sito dell`età del ferro

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CECIMA, LOCALITA’ S. PIETRO:
ABITATO DEL NEOLITICO ANTICO
Fotografia di scavo della capanna
Il sito più antico finora ritrovato nell’Oltrepò Pavese è quello di Cecima, situato
su un terrazzo del torrente Staffora.
In seguito allo scavo del 1982 questo insediamento ha restituito materiale ceramico che trova stringenti confronti con le ceramiche del Vho di Piadena (CR).
Le genti portatrici di questa cultura devono quindi aver risalito il corso del Po e
poi quello dello Staffora alla ricerca di nuovi territori da colonizzare e forse attirati dalla presenza di un giacimento di “pietra verde” da sfruttare per la costruzione di accette, indispensabili per disboscare e rendere i terreni abitabili e coltivabili.
A Cecima doveva abitare un solo nucleo familiare. Della capanna di Cecima restava soltanto una buca a forma di rene che probabilmente costituiva una specie di sottostruttura di bonifica per il drenaggio dell’acqua di infiltrazione.
Su tale buca doveva poggiare il pavimento della capanna, costituita da tronchi
coperti di terra; nel lato sud della capanna vi era un ampio focolare.
Dai carboni di questo focolare, tramite l’analisi del Carbonio 14, si è ottenuta la
data di 3980±130 anni a.C.
GODIASCO, LOCALITÀ MONTE ALFEO:
ABITATO DEL NEOLITICO ANTICO
Il monte Alfeo
Nel 1993 la Soprintendenza Archeologica della Lombardia ha condotto uno scavo in un sito in cui numerose ricerche di superficie avevano permesso di recuperare abbondanti esemplari di industria litica databile al Neolitico Antico (IV
millennio a.C.). Si mise alla luce un fondo di capanna che misurava m 4.40x4
con una profondità massima di m 1.90 dal piano attuale. La ceramica era piuttosto scarsa e in condizioni non buone. Si è ricostruita comunque parte di una
grande scodella.
Le analisi effettuate sull’ossidiana ne hanno stabilito la provenienza dal Monte Arci in Sardegna:
la sua presenza testimonia, quindi, l’avvenuto
contatto e scambio, probabilmente, con i Neolitici della costa ligure, dove l’ossidiana approdò
per prima. La selce proviene dalle zone alpine,
mentre non è ancora accertata la provenienza
Asce in pietra verde
del quarzo jalino.
Una piccola accetta, un percussore e scarti di lavorazione di pietra verde documentano come ci fosse una relazione tra questo insediamento e la vicina “officina” di Rivanazzano.
La perizia nella lavorazione della pietra è dimostrata dal rinvenimento di piccolissime perline in steatite, che, come dimostra una lastrina in corso di lavorazione, venivano prodotte “in casa”.
Ciondolo in steatite
RIVANAZZANO: SITO NEOLITICO
DI PRODUZIONE DELLA PIETRA VERDE
A Rivanazzano, durante varie ricerche di superficie condotte su un terrazzo sulla riva sinistra del torrente Staffora, si sono raccolte varie centinaia di ciottoli
fluviali a diversi stadi di lavorazione che documentano come in quella zona esistesse una “officina” per la produzione di asce-accette in pietra verde. Questo
offre la possibilità di studiare l’aspetto tecnologico di produzione, a partire dal
ciottolo grezzo che presentava già una forma naturale “asciforme”, che veniva
poi successivamente sbozzato tramite scheggiatura e parzialmente rifinito mediante una martellinatura operata
con ciottoli-percussori rotondi. La
rifinitura finale, cioè la levigatura
delle superfici o almeno del tagliente non è rappresentata: evidentemente i prodotti finiti erano poi
commercializzati e non si trovano
tra il materiale di scarto di lavorazione.
La materia prima era costituita sia
da rocce verdi di tipo duro, come
Raccolta e lavorazione della pietra verde
l’eclogite, sia più tenere come le
Immagini da “Alla conquista dell’Appennino. Le prime comunità delle valli
Curone, Grue e Ossola”, a cura di M. Venturino Gambari; pp. 19-20.
serpentiniti. Sembra provenire dal
bacino idrografico dello Staffora.
È probabile che gli insediamenti neolitici di Cecima e di Godiasco in Valle Staffora e di Brignano Frascata in Val Curone fossero in relazione con lo sfruttamento di questo giacimento di pietra verde.
Invece i prodotti finiti sono stati esportati in un’area più vasta: si sono infatti trovate accette a Casteggio, Salice Terme, Varzi, Montù Beccarla, Pietra de’ Giorgi, Montesegale.
Torrente Staffora
VOGHERA, LOCALITÀ MEDASSINO:
SEPOLTURA ENEOLITICA
Ipotetica ricostruzione di cerimonia funebre preistorica
L’Eneolitico, o età del Rame, in Lombardia è caratterizzato in gran parte dalla
cultura di Remedello che prende il nome dal sito omonimo della pianura sud
orientale, dove, alla fine dell’Ottocento venne alla luce un sepolcreto con 124
tombe di inumati, rannicchiati su un fianco e accompagnati da un “corredo funebre” cioè da una serie di oggetti posti vicino ai defunti: lame di pugnale e
punte di freccia in selce, asce in pietra, perle e bottoni in osso.
Nel 1978 a Voghera, località Medassino, alcuni operai rinvennero in un cantiere edile i resti di tre scheletri umani, posti sul fianco sinistro e una lama di pugnale in selce indubbiamente confrontabile con quelle della necropoli di Remedello. Le ossa appartenevano a un uomo e a una donna, entrambi di circa 30
anni, e a un’altra donna deceduta in età più avanzata.
Non si hanno ulteriori dati sulla struttura della tomba e anche la posizione di uno
degli scheletri, qui esposto, è stata arbitrariamente ricostruita per analogia con
quanto noto circa le usanze funerarie della cultura di Remedello.
Si propone per essi una datazione generica tra il 2500 e il 2000 a.C.
VERRETTO,
LOCALITÀ CAVA FRATELLI BIANCHI:
INSEDIAMENTO DEL BRONZO ANTICO
Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo
ricostruzione di uno spaccato di capanna dell’età del bronzo
I lavori in una cava nei pressi di Verretto hanno messo in luce (1983) un deposito archeologico intagliato nelle argille sterili di alluvione del torrente Coppa a
oltre 10 metri di profondità: in tale deposito si sovrapponevano tre strati differenti per colore e composizione, di pochi centimetri di spessore.
I primi due strati, per l’intenso colore rossastro, sembravano distrutti da un incendio, mentre il terzo strato aveva un colore nerastro.
Lo scavo ha restituito materiale appartenente alla prima età del Bronzo, caratterizzato da vasi a forma di boccale, di tronco di cono, ornati da cordoni lisci.
