Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
65
ANNO
Rocca
15 dicembre 2006
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
4
7
e 2,00
sommario
11
13
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16
Onu sul clima America latina: Ciò che muore e ciò che nasce
Sviluppo, beni collettivi, servizi
Inedito: Un incontro con Pier Paolo Pasolini
NUMERO
24
I costi della politica Quel rametto di pazzia
Metamorfosi dell’anti-semitismo
Etica senza Dio Rocca 2006: Indice per Autori
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15 dicembre
2006
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belli
e cattivi
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
n24a.pm6
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ISSN 0391 – 108X
24
42
46
21/11/2006, 15.15
Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
L’obbligo del servizio
48
50
53
Maurizio Salvi
America latina
Ciò che muore e ciò che nasce
54
Filippo Gentiloni
Politica italiana
Quel rametto di pazzia
54
Fiorella Farinelli
Welfare familiare
Un po’ di soldi, ma a chi?
55
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
I costi della politica
Laura Pennacchi
Un diverso modello di sviluppo/5
Sviluppo, beni collettivi, servizi
Pietro Greco
L’Onu sul clima
Il bicchiere mezzo pieno
Giuliano Della Pergola
Società
Metamorfosi dell’anti-semitismo
Oliviero Motta
Terre di vetro
Domani è un altro giorno
Rosella de Leonibus
Violenza
Belli e cattivi
Giuseppe Moscati
Maestri del nostro tempo
Jürgen Habermas
Etica e politica a lezione d’inclusione
Romolo Menighetti
Parole chiave
Tasse
Giancarlo Zizola
Inedito
Un incontro con Pier Paolo Pasolini
Carlo Molari
Teologia
Una ricerca chiamata Gesù
55
56
56
57
63
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
La solitudine di Dio
Lilia Sebastiani
Il concreto dello Spirito
Etica senza Dio
Giacomo Gambetti
Cinema
Ricorsi storici
Belle toujours
Babel
Roberto Carusi
Teatro
Lezioni mancate
Renzo Salvi
Rf&Tv
Sottocasa
Mariano Apa
Arte
Viani
Alberto Pellegrino
Musica
Calypsos di De Gregori
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Internet democratica?
Libri
Rocca 2006
Indice per Autori
Nello Giostra
Fraternità
➨
l’articolo
etica senza Dio
Lilia
Sebastiani
rediamo e ci auguriamo che fiorisca un dibattito fecondo intorno al
libro recentemente pubblicato di
Eugenio Lecaldano, Un’etica senza
Dio (Laterza 2006).
Questa è una semplice riflessione a partire dal libro. Aggiungiamo, per onestà: una riflessione da credente. Non credo
che della propria identità credente sia possibile svestirsi a comando; credo però che si
possa essere credenti senza vivere la propria
fede e la vita stessa nel modo irrazionale, puerile/arrogante e un po’ magico che è inteso
dall’etica laica, e tuttavia riconoscere nella
storia vissuta delle religioni – anche del cristianesimo – un appiglio reale alle critiche.
Ci torna alla mente una frase, di Gianni Vattimo forse: «Sono ateo grazie alla morale cristiana».
C
una riflessione in divenire
ROCCA 15 DICEMBRE 2006
Nonostante le incomprensioni, è un promettente segno dei tempi il fatto che si delinei il
bisogno di un’etica in cui tutti possano ritrovarsi, a prescindere dalle scelte di fede o di
non-fede. Negli ultimi decenni sono venuti
alla luce vari saggi sullo stesso tema del libro
di Lecaldano, o molto vicini. In Italia, il più
affine potrebbe essere Etica senza fede di Paolo Flores d’Arcais (1991): in quel caso, non
riflessione filosofica sui fondamenti, ma a
partire da temi di attualità, quali la democrazia, l’ammissibilità della guerra, la dottrina
sociale cristiana. Va ricordata, come onesta e
interessante e assai più ‘auto-trascendente’
che non sembri, anche la posizione di Salvatore Natoli, da lui denominata etica del finito
o etica neopagana, idealmente collegata con
le più nobili esperienze della cultura greca.
