Palaver Palaver 4 n.s. (2015), n. 2, 115-124 e-ISSN 2280-4250 DOI 10.1285/i22804250v4i2p115 http://siba-ese.unisalento.it, © 2015 Università del Salento Fabrizio Versienti Corriere del Mezzogiorno Strategia del ragno. La Taranta nella scena musicale contemporanea Abstract: The tambourine with a spider drawn on the drumhead is the symbol of Salento, the Notte della Taranta, and the re-discovery of a rural folk tradition, totally re-invented starting from the historical or mythical data available. An unprecedented iconic as well as marketing success in today’s Italy, which has motivated the Salentine musicians to question and tackle the challenge brought on by the musical languages of the modern age such as rock, jazz, and contemporary composition. Keywords: Re-invention of understanding; poetic unity. tradition; rock; jazz; contemporary Vorrei partire da una constatazione. Il tamburello con l’effigie della Taranta, del ragno, potrebbe essere oggi il simbolo del Salento o forse dell’intera Puglia, com’era in certe illustrazioni per atlanti e carte geografiche del Seicento. Negli ultimi quindici anni il processo di identificazione tra Taranta, Salento e Puglia si è così ben compiuto nel circuito della comunicazione e del marketing territoriale, soprattutto nei settori ormai strategici del turismo e del tempo libero, da non lasciare troppo spazio ad altro, un altro che pure non mancherebbe: dagli ori di Taranto a San Nicola, dalla civiltà romanica ai castelli federiciani, dallo 115 Fabrizio Versienti stesso barocco leccese ai trulli, per tacere delle immagini della modernità, forse oggi, paradossalmente, un po’ appassite: pensiamo al teatro Petruzzelli o all’immagine della nave Vlora, carica di ventimila esseri umani in fuga dall’Albania che arriva nel porto di Bari nell’agosto 1991, così come viene riprodotta da Oliviero Toscani sui muri di tutte le grandi città europee nell’inverno successivo, su grandi manifesti pubblicitari 6 x 3 di Benetton. Non sarebbe stata anch’essa utile a diffondere un’idea della Puglia cone terra di frontiera, d’accoglienza, di incontro? E peraltro, per un certo periodo, lo è anche stata. Se guardiamo alla cultura popolare pugliese, anche qui troviamo un ricchissimo serbatoio di personaggi e storie esemplari, dal talento dei cantastorie arrivati fino a noi da un’altra epoca, come lo scomparso, grandissimo Matteo Salvatore, fino alla tradizione bandistica capillarmente diffusa sul territorio, giù giù fino al “corpofonista” anarchico Enzo Del Re, che se ne è andato l’anno scorso. Ma anche in questo caso è la Taranta a prevalere, perché il fenomeno della sua riscoperta in questi ultimi anni è andato di pari passo e si è confuso con la crescita di un marketing territoriale sempre più tambureggiante, che tende a vendere nel modo migliore una nuova immagine della Puglia, orgogliosa delle sue radici ma protesa nella modernità con ambizioni e attitudini globali. Lo cantano i Sud Sound System, gruppo di raggamuffin salentino, in un branomanifesto come “Le radici ca tieni”, il cui testo tradotto in italiano fa così: “Se non dimentichi mai le radici che tieni, rispetti anche quelle dei paesi lontani, se non dimentichi da dove vieni, dai più valore alla cultura che hai. Siamo salentini, del mondo cittadini, con radici nei Messapi, Greci e Bizantini, uniti in questo stile oggi con i giamaicani”; il testo si conclude con una domanda retorica alla seconda persona, che è anche un 116 Strategia del ragno. La Taranta nella scena musicale contemporanea modo di cedere la parola ad analoghe dichiarazioni identitarie: “dimmi tu, allora, da dove vieni?” Negli ultimi quindici anni, allora, la Notte della Taranta è diventata l’epifania del nuovo Salento e più in generale della nuova Puglia, resa evidente a se stessa e al mondo. In questo lasso di tempo, la Taranta ha accumulato una sua storia, intrecciata in modo a volte conflittuale con il processo di rinascita della musica popolare salentina in cui una generazione di musicisti, studiosi e appassionati ha investito il meglio delle sue energie. E’ una vicenda complessa, raccontata in modo critico e insieme militante in un libro intitolato “Il ritorno della taranta”, edito da Squilibri nel 2009, scritto d’un fiato, potremmo dire, da Vincenzo Santoro, che di questa storia è tre volte parte in