Gli strati appartenevano probabilmente a una capanna anche se i confronti con
le strutture di questo periodo non sembrano calzanti: gli uomini dell’età del
Bronzo, infatti, abitavano preferibilmente su palafitte poste in zone umide, mentre il terreno di Verretto non sembra suggerire la necessità di questo tipo di intervento.
Si trattava quindi forse di una capanna assai simile a quella neolitica di Cecima.
Riproduzione di una palafitta dell’età del Bronzo a Molina di Ledro
ZAVATTARELLO:
SITO DELL’ETÀ DEL BRONZO
E DEL FERRO
La collina di Zavattarello con il castello Dal Verme
I materiali di Zavattarello provengono da uno strato di terreno carbonioso, lungo diversi metri, che venne alla luce nel 1990 in seguito al crollo del muretto
di contenimento di un tornante della strada che porta al castello Dal Verme.
Si poté operare solo un recupero di quanto affiorava sulla sezione di quello strato.
Pur se non è sempre possibile attribuire a specifiche caratteristiche di un abitato quanto è stato ritrovato, è comunque certo che la sommità della collina fu
frequentata nell’età del Bronzo Medio Recente (XIV-XIII sec.a.C.) e rioccupato
nell’età del Ferro (dal VI al III sec.a.C.).
Per l’età del Bronzo Medio-Recente sono presenti frammenti di vasi con decorazioni e anse tipiche di quel periodo, vasi colatoi, una statuina a forma di animale e uno spillone.
La fase finale della prima età del Ferro (fine VI-V secolo a.C.) è rappresentata
da materiale di tipo golasecchiano: coppe a stralucido, un vasetto situliforme,
e fibule di diverso tipo.
Infine vi sono frammenti ceramici databili alla seconda età del Ferro (IV-III
sec.a.C.) che trovano confronti con materiali di tipo sia ligure sia insubre: ollette con decorazione a tacche poste a zig-zag, coppe troncoconiche con piede
decorato, olle dal lungo collo svasato.
La vicinanza con l’analogo sito di Valverde, in una posizione strategica che consentiva il controllo delle vie di traffico, è una ulteriore conferma del ruolo attivo
ma guardingo che gli abitanti dell’Oltrepò Pavese ebbero nei commerci pre-protostorici che collegavano la Liguria, il piacentino e l’alessandrino con le idrovie
del Po e del Ticino.
PONTE NIZZA,
LOCALITÀ GUARDAMONTE
Una immagine degli scavi recenti a Guardamonte
condotti dall’Università degli Studi di Milano
Il sito di Guardamonte si trova sulla sommità del Monte Vallassa dove corre attualmente un tratto del confine tra Lombardia e Piemonte ed è posto in posizione strategica tra le valli dei torrenti Staffora e Curone.
Negli anni Cinquanta la Soprintendenza Archeologica del Piemonte vi condusse
degli scavi, considerando piemontesi anche strutture in realtà poste sul suolo
lombardo.
I reperti qui esposti provengono da occasionali ricerche effettuate da Alfredo
Lentini.
Attualmente sono in corso nuove campagne di scavo da parte dell’Università
Statale di Milano e i materiali risultanti sono in questo museo.
Il sito sembra essere stato sporadicamente frequentato dal Neolitico e nell’età
del Bronzo.
Nell’età del Ferro fu sede di un castelliere. Vi si sono ritrovati frammenti di bucchero etrusco e resti della cultura di Golasecca che testimoniano come, nel VIV secolo a.C., il Guardamonte fosse un centro di smistamento delle merci che
dall’Etruria Padana e dall’emporio di Genova raggiungevano, anche attraverso le
minori valli fluviali, il corso del Ticino e i siti d’Oltralpe.
In epoca gallica (III sec.a.C.) il sito fu fortificato.
Sporadici frammenti di età romana documentano una sua frequentazione fino
al I-II secolo d.C.
Il sito del Guardamonte
VALVERDE:
SITO DELL’ETÀ DEL FERRO
La più recente scoperta (1997) nell’Oltrepò Pavese si riferisce a materiali recuperati fortuitamente a Valverde, al bordo di una spianata su cui sorge la chiesa,
sottostante le rovine del Castello Verde.
Malgrado le condizioni del ritrovamento non siano ben chiare (pare che tutto il
materiale esposto, oltre a numerosi frammenti meno significativi fosse contenuto in una buca di un metro di diametro per altrettanto di profondità), le ceramiche testimoniano una occupazione del sito tra il VI e il III secolo a.C.
Sono infatti presenti frammenti a stralucido e un bicchiere con la forma tipica
di VI-V sec. a.C.
I rinvenimenti più importanti sono però costituiti da una serie di vasi di ottima
qualità databili al IV-III sec.a.C. che trovano confronti con esemplari presenti nelle tombe celtiche della necropoli di Garlasco in Lomellina, con materiali liguri e
con materiali celtici di Marzabotto.
Un piccolo saggio di scavo, eseguito nei pressi della “buca”, non ha purtroppo
fornito informazioni più chiare.
Resta comunque importante il significato di questo ritrovamento che conferma
quanto già intravisto a Zavattarello e cioè che non solo il castelliere di Guardamonte ha conservato testimonianze di insediamento dell’età del Ferro, ma che
probabilmente anche diverse altre alture dell’Oltrepò furono siti abitati, da cui
si potevano dominare le vie di traffico restando prudentemente al riparo, in
tempi evidentemente non del tutto pacifici.
Panorama di Valverde
VERRETTO,
LOCALITÀ CAVA FRATELLI BIANCHI:
ELEMENTI DI CORREDO DA SEPOLTURE
DELLA PRIMA ETÀ DEL FERRO
A Verretto, località cava fratelli Bianchi, vennero recuperati i corredi di almeno
tre tombe della prima età del Ferro (prima metà del VI sec.a.C.). Il numero delle sepolture si può dedurre da quello delle ciotole coperchio usate per coprire
altrettante olle cinerarie in ceramica comune.
Non si sa nulla della tipologia delle tombe di Verretto: in genere in epoca golasecchiana i resti della cremazione erano posti in olle con coperchio e quindi in
tombe a fossa.
Si tratta di un ritrovamento importante che documenta la presenza di rapporti
con genti di tradizione golasecchiana nell’Oltrepò Pavese, già indiziata da vecchie scoperte e confermato da quelle più recenti (Verretto, Zavattarello e Guardamonte). Lo studio della ceramica ha rivelato stretti rapporti con prodotti analoghi di ambito ligure. Le fibule in bronzo sono del tipo a sanguisuga e ad arco
serpeggiante, talora con disco fermapieghe.
