qui suocero, genero, discendenti, parenti. Uno ha ormai figli e nipoti, un altro beve già il vino della sua vigna, un altro ancora si nutre con i prodotti dei suoi campi. Ci serviamo indifferentemente delle diverse lingue del paese: tanto l'indigeno quanto il colono occidentale sono divenuti poliglotti e la reciproca fiducia avvicina le razze anche più estranee fra loro. Si avvera quanto ha detto la Scrittura: «Il leone e il bue mangeranno a una medesima mangiatoia»14. Il colono è ormai divenuto quasi un indigeno, l'immigrato si assimila all'originario abitante. Ogni giorno parenti e amici vengono a raggiungerci dall'occidente, non esitando ad abbandonare laggiù tutto ciò che possiedono: perché chi laggiù era povero, qui per grazia di Dio ottiene l'opulenza: chi non aveva che qualche soldo, qui possiede dei tesori; chi non godeva neppure di un dominio, qui si vede divenuto padrone di una città. Perché dunque tornare, dal momento che abbiamo trovato un tale oriente? b) Nel nome della Santa e Indivisibile Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Io Baldovino, per la grazia di Dio secondo re latino di Gerusalemme, per l'anima del mio predecessore di degna memoria, il re Baldovino, e per la mia salvezza e remissione dei miei peccati, dono e concedo alla chiesa del Santissimo Sepolcro del Signore e ai canonici regolari presenti e futuri che ivi servono, nel territorio di Tiro, un casale chiamato Derina sopra la grande fonte da cui parte l'acquedotto, con tutto il suo terreno e le sue pertinenze a eccezione d'ogni altro casale che ne dipendesse, in modo che la suddetta chiesa l'abbia senza alcuna contestazione da parte mia o dei miei eredi o successori e la possegga perpetuamente a giusto titolo; inoltre, allo stesso modo, il giardino che si trova fra le mura e l'antemurale della medesima città, dalla parte del mare; e nel territorio vicino al suddetto casale, verso la montagna, tanta terra quanta ne può lavorare in un anno un paio di buoi. Per sicurezza e conferma di ciò e della mia donazione, ho fatto redigere questo privilegio e autenticarlo col mio sigillo di piombo dinanzi a questi testimoni, i cui nomi si leggono [qui] sottoscritti: signum manus di Gelduino, abate di Santa Maria della Valle di Josaphat; signum manus di Pagano, cancelliere del re; signum manus di Gualtieri Brisebarre; signum manus di Pagano de Mineris; signum manus di Guglielmo di San Bertino; signum manus di Sadone, maresciallo. Dato nel palazzo reale di Tiro, l'anno dell'Incarnazione del Signore 1125, indizione terza. 14 Isaia, 65, 25. 4.11 Le colonie latine Furono soprattutto Genovesi e Pisani a occuparsi della Terrasanta; ma non vi mancavano colonie veneziane, mentre per tutto il secolo XII almeno restava anche qualche vestigia dell'antica potenza mercantile amalfitana. Più tardi, giunsero anche Catalani e Provenzali. Il primo dei nostri brani è il testo d'un'iscrizione che, su richiesta dei Genovesi, fu posta nella chiesa del S. Sepolcro (dal Codice diplomatico della repubblica genovese, a cura di C. IMPERIALE DI S. ANGELO, I, Genova 1936, n. 18, p. 23); gli altri due sono privilegi (da Archives de l'Orient Latin, II, Paris 1884, réimpr. anast., Bruxelles, 1964, p. 214; e da Documenti sulle relazioni delle città toscane coll'oriente cristiano e con i Turchi, a cura di G. MÜLLER, ed., anastatica, Roma, 1966, p. 8). a) Nell'anno dell'Incarnazione del Signore millesimo centesimo quinto, il 26 maggio, essendo antistite della Chiesa di Gerusalemme il signor patriarca Daiberto, regnando Baldovino, dette Iddio la città di Acri al Suo glorioso Sepolcro per mano dei Suoi servi i Genovesi, i quali venuti con la prima spedizione dei Franchi virilmente giovarono nell'acquisto di Gerusalemme, di Laodicea e di Tortosa: da loro soli presero Solino e Gibeloth, aggiunsero all'impero gerosolimitano Cesarea e Assur. Pertanto a questo popolo glorioso il re Baldovino invittissimo dette in perpetuo possesso a Gerusalemme una via, un'altra in Giaffa e la terza parte di Cesarea, di Assur e di Acri. b) … messer Guilielmus de Burgaro e messer Simon Malocellus, consoli e visconti in Siria per il comune di Genova, secondo il trattato del comune di Genova, hanno preso possesso materiale di metà della casa che è stata un tempo di Nicolas Antelmi, nella quale abitò messer Bonarellus. E dichiarano di aver accettato il possesso della detta metà per conto del comune di Genova e a nome del comune medesimo, e la tengono per la parte detta e la posseggono a vantaggio del detto comune di Genova e a nome del comune stesso, e hanno posto nella detta casa a vantaggio e a nome del comu ne di Genova il detto Bonarellus, che ha promesso di andarsene a discrezione del detto comune o del suo nunzio. Fatto in Acri, sulla scala della detta casa, MCCXLVIIII, indizione sesta, XXIII giugno prima di terza. Io Castellinus de Paxano, notaio del sacro impero, ho rogato. c) Nel nome della Santa e Indivisibile Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, amen. Sia noto a tutti che io Amalrico, per la grazia di Dio conte di Ascalona, per volontà e sollecitazione del mio fratello e signore Baldovino re di Gerusalemme, dono, concedo e confermo a te, Villano venerabile arcivescovo di Pisa, insieme con i consoli di detta città e con i Pisani tutti, la metà di ogni diritto che mi spetta, e [concedo] che i Pisani possano entrare, uscire, comprare e vendere in Giaffa per terra e per mare. Dono inoltre ai Pisani una piazza in Giaffa, affinché vi costruiscano case per sé e se ne servano come loro mercato. Concedo ai medesimi un'area per fabbricarvi una chiesa, se il signore e maestro della cristianità, il patriarca [di Gerusalemme], lo permetterà. E affinché questo mio dono, concessione, conferma, possa rimanere in perpetuo stabile, sicuro e intatto, e non possa essere alterato né turbato dalla frode o dalla violenza di alcuno, corroboro questa carta col mio sigillo e la munisco dei sottoscritti testimoni: [seguono i nomi dei testimoni]. Dato in Ascalona, per mano del cancelliere Radulphus, il giorno IV dalle none di giugno (1157). 4.12 Vecchia e nuova «Militia»: i Templari Nel nuovo ordine monastico-militare del Tempio, san Bernardo vedeva lo strumento non tanto della difesa di Gerusalemme quanto piuttosto della cristianizzazione degli ideali cavallereschi nei quali egli condannava non l’amore per guerra in sé, ma quello per la gloria mondana, il fasto, le vanità d'ogni genere. E, pur nei suoi successivi tralignamenti, il Tempio restò fondamentalmente fedele all'insegnamento bernardiano (Da BERNARDO DI CLAIRVAUX, De Laude novae militiae ad milites Templi liber, in Patrologiae latinae cursus completus, éd. J.P. MIGNE, CLXXXII, Paris, 1854, coll. 923-924). Ma qual è dunque il fine e il frutto di questa non dirò milizia, ma piuttosto malizia mondana, se l'uccisore pecca mortalmente e l'ucciso muore eternamente? Invero, a dirla con l'Apostolo, «chi ara deve arare con speranza, e chi trebbia con speranza di avere parte al frutto» 15. Che cos'è dunque, o cavalieri, questa incredibile passione, questa intollerabile pazzia di guerreggiare con tante spese e tante fatiche senza alcun altro guiderdone che la morte o il peccato? Coprite di seta i cavalli e rivestite di non so che genere di straccetti colorati le corazze; dipingete lance, scudi e selle; ornate d'oro, d'argento e di gemme le briglie e gli speroni; e in tanta pompa correte, con vergognoso furore e impudente stupidità, alla morte. Ma sono insegne militari, queste, oppure ornamenti femminili? Forse che il ferro nemico avrà paura dell'oro, rispetterà le gemme, non potrà attraversare la seta? In fondo, e voi stessi lo sperimentate di continuo, al combattente sono soprattutto necessarie tre cose: che sia abile, alacre e circospetto nel guardarsi, rapido nel cavalcare, pronto nel ferire. Voi al contrario vi curate come donne i capelli fino a disgustare chi vi vede, vi coprite con sopravvesti lunghe e drappeggiate che vi impacciano i movimenti, seppellite le tenere e delicate mani in ampi e comodi guanti… Né tra voi sorge quasi mai guerra o contesa che non sia originata da un moto irrazionale d'ira o da un vuoto desiderio di gloria o dall'avidità di ricchezze terrene. Certamente, uccidere o morire per motivi del genere non è cosa da fare con tranquillità. I cavalieri di Cristo combattono invece le battaglie del loro Signore e non temono né di peccare uc cidendo i nemici, né di dannarsi se sono essi a morire: poiché la morte, quando è data o ricevuta nel nome di Cristo, non comporta alcun peccato e fa guadagnare molta gloria. Nel primo caso infatti si vince per Cristo, nell'altro si vince Cristo stesso: il quale Cristo accoglie volentieri la morte del nemico come atto di giustizia, e più volentieri ancora offre se stesso come consolazione al cavaliere caduto. Il cavaliere poi, posso affermarlo, uccide sicuro e muore più sicuro ancora: giova a se stesso quando muore, a Cristo quando uccide. Non è infatti senza ragione che porta la spada: egli è ministro di Dio in punizione dei malvagi e in lode dei buoni. Quando uccide il malvagio egli non è omicida ma – per così dire – malicida, ed è stimato senza dubbio vindice di Cristo su quelli che fanno il male e difensore dei cristiani. E quando muore, si sa che egli non è perito, ma è piuttosto giunto alla mèta. La morte ch'egli dispensa è infatti un guadagno per Cristo: quella che egli riceve è il guada gno suo personale. Nella morte del pagano il cristiano si gloria, perché Cristo è glorificato. Nella morte del cristiano si dimostra quanto magnanimo sia stato il re che ha ingaggiato il cavaliere. 