causa come appassionato, organizzatore e studioso; in quest’ultima veste, aveva anzi già curato insieme al direttore artistico della Notte della Taranta, Sergio Torsello, un altro volume importante sul fenomeno, “Il ritmo meridiano”, edito nel 2002 da Aramirè. E’ una storia, quella del “Ritorno della taranta”, che affonda le radici nel folk revival degli anni Sessanta e Settanta, e che si confonde prima con le ragioni di una canzone politica militante e poi con l’istinto ribelle del raggamuffin dei Sud Sound System, che porta alla riscoperta massiccia del dialetto. In seguito, insieme alla celebrazione degli ultimi alberi di canto della tradizione, arriva la grande ondata dei nuovi, dei gruppi che mettono in circolazione, anche discografica, i canti e i ritmi della tradizione nel mercato globale della musica. Ciascuno a suo modo, con gradi diversi di fedeltà e di riappropriazione dei modi della tradizione. Ma, come evidenzia Sandro Portelli nell’introduzione all’ultimo volume di Santoro, si tratta di un processo collettivo di reinvenzione che si apparenta strettamente a quello che portò, nel corso del 117 Fabrizio Versienti Novecento americano, alla idealizzazione della musica e della cultura popolare della regione dei monti Appalachi, una terra di natura selvaggia e di miniere, autentica faccia oscura dell’America moderna (la cui diversità, fonte di terrore e di autentico pericolo, era stata ben rappresentata nei primi anni Settanta dal film “Deliverance” di John Boorman, intitolato in Italia “Un tranquillo weekend di paura”, per intenderci quello con la colonna sonora - famosissima all’epoca - dei Dueling Banjos, che attingeva alla musica tradizionale, mentre la vicenda vedeva un gruppo di turisti impegnati in un trekking con rafting sul fiume precipitare nell’incubo di un agguato omicida teso loro da alcuni abitanti del luogo, lombrosionamente minacciosi, ostili e quasi autistici). Esagerazioni filmiche a parte, la realtà degli Appalachi – spiega Portelli – è stata dapprima riscoperta poi gradualmente proiettata in una dimensione dell’immaginario fatta di autenticità e valori resistenti alla faccia cattiva del progresso, fino a saldarsi in una “unità poetica” costruita su immagini connesse di natura, folklore e povertà. Bene, secondo Portelli il Salento di oggi ha costruito nella nostra mente una “unità poetica” analoga, che viene percepita come una valvola di sfogo al disagio della modernità (attraverso i meccanismi della trance), basata su una tradizione in parte riscoperta (la musica) e in parte inventata (le movenze della danza, ricostruite fantasiosamente e senza troppi scrupoli filologici, guardando magari anche al tango e al flamenco, per ottenere una danza adatta al rito sociale della festa). Quella che oggi consideriamo la tradizione della pizzica e più in generale della musica popolare salentina sarebbe dunque il prodotto di un graduale processo di resistenza, riscoperta, adattamento, reinvenzione che sfocia oggi in una musica che assomiglia a quella della 118 Strategia del ragno. La Taranta nella scena musicale contemporanea tradizione e che riutilizza la tradizione, ma in una chiave e secondo modalità del tutto nuove. In realtà, questo è quanto è accaduto a molte altre musiche popolari recuperate e riattualizzate nel corso del Novecento, in America come in Inghilterra, in Irlanda, in Francia, ma anche in Africa o in Sud America, ovunque il corto-circuito fra tradizione e modernità ha portato alla immissione sul mercato internazionale della cosiddetta world music di format musicali di credibile, per quanto mistificata “autenticità”. Un esempio lampante di questo processo di costruzione o se vogliamo di invenzione della tradizione è proprio la Notte della Taranta, che certo non si identifica con il movimento di rinascita della musica popolare salentina, semmai lo accompagna e lo amplifica rendendolo un fenomeno mediatico della cultura di massa contemporanea, con i suoi numeri impressionanti che ne scandiscono ogni anno la crescita: i cinquemila di Melpignano, poi i ventimila, i cinquantamila, i centomila e più di Melpignano… Di quel movimento di riappropriazione della tradizione la Notte della Taranta costituisce una vetrina importante e insieme un luogo di frontiera, di elaborazione del nuovo e di confronto con il resto del