Cerimonia funebre golasecchiana
Il rito funerario prevalente era quello dell’incinerazione, soprattutto nella forma
indiretta: il cadavere veniva portato sulla pira e quindi cremato. I suoi resti erano raccolti nell’urna cineraria, coperta da una ciotola.
Nelle tombe femminili si trovano in genere fusaiole, fibule a sanguisuga e dischi fermapieghe, quelle maschili si differenziano per la presenza di fibule ad
arco serpeggiante e servizi per la toilette personale.
LE TOMBE ROMANE
DI CASTELLETTO DI BRANDUZZO
Vassoi in vetro fuso in stampo (Castelletto di Branduzzo, tomba 1)
Molte tombe di età romana sono state rinvenute, in momenti diversi, in comune di Castelletto di Branduzzo, specialmente nel corso delle escavazioni di argilla nelle numerose cave che costellano il territorio.
I rinvenimenti più considerevoli sono localizzati nell’area della vasta cava d’argilla intorno alla cascina Bronzina (cava ex Gallotti, ora Branduzzo Laterizi). Qui,
già negli anni Sessanta-Settanta, un gruppo di appassionati, seguendo le escavazioni, aveva individuato e recuperato un consistente nucleo di sepolture a
cremazione e a inumazione dotate di pregevoli corredi, in cui spiccavano particolarmente bellissimi vetri. Purtroppo non si è più in grado di ricostruire molti
aspetti del rito funerario, come le tipologie tombali e la composizione dei corredi. I materiali conservati sono cronologicamente collocabili fra il I e il II secolo d.C.. Quanto alle tipologie sepolcrali sembrano prevalenti le incinerazioni in
nuda terra, ma risultano documentate anche le cremazioni in cassa di laterizi,
con nicchie per la deposizione del corredo, che frequentemente ricorrono a Casteggio e nel territorio circostante (Redavalle).
Un piccolo gruppo di tombe a incinerazione, con un solo esempio di inumazione destinata a un bambino, venne ritrovato nel 1989, sempre a seguito di
escavazioni della cava. In questo caso i corredi, databili al I secolo d.C., erano
più modesti e per lo più composti da materiale ceramico. La struttura prevalente era quella a cassa di tegole. Vennero rinvenute anche le tracce di un
ustrino.
Un altro nucleo di tombe fu messo in luce nel 1994 a non molta distanza (circa 70m.) da una villa rustica di età imperiale, da cui era separato da un antico
corso d’acqua. I corredi sono di scarsissima entità e gli oggetti poco significativi ai fini di una precisazione cronologica.
La frequentazione dell’area sembra comunque databile dal I secolo d.C. all’età
tardoantica. Le tipologie tombali sono varie: un’inumazione di un adulto in cassa lignea, presumibilmente tardoantica, un’inumazione di neonato posto tra
due coppi, un’incinerazione in cassetta di laterizi con copertura alla cappuccina,
tre cremazioni in fossa in nuda terra e un’incinerazione in cassa di laterizi, purtroppo molto danneggiata. Le cremazioni sono tutte indirette; in vicinanza delle tombe è stata individuata un’ampia zona di ustrino, costituita da uno strato
di terreno nerastro con molti frammenti di carboni e di ossa combuste.
Altre sepolture sono state rinvenute, negli anni Sessanta-Settanta, in località
Bassini, Fornace Candiani e cascina Cantausignolo: di esse purtroppo resta
scarsissima documentazione, ma alcuni dei materiali conservati, come i vetri
sono veramente notevoli.
LA NECROPOLI ROMANA DI REDAVALLE
L’esistenza di una grande necropoli di età romana in località Vigne Gagnolate,
nel territorio di Redavalle, fu segnalata già nel 1908-1909 da Giovanni Patroni,
in seguito al rinvenimento di numerose tombe. Molti anni dopo, nel 1984, vennero scavate, negli stessi terreni, altre sepolture, in parte già danneggiate dagli scassi profondi operati dall’impianto di un vigneto e dagli smottamenti del
suolo.
Le tombe, a cremazione (sempre indiretta) e a inumazione, in prevalenza databili fra il I e il II secolo d.C., ma con tracce di frequentazione fino al tardoantico,
presentano tipologie strutturali diversificate.
Per quanto riguarda il rito della cremazione, accanto alle semplici deposizioni
delle ceneri e del corredo in una fossa in nuda terra, compaiono le casse formate da tegole, con copertura piana, e le più complesse casse costruite in laterizi legati da malta con copertura a mattoni sovrapposti in modo scalare, che
presentano nelle pareti interne una o due nicchie per la deposizione del corredo. Quest’ultimo tipo di struttura ha ampia diffusione a Casteggio (area Pleba,
via Torino, fornace Locatelli) e nelle località limitrofe (Castelletto di Branduzzo).
Fra le sepolture a inumazione, oltre alle deposizioni di scheletri in fosse in nuda terra, si sono evidenziate tombe alla cappuccina, a cassa di tegole (anche
con due scheletri) e un caso di fossa comune delimitata da un muretto di laterizi frammentari, priva di copertura.
Si è riscontrato anche il fenomeno del riutilizzo di una tomba più antica, a cremazione, per una nuova sepoltura, a inumazione, che ha probabilmente comportato anche la parziale asportazione del corredo associato alla prima deposizione (tomba 27).
Tutte le incinerazioni in cassa di laterizi e una fossa in nuda terra presentavano
un vaso, in prevalenza un’anfora, collocato all’esterno della tomba: il recipiente
costituiva certamente un segnacolo, ma era utilizzato anche come contenitore
per le offerte funebri, poiché in alcuni casi recava all’interno resti di ossa di volatile. Per alcuni esemplari la foratura del fondo ne attesta, inoltre, la funzione
di condotto per le profusiones di liquidi e profumi versati sulla tomba. Si tratta
di una testimonianza delle cerimonie funebri che si svolgevano, in particolari ricorrenze, nell’area cimiteriale, secondo consuetudini largamente attestate nella civiltà romana.
I corredi sono generalmente modesti o di media entità. La necropoli era certamente collegata a un insediamento, che doveva sorgere lungo il tracciato della via Postumia, ma finora non sono stati trovati elementi per identificarne la posizione né, tanto meno, la denominazione antica.
L’AREA CIMITERIALE ROMANA
DI VIA TORINO A CASTEGGIO
Nel 1974, durante alcuni lavori edilizi, in via Torino - condominio del Console
(ex proprietà Cignoli) -, furono rinvenute due tombe romane a inumazione, databili tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C. Una sepoltura era una semplice
deposizione in cassa di laterizi, l’altra era suddivisa in due parti, con nicchie interne per il corredo e copertura alla cappuccina. I materiali rinvenuti all’esterno
delle tombe rivelano una continuità di utilizzo del sito fino al IV secolo d.C.