4.13 Una bolla pontificia La bolla Audita tremendi fu emanata il 29 ottobre 1187 da Ferrara da parte di papa Gregorio VIII, alla notizia che l'esercito del re di Gerusalemme era stato sbaragliato dalle truppe del Saladino ai corni di Hattin, presso il lago di Tiberiade (4 luglio 1187). Va detto che, nel momento in cui la cancelleria papale promulgava questo documento, anche Gerusalemme era caduta (2 ottobre): ma ciò ancora non si sapeva in occidente. Questa è una tipica bolla di crociata: narrazione stringata ma efficace degli avvenimenti, esortazione a partire, promulgazione delle tradizionali indulgenze. (Da Magnum Bullarium Romanum, III, Augustae Taurinorum, 1859, p. 49 sgg.). Avendo udito la notizia del tremendo giudizio divino con cui la mano del Signore si è abbattuta sul la terra di Gerusalemme, noi e i nostri fratelli siamo confusi da tanto orrore e afflitti da tanto grandi dolori da non sapere che cos'altro fare se non piangere col Salmista: «Dio, i gentili sono entrati nel tuo retaggio, hanno profanato il tuo sacro tempio; hanno rovinato Gerusalemme, hanno dato le carni dei tuoi santi in pasto alle belve della terra e agli uccelli dell'aria» 16; poiché il Saladino, approfittando della discordia scoppiata in quella terra a causa della malvagità degli uomini istigata dal Demonio, è giunto là con gran quantità di uomini. Gli sono andati incontro il re17, i vescovi, i Templari, gli 15 I Cor., 9, 10. 16 Psalm., 78, 1. 17 Guido di Lusignano. Ospedalieri, i baroni e i cavalieri col popolo tutto e la [reliquia della] croce del Signore (attraverso la quale, per le memorie e la fede nella passione di Cristo che su di essa fu crocifisso e riscattò il genere umano, soleva esservi un sicuro baluardo e un'insostituibile difesa contro le incursioni pagane). Ci fu battaglia e i nostri furono sbaragliati; perduta la croce del Signore, trucidati i vescovi, cattura to il re e quasi tutti o passati per le armi o trucidati, salvo pochissimi salvatisi con la fuga; i Templa ri e gli Ospedalieri furono tutti decapitati sotto gli stessi occhi del re. Una volta disperso l'esercito riteniamo inutile riferire come [i saraceni] abbiano tutto invaso e saccheggiato, tanto che pochi sono restati i luoghi non ancor in mano loro… Ma certamente noi… dobbiamo con sincero pentimento [per quanto è accaduto a] quella terra considerare non solo i peccati dei suoi abitanti, ma anche i nostri e quelli di tutto il popolo cristiano, affinché non vada perduto anche quanto ci è di quella terra rimasto, e il loro [dei saraceni] potere imperversi anche in altre regioni. Poiché da ogni parte fra re e principi, fra città e città udiamo discordie e scandali, tanto da farci piangere e dire col Profeta: «Non c'è verità, non c'è conoscenza di Dio sulla terra; dilagano la menzogna, l'omicidio e l'adulterio; e il sangue si sparge sul sangue» 18. Per cui è necessario, col pensiero e con l'azione, correggerci con una volontaria penitenza e con pie opere convertirci al Signore, e prima rimediare al male che abbiamo fatto, poi assalire i feroci e malvagi nemici e non esitare in alcun modo a fare in pro di Dio ciò che essi non temono di osare contro di Lui… E non vi diciamo di abbandonare ciò che avete, ma al contrario di depositarlo anzi tempo nel granaio celeste,… impegnandovi nel recupero di quella Terra nella quale per la nostra salvezza sorse la Verità, e non disdegnò di sopportare per noi il patibolo; né vogliate preoccuparvi di guadagno o di gloria temporale, ma solo della volontà di quel Dio che ha insegnato a riporre in Lui l'anima a vantaggio dei fratelli: e affidate a Lui le ricchezze che volontariamente o no state per abbandonare a non si sa quale erede. Non è infatti nuovo che quella terra sia percossa dal giudizio divino, ma non è neppure insolito che, dopo essere stata flagellata e castigata, sia toccata dalla misericordia. Dio avrebbe potuto salvarla con un solo atto della Sua volontà: ma non sta a noi chiedere perché non l'abbia fatto… Ma a quelli che, con cuore contrito e in umiltà di spirito, avranno accettato la prova di questo iter19 e saranno morti facendo penitenza dei loro peccati e nella retta fede, promettiamo l'indulgenza plenaria e la vita eterna. Sia che sopravvivano sia che muoiano, sappiano che saranno esentati dalla pena per la misericordia e per l'autorità degli apostoli Pietro e Paolo e nostra. I loro beni e le loro famiglie poi, da quando avranno preso la croce, saranno sotto la protezione della Santa Romana Chiesa e dei suoi arcivescovi, vescovi e prelati; e non dovrà esser loro contestata alcuna delle cose che abbiano posseduto senza contrasti all'atto in cui hanno preso la croce, purché non si abbia notizia certa del loro ritorno o della loro morte, ma fino ad allora i loro beni restino in tatti e intangibili; né, inoltre, siano obbligati a restituire a nessuno prestiti a usura. Non vadano però [alla crociata] con vesti preziose, cani, uccelli o con altre cose che non sono indispensabili, ma che servono piuttosto all'ostentazione e al piacere; bensì con un modesto apparato e con un abito col quale sembrino far penitenza piuttosto che ostentare inutile gloria. Dato a Ferrara il quarto giorno dalle calende di novembre [1187], indizione sesta. 4.14 Hierusalem capta est Sulla riconquista musulmana, di Gerusalemme campeggia la figura nobilissima del Saladino, cui offre il suo tributo di ammirazione anche il cronista cristiano dal quale abbiamo scelto le pagine che seguono. Le doti cavalleresche di mitezza e di generosità che il grande sultano dimostra qui giustificano in pieno la leggenda così profondamente encomiastica che gli occidentali ben presto cominciarono a tessere attorno al suo nome e che s'impose allo stesso Dante, il quale pose fra gli 18 Osea, 4, 2. 19 Termine tecnico per designare la crociata. «Spiriti Magni» – senza osare dannarlo – colui che aveva strappato ai cristiani la Città Santa. È noto che in periodo illuministico la leggenda saladiniana conobbe una brillante ma arbitraria evoluzione, tanto che il suo protagonista divenne uno degli eroi della tolleranza religiosa e della lotta contro la «superstizione». Ben diverso – e certo più aderente alla realtà – il Saladino dei cronisti musulmani, parecchi saggi dei quali ci offre al riguardo il Gabrieli nel suo Storici arabi delle crociate: in questa più fedele versione rimangono le caratteristiche cavalleresche, ma accompagnate da un concreto senno politico e da una profonda fede coranica. Si noti comunque, nel brano che segue, quale differenza vi sia stata tra la presa musulmana di Gerusalemme nel 1187 e quella crociata di circa un secolo prima, e come l'opera di purificazione islamica sia stata condotta soprattutto contro i simboli esteriori della fede cristiana, senza però che i vincitori si siano concesse facili vendette sui vinti. Ciò fa risaltare, per contrasto, la grettezza dei marinai «cristiani» d'Alessandria, che debbono addirittura gestire costretti con la forza da un saraceno a soccorrere i loro correligionari profughi. Per chi volesse avvicinare la figura del Saladino in tua biografia di facile e suggestiva lettura ma storicamente fondata (a parte una simpatia a tratti un po' troppo scoperta), suggeriamo: A. CHAMPDOR, Saladino, Milano, 1959. (Da L'estoire de Eracles Empereur, in Recueil des Hist. des Crois., Occ., II, pp. 96-104). Vi dirò come il Saladino fece guardare la città di Gerusalemme affinché i saraceni non facessero né torto né danno né prepotenze ai cristiani che erano in città. In ogni strada mise due cavalieri e dieci armigeri per guardare la città: ed essi la guardarono così bene che non si udì mai parlare di alcuna soperchieria fatta ai cristiani. A mano a mano che i cristiani uscivano dalla città, si disponevano dinanzi ai saraceni, in modo che tra gli uni e gli altri c'era giusto la distanza di un tiro d'arco. E il Saladino faceva custodire i cristiani giorno e notte, in modo che non si facesse loro danno né fossero derubati. Quando tutti coloro che si erano potuti riscattare furono fuori di Gerusalemme, vi restava ancora dentro parecchia povera gente. Venne dunque dal Saladino suo fratello Saif-Eddin Adil, e gli disse: «Signore, io vi ho aiutato a conquistare la terra e la città: vi prego ora che mi doniate cento schiavi presi fra i cristiani poveri della città». Il Saladino gli domandò che cosa ne avrebbe fatto, e questi rispose che ne avrebbe fatto secondo la sua volontà. Allora egli glieli donò e comandò ai suoi luogotenenti che liberassero mille schiavi: cosa che essi fecero; e Saif-Eddin da parte sua, quando ebbe mille poveri, li liberò… (Così il Saladino, prima indirettamente, poi direttamente, interviene e fa liberare tutti i poveri cristiani che non hanno potuto pagarsi il riscatto; ma la sua generosità va oltre): …Vi narrerò adesso una grande cortesia che il Saladino fece allora. Le dame e le donne e le figlie dei cavalieri che erano stati presi prigionieri o uccisi in battaglia, non appena furono riscattate e uscite da Gerusalemme, si presentarono al Saladino e presero a gridargli mercé. Quand'egli le vide, chiese loro chi fossero e che cosa volessero; ed esse risposero che per l'amor di Dio avesse pietà di loro, che egli teneva alcuni tra i loro mariti prigionieri, che avevano perduto la terra, ch'egli le consigliasse e le aiutasse. Vedendole piangere, il Saladino ne ebbe gran pietà e disse alle dame che gli facessero sapere se i loro signori erano vivi nelle sue prigioni, ed egli li avrebbe fatti liberare: quanti furono trovati, furono difatti liberati. Poi ordinò che alle donne e alle damigelle, i cui padri o mariti fossero stati uccisi, venissero offerti dal suo patrimonio personale doni proporzionati al rango di ciascuna. E donò loro tanto che esse si allietarono dinanzi a Dio e agli uomini per il bene e l'onore ch'era stato loro fatto. (Dopo ciò i cristiani