Roberto Weitnauer 26 maggio 2007 (14061 battute – 5 pagine scritte) www.kalidoxa.com Pubblicato, diritti riservati - Nuovi neuroni per imparare da adulti come da bambini Un lavoro riportato un paio di giorni fa dalla rivista “Neuron” rivela che un cervello adulto può probabilmente potenziare le proprie facoltà di apprendimento quando produce cellule rinnovate in alcune sue regioni. Queste ricerche sono un’evoluzione degli studi che negli ultimi anni hanno sconfessato il “dogma centrale della neurofisiologia” il quale affermava che nuove cellule cerebrali non possono formarsi dopo la nascita. Il recente studio mostra che le cellule neogenerate non si limitano a sopperire alle perdite causate dall’invecchiamento. Viene infatti rilevato ch’esse contribuiscono a conferire alle reti nervose una capacità di tessere connessioni che è analoga a quella riscontrabile in un cervello immaturo e fortemente orientato all’apprendimento. Pochi giorni fa è stata resa nota un’importante scoperta compiuta alla Johns Hopkins University di Baltimora relativamente al funzionamento del cervello adulto. Il gruppo di ricercatori diretto da Hongjun Song (di origine cinese) ha appurato che la comparsa in esso di nuove cellule (neuroni) può reiterare facoltà di apprendimento simili a quelle dell’età verde, finora ritenute pressoché irripetibili. Si può dire che questo studio sia l’ultimo gradino di un’escalation di conoscenze che da circa dieci anni a questa parte stanno rivoluzionando gli studi sul substrato cerebrale di alcune specie superiori e, in particolare, del genere umano. La notizia, per la particolarità della materia trattata, merita un minimo approfondimento. Bisogna intanto chiarire che nella nostra testa c’è una fitta rete di neuroni interconnessi che veicolano segnali in base a un processo caratteristico e ricorrente. Gli impulsi che passano nelle reti cerebrali hanno ovunque una natura elettrochimica e vengono condotti lungo le diramazioni dei neuroni (dendriti e assoni) e anche inoltrati da un neurone all’altro mediante un interfacciamento di quelle stesse diramazioni. Il sistema di connessione prende il nome di “sinapsi”. All’interno di ogni sinapsi alcune speciali sostanze chimiche, dette “neurotrasmettitori”, lasciano le estremità di un neurone per avventurarsi nello spazio intracellulare superato il quale raggiungono le propaggini di un altro neurone. Sulla sponda di destinazione si trovano i cosiddetti “recettori”. Sottili modifiche biochimiche in questi apparati fanno sì che una sinapsi si rafforzi o s’indebolisca nel corso del tempo. Tale dinamica connettiva dipende da vari fattori molecolari, ma in senso generale è fortemente influenzata dalla frequenza e dalle modalità temporali con cui passano gli impulsi. È tramite una modifica delle sinapsi che le reti neurali possono in 1/8 determinate condizioni scavarsi i propri tracciati. La modulazione sinaptica e il conseguente modellamento circuitale delle reti è un fenomeno straordinario e affascinante che sta al cuore del funzionamento del cervello e che viene definito col termine intuitivo di “plasticità neurale”. È proprio sulla plasticità delle reti che la scoperta di Baltimora ha delle ricadute significative. Per capire il progresso in atto occorre fare un passo indietro nella storia delle neuroscienze. Per lungo tempo si è dato per certo che in un cervello adulto non sussistesse neurogenesi, cioè che le cellule nervose sopravissute al logorio degli anni e ad altre ingiurie dovessero per forza di cose costituire una porzione residua di quelle presenti alla nascita. La convinzione che nuovi neuroni non potessero fare la loro comparsa dopo la nascita e, a maggior ragione in un cervello adulto, risale ai tempi di Ramón Santiago y Cajal (1852-1934), un neuroistologo di fama mondiale che a cavallo degli ultimi due secoli ha segnato la storia dello studio dell’encefalo umano. Quello avanzato dallo studioso spagnolo era un “credo” ch’egli non intendeva necessariamente come insuperabile, ma che risultava talmente avvalorato dalle osservazioni sperimentali