Nel 1987, in occasione dei lavori di costruzione della Banca Popolare di Milano,
uno scavo condotto dalla Soprintendenza Archeologica della Lombardia, portò
all’individuazione di un più vasto cimitero (Area Pleba, Via Torino).
Furono scavate 33 tombe, con ricchi corredi. La necropoli era stata utilizzata
per un arco cronologico compreso tra la metà del II secolo d.C. e il IV secolo
d.C. Nel I secolo l’area aveva avuto utilizzo agricolo.
A un primo gruppo di sepolture (seconda metà del II secolo d.C.) sono assegnabili diciotto tombe di cui quindici a inumazione e tre a cremazione; al secondo (III-IV secolo d.C.) altre quindici deposizioni, otto a inumazione e sette a incinerazione.
Sono documentati tre tipi di inumazione: in fossa in nuda terra, in fossa in nuda terra con copertura alla cappuccina, in cassa di laterizi.
Altrettanti i tipi di incinerazione riscontrati: in anfora, in cassoni di laterizi con
nicchie laterali e coperture di embrici sovrapposti e in nuda terra, con corredo
e ceneri del defunto deposti entro cassette in legno.
In alcuni casi sono stati evidenziati segnacoli funerari e tracce di cerimonie funebri, quali libagioni ai defunti, effettuate tramite canalette formate da coppi o
anfore segate.
I corredi più ricchi accompagnavano in genere le cremazioni, soprattutto nella
fase più tarda. La presenza, nelle tombe, di prodotti di un certo pregio, talora
persino di importazione, è un segnale della floridezza di Casteggio e della sua
apertura ai commerci, in un momento in cui, nel resto dell’Italia settentrionale,
si riscontra un calo economico pressoché generalizzato.
Gli studi condotti sulle ossa di alcuni defunti della necropoli dell’area Pleba a Casteggio hanno inoltre evidenziato che gli abitanti della zona si nutrivano bene.
Piuttosto, un dato curioso, rilevato da queste indagini, è stato l’esercizio di pratiche violenta (una donna è stata trovata priva della testa, un uomo recava sul
cranio segni evidenti di una ferita con un’arma contundente).
I due rinvenimenti di via Torino dovevano fare parte di un’unica vasta area funeraria, comprendente venticinque sepolture di I-II secolo d.C. ritrovate nel 1872
in viale Giulietti.
Planimetria dello scavo dell’area Pleba di Casteggio
IL COMPLESSO ABITATIVO
DI CASTEGGIO, AREA QUAGLINI
Immagine di scavo dell’area Quaglini di Casteggio
Nel 1992, a seguito di lavori edili, venne esplorata, in via Torino, una zona dell’abitato antico di Casteggio.
I resti, che si trovavano sotto un deposito di argilla alluvionale spesso più di 3
metri, sono riferibili a un complesso edilizio, a carattere prevalentemente residenziale, che, con varie fasi di occupazione, interessa un lungo arco cronologico, dalla fine del I secolo a.C. alla fine del V secolo d.C. Non è da escludere, però, una frequentazione precedente (forse più sporadica e comunque non definibile), databile intorno alla fine del II-inizi I secolo a.C., sulla base della presenza di materiale di risulta di tipo celtico. Dopo la distruzione dell’abitato, a causa
di violente esondazioni dei torrenti locali, l’area viene riutilizzata per sepolture
isolate in epoca altomedievale.
Gli edifici occupano uno spazio che nell’antichità era delimitato a nord dalla zona di necropoli e a sud dall’antico alveo del torrente Coppa. Lo scavo, ha rivelato una complessa stratigrafia.
Le condizioni delle abitazioni erano purtroppo pessime. Nelle fondazioni nello
zoccolo dei muri prevale l’uso dei laterizi, talora con commistione di ciottoli; il
legante è principalmente l’argilla, molto meno frequente la malta, in genere di
scarsa qualità. L’alzato vero e proprio era certamente in argilla con intelaiature
e tramezzi lignei rivestiti di intonaco dipinto.
Il materiale trovato nello scavo è invece spesso di gran pregio. L’arredo domestico comprendeva, infatti, oltre all’abbondante vasellame in ceramica e agli
strumenti metallici, anche oggetti decorativi in marmo e in bronzo, indici di un
tenore di vita piuttosto elevato. Particolarmente abbondante l’oggettistica in
bronzo: si segnalano le statuette di Mercurio e di Giove e i numerosi elementi
decorativi di mobili o di oggetti d’arredamento.
Di notevole rilievo una testina celtica (forse decorazione di una spada o di un
coltello), rinvenuta, insieme ad alcune fibule dello stesso periodo in uno strato
di livellamento delle prime fasi, probabilmente in deposizione secondaria: si
tratta di un pezzo di grande importanza.
LE VILLE RUSTICHE
DELL’OLTREPÒ PAVESE
Numerose sono le ville rustiche individuate o individuabili nel territorio dell’Oltrepò Pavese. Alcune sono state parzialmente esplorate negli ultimi anni: le
meglio conosciute sono quelle di Castelletto di Branduzzo e Rovescala.
L’edificio di Castelletto di Branduzzo (cascina Bronzina), è circondato da muri
perimetrali muniti di contrafforti, posti a intervalli regolari, ed è articolato all’interno in vani di forma quadrangolare (per quanto è dato di vedere nella parte
esplorata). Ha avuto più fasi di costruzione, in un periodo che va dal I al IV secolo d.C. I muri sono stati rinvenuti a livello di fondazione; i pavimenti sono costituiti da battuti d’argilla, ma sono stati riscontrati anche resti di cocciopesto
decorato (con tessere di mosaico disposte a crocette), distrutto già in antico.
All’esterno del perimetro dell’edificio è stata constatata la presenza di aree di
lavorazione (“forni” scavati nella terra). Alla costruzione era collegata una zona
sepolcrale, separata nell’antichità da un corso d’acqua.
La villa di Rovescala, collocata in posizione panoramica sulla cima di un’altura,
è di dimensioni notevoli e ha avuto anch’essa un lungo periodo di frequentazione (I-IV secolo d.C.). Al suo interno sono stati identificati al momento dieci vani di diverse dimensioni. E’ nettamente distinguibile la parte rustica, posta a
meridione, con murature dalla tecnica poco accurata e pavimentazioni costituite da battuti, da quella urbana, posta sul lato nord, dotata di pavimenti durevoli (cocciopesto, battuti di malta, cocciopesto decorato a reticolo di rombi) e murature più accurate, originariamente rivestite di intonaco. Non sono conservati
gli elevati, probabilmente costruiti in materiale deperibile. All’esterno, sul lato
ovest, è stata riconosciuta un’area di cortile, pavimentato con battuto di ghiaino e frustali di laterizi, con tracce di utilizzo probabilmente produttivo.