liberati dai saraceni si avviano, col permesso del Saladino, verso le città ancora in mano ai crociati: ma ben diversamente dal sultano si comportano questi nei confronti dei disgraziati correligionari): … quando giunsero dinanzi a Tripoli, il conte di Tripoli fece chiudere le porte e non ne fece entrare neppure uno: al contrario, inviò dei cavalieri a catturare i ricchi borghesi e a togliere loro quanto il Saladino aveva donato… Quelli d'Ascalona e dei castelli intorno (non trovando ospitalità presso i cristiani) se ne andarono a svernare in Alessandria. Il governatore d'Alessandria li fece alloggiare, li curò e li protesse, e là essi rimasero fino al marzo successivo. E vi dirò che cosa facevano ogni giorno i saraceni di Alessandria. La buona gente della città veniva quotidianamente dai cristiani e faceva grandi doni ai poveri in pane e in denaro. I ricchi, che avevano soldi, li impiegavano in merci che poi misero sulle navi quando s'imbarcarono e fecero così un grande guadagno. E vi dirò che cosa avvenne loro. Svernavano nel porto di Alessandria navi tra genovesi, pisane, veneziane e d'altra gente, perché in marzo c'era un grande mercato. Quando si giunse al marzo, quelli si raccolsero intorno alle navi. Allora i piloti delle navi andarono dal governatore di Alessandria, gli dettero quanto gli dovevano e chiesero che venissero loro riconsegnati corde e timoni giacché, essendo venuto il tempo, se ne volevano andare. Il governatore rispose che non avrebbe riconsegnato loro né corde né timoni fino a quando i poveri [cioè i profughi da Gerusalemme] non fossero saliti sulle navi; al che essi ribatterono che non li avrebbero fatti salire, dal momento che non avevano né pagato il nolo né fatto le provviste per il viaggio. «Che cosa volete dunque farne?», chiese il gover natore; e quelli risposero: «Li lasceremo a terra». Allora il governatore domandò loro se erano cristiani, ed essi risposero di sì. «E ciò nonostante li volete lasciare al loro destino, e farli vendere schiavi, rendendo così vano il dono della libertà che il Saladino ha fatto loro? Ciò non può essere: è necessario che li conduciate con voi. Vi dirò io che cosa farò per rispettare il volere del Saladino: donerò loro pane ed acqua bastanti, e voi li farete salire sulle navi; altrimenti non potrete avere né timoni né corde». Quando i marinai videro che non c'era scelta, promisero che li avrebbero trasportati. «Venite dunque avanti – disse il governatore – e giurate che li porterete bene e lealmente in salvo in terra cristiana; e che, per quanto io vi abbia costretto a prenderli con voi, nondimeno li condurrete in salvo come i ricchi e non farete loro alcun male. E se saprò che avrete fatto loro ingiuria o villania, me ne vendicherò con i mercanti vostri compatrioti che verranno in questo paese». Così i cristiani che attraverso le terre dei saraceni erano venuti a svernare in Alessandria poterono andarsene sani e salvi. (Ma torniamo a Gerusalemme, dove i musulmani si apprestano a purificare i Luoghi Santi profanati da un secolo di dominio cristiano): Quando il Saladino ebbe preso Gerusalemme… non se ne volle andare finché non ebbe pregato nel Tempio e finché tutti i cristiani non furono fuori dalla città. Egli mandò a prendere a Damasco dell'acqua di rose per lavare il Tempio prima di entrarvi: così come aveva disposto, ne ebbe cinque cammelli carichi e fece lavare bene il Tempio con questa acqua di rose prima di entrarvi. E fece abbattere una grande croce dorata che stava sul Tempio, e che i saraceni poi legarono con delle corde e trascinarono fino alla torre di David. Là, i saraceni miscredenti si dettero a spezzarla e le fecero gravi oltraggi: ma non posso dire se ciò sia avvenuto per comando del Saladino. Questi fece lavare il Tempio, vi entrò e rese grazie a Dio. 4.15 Innocenzo III e il concilio lateranense del 1215 Nel concilio lateranense del 1215 papa Innocenzo, che era stato l'acceso fautore della estensione e – per così dire – della «pontificalizzazione» dell'ideale crociato, tornò sui suoi passi. Le armate crociate da lui benedette avevano conquistato Costantinopoli, trionfato in Spagna, sottomesso i pagani del Baltico, massacrato gli eretici provenzali: ma la Terrasanta, la mèta prima ed autentica del passagium, era rimasta abbandonata a se stessa. Nel 1212 gruppi di pellegrini guidati da stragi fanciulli (donde il nome: crociata dei pueri, o degli «innocenti») avevano percorso la Francia, la Germania e l'Italia diretti verso la Terrasanta, ch'essi conclamavano di voler conquistare senza spada, con la fede e l'amore. Il tragico epilogo di questi folli pellegrinaggi (i fanciulli morti di malattia, resi schiavi, corrotti da uomini senza scrupoli) aveva forse commosso il papa e lo aveva indotto a nuovamente pensare alla crociata come ad un nuovo Esodo: era, la Terrasanta, la dolce Terra Promissionis che egli troppo a lungo aveva dimenticato per curare la gloria delle chiavi di Pietro. Questo discorso pasquale, tenuto dinanzi ai padri conciliaci, è la commovente palinodia d'un pontefice mondano. (Da I.D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio, XXII, Venetiis, 1778, coll. 968-973). «Ho desiderato mangiar con voi questa Pasqua prima della mia passione» (Luca, 22, 15). Poiché Cristo è la mia vita, e morire un guadagno, non mi rifiuto di bere il calice di passione se così è disposto da Dio: che mi sia questo calice offerto per la difesa della fede cattolica, o per l'aiuto alla Terrasanta, o per la libertà della Chiesa, desidererei invero restare in vita quel tanto che bastasse a concludere ciò che già ho iniziato ma, nonostante ciò, sia fatta non la mia volontà, bensì quella di Dio… Gerusalemme, con le lamentazioni di Geremia, ci richiama al passagium20: O voi tutti che passate per la via, guardate e vedete se c'è un dolore simile al mio. Passate quindi a me, o voi quanti mi amate, per liberarmi da un simile stato miserando… tutti i Luoghi Santi sono stai profanati e il Sepolcro del Signore, che soleva esser glorioso, è diventato luogo d'obbrobrio. Dove si adorava il Figlio Unigenito di Dio, ora si adora il figlio della perdizione Maometto. I figli altrui m'insultano e oltraggiano il legno della Croce dicendo: «Credevi in un legno: che ti aiuti adesso, se può». Oh che vergogna, che umiliazione, che obbrobrio che i figli d'una serva, i vilissimi Agareni 21, tengano in servitù la nostra madre, la madre di tutti i fedeli… 4.16 Dalla crociata alla missione: il francecanesimo In Francesco d'Assisi l'antica aspirazione cristiana al martirio, già viva anche fra i migliori crociati, si sostanzia d’un nuovo amore per tutti gli uomini. Il fine del martirio non è solo la glorificazione di Dio e la salvezza della propria anima, né la testimonianza di fede in sé: esso risiede anche nella conversione degli infedeli e, quindi, nella salvezza delle loro anime. Al capo XVI della regola francescana del 1221 (dalla Regula Prima «non bullata», in Gli scritti di san Francesco d'Assisi e «I Fioretti», a c. di A. VICINELLI, Milano, 1955, pp. 102-103) facciamo seguire una poco nota versione della predica di Francesco dinanzi al sultano (da G. GOLUBOVICH, Biblioteca bio-bibliografica della Terrasanta e dell'Oriente francescano, I, Quaracchi, 1906, pp. 36-37): trattasi di un testo che un anonimo compilatore dugentesco attribuisce a frate Illuminato, compagno del santo durante il viaggio oltremare; chiudiamo con la relazione del martirio di quattro missionari francescani a Gerusalemme nel 1391 (da Archives de l’Orient Latin, I, Paris, 1881, pp. 540-541), che è uno specchio della tecnica missionaria del tempo – invero non sempre felice – ma anche della ricca e bella letteratura martirologica francescana. a) XVI. Di quelli che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli. Dice il Signore: «Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Onde quelli dei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e gli altri infedeli, vadano col permesso del loro ministro e servo. Il ministro poi ne dia loro licenza e non li contraddica, se li riscontrerà adatti a ciò: poiché sarà tenuto a rendere ragione al Signore se in questa o in altre cose avrà usato poca discrezione. Quanto ai frati che vanno, possono spiritualmente comportarsi tra gli infedeli in due modi: uno è di non far liti, né contese, ma essere «soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio» e confessare la fede cristiana; l'altro è questo, che quando credano piaccia a Dio annunzino la Sua parola affinché quelli credano in Dio Onnipotente, Padre Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, siano battezzati e divengano cristiani, poiché «chi non rinasce per acqua e Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio». E tutti i frati, dovunque si trovino, tengano presente di aver donato e abbandonato i loro corpi al Signor Nostro Gesù Cristo, e di dovere per amor Suo esporsi ai nemici visibili e invisibili perché, dice il Signore, «chi perderà la sua vita per amore mio la salverà» per la vita eterna. b) Riferiva il ministro generale22 che il compagno del beato Francesco23, ch'era con lui quando que20 21 22 23 Termine tecnico per la crociata. I discendenti di Ismaele figlio di Agar: gli Arabi. Qui usato per i musulmani in generale. Bonaventura da Bagnoregio. Frate Illuminato. sti andò dal sultano di Babilonia, era solito così narrare. Essendo, diceva, alla corte del sultano, questi volle saggiare la fede e la devozione che il beato Francesco mostrava di portare al Nostro Signore crocifisso con il seguente esperimento: fece stendere dinanzi a sé un bel tappeto fittamente ricamato di simboli a forma di croce e disse agli astanti: «Sia chiamato adesso questo uomo che sembra un così sincero