e così ben sostenuto da Cajal stesso e da altri insigni studiosi (come l’italiano Giulio Bizzozero) ch’esso finì per radicarsi nella comunità degli specialisti nelle vesti di “dogma centrale della neurofisiologia”. Il termine è in fondo ambiguo, giacché un dogma in quanto tale è di per sé qualcosa di ben poco scientifico (la scienza evolve in continuazione e non è mai dogmatica); ma è anche vero che la severità di quel termine sembrava rispecchiare un principio neurale inoppugnabile. Successivamente, gli studiosi del campo hanno altresì pensato che la capacità dei neuroni di stabilire nuove connessioni (sinapsi) o di modificarle sotto l’influsso degli stimoli esterni - ovvero la plasticità neurale - fosse destinata a venire meno con la fine dello sviluppo e con la conseguente maturazione del cervello. L’esaurita plasticità neurale e la mancata proliferazione di cellule nervose cerebrali nel corso della vita adulta si coniugavano in modo logico agli occhi degli scienziati, ben riflettendo l’evoluzione individuale di animali complessi e anche degli umani, almeno nei limiti di quanto allora si poteva osservare su scala comportamentale e neurobiologica. In particolare, ne derivava una coerente interpretazione del fenomeno noto come “imprinting” e che corrisponde nelle forme di vita più evolute a un tipo di apprendimento molto speciale: un’acquisizione di conoscenze precoce, profonda e limitata a precise finestre di tempo, chiamate “periodi critici”. Secondo tale interpretazione gli stimoli iniziali provenienti dal mondo esterno sviluppano e imprimono le reti plastiche di ogni soggetto giovane, modellandole come se fossero di creta. In un secondo tempo, terminati i suddetti periodi critici dello sviluppo e affinati i percorsi di elaborazione nervosa, le reti cerebrali si cristallizzano in un assetto rigido e definitivo, come creta che si rapprende, a garanzia di risposte veloci e sicure in un ambiente oramai non più filtrato dai genitori. A quel punto gli stimoli non sono più in grado d’indurre modifiche profonde e le reti vanno 2/8 inesorabilmente incontro a un accumulo di guasti dovuti al degrado temporale, cioè alla perdita dei neuroni componenti. Né la continua crescita di cellule nervose, né il permanere delle reti neurali in condizioni di variabilità pronunciata sembravano nei decenni scorsi compatibili col raggiungimento di quell’organizzazione neurale affidabile richiesta per garantire all’adulto reazioni ad hoc alle condizioni della vita. Era del resto ben noto che i cervelli avessero alla nascita una dotazione di base soprannumeraria, destinata ad assottigliarsi presto, a causa della scomparsa di tutti i neuroni incapaci di prendere parte stabilmente a un’attività di rete. Qualcuno parlava di una specie di “selezione darwiniana” dei neuroni nell’habitat cerebrale. Per altri versi, proprio la rigidità terminale delle reti nervose dell’adulto veniva considerata come il sintomo di una loro incapacità di evolvere ulteriormente sotto la spinta degli stimoli e di ovviare alle inefficienze sopravvenute con l’invecchiamento. In altre parole, l’idea dei neuroscienziati era fino all’altroieri questa: l’orientamento di ogni nuovo cervello verso una configurazione matura e stabilmente calibrata dalle esperienze giovanili si deve pagare col prezzo di un iniziale consumo di cellule ridondanti e di un successivo decadimento neurobiologico. Oggi questi principi non possono più intendersi alla stregua di un “dogma”. Essi conservano un loro indubbio valore, giacché il declino cerebrale con gli anni è un fatto statistico innegabile. Altrettanto evidenti sono i periodi critici in molti animali e anche nell’essere umano. Tuttavia, le leggi neuroevolutive che un tempo erano intese in senso radicale oggi devono assumersi in termini più moderati. Grazie ai miglioramenti compiuti nella ricerca, si è infatti appurato che la fisiologia di un cervello adulto è più articolata e sfumata rispetto a quanto non si credesse ai tempi di Cajal. Questo vale specialmente in considerazione delle capacità di apprendimento e