Un’altra villa rustica sorgeva in località Sorino a Broni: da essa proviene il grande dolium, esempio di contenitore per derrate posto nei magazzini.
Immagine di scavo della villa di Rovescala
EDIFICI RESIDENZIALI DI CASTEGGIO,
VIA EMILIA-CORALLI
Probabile drenaggio di anfore (scavo via Emilia-Coralli, Casteggio)
Nel 1985 la costruzione di due palazzine tra la via Emilia e la via Coralli permise di evidenziare alcune strutture riferibili a edifici residenziali di età romana.
L’indagine archeologica, per esigenze di cantiere, venne limitata ad alcuni sondaggi stratigrafici.
Furono individuati i resti di un edificio, di considerevoli dimensioni, di epoca tardoromana, databile al IV secolo d.C., che si sovrapponeva a un edificio precedente, di I-II secolo d.C. (che non è stato completamente indagato).
La costruzione più antica doveva essere di tipo lussuoso, considerato il ritrovamento di resti di pavimentazioni musive (a decorazioni geometriche), purtroppo già distrutte, e di numerosi frammenti di intonaco dipinto a vivaci colori. Mattoni cilindrici per suspensurae e tubuli fittili, rinvenuti nel crollo, testimoniavano la presenza di impianti di riscaldamento.
Gli intonaci, che hanno un notevole spessore, rivestivano certamente murature in argilla cruda, intervallate da pilastri in laterizi.
Fra l’abbondante materiale ceramico recuperato si segnalano particolarmente le
anfore presenti in grande quantità e riferibili al I-II d.C. In una buca, probabilmente un drenaggio, furono rinvenuti diversi esemplari quasi integri: la maggior parte di essi, proveniva dalla zona adriatica, a testimonianza della vitalità dei commerci a Casteggio.
Fra i reperti più notevoli spiccano per la loro rarità, nell’ambito del territorio, il
frammento di decorazione in stucco, con motivo a ovoli, e il frammento di una
coppetta in vetro decorata a mola, che reca l’immagine di un tempietto e
un’iscrizione lacunosa (IS).
Curioso è invece il frammento di intonaco, di colore violaceo, su cui è graffito
(evidentemente dopo la messa in opera) il volto di una figura, una sorta di piccolo diavolo.
L’aspetto più rilevante del ritrovamento è la testimonianza di una continuità di
utilizzo dell’area urbana di Clastidium, con attività costruttive considerevoli, anche nel tardoantico, cioè in un periodo solitamente ritenuto di crisi e di impoverimento.
Frammento di mosaico (scavo via Emilia-Coralli, Casteggio)
I RITROVAMENTI TARDOANTICHI
IN OLTREPÒ
Ritrovamenti isolati di epoca tardoantica sono stati effettuati nell’Oltrepò Pavese sia alla fine del Novecento, sia in epoche più vicine alla nostra.
Attestazioni di sepolture tardoantiche si hanno a Salice Terme, mentre da Rivanazzano proviene materiale di età longobarda, riferibile, pur con qualche incertezza, a un contesto funerario.
Fra gli insediamenti isolati si segnala quello di Borgo Priolo, dove è stata messa in luce una necropoli con due livelli di occupazione, il primo dei quali era probabilmente collegato a strutture residenziali, presumibilmente di tipo rustico.
Le tombe, anche plurime, erano prive di corredo.
L’impoverimento dei corredi e l’utilizzo di una struttura per più deposizioni sono caratteri distintivi delle sepolture tardoantiche, che si accentueranno nelle
successive epoche altomedievale e medievale. Significativa in questo senso è
una tomba rinvenuta, nel 1968, a Castelletto di Branduzzo, località Bassini: una
cassa formata da laterizi frammentari e disposti senza cura, con copertura alla
cappuccina, conteneva quattro scheletri, due dei quali risultavano spostati e
ammucchiati per far posto ai due successivi. Unici elementi di corredo un’armilla bronzea, una fusaiola e alcuni vaghi di collana, probabilmente pertinenti a una
sola deposizione, certamente quella di una donna.
Per quanto riguarda il resto del territorio, gli indizi di insediamenti sparsi si ricavano dagli sporadici rinvenimenti di materiali tipicamente tardoantichi (come la
terra sigillata chiara, la pietra ollare, l’invetriata tarda) o di monete dell’epoca,
queste ultime singolarmente abbondanti, talora intenzionalmente occultate.
Un importante ripostiglio monetale è quello di Oliva Gessi, composto da 542
monete, prevalentemente coniate nella zecca della vicina Ticinum, deposto nel
primo ventennio del IV secolo all’interno di una brocca bronzea: anche il contenitore metallico appartenente a una tipologia particolarmente diffusa in età tardoromana (Blechkannen), con una significativa concentrazione di esemplari
proprio nell’Oltrepò.
La brocca di Voghera (III-IV sec.d.C.), proviene dalla necropoli della Fornace Servetti (scavata nel 1914) e precisamente da una tomba a cassa “marmorea”.
L’esemplare di Codevilla (III sec.d.C.), rinvenuto nel 1936-1937, è formato dall’assemblaggio di più parti unite mediante ribattini. All’interno, alla giunzione fra
spalla e ventre, è presente una riparazione antica. Inoltre, si notano spesse incrostazioni calcaree, specialmente sul collo, che ne fanno supporre l’impiego
come contenitore d’acqua calda.
Per tutti e tre i pezzi è ipotizzabile la produzione in officine dell’Italia settentrionale.
Immagini dello scavo di Borgo Priolo
ELEMENTI ARCHITETTONICI
DA BORGO PRIOLO
I tredici pezzi esposti provengono dalla Chiesetta di S. Maria del Monte di Borgo Priolo (attualmente inglobata in un’abitazione privata dove furono rinvenuti
all’inizio degli anni Ottanta durante lavori al campanile e alle parti civili confinanti).
Essi sono tutti in arenaria, una roccia calcarea cavata nei colli dell’Oltrepò, impiegata negli edifici romanici come pietra di rivestimento di murature in mattoni e per gli elementi decorativi.
Nelle sculture di Borgo Priolo si riconoscono capitelli, parti di cornici, fregi o stipiti e un archivolto per finestra. La decorazione, non completata e solo in alcuni casi estesa all’intera superficie a vista, è simile a quella impiegata nelle chiese pavesi tra XI e XII secolo: prevalgono nastri intrecciati a due o più capi, ripresi dalla tradizione altomedievale, tralci vegetali, foglie di palma e animali ( un
leoncino nell’atto di mordersi la coda sull’archivolto). I motivi sono realizzati con
accuratezza nella resa del dettaglio, che rimanda alle tecniche dell’oreficeria e
dell’intaglio in avorio.
Lo studio della chiesa (attualmente ancora in corso) non ha per ora consentito
di stabilire la pertinenza originaria del materiale giunto al Museo.