cristiano: se venendo alla mia volta pesterà le croci del tappeto, gli diremo che ha fatto ingiuria al suo Dio; se invece non vorrà avvicinarsi, gli chiederò ragione del suo disdegno nei miei confronti». Fu dunque chiamato quell'uomo pieno di Dio ed egli, da questa pienezza ben diretto nell'agire e nel rispondere, camminando sul tappeto giunse dinanzi al sultano. Allora questo ultimo, vedendosi a portata di mano un pretesto per confondere l'uomo di Dio come se egli avesse fatto ingiuria a Cristo Signore, disse: «Voi cristiani adorate la croce come simbolo specifico del vostro Dio: perché dunque non hai avuto scrupolo di calpestare delle croci?». Rispose il beato Francesco: «Dovete sapere che col Signore Nostro crocifisso c'erano anche dei ladroni: noi abbiamo la vera croce del Signore e Salvatore Nostro Gesù Cristo e l'adoriamo e con tutta devozione l'abbracciamo: infatti, essendo stata a noi data la croce del Signore, a voi sono rimaste quelle dei ladroni: e quindi non ho avuto scrupolo a calpestare i segnacoli dei ladroni. Infatti presso di voi e fra voi non c'è niente della santa croce»… Il sultano gli pose poi un'altra questione dicendo: «Il vostro Signore v'insegnò nei Suoi Vangeli a non restituire male per male… a maggior ragione quindi i cristiani non debbono invadere le terre nostre». «Non sembra che voi abbiate letto – ribatté il beato Francesco – tutto il Vangelo di Cristo Nostro Signore: infatti esso dice altrove: ‘Se il tuo occhio ti scandalizza stràppatelo e gettalo via lontano’, con la qual cosa ci ha voluto insegnare che nessun uomo deve esserci tanto caro né vicino, neppur se lo amassimo come un occhio della testa, da non doverlo noi abbandonare, strappare e quasi sradicare da noi se egli tenta di stornarci dalla fede e dall'amore di Dio. Per la qual cosa i cristiani giustamente attaccano voi e la terra che occupate, poiché bestemmiate il nome di Cristo e avete allontanato dalla sua religione tutti quelli che avete potuto. Ma se vorrete conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore, [i cristiani] vi ameranno come se stessi». c) Nel nome del Signore, amen. A lode, gloria e onore di Dio Onnipotente, di tutta la vera fede e di tutta la celeste gloriosa Corte e della Santa Chiesa Cattolica Romana. Sappiano tutti quelli che riceveranno la presente lettera che hanno subìto in Cristo un durissimo martirio nell'anno del Signore 1391, l’11 di novembre, quattro frati minori di diverse province residenti nel convento di Monte Sion a Gerusalemme, uomini adorni d'ogni virtù, devotissimi a Dio, obbedientissimi ai loro superiori e di vita rigidissima nonché perfetti in ogni perfezione. I loro nomi sono: frate Deodato di Roneurgue della provincia d'Aquitania, frate Nicolò della provincia di Schiavonia, frate Stefano de Cunis della provincia di Genova e frate Pietro di Narbona della provincia di Provenza; essi erano stati per più anni con grande onore nell'ordine, alcuni nel vicariato di Bosnia, altri in quello di Corsica, e infine per loro grande devozione si erano trasferiti nella santa città di Gerusalemme, dove a lungo dimorarono seguendo la regola. Ora i frati sopraddetti, dopo essersi a lungo consultati su come poter guadagnare a Dio le anime che il Diavolo ambiva strappare e offrire all'Altissimo un ricco frutto in questa santa terra di Gerusalemme… nel giorno e anno di cui sopra… uscirono per compiere quanto avevano a lungo meditato; e… camminando insieme, e avendo ciascuno una carta arrotolata scritta in volgare italico e in arabo su cui era vergato quanto diremo, si diressero alla volta del Tempio di Salomone, ma non furono fatti entrare. Interrogati dai saraceni, risposero: «Vogliamo dire al cadì (che in latino sarebbe come dire vescovo o prelato) cose utilissime e saluberrime per le vostre anime». Fu allora risposto loro: «La casa del cadì non è qua: venite, ve la mostreremo». Giuntivi, spiegarono i loro rotoli e senza timore li lessero al suo cospetto: «Signor cadì, e voi tutti presenti, vi preghiamo di ascoltarci e meditare attentamente su quanto udite, perché ciò che vi diremo è utile, veritiero, giusto, né inganna ma al contrario giova all'animo di chi lo accetta. Voi siete in stato di eterna dannazione perché la vostra legge non è di Dio né da Dio, né è buona, anzi è assolutamente malvagia: non vi sono compresi né il Vecchio né il Nuovo Testamento. Inoltre nella vostra legge sono contenute molte menzogne, cose impossibili o ridicole, contraddizioni e molte altre cose che non inducono l'uomo al bene e alla virtù ma al male ed a moltissimi vizi: il che non avviene nella legge di Mosè, che viene da Dio, né in quella di Cristo… Se infatti la vostra legge fosse d'origine divina, perché tutti i profeti l'avrebbero tenuta nascosta? Non abbiamo infatti mai trovato che Mosè o un altro profeta o Cristo stesso ne abbiano parlato: quindi, contenendo aperte menzogne, non è legge di Dio… E infatti dice la legge vostra che alla fine i demoni saranno salvati24, perciò la vostra legge piace loro. Dice inoltre che il Cristo non fu figlio di Dio e non morì nella croce25…, che gli apostoli erano saraceni26 e molte altre menzogne». Poi i frati predicarono contro lo stesso Profeta: dissero ch'egli non fu messo di Dio com'è invece affermato dai saraceni e da lui stesso nella sua legge; e che non è attestato che egli abbia fatto miraco li, mentre invece i profeti ne facevano moltissimi. Infatti Elia ed Eliseo e gli altri profeti compirono grandi miracoli, inauditi prima; e lo stesso Cristo si manifestò con enormi e infiniti prodigi. Maometto fu viceversa lussurioso, omicida, goloso, ladrone, e predicò che il destino beato dell'uomo nell'Aldilà consisterebbe nel mangiare, godere i piaceri della carne e indossare vesti preziose in deliziosi giardini. Egli ammette inoltre la poligamia e il commercio carnale non solo con mogli, ma anche con ancelle e concubine. Egli volle infatti semplificare la religione espungendone quanto era arduo a credersi o difficile ad attuarsi, e rese lecito al contrario tutto ciò a cui gli uomini viziosi e soprattutto gli Arabi erano proclivi – la lussuria, la gola e gli altri vizi – mentre non parlò neppure né dell'umiltà, né della carità, né delle altre virtù. E poiché capiva che in queste cose la sua falsità avrebbe potuto essere dimostrata facilmente, comandò che non si credesse niente di contraddittorio rispetto alla sua legge e che tutti coloro che vi si opponessero fossero uccisi27. Quando i frati ebbero con fervore di spirito e fede incrollabile proferito queste parole, il cadì e quanti lo attorniavano arsero di sdegno; e poiché la voce si era sparsa, giunsero da fuori innumerevoli saraceni, e vi furono chiamati anche il Padre Guardiano del convento di Monte Sion con un compagno e lo spedalingo dell'ospedale dei pellegrini di Gerusalemme. Allora il cadì interrogò pubblicamente i quattro frati: «Quando avete proferito quelle parole, eravate saggi e padroni di voi stessi, oppure pazzi e fuor di senno? Inoltre, siete stati inviati dal papa o da qualche re cristiano?». Risposero i frati con grande sicurezza, coraggio, discrezione, zelo, fede fervente e desiderio di salute delle loro anime: «Nessuno ci ha inviati se non Iddio, che si è degnato di ispirarci affinché vi predicassimo la verità nell'interesse della vostra salvezza, poiché dice il Cristo nel Vangelo: ‘Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvo; chi non avrà creduto sarà condannato’ 28. Quindi, se non crederete e non vi battezzerete, sarete dannati nel profondo dell'inferno». Li interrogò di nuovo il cadì: «Rinnegate quanto avete detto e fatevi saraceni: altrimenti morrete»; ed essi risposero chiaramente: «Non vogliamo in alcun modo rinnegare, anzi siamo preparati a morire per questa verità e per la fede cattolica del Cristo: è giusto morire e sostenere ogni supplizio difendendola coraggiosamente, giacché tutto quel che abbiamo detto è vero, santo e cattolico». Udito ciò, il cadì e il suo consiglio pronunziarono sentenza di morte; appena poi essa fu proferita, tutti i saraceni presenti insorsero gridando «A morte! A morte!», [s'impadronirono dei frati] e li picchiarono tanto da lasciarli a terra come privi di vita. Ciò fu circa all'ora nona; un'ora dopo i frati ri presero conoscenza e articolarono qualche parola, al che il cadì li fece legare strettamente mani e piedi e lasciare così in mezzo al tumulto della gente fino a mezzanotte circa: a quel punto li fece spogliare nudi, legare forte a pali e frustare violentemente finché i loro corpi non furono pieni di ferite ed essi neppure in grado di tenersi in piedi. Quindi li mandò in un carcere sotterraneo e li fece mettere in ceppi, sì che non avessero pace né riposo ma continuassero a soffrire indicibilmente. Nel terzo giorno furono alfine condotti sulla piazza dove si è soliti punire i malfattori, in presenza dell'emiro, del cadì e di un'infinita moltitudine di saraceni con le armi sguainate; là era stato acceso un gran fuoco. Di nuovo chiesero loro se volevano rinnegare quel che avevano detto e farsi saraceni 24 25 26 27 Proposizione di tipo origenistico, che non si trova nel Corano. Cfr. Corano, IV, 156. Cfr. Corano, III, 45-46. Inutile sottolineare fino a che punto sia ingiusta, unilaterale e calunniosa questa grossolana presentazione dell'islamismo. 