adattamento che un umano può manifestare anche in età adulta e, anzi, avanzata. È questa una circostanza che attesta di una plasticità residua piuttosto insolita nell’ambito del regno vivente terrestre; ed è esattamente uno dei nostri tratti distintivi. Intanto, va chiarito che gli studi hanno mostrato che i neuroni possono benissimo ricrescere in alcune porzioni del cervello maturo. Le primissime scoperte in merito risalgono agli anni ’60, ma solo più di recente le conferme sono divenute solide. Oggi sono ben note le regioni cerebrali che sono sede di tale neogenerazione: il giro dentato nell’ippocampo (importante per certe attività mnemoniche) e il bulbo olfattivo (dove giungono i segnali relativi agli odori). È tra l’altro interessante notare che proprio il giro dentato è una delle prime parti del cervello umano a risultare colpita dall’invecchiamento (fin dall’età di trenta anni). Molte ricerche si sono concentrate negli ultimi anni su queste zone per seguire la formazione dei nuovi neuroni a partire da cellule staminali, ossia cellule progenitrici non ancora specializzate. Sono state osservate con attenzione la migrazione nelle reti neurali di queste cellule e la loro differenziazione finale. Si è così visto ch’esse hanno la notevolissima capacità di ripristinare l’assetto di una rete danneggiata. In pratica, esse possono supplire ai neuroni persi per logoramento o per altri motivi. Non tutti i 3/8 risvolti sono chiariti, ma quanto appurato basta a stabilire che in queste aree del cervello (e forse in altre) l’antico dogma neurobiologico viene decisamente smentito; e ciò sembra avvenire per il motivo più semplice e intuitivo: un’operazione di parziale rimpiazzo, come se si trattasse di ordinaria manutenzione. Fin qui è storia, più o meno recente. Quanto è emerso a Baltimora rispecchia invece una novità dell’ultima ora. Issandosi sulle spalle dei ricercatori che li hanno preceduti in questo dominio di frontiera della neurofisiologia, il gruppo di Hongjun Song ha compiuto un ulteriore passo nella comprensione dell’evoluzione cerebrale di un individuo adulto. Gli scienziati di Baltimora hanno seguito passo per passo le cellule nervose neogenerate, studiandone il comportamento sin nei più minuti dettagli molecolari: hanno impiegato un virus per marcarle selettivamente con una proteina fluorescente e poi ne hanno saggiato le proprietà elettrochimiche a differenti istanti di tempo. Così facendo, hanno realizzato che i nuovi neuroni che compaiono in un cervello maturo non si limitano a sostituire le unità perse per logoramento. Essi hanno infatti prerogative similari a quelle dei neuroni presenti in un cervello immaturo: sono plastici per un po’, poi tendono a cristallizzarsi. Inoltre, gli scienziati hanno potuto considerare che la plasticità è assicurata dalla presenza di un recettore tipico che nei piccoli di molti animali superiori, uomo compreso, è associato ai processi di apprendimento precoce. In sostanza, grazie alla neurogenesi che avviene in talune porzioni del substrato cerebrale, non solo una rete adulta può difendere la configurazione faticosamente conquistata con l’esperienza dal depauperamento indotto dagli anni, ma risulta anche temporaneamente suscettibile di espandersi e modellarsi, esattamente come accade nel cervello di un bambino che nei periodi critici divori cognizioni e acquisisca particolari competenze e abilità (come imparare una lingua o suonare uno strumento). A questo proposito è anche importante sottolineare che la generazione di nuove connessioni (sinapsi) è più importante del mero numero di neuroni: un cervello in declino numerico non è necessariamente minato nella sua funzionalità, purché colleghi maggiormente i neuroni che gli restano disponibili. Questa plasticità si apprezza bene nel caso di recupero da ictus o altre offese cerebrali: alcuni neuroni muoiono, ma quelli vicini sono talora in grado di vicariarli piuttosto bene, riorganizzando spontaneamente i propri mutui ruoli, previa modifica dei collegamenti in parte danneggiati. Naturalmente, in tutto questo