La frammentarietà e l’incompletezza dell’ornamento inducono a ipotizzare il recupero dei pezzi allo stato di “non finito” da un vicino cantiere e l’utilizzo nella
costruzione della chiesetta.
La decorazione e la tecnica esecutiva avvicinano i frammenti di Borgo Priolo alla scultura architettonica pavese della prima metà del XII secolo, per esempio
quella delle chiese di S. Pietro in Ciel d’Oro, S. Michele Maggiore e S. Giovanni
in Borgo.
Disegno ricostruttivo di arco di monofora da S. Maria di Torre del Monte
da “Memoriola - Mormorala. Riscoperta di una pieve dell’Oltrepò Pavese”,
a cura di S. Lusuardi Siena, p. 198, Varzi (PV), 2006.
S. Michele Maggiore (PV)
S. Pietro in Ciel d’Oro (PV)
TOMBA (?) LONGOBARDA
DA RIVANAZZANO
Le notizie sul ritrovamento, effettuato a Rivanazzano, località Germana nel
1939, sono assai limitate. Non sono state fornite, nella scarna documentazione che accompagnava gli oggetti, indicazioni sul tipo di sepoltura, il che induce a pensare che i reperti siano stati trovati al di fuori della loro collocazione originaria.
Dal punto di vista cronologico sono omogenei, essendo databili alla prima metà del VII sec.d.C.; questo dato potrebbe costituire una parziale conferma circa
l’appartenenza allo stesso contesto.
Si tratta di un ritrovamento molto importante poiché consente di provare archeologicamente quanto si conosceva prima sull’Oltrepò Pavese solo sulla base di alcuni toponimi. Presenze longobarde erano infatti supposte sulla base dei
nomi dei torrenti Staffora e Bardonezza, delle località Martinasca e Garivalda, di
Bosnasco e di Zavo.
La prima metà del VII sec. è tra i momenti più dinamici dell’espansione longobarda: anche il tortonese è, nello stesso periodo, interessato da insediamenti
dell’età di Agilulfo tra il VI e il VII secolo d.C.
Problematica, come per tutti i ritrovamenti dello stesso tipo effettuati nel nord
Italia, l’appartenenza del materiale trovato: al popolo longobardo vero e proprio
o a locali che ne avevano assunto usi e costumi.
Tomba e corredo longobardi
LA FORNACE DI VOGHERA
Planimetria della città di Voghera all’inizio del XVIII sec.
Tra la fine del 1980 e i primi mesi del 1981, durante i lavori di ristrutturazione
di un edificio affacciato sull’attuale piazza Vittorio Emanuele II, vennero rinvenute due fosse, di cui una colma di numerosi frammenti di ceramica tardomedievale relativi a una discarica di fornace, mentre l’altra che conteneva, oltre a
frammenti ceramici anche vetri, metalli, pietra ollare è stata identificata come
discarica domestica. Mancano purtroppo testimonianze relative alla struttura
che produceva questa ceramica, ma è probabile che non fosse molto distante
dallo scarico dei pezzi malriusciti.
Se così fosse la fornace si sarebbe trovata nel pieno centro cittadino, ovvero in
una posizione insolita, poiché i forni erano di solito collocati in periferia per evitare incendi nell’abitato. Tuttavia le numerose ordinanze, emesse appunto per
sollecitare la localizzazione delle fornaci in periferia, potrebbero indicare che,
nel costruirle, la tendenza fosse proprio contraria.
I reperti consentono di datare la discarica al XV secolo. Trattandosi di residui di
lavorazione essi possono fornire indicazioni principalmente sulle ceramiche prodotte e sugli errori di cottura e non sulla diffusione sul mercato delle varie classi ceramiche attestate. Resta da stabilire se gli scarti provengano da uno o da
più vasai: i disegni sui piedi di gallo (i distanziatori da forno) potrebbero essere serviti a distinguere la produzione di diversi tornitori, che utilizzavano la stessa fornace.
Poiché dall’analisi dei censimenti fiscali del periodo emerge un’alta concentrazione di vasai rispetto alla popolazione, che utilizzava anche stoviglie in legno,
si pensa che la produzione di ceramiche di Voghera fosse destinata non solo al
mercato locale, ma anche all’esportazione.
Fornace per la cottura della ceramica
MONETE DA VARIE COLLEZIONI
DI CASTEGGIO
BESTETTI BORELLA BRELLA CALLEGARI-GIULIETTI DI FAZIO
Le monete esposte provengono da diverse collezioni private, donate in passato al comune di Casteggio. Alcune tra esse sono di epoca romana (donazione
Di Fazio), la maggior parte sono da riferire all’età romana imperiale (Bestetti,
Borella, Brella, Callegari-Giulietti).
Soltanto tre sono più tarde, della seconda metà del XV sec. d.C. e sono state
emesse da Ferdinando I e Federico III di Aragona, in Italia Meridionale.
Come la maggior parte del materiale di collezione, la scelta delle monete corrisponde a un gusto estetico-antiquario; così tra il materiale donato al Comune
di Casteggio non si trovano serie complete, ma solo alcuni esemplari scelti sulla base dei gusti personali del collezionista, o in base a ciò che si trovava sul
mercato.
Non si sa esattamente la provenienza delle monete che qui vedete. Si suppone, per quelle della collezione Callegari-Giulietti, che siano state trovate a Casteggio alla fine dell’Ottocento.
Monete romane imperiali
CARLO GIULIETTI 1825-1909
E LE DONAZIONI DI PRIVATI
AL COMUNE DI CASTEGGIO
“…lo scopo del libro è, narrando le cose del passato, di affezionare i propri compaesani al paese, e a volerne seriamente il maggior bene presente e a venire.”
Così scriveva Carlo Giulietti, illustre studioso e politico dell’Oltrepò Pavese.
Nato a Casteggio nel 1825 da una famiglia di origini piemontese, intraprese gli
studi di Giurisprudenza all’Università di Pavia, dove fu alunno del Collegio Ghislieri, e dove si laureò nel 1850. Tornato al paese d’origine, vi iniziò una fervida attività politica che lo portò a rivestire diverse cariche tra cui quella di Sindaco tra il 1856 ed il 1860. Gran parte della sua attività fu dedicata al miglioramento del benessere sociale dei cittadini.
Di particolare interesse in rapporto alla sua attività collezionistica è la carica di
Ispettore agli Scavi, che si svolsero durante la sua amministrazione per la rettifica del Coppa e per la costruzione della stazione ferroviaria, mettendo in luce
numerosi reperti di età romana e pre-romana. Il materiale recuperato confluì in
collezioni locali e nella sua raccolta personale oggi divisa tra i musei di Pavia e
di Casteggio, che comprende materiali diversi, dalla preistoria alla tarda romanità.