28 Marco, 16, 16. oppure morire, ed essi ribadirono: «Al contrario, siamo noi ad esortarvi affinché vi convertiate e vi battezziate; altrimenti, come figli della dannazione estrema, andrete a soffrire nel fuoco eterno. Ci chiedete di diventare saraceni: sappiate che per il Cristo e la Sua fede noi non temiamo né morte né fuoco»: e così i santi uomini sfidavano gli infedeli. Udendo ciò, i saraceni che erano presenti, ubriachi di rabbia, si gettarono su di loro: e si riteneva felice chi poteva ferirli più crudelmente, tanto che li fecero a pezzi e nei loro corpi non rimase nulla di umano. Ciò fatto, li gettarono su quell'enorme fuoco, ma i loro corpi così straziati non riuscirono per tutto quel giorno a bruciare. La folla restò a guardare fino a notte, aggiungendo legna su legna [al rogo], spargendo le ceneri e nascondendo le ossa affinché i cristiani non ritrovassero le reliquie. 4.17 Una canzone di crociata Fra le molte opere poetiche ispirate alla crociata, questa canzone di Tibaldo conte di Champagne e dal 1234 re di Navarra è una delle più suggestive. Ne esiste anche una bella trascrizione musicale incisa su disco (Le chant du monde, LDY 4101). (Da Poètes et romanciers du moyen âge, éd. A. PAUPHILET, Paris, 1963, pp. 898-899). Signori, sappiate che chi adesso non partirà verso quella terra in cui Dio visse e morì, e chi non prenderà la croce d'oltremare, ben difficilmente andrà in Paradiso. Chi ama e si ricorda costantemente dell'Alto Signore, deve provvedere a vendicarLo e liberare la Sua terra e il Suo paese. Qua resteranno solo i tristi che non amano Dio, né onore, né valore; e ciascuno di loro dirà: «Che cosa mai farà la mia donna? E i miei amici? Non li lascerò a nessun costo». Essi sono caduti in una troppo folle speranza, perché senza dubbio non c'è altro amico che Colui che fu per noi crocifisso sulla vera croce. Ora partiranno i giovani valorosi che amano Dio e la gloria e che, saggiamente, a Dio vogliono andare; mentre a casa resteranno i pavidi e i mediocri: ciechi sono, di ciò non ho dubbi. Chi in vita non s'ingegna a offrire a Dio il suo aiuto perde, in cambio di ben poco, la gloria del mondo. Dio soffrì per noi sulla croce, e ci dirà, nel giorno al quale verremo tutti: «Voi, che mi avete aiutato a portare la croce, verrete là dove sono i miei angeli; là vedrete me e Maria mia madre. E voi, che mai mi avete prestato aiuto, scendete tutti nell'Inferno più profondo». Molti pensano di poter vivere sempre tranquilli, senza provare mai nulla di spiacevole: con tali illusioni, sono a tal punto preda del Nemico e dei peccati che non hanno sentimento, né coraggio, né volontà. Bel Signore Iddio, liberateli da tali pensieri, e guidateci nella vostra contrada sì santamente, da renderci degni di vederVi. Dolce Dama, Regina Coronata, Beata Vergine, pregate per noi! In tal modo non potrà accaderci nulla di male. 4.18 …pro rimedio animae suae… Accanto all'alta espressione cavalleresca di cui sopra, due voci più umili, quotidiane. Il testamento di un crociato bolognese (da W. S. MORRIS, A Crusader's testament, «Speculum», XXVII, 1952, pp. 197-198); e un codicillo inserito nel testamento di monna Beldìe di Cino Foresi del popolo di Santa Trinita in Firenze, il 9 maggio 1291, contenente un lascito per una spedizione crociata che poi non fu fatta (Archivio di Stato di Firenze, Protocollo di Matteo di Biliotto, 293, I, c. 103 r.). a) Nell'anno del Signore 1220, il nono giorno prima della fine di dicembre, indizione settima, Barzella Merxadro, crociato della città di Bologna, trovandosi gravemente ammalato nell'esercito cristiano a Damietta, ha disposto così nel suo testamento: Prima di tutto, per la salute dell'anima sua, ha lasciato cinque bisanti da spendersi per le sue esequie. Per cantare delle messe, ha lasciato il suo cavallo berbero ai suoi esecutori testamentari, il signor prete Egidio, la moglie Guidetta e Rainaldo Maldinaro che ha designato quali esecutori. All'Ospedale dei Cavalieri Teutonici, dove ha scelto di esser sepolto, egli ha lasciato le sue armi, la sua armatura e la cotta di maglia completa di maniche lunghe e di cappuccio. Item, a un uomo che doveva restare con lui oltremare fino alla prossima festa di san Michele, egli ha lasciato in suffragio della sua propria anima quanto possedeva nell'esercito: due sacchi di biscotto, due some di farina, due misure di vino, il quarto d'una mezzana di porco lunga un braccio, un camicione di lino, sei bisanti per comprare pane e vino. Al prete Egidio, un bisante per cantare delle messe; a Rainaldo Maldinaro, due bisanti; a Corradino de Ponteclo ha lasciato cinque scellini imperiali piccoli. A tutti i suoi compagni ha lasciato tre bisanti; a quei medesimi, e a sua moglie Guidetta, egli ha lasciato la sua parte di casa e di masserizie alle condizioni qui specificate. I suoi compagni non do vranno in nulla ostacolare i diritti di sua moglie in quanto concerne casa e masserizie, e potranno nel contempo dimorare pienamente e tranquillamente in casa, come finora si è fatto nell'esercito. A Jacopo d'Ulgiano ha lasciato due bisanti; all'Ospedale (dei cavalieri) di san Lazzaro un bisante; alla tesoreria comune dell'esercito un bisante; cinque bisanti, in suffragio dell'anima sua, al prete Egidio suddetto. Lascia in legato a sua moglie Guidetta, inoltre, tutti i suoi altri beni mobili e immobili, che ha o può avere nell'esercito oltremare e nella parte di bottino che sarà scoperto nella città di Damietta e che gli sarà in un modo o nell'altro assegnato. Invece, per tutti i beni che può avere a Bologna e nel suo paese, ha designato come eredi sua madre Berta e suo fratello messer Biagio. Questa è la sua ultima volontà; e se non può esser valida secondo la norma testamentaria, lo sarà secondo quella dei codicilli e come suo desiderio liberamente e definitivamente espresso. Fatto nell'esercito cristiano, a Damietta, nella casa del testatore e dei suoi compagni. b) … item, nello stesso giorno e luogo e davanti agli stessi testimoni, la sopraddetta madonna Beldìe… giudicò e ritenne opportuno di dare e spendere, per la salute dell'anima sua, dieci lire di fiorini piccoli in pro del passagium generale che si farà in soccorso della Terrasanta d'oltremare, e tale somma deve essere spesa per mano di sua sorella madonna Ghessa, scelta e istituita a questo fine sua fidecommissaria… e se poi il detto passagium non sarà fatto entro i tre anni prossimi, si spenda- no queste dieci lire come deciderà madonna Ghessa… 4.19 Come si predicava la croce Diamo tre esempi di come avveniva la propaganda crociata. Il primo è un exemplum del celebre predicatore domenicano Stefano di Borbone (da Anecdotes historiques, légendes et apologues tirés du recueil inédit d'Etienne de Bourbon dominicain du XIIIe. siècle, publiés par A. LECOY DE LA MARCHE, Paris; 1877, pp. 37-38), l'altro è una traccia di argomentazioni che il predicatore può seguire, tratta da un manuale sempre domenicano (da A.LECOY DE LA MARCHE, La prédication de la croisade au XIII siècle, «Revue des Questions Historiques», XLVIII, 1890, p. 24). Il terzo ed ultimo brano ci trasporta invece dall'atmosfera dugentesca a quella quattro-cinquecentesca: si tratta del resoconto cronistico di una predica tenuta a Siena in un momento in cui, dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, l'Europa era di nuovo attanagliata dal terrore (da SIGISMONDO TIZIO, Historiae Senenses, copia manoscritta del secolo XVII, Siena, Biblioteca Comunale, t. IV, c. 346 sgg.). Purtroppo, per ragioni di spazio, non possiamo riportare anche la descrizione della processione che seguì alla predica per implorare da Dio il successo della crociata, e che sarebbe stata altrettanto significativa. a) Sembra che la croce presa in suffragio loro (dei defunti), soprattutto la crux transmarina, giovi loro o alla salvezza completa o alla mitigazione della pena… L'abate di Morback narrava in presenza dell'arcivescovo di Treviri – e diceva di essere stato sul luogo dell'accaduto – che dalle sue parti al tempo in cui si predicava la crociata d'oltremare avvenne che un tale, passando per un'oscura foresta, s'imbatté in tre cavalli neri come carbone che si dilaniavano a vicenda, e dietro di loro ne scorse un quarto della medesima specie che portava in groppa una figura umana, la quale si lamentava in modo tale da suscitare la più viva pietà. E chiedendo il cavaliere al passeggero se aveva visto altri tre a cavallo come lui, questi gli rispose di aver notato solo tre cavalli neri: al che [il cavaliere] proruppe in grida strazianti, chiamando se stesso disgraziato e privo di aiuto. Il passeggero volle sapere allora il motivo di tanta disperazione: e quello gli rispose che fino ad un momento prima aveva avuto tre compagni di sventura, come lui spaventosamente torturati da altrettanti demoni sotto forma di neri destrieri: essi erano appunto le cavalcature che il passeggero aveva veduto senza cavaliere, perché gli amici dei tre avevano preso in loro suffragio la croce oltremarina, grazie alla qual cosa essi erano stati liberati dalla signoria dei demoni mentr'egli solo vi rimaneva: e perciò chiamava se stesso infelice, per essere rimasto solo [in quelle condizioni] a causa della mancanza di amici. Il viandante gli domandò allora se sarebbe stato liberato, nel caso in cui qualcuno avesse preso la croce in suo suffragio; e il defunto rispose che certamente sarebbe stato così, ma che purtroppo egli non aveva neppure un amico nel mondo dei vivi che sarebbe stato disposto a farlo. Ma l'altro, preso da compassione per lui, si chinò a terra, strappò un filo d'erba e se ne fece una croce esprimendo di nanzi a Dio il voto di compiere il pellegrinaggio per la salute di quell'anima e di prendere la croce secondo le regole formali da un sacerdote se il Signore l'avesse liberata. Accadde allora che [il cavaliere] all'istante disparve rendendogli grazie, mentre il cavallo si dette alla fuga fremendo terribilmente e lacerando a morsi le sue stesse carni; nel luogo dove l'anima sofferente era apparsa, rimasero solo alcune ossa di abbagliante candore. E subito il viandante si affrettò a cercare un sacerdote, prese dalle sue mani la