risultano determinanti gli stimoli esterni. Come infatti si accennava, la formazione di sinapsi è favorita dalla reiterazione dei segnali e questi ultimi non sussistono se non sussiste informazione ambientale da elaborare. Ricordiamo anche al riguardo che un cervello grande e ricco di neuroni non è necessariamente più complesso di un cervello piccolo e con meno cellule nervose. Questo vale sia in termini intraspecifici (nell’ambito di una specie) che interspecifici (confrontando le specie). Forse il cervello di qualche dinosauro occupava più spazio 4/8 di quello di un criceto, ma senz’altro quest’ultimo è più interconnesso e quindi più sofisticato. La scoperta compiuta a Baltimora lascia intendere che il rimpiazzo e la rinnovata (sia pura circoscritta e temporanea) plasticità neurale vadano considerati come un aspetto integrato del mantenimento di un cervello che deve elaborare con efficacia gli stimoli di un ambiente anch’esso sempre in evoluzione. Il fenomeno della neurogenesi, che ovviamente deve essere ulteriormente approfondito, rende conto della straordinaria complessità del tessuto neurale che si regge nel tempo su un gioco contrapposto di sviluppo e depauperamento o di modellamento e irrigidimento. Verrebbe quasi da dire che le reti neurali devono cambiare per restare il più possibile quello che sono, cioè reti attive, e, comunque, per garantire la funzionalità di un complesso sovraordinato quale è il cervello preso in toto o addirittura l’organismo che ne è governato e che si riproduce, facendo ereditare tali proprietà nervose ai suoi discendenti. In conclusione, quanto scoperto a Baltimora non serve ancora per l’elisir di lunga vita: un individuo al di sopra dei settant’anni perde sino a 100.000 neuroni al giorno e non può pretendere d’imparare come nell’infanzia. Tuttavia, questa bella ricerca ci conferma sin nel dettaglio molecolare quanto per la salute mentale siano a ogni età cruciali gli stimoli, quelli che pilotano la plasticità neurale che, ora lo sappiamo, può essere sostenuta almeno in parte nel corso dell’intera vita. C’è nella nostra testa una risorsa biologica che provvede ad alcuni rimpiazzi del materiale esausto, per così dire, ma che contestualmente predispone l’individuo ad apprendere sempre, modificando un po’ la sua circuiteria interna anche molti anni dopo la gioventù. È un pezzo aggiuntivo nel puzzle scientifico che concorre a spiegarci come grandi personaggi storici, quali ad esempio Leonardo o Michelangelo, abbiano potuto produrre risultati unici e persino superiori nella loro terza età. Dopotutto, una volta che ci sia una buona dotazione di base e la fortuna di un’esistenza ricca di stimoli, questi non sono fatti poi così eclatanti. E allora, se crediamo nel libero arbitrio, siamo noi che dobbiamo adoprarci nella ricerca di esperienze sempre rinnovate. Roberto Weitnauer 5/8 Alla data d’inserimento di questo articolo i seguenti link mostravano filmati didattici relativi ai neuroni e alle sinapsi: http://www.sapere.it/mm/medicina/objects/sinapsi.rm (italiano) http://www.youtube.com/watch?v=YwN9aCobCy8&mode=related&search= http://video.google.com/videoplay?docid=9175004420863607286&sourceid=searchfeed (inglese) http://www.youtube.com/watch?v=CtOomtBdfkE (inglese) http://www.youtube.com/watch?v=ysDGX6bOgAw&mode=related&search= (inglese) http://www.youtube.com/watch?v=ZPlRm2Fp3Zs&NR=1 (inglese) http://www.youtube.com/watch?v=JLKf6q-1kWU&mode=related&search= (inglese) Un neurone nel tessuto neurale; sono evidenziati il nucleo della cellula, l’assone, la copertura mielinica, i dendriti e le sinapsi: http://www.citesciences.fr/francais/ala_cite/expo/tempo/defis/lexique/Site/upload/media/320/grand/03_neurone.jpg 6/8 Struttura interna di un neurone tipico: http://www.psico.unitn.it/didattica/corsi/50042/schena/img/lezione2/neurone-tipico.jpg 7/8 Neurone dell’ippocampo cui viene fatta esprimere una proteina fluorescente: http://strangepaths.com/wp-content/uploads/2006/10/neuron.jpg Il Dr. Hongjun Song: http://www.nibs.ac.cn/english/images/news/20060324/20060324_02.jpg 8/8