Qualche anno fa è stato pubblicato in Italia
il libro di Richard Holloway, Una morale senza Dio. Per tener fuori la religione dall’etica
(trad. it. Ponte alle Grazie, Firenze 2001), che
però non possedeva forse né la saldezza d’impianto né l’efficacia comunicativa di quello
di cui ci occupiamo. In ambito cristiano e
teologico, quantunque l’angolatura risultasse piuttosto diversa, non si può trascurare il
libro di Hans Küng, Progetto per un’etica
mondiale. Una morale eumenica per la sopravvivenza umana (trad.it. Rizzoli, Milano 1991).
Suscitò grande interesse al suo apparire, una
certa delusione subito dopo, non perché dicesse qualcosa di criticabile, ma perché sembrava mancare il bersaglio della ‘mondialità’: infatti il progetto di morale ecumenica
risultava in sostanza, come fu obiettato da
molti, un’etica riconoscibilmente giudeocristiana, quantunque depurata.
Il problema di un’etica senza dèi è antico. Già
Platone, in uno dei suoi dialoghi si chiedeva
– pur accettando che i comandi di un dio
fossero buoni – se erano da considerarsi buoni perché un dio li aveva posti, oppure se il
dio li aveva dati agli uomini proprio perché
erano in sé buoni.
Il saggio di Lecaldano si presenta come «un
libro filosofico» (non quindi di politica, di
sociologia, di teologia): un libro che vuole
solo aiutare a riflettere. Premessa modesta e
ambiziosa insieme, che dilata la portata del
lavoro nell’atto stesso in cui sembra delimitarla. È notevole questa nuova-antica centralità assegnata alla filosofia nell’esperienza
umana, il fatto che le venga affidato il compito di costruire un modello di mondo che
possa andar bene per tutti.
L’autore si rifà al pensiero dei secc. XVII-XIX
(soprattutto Hume, Kant e Stuart Mill), pur
non trascurando gli autori contemporanei.
In questo senso si potrebbe osservare che
anche il suo fondamento non è universale
né universalizzabile, perché vi è comunque
riferimento all’esperienza e allo stile argomentativo dell’Occidente, in cui forse una
persona appartenente a tutt’altro orizzonte
culturale non si ritroverebbe. Ma non possiamo prescindere dalle nostre radici, anche
se dobbiamo cercare di non assolutizzarle:
allo stesso modo sento la difficoltà di parlare come ‘credente’ in astratto, senza far riferimento al cristianesimo.
solo l’ateo è ‘morale’?
La parte argomentativa del libro è breve –
non più di una cinquantina di pagine –, seguita da una rassegna antologica di classici
del pensiero laico o razionalista e chiusa da
una bibliografia ragionata.
La parte che più sollecita il lettore è comunque quella argomentativa, divisa in due sezioni: una pars destruens e una pars costruens,
quale etica, quale Dio
Essere credenti semmai fa risuonare una
corda aggiunta alla nostra umana responsabilità.
È poco cristiano fare il bene o evitare il male
solo per evitare un castigo o per ‘guadagnarsi’ la ricompensa eterna, quasi che la Vita
eterna potesse essere lucrata o meritata,
mentre è interamente dono dell’amore di Dio.
E il Dio in cui crediamo non è nostro monopolio e pascolo riservato, non ci chiede di
esibire pass, e non ci sottopone a test su quantità e qualità e denominazione di origine controllata della nostra fede. Il suo ‘giudizio’ è
sull’amore, molto diverso dai giudizi a cui ci
ha abituato l’esperienza storica.
Fondamenti a parte, chi è che ‘fa’ l’etica cristiana? Tra i teologi si incontrano posizioni
molto differenziate, in certi casi aperte e profetiche, in altri troppo caute e agganciate al
dettato magisteriale, in altri ancora alla difficile ricerca di un equilibrio che può assumere venature di ambiguità, e anche di compromesso; ma l’etica a cui guarda Lecalda-
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n24b.pm6
no, come molti altri atei illuminati, non sembra quella dei moralisti, chiusi o aperti o ‘semiaperti’ che siano, piuttosto quella delle voci
ufficiali e autorevoli della chiesa, quella che
trova un’eco sui mezzi di informazione.