mondo. Un confronto spesso conflittuale, come fu ad esempio quello con il primo maestro concertatore, il napoletano Daniele Sepe, che nel ricordo dei musicisti salentini allora presenti fu una sorta di ring, dove si combattevano (tra i salentini) la curiosità e l’apertura alla visione degli altri, con la gelosia e la voglia di preservare la propria tradizione dalle ingerenze altrui. Le prime tre edizioni, quelle con la direzione artistica di Gianfranco Salvatore e Maurizio Agamennone, culminarono nel 2000 con la Notte della Taranta di Joe Zawinul, la prima proiezione della Taranta a livello internazionale, sia 119 Fabrizio Versienti pure a un livello che potremmo definire solo sperimentale: una scommessa degli organizzatori, che vedevano nel musicista austriaco-americano, già al fianco di Miles Davis e poi fondatore dei Weather Report, il maestro di un’idea di fusion che era già una visionaria world music ricca di modalismi, cromatismi e influenze esotiche; Zawinul poteva essere quindi capace di manipolare allo stesso modo il suono e la grammatica della pizzica salentina; l’improvvisazione di marca jazzistica e l’elettronica promettevano di fare scintille a contatto con la pizzica. Ma l’esperienza non produsse seguiti significativi, né da parte di Zawinul o di altri musicisti fusion americani né da parte dei gruppi “pizzicati” salentini. L’integrazione funzionò forse meglio tre anni dopo con i tamburi di Stewart Copeland, anche perché preparata a lungo dal lavoro di un maestro concertatore italiano come Vittorio Cosma, che avendo sensibilità specifica e insieme cultura rock internazionale, si poneva come interfaccia tra i musicisti salentini e l’ex batterista dei Police. Nell’occasione si attinse a piene mani dalle atmosfere e dalle sonorità di certo rock dei primi anni Ottanta, innervato di funk e di pulsioni tribali; la metropoli e il deserto di Talking Heads e Brian Eno, insieme a certe cartoline esotiche dei Police. Tutto questo, insieme alla delirante energia del batterista americano, forniva il tappeto su cui far decollare il battere dei tamburelli e il suono delle voci della tradizione. Che la cosa fosse andata meglio, sia dal punto di vista dei musicisti impegnati che del pubblico, lo dimostra il fatto che dal 2003 in avanti l’esperienza è stata tenuta in vita e riproposta da Cosma, con o senza Copeland, con l’Ensemble della Notte della Taranta, etno-rock band salentina a geometria variabile che ha portato in tour il verbo della Taranta rock. 120 Strategia del ragno. La Taranta nella scena musicale contemporanea Certo è che l’impatto, sia con Zawinul che con Copeland, ha di fatto tematizzato una questione cruciale e delicata per tutti i musicisti, gli organizzatori e gli agit-prop della scena. Che spazio c’è nel mercato internazionale della world music per la taranta? La pizzica e le altre forme della musica popolare salentina sono in grado di attirare l’attenzione del resto del mondo? E, dal suo canto, la Taranta è interessata a mescolarsi al grande calderone della world music, a rischio di smarrire una parte della sua anima oppure di scoprirsi più ricca nel confronto con l’altro? Esaminando la questione dal punto di vista dell’attenzione degli “altri” nei confronti della Taranta, un caso esemplare fu certamente, verso la fine degli anni Novanta, la trasfigurazione che ne diede Vinicio Capossela nella sua canzone “Il ballo di San Vito”. Apprendista stregone come sempre, Capossela dimostrava la potenziale forza d’urto dell’incontro tra il tamburello, la fisarmonica e le chitarre elettrificate; quasi un redivivo Dylan al festival folk di Newport del 1965. Nel 2007, una decina d’anni dopo, sono stati gli americani Gogol Bordello a battere un altro colpo importante, con il loro approccio ruvido e quasi punk, nutrito di musiche est-europee e ritmi tambureggianti; nel loro cd “Super Taranta” l’idea della forza guaritrice della musica, ripresa dal tarantismo, fa il paio con un’Italia da cartolina dove la Toscana prende il posto del Salento e il volume delle chitarre elettriche prevale sul resto. Ma Capossela e Gogol Bordello sono due istantanee di una presenza che si fa strada. Gli stessi organizzatori della Notte della Taranta, il direttore artistico Sergio Torsello, i nuovi maestri concertatori, hanno inteso lanciare una sfida al