Pur con un approccio dilettantesco, il Giulietti scrisse numerose opere riguardanti Casteggio, il Vogherese e la storia dell’Oltrepò in genere, fermo al principio secondo il quale il culto del passato non dovesse essere privilegio di studiosi, ma “compito di tutti i cittadini, perché ognuno deve concorrere nella propria sfera di azione all’opera di conservazione dei monumenti patrii”.
Qui è esposta una parte della Collezione Giulietti, donata dagli eredi Callegari al
Comune di Casteggio. La sua importanza, così come quella di altri lasciti fatti
da privati nel corso degli anni, sta nel fatto che si tratta di oggetti romani di provenienza locale.
Le altre collezioni, Patrucco, Cavagna e Lainati comprendono, invece, materiali
tra loro diversissimi. Questo dipende dagli interessi personali dei singoli, che
hanno raccolto, forse durante i loro viaggi, i manufatti archeologici che maggiormente rispondevano al loro gusto personale. Così si sono formati nuclei particolari: uno composto esclusivamente da pesi da telaio e oscilla in ceramica comune, un altro da oggetti di un certo pregio provenienti dall’Italia centrale e meridionale, un altro ancora costituito quasi interamente da balsamari, interi o
frammentari, in ceramica a vernice nera.
Da C. Giulietti, “Casteggio: notizie storiche. Parte II. Avanzi di antichità”,
Voghera, 1893.
LE VILLE RUSTICHE
La villa rustica fu un modello insediativo molto importante per le campagna nel
mondo romano. Ebbe diffusione vastissima specialmente nelle zone periferiche
e provinciali dell’impero. Anche in Italia settentrionale l’impianto delle ville rustiche, generalmente poste all’interno delle maglie della centuriazione e comunque collegate da percorsi viari ai centri principali, rappresentò un fenomeno importante sia per l’economia che per il popolamento.
Dal punto di vista architettonico la villa rustica si articola in due parti, denominate con i termini latini di pars urbana o dominica, cioè il quartiere residenziale, e pars rustica, cioè la zona produttiva.
La pars urbana è l’abitazione del dominus; presenta quindi raffinati caratteri residenziali. Rispetto a quella rustica è edificata con materiali più pregevoli e duraturi. Si articola in ambienti di rappresentanza e vani a destinazione privata,
comprende stanze per gli ospiti. Talora si arricchisce di terme, complete di tutti i servizi, di edifici per il culto.
La pars rustica comprende tutte le strutture necessarie al funzionamento produttivo della villa, spesso distribuite in blocchi separati attorno a una grande
corte (su un lato della quale poteva affacciarsi anche la pars urbana). Vi sono i
depositi per gli attrezzi agricoli, i magazzini per i prodotti lavorati e semilavorati, gli impianti di lavorazione per i prodotti stessi (per la macinazione del grano,
la spremitura delle olive e dell’uva), le stalle e i recinti per gli animali, le infrastrutture per il rifornimento idrico (pozzi, cisterne, vasche), talora piccole fornaci o fucine, per sopperire alle più immediate esigenze interne. Vi sono poi gli
alloggi per gli schiavi; un’abitazione più confortevole è talvolta riservata al procurator, figura corrispondente al nostro fattore. Concettualmente e funzionalmente, infatti, la villa rustica può essere paragonata alle grandi tenute agricole
che dominavano in tempi non molto lontani le campagne, che comprendevano
la casa padronale, le abitazioni per i contadini, le stalle, i magazzini e gli ambienti di servizio.
Dal punto di vista costruttivo la pars rustica corrisponde a criteri di economia e
praticità: è quindi edificata con materiali non pregiati e con tecniche povere.
LA CONSERVAZIONE DEGLI ALIMENTI
NEL MONDO ROMANO
Il problema della conservazione degli alimenti fu molto sentito nell’antichità. In
assenza di sofisticati mezzi di refrigerazione, furono trovati diversi espedienti
che garantivano che i prodotti della terra, una volta raccolti, non si deteriorassero e fossero protetti dall’umidità e dall’azione degli agenti atmosferici.
Nel mondo romano esistevano luoghi nei quali venivano poste derrate alimentari in grossa quantità, di tipo diverso in base agli alimenti che vi erano conservati. Il grano e i cereali, per esempio, una volta essiccati, si mantenevano piuttosto bene ed erano abbastanza protetti dai parassiti. Nelle città principali esistevano dei granai, probabilmente muniti di veri e propri silos a fossa, che servivano anche come luoghi di distribuzione alla popolazione.
Dallo storico Livio sappiamo che, all’arrivo di Annibale in Italia Settentrionale,
Casteggio era un horreum, cioè un deposito granario, dei Romani e che il condottiero cartaginese se ne impossessò per sfamare le sue truppe di stanza al
Trebbia.
Ma di questo non abbiamo tracce archeologiche.
Nelle fattorie, nelle ville rustiche e nelle abitazioni private, esistevano magazzini di dimensioni ridotte e proporzionati alle esigenze. Spesso ci si serviva di
contenitori in argilla, i dolia, di dimensioni notevoli, che venivano interrati e che,
una volta chiusi, garantivano la protezione del cibo. Non è raro il rinvenimento
di questi grossi recipienti in Oltrepò. Nella maggior parte dei casi sono stati trovati frammentari, in qualche circostanza fortunata interi e proprio nel luogo nel
quale erano stati interrati in età antica, come nel caso del dolio di Broni. Per le
loro caratteristiche di robustezza e anche poiché erano interrati nel terreno che
li proteggeva, non si rompevano tanto facilmente ed erano usati per lunghi periodi di tempo, talvolta anche per secoli.
Dolia interrati
IL TRASPORTO DEGLI ALIMENTI
I contenitori da trasporto per eccellenza delle derrate alimentari nel mondo romano, erano le anfore. Si trattava di “vuoti a perdere”, in quanto i recipienti, una
volta svuotati del loro contenuto, non venivano restituiti ai loro produttori.
Frammenti o, nei casi più fortunati, esemplari interi, si trovano comunemente
negli scavi. Spesso le anfore venivano riutilizzate nella parte interna delle murature delle case, nei drenaggi di spazi coperti o scoperti, o addirittura come
sepolture nelle necropoli.
Sono manufatti fondamentali per ricostruire la storia dei commerci nel mondo
antico in quanto spesso è possibile individuarne la zona di provenienza, se non
addirittura, nel caso di esemplari recanti il bollo di fabbrica, l’officina di produzione. Inoltre, in diversi casi, è stato possibile associare una forma a un particolare tipo di contenuto (generalmente vino, olio o salse di pesce, ma anche
cereali): quindi dal tipo di anfora è possibile riconoscere il prodotto che vi era
trasportato.