croce e lo guidò in solenne processione con tutto il popolo fino al luogo del prodigio, dove trovarono le ossa del defunto e le seppellirono. b) … Vedete, carissimi, dove conducono le troppo spesso ingiuste guerre mondane e dove invece quella di Cristo, la più legittima di tutte. Nelle prime molti si lasciano coinvolgere a causa della loro amicizia con qualche personaggio: possa la vostra amicizia con Gesù persuadervi a intraprendere la seconda. Essi sono mossi dal desiderio d'una gloria vana: voi lasciatevi condurre da quello della patria celeste. Essi sono spinti dai bisogni quotidiani giacché non hanno sovente altra risorsa: voi dovete badare invece ai soli bisogni dell'anima vostra. Per mezzo delle guerre ordinarie, il Diavolo precipita molta gente all'inferno: viceversa, con questa guerra santa, è il Signore che vi attira in Cielo. Io vi prometto da parte del Padre, Figlio e Spirito Santo che tutti coloro i quali s'impegneranno in questa guerra, se morranno in battaglia dopo essersi pentiti e confessati dei loro peccati, entreranno in possesso del regno che il Signore ci ha conquistato per mezzo della croce, ed ecco che ora io vi concedo l'investitura feudale di quel regno per mezzo della croce stessa, la croce che vi tendo. Venite, dunque, e nessuno rifiuti un'investitura così gloriosa, una garanzia tanto formale e sicura del trono che vi attende lassù! c) … Alessandro da Bologna, domenicano e professore di sacra teologia, uomo illustre per dottrina e discrezione, che aveva grandissime doti di senno e piaceva molto ai Senesi, predicò in duomo ai Senesi stessi durante la quaresima. Nella settimana santa giunse poi un altro predicatore, un Napoletano sempre dell'ordine di san Domenico, a nome Giovanni, ch'era stato da papa Niccolò incaricato di diffondere in Italia le notizie relative alle sofferenze dei cristiani a causa dell'infuriare dei Turchi: in quella settimana, appunto, egli teneva su quell'argomento mirabili preghiere nella chiesa di Santo Spirito. Dopo la Pasqua, che quell'anno fu il 28 marzo, nei giorni di lunedì e martedì predicò a tutto il popolo in piazza [del Campo] e i Senesi, trascinati dalla sua dottrina ed eloquenza meravigliose, decretarono di indire pubbliche celebrazioni religiose e preghiere in città. Quindi, stabilite queste cose, poiché a causa di certi cattivi umori Giovanni aveva dovuto sopportare un'operazione chirurgica alla lingua, il quattro aprile fu Alessandro a predicare in piazza, stabilendo con grande devozione l'ordine e il modo delle cerimonie e delle preghiere, a organizzare le quali furono designati moltissimi cittadini. Spingevano soprattutto a ciò la paura dei Turchi e la compassione dei cristiani oppressi; le stragi e le atrocità erano state descritte dal medesimo Giovanni, che aveva – lui e i molti che lo seguivano – una croce rossa sul petto, e commuoveva gli animi dei cristiani sia con il suo raffinato sapere sia con gli episodi riguardanti i Turchi che narrava. Raccontava infatti che i nemici della croce di Cristo avevano occupato molte città cristiane, distrutto, violato, stuprato le fanciulle, condotti schiavi gli abitanti in luoghi lontani, insultato le immagini dei santi e della Vergine, profanato le reliquie venerande e infine oltraggiato una sacra effigie del crocifisso ch'egli mostrava e alla quale avevano calzato un berretto in segno di ludibrio, dopo averla sputacchiata e beffeggiata a mo' di giudei. Inoltre, il loro re aveva personalmente trucidato molti cristiani dopo averli scherniti, e aveva mandato cinquecento fanciulle e altrettanti ragazzi in dono al sultano d'Egitto in perdizione non solo dei corpi, ma delle loro stesse anime. E quel tiranno, che è circa trentenne, non avrà pace finché non avrà invaso Roma, occupato tutta l'Italia e cancellato la religione cristiana dalla faccia della terra. Narrando queste e altre cose del genere, tali da atterrire l'uditorio, [il predicatore] si scagliava contro la pigrizia dei cristiani, ne esecrava i peccati e il fatto che la fede cristiana fosse in cattivo stato e in grave pericolo di andare in rovina e financo di sparire se non si fosse subito provveduto. 4.20 Alcune voci contrarie Le opinioni correnti in seno alla Cristianità a proposito della crociata non furono mai del tutto monolitiche. Già dal secolo XII udiamo voci distinte ed anche autorevoli che esprimono al riguardo perplessità e dissenso: leggiamo qui una lettera dell'abate di Cluny Pietro il Venerabile che – forse anche in polemica con le simpatie che il movimento crociato raccoglieva presso Bernardo di Clairvaux e i cistercensi – rimproverava a un cavaliere suo amico di preferire la crociata al chiostro: la contrapposizione tra le funzioni monastiche e quelle cavalleresche era del resto un luogo comune della letteratura religiosa medievale (da PETRI VENERABILIS, Epistolae, II, 15, in Patrologiae latinae cursus completus, edidit I. P. MIGNE, CLXXXIX, coll. 206-207). Nel Duecento il dissenso si trasformò in opposizione aperta e violenta, resa più acre dalla strumentalizzazione della crociata operata dal Papato contro eretici e avversari politici: quando si pensi che la vigilanza inquisitoriale rendeva poco agevole la critica alle iniziative che godevano dell'avallo pontificio, si comprende- rà che i per nulla rari commenti negativi al passagium dovevano essere spie di un ben più profondo disagio, esteso a tutti i livelli e a tutti gli ambienti della società cristiana. Su questo problema esiste uno studio di P. A. THROOP, Criticism of the Crusade. A Study of Public Opinion and Crusade Propaganda, Amsterdam, 1940: ma l'argomento è ancor poco noto e la sua importanza sottovalutata, il che lo rende tanto più degno di attenzione e giustifica lo spazio relativamente ampio che in questa sede gli è dedicato. Alla lettera dell'abate cluniacense facciamo seguire: un passo di Salimbene relativo a fatti accaduti in Francia nel 1251 (da SALIMBENE DE ADAM, Cronica, II, Bari, 1966, pp. 645-646); poche ma significative parole tratte da un sirventese composto da un anonimo Templare nel 1268 (da A. LECOY DE LA MARCHE, La prédication etc., cit., pp. 21-22); la Disputaison du croisié et du décroisié redatta dal grande poeta satirico Rutebeuf (da J. BASTIN-E. FARAL, Onze poèmes de Rutebeuf concernant la Croisade, Paris, 1946, pp. 8494); infine un brano del memoriale presentato a papa Gregorio X durante il concilio di Lione del 1274 dal generale dei domenicani Umberto di Romans e riassumente le varie critiche diffuse in quel momento (A. LECOY DE LA MARCHE, La prédication etc., cit., p. 21). a) Al carissimo amico nostro, il signore Ugo Catulae, frate Pietro, umile abate di Cluny, [augura] molto affettuosamente salute. Spinto dal grande affetto che nei vostri confronti nutro, non posso far a meno di gioire della vostra salute né di dolermi dei rischi che correte. Eravate cosciente con che genere di catena vi stavate legando non a me, ma a Dio – o meglio, a me per causa di Dio – quando senza costrizione da parte di alcuno, ma certo ispirato da Dio, poneste davanti a testimoni il vostro corpo e l'anima vostra nelle mie mani consacrate ai divini misteri, rendendovi monaco secondo il mio consiglio, volendo che in segno e come pegno della conversione vi tagliassi i capelli e li conservassi, giurando infine di vesti re in un giorno stabilito, a Cluny, l'abito dell'ordine. E ora vengo a sapere che, contro la divina sentenza, che suona: «Non spergiurare, ma adempi verso il Signore i tuoi giuramenti» (Matteo, 5, 33), e contro il Profeta, che dice: «Scioglierò i voti che ho proferito con le mie labbra» (Salmi, 65, 1314),vi disponete a partire per Gerusalemme. Ma chi potrebbe credere che un uomo savio possa mettersi a far tali pazzie? Del resto, lo creda chi vuole: non certo io. È indegno che io creda di un tanto grande, serio e sincero amico cose che a stento si potrebbero credere di un qualsiasi volgare giullare. Ma dal momento che mi sto rivolgendo ad un uomo savio sì, ma pur sempre laico e cavaliere, debbo risolvere i dubbi che paiono agitarsi nel vostro cuore. Può infatti darsi che diciate dentro di voi: «Quale tipo di vita, quale opera meritoria, quale entrata in ordine sacro può esser confrontata col Sepolcro del Signore? Che cosa di più alto si potrà fare, se non recarsi laggiù?». Ecco la mia ri sposta. Le cose buone si possono lasciar andare in cambio di altre più grandi, non di pari o tanto meno di minor grandezza. E invero vale assai di più servire perpetuamente Iddio in umiltà e povertà piuttosto che mettersi con la superbia e lo sfarzo [abituali] in cammino per Gerusalemme. Quindi, se è cosa buona visitare Gerusalemme dove si posarono i piedi del Signore, di gran lunga meglio è anelare al Cielo, dove si può contemplarLo faccia a faccia. E chi promette di fare la cosa migliore, non può poi sostituirla con una di più limitato valore. Infatti, se aveste promesso a qualcuno cento soldi, gliene potreste poi benissimo dare duecento e la vostra promessa sarebbe mantenuta: ma in nessun modo potreste pagarne solo cinquanta senza venirle meno. Comportatevi dunque cautamente in questo genere di cose, e badate di non offendere gravemente Dio proprio là dove vi eravate mosso per rendergli onore. Per la qual cosa vi scongiuro di venire, insieme con colui che vi porta questa lettera, senza indugio dal vostro sincero amico, affinché a viva voce possa con più vigore intimarvi quanto non voglio affidare allo scritto. b) … [gli abitanti della Francia] insorgevano fieramente contro i religiosi e soprattutto contro i francescani e i domenicani, perché essi avevano predicato la croce e l'avevano data a quanti avevano inteso passare il mare con il re che era stato poi battuto dai saraceni. I Francesi erano dunque irritati a tal punto che non temevano più neppure di bestemmiare il nome di Cristo, benedetto sopra ogni altro. Infatti, poiché in quei giorni francescani e domenicani chiedevano ai Francesi l'elemosina nel nome di Cristo, quando quelli li vedevano digrignavano i denti e, chiamato qualche altro povero, gli davano del danaro dicendo: «Prendi, nel nome di Maometto che è più potente di Cristo!»