mondo, facendo partire per l’estero la carovana dell’Orchestra popolare di Ambrogio Sparagna 121 Fabrizio Versienti (ricordiamo il grande concerto del maggio 2006 a Pechino) e più recentemente l’Orchestra di Ludovico Einaudi, a Londra nel 2011. Ecco, pur se in direzioni diversissime, i due maestri Sparagna ed Einaudi sono consapevoli che la Taranta ha tutto da guadagnare da un allargamento del suo orizzonte; Sparagna ad esempio mette a confronto diverse culture popolari italiane, gettando ponti dal Salento verso la canzone padana e il vernacolo toscano, lo stornello romano e altre tradizioni centromeridionali, fino alla moderna canzone d’autore, cercando al contempo di valorizzare ogni lato della tradizione salentina, gli slanci lirici come il ritmo dionisiaco, il momento della festa e quello del dolore, il lavoro e l’amore. Pizzica, sì, ma anche la tradizione vocale dei canti alla stisa e delle ballate. Einaudi invece, su un terreno dichiaratamente più moderno e contaminato, cerca punti di contatto con l’etno-elettronica del turco Mecan Dede o con la lingua greca e la raffinatezza da moderno camerismo jazz della greca Savina Yannatou. E’ un’idea internazionalista, elegante e come “sublimata” della musica salentina, che certo con la Grecia e il vicino Oriente ha una storia di rapporti secolari (anche tragici) da far rivivere. Quest’anno, nella stessa direzione, c’è Bregovic, che dai Balcani porta ritmi dispari ed ebbre fanfare macedoni: riuscirà tutto questo a trovare risonanza nella tradizione bandistica locale, o a convivere con il battere dei tamburelli? L’esito dell’esperimento non è scontato, ma è una nuova esplorazione che la Notte della Taranta s’incarica di tentare, mentre dal loro canto altri gruppi della neo-pizzica – tra i primi e i più autorevoli – battono altre strade: dopo la techno-trance tentata da Mascarimirì e Nidi d’Arac, oggi l’Officina Zoè cerca confronto con l’Africa di Baba Sissoko in Taranta Nera, e il Canzoniere Grecanico 122 Strategia del ragno. La Taranta nella scena musicale contemporanea Salentino si costruisce un repertorio di grande eleganza formale per dare l’assalto al mercato americano. Resta da capire se la musica salentina possa essere disponibile a ibridazioni importanti anche fuori dall’universo che abbiamo indagato finora, cioè quello delle musiche popolari, siano esse di tradizione o moderne, inurbate e d’autore. Parliamo della musica contemporanea, del jazz, dell’elettronica “colta”: la Taranta può diventare materia a disposizione di compositori e improvvisatori contemporanei o può essa stessa proiettarsi con successo in quegli ambiti? Di Zawinul abbiamo detto; alcuni musicisti jazz, come il salentino Raffaele Casarano nella sua Lecce o il tarantino Nico Morelli, da quella Parigi dove ha scelto di vivere da tempo, ci hanno provato con esiti interessanti ma non ancora decisivi. Più radicale il lavoro condotto dal compositore leccese Ivan Fedele che in “Arteteke (Folk Dance 1)”, novello Bartok, ha lavorato con i tamburelli sul tipico beat della pizzica in 12/8, costruendo un ostinato ritmico sul genere del “Bolero” di Ravel, accostandovi le sue tipiche sonorità di sintesi elettroacustica, con esiti molto più intriganti di quella “Pizzica sinfonica” scritta dieci anni fa da Piero Milesi che indulgeva in qualche manierismo minimalista o tardo-verista. Lo stesso Fedele ci ha riprovato quest’anno a confrontare il suo bagaglio di musicista europeo cresciuto tra Parigi e Milano con il suo Salento d’origine, lavorando sulla lingua grika in “Moroloja kai erotika”, mettendo in musica alcune poesie d’amore. Una via che già un altro compositore pugliese, Giovanni Tamborrino, aveva tentato anni fa con i lamenti funebri dei “Reputi di Medea”. Per concludere, i semi sparsi in questi anni sono stati tanti e importanti, sull’onda di una crescita lenta ma costante del fenomeno. D’altro canto, la Taranta non ha fretta. Il ragno sa 123 Fabrizio Versienti che solo tessendo con pazienza la sua tela può raggiungere i suoi scopi; la strategia di accumulazione di esperienze perseguita in questi anni, fatta di generosi tentativi costellati di errori come di successi, sta consolidando una “unità poetica” che ha già fatto breccia nella sensibilità contemporanea, proiettando nel mondo un’immagine molto vivida della Puglia musicale. 124