Le anfore erano lavorate al tornio, generalmente in impianti di produzione vicini a fondi agricoli. Il contenuto di ciascuna anfora doveva rispettare le unità di
misura vigenti all’epoca (in media tra i 19 e i 26 litri cioè un quadrantal o amphora); la parte finale a punta consentiva la stabilità dei recipienti nelle cantine
e nelle navi da carico. Talvolta all’interno si trovano tracce di resine di pino, una
sorta di impeciatura che tappezzava le pareti, le rendeva impermeabili e dava
profumo al vino. Dopo essere state riempite le anfore erano chiuse con tappi
di argilla e sigillate con calce. Questi contenitori erano trasportati per via marina o fluviale, meno frequentemente per quella terrestre: le stive delle imbarcazioni, potevano contenere un maggior numero di anfore rispetto ai carri, inoltre
i commerci via terra erano molto meno economici.
A Casteggio e in Oltrepò, come in quasi tutta l’Italia Settentrionale, durante l’età
romana, la maggior parte dei prodotti proveniva dalla zona adriatica e quella tirrenica. Il trasporto avveniva verosimilmente tramite il Po e i suoi affluenti, navigabili in epoca antica e la via Postumia. Sono attestati anche trasporti di prodotti da terre più lontane: le salse di pesce dalla Spagna, alcuni vini pregiati dalle isole greche e, nel periodo tardo antico, olio dall’Africa e vino dall’Oriente.
Invece i prodotti agricoli del territorio, consumati in zona, venivano posti all’interno di contenitori in materiale deperibile (quali botti in legno) o di anforette
di piccole dimensioni a fondo piatto.
LE CASE DI ETÀ ROMANA
Le murature degli edifici di età romana nella zona dell’Oltrepò Pavese erano prevalentemente costruite in laterizi, interi o frammentari, con l’impiego di pietre
locali e ciottoli.
Negli scavi archeologici i muri si rinvengono per lo più a livello di fondazioni; solo in qualche caso sono conservati resti dell’elevato, che ha subito gli effetti delle spoliazioni antiche e della distruzione del tempo.
In molti casi poi l’alzato dell’edificio era costituito da intelaiature lignee rivestite da argilla cruda, materiali deperibili che lasciano scarse tracce. Recenti scavi provano un’ampia diffusione nell’area padana di questa tecnica edilizia.
La parete era rivestita di intonaco, talora colorato e decorato, o di lastre marmoree, negli edificio più lussuosi. A Casteggio e nell’Oltrepò Pavese è abbondantemente documentato l’utilizzo dell’intonaco colorato. Rare, invece, sono le
attestazioni di decorazioni in stucco, solitamente usato per le corniciature.
Vari sono i tipi di pavimentazioni testimoniati nella zona: il materiale impiegato
ha una stretta relazione con l’utilizzo dell’edificio o dell’ambiente.
Negli edifici rustici o nei vani di servizio delle case sono documentati prevalentemente semplici battuti di argilla o battuti più compatti, formati da minuti frammenti di laterizi misti a ghiaino. All’interno delle case, e specialmente nei vani
di rappresentanza e di prestigio, si riscontrano pavimenti realizzati con materiali durevoli e spesso pregiati: mattonelle rettangolari disposte a spinapesce, piastrelle esagonali, cocciopesto (un composto di calce e di frammenti di laterizio), tessere di mosaico.
Pavimento a mattonelle esagonali
GLI IMPIANTI DI RISCALDAMENTO
Il sistema di riscaldamento nelle case faceva largo uso di elementi fittili. Mattoncini di forma quadrata o cilindrica (con un diametro di circa 20cm. e altezza variabile), impilati a formare sorte di colonnine, sorreggevano un pavimento
sospeso (suspensurae): gli spazi vuoti tra le colonnine consentivano la circolazione d’aria calda, che veniva immessa da un focolare sotterraneo (praefunium). Il passaggio dell’aria calda, e del fumo, attraverso le pareti avveniva mediante condotti formati da elementi fittili rettangolari (tubuli), con solchi incisi
sulla superficie per favorire l’adesione della malta. Lo stesso sistema di riscaldamento era utilizzato negli edifici termali.
Città di Casteggio
Culture Identità e Autonomie
della Lombardia
Soprintendenza Archeologica
della Lombardia
Civico Museo Archeologico
di Casteggio e dell’Oltrepò Pavese
Coordinamento scientifico:
Rosanina Invernizzi, Laura Vecchi, Raffaella Fasani
Restauri:
Lucia Miazzo, Patrizia Schievano, Restauri Formica, Ambra,
Laboratorio della Soprintendenza Archeologica della Lombardia
Fotografie:
Eugenio Marchesi,
Archivio della Soprintendenza Archeologica della Lombardia
Testi a cura di
sezione paleontologica:
Giacomo Anfossi, Giuseppe Brambilla, Ferruccio Stella
sezione preistorica:
Laura Simone
sezioni romana, tardoantica, medioevale e collezionismo:
Maria Grazia Diani, Raffaella Fasani, Maria Elena Gorrini,
Rosanina Invernizzi, Silvia Marchese, Marta Spini, Laura Vecchi,
Gruppo Archeologico Milanese
Hanno reso possibile l’allestimento:
Mario Losardo, Paolo Pasotti, Edoardo Riccardi, Oreste Ricci,
Vittorio Bottazzi, Carla Morini, Pierluigi Girani
Grazie per i contributi a:
Sistema Bibliotecario Integrato dell’Oltrepò Pavese
Fondazione Comunitaria della Provincia di Pavia ONLUS
piano terra
Percorso
espositivo
1º piano
Città di Casteggio
Culture Identità e Autonomie
della Lombardia
Soprintendenza Archeologica
della Lombardia
Civico Museo Archeologico
di Casteggio e dell’Oltrepò Pavese
Coordinamento scientifico: Rosanina Invernizzi, Laura Vecchi, Raffaella Fasani
Restauri: Lucia Miazzo, Patrizia Schievano, Restauri Formica, Ambra, Laboratorio della Soprintendenza Archeologica della Lombardia
Fotografie: Eugenio Marchesi, Archivio della Soprintendenza Archeologica della Lombardia
Testi a cura di
sezione paleontologica: Giacomo Anfossi, Giuseppe Brambilla, Ferruccio Stella
sezione preistorica: Laura Simone
sezioni romana, tardoantica, medioevale e collezionismo: Maria Grazia Diani, Raffaella Fasani, Maria Elena Gorrini, Rosanina Invernizzi,
Silvia Marchese, Marta Spini, Laura Vecchi, Gruppo Archeologico Milanese
Hanno reso possibile l’allestimento:
Mario Losardo, Paolo Pasotti, Edoardo Riccardi, Oreste Ricci, Vittorio Bottazzi, Carla Morini, Pierluigi Girani
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