… c) È veramente folle chi cerca battaglia con i saraceni, dal momento che Gesù Cristo medesimo non rifiuta loro la vittoria… poiché noi siamo sempre stati battuti. Maometto si serve invece di tutta la sua potenza… d) Giorni fa, verso la festa di san Remigio, cavalcavo per gli affari miei, pensieroso, riflettendo in quanto grande pericolo sia la gente che sta più a cuore a Dio, quella di Acri, che come si vede bene non ha alcun amico ed è così vicina ai suoi nemici da trovarsi ormai sotto la portata dei loro ordigni di guerra. Tanto ero pensieroso, che smarrii la strada… Mi trovai dinanzi ad un maniero ben fortificato che non conoscevo e dove era chiusa della gente cui domandai ospitalità. C'erano là quattro cavalieri che parlavano molto bene in francese. Avevano cenato, e andarono un po’ a svagarsi in un verziere presso un bosco… Due di loro lasciavano parlare gli altri, ed anch'io mi posi ad ascoltarli stando presso una siepe… Tra uno scherzo e l'altro essi si dissero delle parole che voglio riferire… Uno di loro aveva preso la croce, mentre l'altro non intendeva a nessun costo prenderla. È di ciò che discutevano, giacché il crociato intendeva convincere colui che, senza disprezzare l'impresa, era ben deciso a non prendervi parte… E il crociato cominciò col dire: «Dammi retta, bel dolce amico: tu sai benissimo che Dio ti ha donato l'intelligenza, per cui chiaramente discerni il bene dal male e l'amico dal nemico. Servendoti saggiamente di tale dono, puoi fin d'ora esser sicuro della ricompensa. Tu, ora, vedi, conosci e vieni continuamente a sapere delle sciagure che accadono in Terrasanta. Chi potrà mai vantarsi d'esser prode, se abbandona in tale stretta il paese di Dio? Anche vivendo cent'anni nessun uomo potrebbe raccogliere tanto onore quanto gliene verrà andando, pentito dei suoi peccati, a conquistare il Sepolcro». L'altro rispose: «Comprendo benissimo perché mi parlate così: voi m'incitate a dare via quanto possiedo e ad andarmene… Si usa dire: quel che hai, tientelo stretto. È un buon proverbio, di buona scuola. Credete voi quindi che io prenda la croce e me ne vada oltremare, e [a questo fine] impegni per quaranta soldi dei beni che ne valgono cento? Non credo che Dio insegni a seminare così: e chi così semina raccoglie poco, e gli starebbe bene l'esser punito». «Tu nascesti nudo da tua madre – ribatté il crociato – lo si sa bene. Ora invece sei arrivato fin qui, e sei ben abbigliato. Ma tieni presente che Dio rende due volte il centuplo di ciò che si spende per Lui. Sarebbe da considerar sciagurato, chi venisse meno all'occasione d'un sì bel guadagno! Si ha oggi l'occasione, Dio sia lodato, di avere il paradiso a buon mercato! San Pietro e san Paolo l'hanno pagato ben più caro, dovete saperlo, essi che l'hanno acquistato mediante ricchezze preziose come la testa e il collo. Eppure, tenete presente che anche il loro è stato un ottimo affare». Al che quello che non aveva intenzione di crociarsi replicò: «Io mi meraviglio di vedere gente, che fa tanto duri sacrifici per ammassare un po’ di denaro, andarsene a Roma, a Santiago o chissà dove. Cercano chissà qual eccezionale avventura e non hanno né una serva né un valletto. Viceversa si può benissimo guadagnarsi [la grazia di] Dio stando senza grandi pericoli a casa propria. Se voi avete reso omaggio feudale alla follia, andate pure laggiù oltremare: per parte mia, affermo che è roba da pazzi di nascita mettersi al seguito di qualcuno quando si può stare in pace con Dio qui e vivere dei propri beni». «Stai dicendo enormità indescrivibili, tu che vuoi guadagnarti il paradiso senza alcun sacrificio, solo per la tua bella faccia. Fecero dunque follia, i santi che giunsero alla redenzione attraverso il martirio? Tu bestemmi. E poi le pene che un uomo può sopportare non si possono neppur paragonare alla suprema gioia alla quale egli può e deve pervenire. È per questo che tanti si fanno monaci. Non si debbono temere le difficoltà che si affrontano per Dio, e ciò sino in fondo». «Sire, voi che mi state facendo così belle prediche a proposito della croce, permettetemi che mi tiri da parte, e andate a farle a quei grandi personaggi che portano la corona, oppure ai decani e prelati che godono di tutta la confidenza di Dio e di tutti gli agi del mondo. Non è giusto che tocchi sempre a noi [persone modeste] cadere in codeste trappole! Sono chierici e prelati che debbono vendicare l'onta di Dio, essi che godono delle Sue rendite. Essi hanno sempre di che mangiare e bere, e certo non importa loro nulla se piove o tira vento. Il mondo intero è nelle loro mani. D'altronde dal momento che vanno a Dio per una strada simile, sarebbero pazzi a cambiarla, tanto è comoda». «Lascia perdere chierici e prelati, e guarda piuttosto il re di Francia che, per conquistare il paradiso, accetta di mettere in pericolo la sua stessa vita e di affidare a Dio i suoi figli. Eppure non esita, e tu vedi che sta preparandosi a far ciò che io cerco di convincere anche te a fare. Il re ha certo ben altri beni da custodire che quelli che abbiamo noi, eppure impegna se stesso per onorare Colui che noi teniamo per Signore e che si lasciò insultare sulla croce. Noi che meniamo troppo folle vita, ohimè, avremo assai da piangere, se non ci affrettiamo a servirLo!». «Insomma, io voglio restare tra i miei vicini, voglio darmi buon tempo e godermela un po’. Andateci voi oltremare, se avete prurito di chissà quali gesta gloriose: e dite al vostro signor sultano che io me n'infischio delle sue minacce. Se viene lui da queste parti, peggio per me: ma non sarò davvero io ad andare laggiù a cercarlo. Io non faccio del male a nessuno, e nessuno ha di che lamentarsi di me. Vado presto a letto e dormo bene, e mi comporto amichevolmente con i miei vicini. Quindi, per san Pietro di Roma!, sono convinto che è meglio che resti qui piuttosto che farmi prestare [per andare alla crociata] grandi somme di danaro altrui che poi non saprei come fare a restituire». «Tu aspiri a vivere comodamente: ma sei sicuro di vivere abbastanza? Conosci qualche libro nel quale sia scritta la durata della vita di tizio o di caio? Mangia pure, bevi, ubriacati: ma basta un atti mo, e si è perduti: una vita d'uomo, sappilo, si spezza facilmente come un uovo. Misero te! La morte ti sta d'appresso: ben presto ti avrà braccato e preso. Essa tiene la sua clava levata sulla tua testa; vecchi e giovani, li prende allo stesso prezzo. Basta un attimo e il tuo piede inciampa, tu che hai tanto disprezzato Dio! Almeno, segui un po’ la traccia lasciata dai buoni nel conquistare lode e pace». «Sire crociato, mi meraviglio. C'è molta gente che va oltremare: persone di poco conto, ma anche altri ricchi o saggi; certi si portano dietro un gran seguito, e v'è chi ha di che trattarsi assai bene. Credo che laggiù facciano opere meritorie, e quanto serve a render l'anima migliore. Ma quando tornano, non paiono per nulla migliorati. Se Dio è da qualche parte nel mondo, è senza dubbio alcuno in Francia. Non crediate che sia possibile incontrarlo presso quei popoli che non Lo amano! E io preferisco una fonte abbondante a quella che cola goccia a goccia d'estate. Il vostro mare, poi, è cosa profondo che ho ben il diritto di averne paura». «Tu non temi la morte; ciò nonostante sai che dovrai morire, e dici che la morte sta in agguato ad aspettarti. Da dove ti viene allora codesta follia? È forse la malvagità che si nasconde in te a trattenerti. Che farai se la morte ti addenta, lei che viene non si sa quando? Qui [in patria] resteranno solo i malvagi, mentre non vi rimarranno i buoni. I malvagi morranno nel loro giaciglio come animali, mentre sotto buona stella è nato chi cadrà in oltremare: gli altri non potranno salvarsi. Ciascuno faccia quanto meglio può, perché alla fine ciascuno piangerà la propria fiacchezza e, quando morrà, non avrà nessuno a piangerlo. In tal modo, mentre tu credi di sfuggire al fuoco dell'inferno senza fare il minimo sforzo, e prendere in prestito, e acquistare a credito, e far della carne la tua amante, per parte mia poco mi cale di quanto mi succederà – la prigione, la battaglia, il lasciar i miei figli e mia moglie – a patto che il mio corpo mi possa salvar l'anima». «Caro bel signore, qualunque cosa abbia potuto dire fin qui, mi avete vinto e svergognato. D'accordo: mi rimetto a voi, per quanto voi non mi abbiate certo trattato dolcemente. Prendo senza indugio la croce; dono a Dio il mio corpo e le mie sostanze, dal momento che chi sarà a Lui fellone in questa bisogna, sarà mal ricompensato. Nel nome dell'alto Dio di gloria che di Sua figlia fece Sua madre e che per mezzo del Suo sangue prezioso ci salvò dall'amarezza della morte, sono deciso a crociarmi al fine di pervenire alla luminosa beatitudine. Poiché chi è negligente in quanto concerne l'a- nima sua, a buon diritto ne pagherà il fio». e) È tentare Dio impegnarsi in lotte del genere quando si è in condizioni di svantaggio. I cristiani farebbero meglio a limitarsi alla difesa, senza attaccare gli infedeli. E poi, perché prendersela con i maomettani anziché con gli ebrei o con gli idolatri? Non se ne ricava né frutti spirituali né vantaggi temporali: i saraceni non si convertono, la maggior parte dei morti in battaglia va all'inferno e si finisce col non poter neppure mantenere le conquiste fatte. Il Saladino si è ripreso tutto in un istante; l'imperatore Federigo [Barbarossa] è annegato in una pozzanghera all'inizio della sua spedizione; san Luigi è stato fatto prigioniero laggiù con i suoi fratelli e tutti i suoi nobili; poi è andato a morire a Tunisi con uno dei suoi figli e la sua flotta è stata distrutta quasi del tutto. Decisamente, sembra che Dio si opponga al successo delle spedizioni lontane. 4.21 Fautori del «passagium»: una santa In questa bella lettera scritta nel 1376 da Caterina Benincasa a Gregorio XI sono esaminati, confrontati e posti in reciproco rapporto i tre problemi fondamentali della Chiesa del tempo: il ritorno del papa a Roma, la crociata, la riforma e moralizzazione delle strutture ecclesiastiche nonché della gerarchia prelatizia. Caterina considera improcrastinabile la crociata, ma ritiene che solo un intimo rinnovamento della società cristiana la renderà possibile: non basta portare la guerra agli infedeli, bisogna sradicarla definitivamente dal cuore dei battezzati. In ciò crociata e pace, nel pensiero della grande Senese, sono sinonimi. (Da CATERINA DA SIENA, Epistolario, ed. a c. U. MEATTINI, I, Roma 1966, p. 75 sgg., lettera 238). … Pare che la divina bontà tre cose vi richiegga. Dell'una ne ringrazio Dio e la Santità Vostra, che egli ha fermato e stabilito il cuore vostro, fattovi forte contra le battaglie di coloro che vi volevano impedire, cioè dell'andare e possedere il luogo vostro. Godo ed esulto della buona perseveranzia che avete avuta, mandando in effetto la volontà di Dio e il vostro buono desiderio. Ora vi prego che voi siate sollecito d'adempiere le altre due; perocché, pregando io il nostro dolce Salvatore per voi, siccome mi mandaste dicendo, manifestando egli, ch'io dicessi a voi che voi doveste andare, e io scusando, reputandomi indegna d'essere annunziatrice di tanto misterio, dicevo: «Signore mio, io ti prego che se egli è la tua volontà che egli vada, che tu gli accresca e accenda più il desiderio suo». Diceva, per la sua bontà, il nostro dolce Salvatore: «Digli sicuramente che questo ottimo segno gli do, che ella è mia volontà che egli vada: ché quanto più contrari gli verranno, e più gli sarà contraddetto che egli non vada, più si sentirà crescere in sé una fortezza, che uomo non parerà che gli la possa tollere; che è questo contro ‘l modo suo naturale. Or ti dico, ch'io voglio che egli levi la croce santissima sopra gl'infedeli; e levila sopra de' sudditi suoi, ciò sono quelli che si pascono e notricansi nel giardino della santa Chiesa, che sono ministratori del sangue mio. Dico che sopra costoro voglio che egli levi la croce; cioè in perseguitare e' vizi e i difetti loro. Divelto il vi zio, è piantata la virtù, ponendo questa croce in mano di buoni pastori e rettori nella santa Chiesa. E se ciò non ci è di fatti, vuole che quelli che sono a fare, voi miriate che siano buoni e virtuosi che non temano la morte del corpo loro. Non vuole Dio che si ragguardi agli stati e alle grandezze e alle pompe del mondo, perocché Cristo non ha conformità con loro; ma solo alla grandezza e ricchezza della virtù. A questo modo li buoni con l'affetto della croce perseguiteranno li vizi delli cattivi». Pregovi, santissimo Padre, per amore dell'Agnello svenato, consumato e derelitto in croce, che voi, come vicario suo, adempiate questa dolce volontà, facendo ciò che potete fare; e sarete poi escusato dinanzi a lui, e la coscienza vostra sarà scaricata. Se non faceste quello che potete, sarestene molto ripreso da Dio. Spero, per la sua bontà e santità vostra, che voi ‘l farete; siccome avete fatto dell'u na, d'averla messa in effetto, cioè dell'andata vostra; così compirete l'altra del santo passaggio, e del perseguitare li vizii che si commettono nel corpo della santa Chiesa. 4.22 Fautori del «passagium»: un umanista Nel marzo o aprile 1452 l'umanista Flavio Biondo teneva a Napoli, dinanzi al re Alfonso d'Aragona e all'imperatore Federigo III, un discorso incitante alla guerra contro Maometto II, che stava pericolosamente avanzando in Asia e che, difatti, l'anno seguente avrebbe conquistato Costantinopoli. Da notare il particolare taglio storico – anche se non esente da grosse inesattezze di fatto – che il Biondo volle dare alle sue parole, e che così bene s'inquadra nel tono generale della sua cultura, per valutare la quale si consiglia – a evitare letture più complesse – il bel profilo biografico che al Biondo appunto ha dedicato R. FUBINI, nel Dizionario Biografico degli Italiani. (Da Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, con introd. di B. NOGARA, Roma, 1927, pp. 111-112). … Trecentocinquantaquattro anni or sono il romano pontefice Urbano, secondo di questo nome, poiché era uomo ripieno di Spirito Santo e d'altro canto le condizioni interne della città di Roma non gli erano propizie, si gettò nella lotta per la riforma delle cose spirituali e nel medesimo anno celebrò l'uno dietro l'altro, in luoghi diversi, quattro concili: il primo a Melfi di Puglia, il secondo a Guastalla città bagnata dal Po, il terzo a Mantova e il quarto presso Clermont d'Alvernia città delle Gallie. Nel quale ultimo concilio, per caso e al di là delle intenzioni del pontefice e dei padri presenti, si parlò della vergognosa miseria – che dovrebbe spezzare il cuore di tutti i cristiani – della oppressione della santa città di Gerusalemme, che allora come adesso era occupata dagli immondi saraceni. E poiché il buono e umile pontefice aveva, più con i singhiozzi che con le parole, dimostrato la sua ottima volontà ma anche la sua assoluta impotenza al riguardo, i padri decisero che, se anche qualcuno per divino oracolo avesse annunziato che tentativi del genere erano destinati al fallimento, ciò nondimeno non si doveva trascurare in sede di concilio di chiamare a ciò i principi e i potenti della terra. Per la qual cosa – il che si fece con facilità e immediatamente – i capi e i popoli delle Gallie, delle Spagne, dell'Inghilterra e della Germania furono dal concilio, mediante lettere, invitati non solo a non ostacolare i partenti, ma anzi a esortare e persuadere i chiamati all'impresa. A che di lungarci? Principi e cavalieri pressoché innumerevoli, molti di più di quelli ai quali erano state inviate le lettere, convennero al concilio di Clermont non diversamente da quanto avrebbero fatto se ci fossero stati costretti dalla minaccia di anatema. E al di là della speranza, dell'opinione e dell'intenzione di tutti, con l'aiuto di Dio, si decise il passagium; e si sa che in pochi giorni trecentomila uomini fecero il voto di passagium. Udite, di grazia, o cristianissimi principi, in quali e quanto mirabili modi l'Ottimo Nostro Dio abbia soccorso la buona volontà dei suoi fedeli. I cavalieri che avevano fatto voto di partire, tornati ciascuno nella rispettiva patria, si dettero a fare pace in pubblico con tutti [i loro privati avversari] senza che nessuno li costringesse… tra essi, dopo che il passagium fu bandito, non fu stabilita alcuna pace pubblica o privata, ma tutti i popoli, dimentichi delle reciproche ingiurie, appena tornati dal concilio presero a trattarsi con carità fraterna… E vi sarà forse qualcuno tra voi, o cristianissimi principi, che penserà che la misericordia di Dio sia nei vostri confronti tanto chiusa da non trovare un modo ancora sconosciuto agli uomini di pacificare anche con la vostra opera e autorità – affinché militino sotto le vostre insegne nella spedizione cristiana – gli Italici che adesso si avversano o di domare, con le forze di entrambi voi e degli altri che vi obbediranno, quelli tra loro che si mostreranno ribelli e ostinati? Ricordate, o serenissimi principi, che il nostro Dio, che è Signore di tutti, si è voluto chiamare specificamente e propriamen te «Signore degli Eserciti» affinché possiate ricordare che Egli provvederà agli eserciti di gran lunga meglio di quanto voi stessi pensiate. 4.23 I Fiorentini e Maometto II Il 13 gennaio 1460 Pio II, che si stava alacremente adoperando per organizzare una crociata, aveva caldamente raccomandato ai Fiorentini di appoggiarlo nei suoi propositi. Ma questi – per quanto si dicessero vagamente disposti a ciò – in realtà prendevano tempo e facevano il doppio gioco. Non avevano interesse a inimicarsi il pontefice: ma d'altronde le loro ragioni commerciali e la necessità di far concorrenza a Venezia li consigliavano di tenersi amico il sultano che avrebbe loro permesso di sfruttare i mercati ex-bizantini. Questa missiva della Signoria al principe turco (6 agosto 1460) è una prova che i tempi erano decisamente cambiati, e la crociata divenuta ormai impos- sibile: in questo senso ci sembra assai adatta a chiudere la nostra breve antologia. (Da G. MÜLLER, Documenti sulle relazioni delle città toscane coll'oriente cristiano e coi Turchi fino all'anno MDXXXI, ed. anastatica, Roma, 1966, p. 186). Al Turco. Poiché i nostri cittadini che in passato erano soliti navigare fino a Bisanzio, città vostra, conoscono la vostra clemenza, onestà, giustizia in tutte le cose e l'eccezionale [vostro] amore per la nostra città, riteniamo che sia quasi inutile incitare con molte parole l'Altezza Vostra alla grazia e alla benevolenza nei confronti dei nostri concittadini. Vogliamo quindi pregarla e scongiurarla con questa brevissima lettera affinché voglia accogliere benevolmente e difendere da ogni molestia o insidia quegli uomini che adesso giungono di nuovo a Bisanzio con le nostre navi, e permettere che essi commercino alle stesse condizioni alle quali gli altri mercanti sono soliti commerciare nelle vostre terre; qualunque favore avranno essi ricevuto dall'Altezza Vostra sarà stimato come una grazia eccezionale, che noi terremo sempre a mente con gratitudine.