Se si dovesse muovere al libro un appunto
‘intellettuale’, sempre relativo, sarebbe proprio quello di guardare a un’idea molto datata del cristianesimo, e anche della teologia
(di cui si ignorano gli sviluppi recenti) e della chiesa cattolica: il quadro implicito che
emerge – con discrezione comunque, senza
mai scadere nella caricatura o nell’attacco
polemico – sembrerebbe quello degli anni
Cinquanta.
La fede e il progresso umano sono stati spesso contrapposti (qui le responsabilità della
chiesa sono notevoli), ma hanno una radice
comune: la tendenza innata negli esseri umani ad ‘andare oltre’, in senso conoscitivo e in
senso morale. La fede, se è vera, spinge la
persona umana a dilatare all’infinito i propri
orizzonti, ad assumere anche il limite in una
prospettiva dinamica.
La stessa legge morale che chiamiamo naturale non fa riferimento a una natura immobile. Altrimenti dovremmo dire – così fa Lecaldano, seguendo Hume – che se si prendono le leggi di natura, la natura così come agisce, a fondamento dell’agire morale, non dovremmo nemmeno curare le malattie, eventi senza dubbio molto ‘naturali’. Ma la natura non è Dio; la natura è imperfetta e va aiutata, perfezionata, umanizzata.
Per fare un esempio, ha più spessore etico la
scelta di regolare in modo umano la propria
fecondità (purché, è ovvio, la spinta non sia
di piatto egoismo), mentre quella di procreare indiscriminatamente seguendo solo i
voleri spesso casuali della natura ha in sé
qualcosa di primitivo, poco assunto nella sfera della coscienza.
La società intorno a noi oggi non sembra né
cristiana né anticristiana (si sa che sono rarissimi i ‘veri atei’ nel senso storico, ottocentesco, cioè quelli che affermano la non-esistenza di Dio): semmai è una società che prescinde da Dio, atteggiamento pratico in cui
si ritrovano sia i non credenti dichiarati sia
molti che pure si dichiarano credenti, sia i
moltissimi che non si ‘dichiarano’ per niente.
Ricordiamo la formula di Dietrich Bonhoeffer dell’etsi Deus non daretur: la possibilità di
vivere autenticamente il Vangelo in un mondo totalmente secolarizzato e lontano da Dio:
«vivere in nome di Dio e di fronte a Dio senza
Dio», lo sforzo di accettare l’autonomia della
sfera umana, la ‘maggiore età’ dell’uomo.
ROCCA 15 DICEMBRE 2006
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
secondo la più classica impostazione dialettica. Gli errori presi di mira sono fondamentalmente tre: 1) quello di essere sicuri dell’esistenza di Dio; 2) quello di fondare l’etica
nel Dio in cui si crede, senza riflettere che
un’etica ancorata a un’entità sovrannaturale
sarebbe priva di autonomia; 3) quello di ritenere l’esistenza di Dio compatibile con l’esistenza del male. Nella parte propositiva, l’idea
di fondo sembra che 1) non solo può darsi
etica anche senza riconoscere nessun dio (qui
siamo d’accordo: altrimenti chi non crede
sarebbe dispensato dall’agire morale, o dovrebbe uniformarsi a dettami che gli sono
estranei), ma 2) veramente ‘morale’ può essere soltanto l’ateo. In altri termini, un’etica
non fondata su una scelta religiosa di qualsiasi genere sarebbe migliore di ogni etica a
fondamento teista, poiché in grado di distinguere tra ‘moralità’ e legge, di riconoscere la
relatività storica di tutti gli assunti morali, e
di proporre a tutti alcune regole fondamentali, tra cui quella «costitutiva della moralità
di evitare azioni che provochino a un altro
essere umano sofferenze non volute per sé».
La capacità di distinguere tra bene e male,
giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso, secondo
Lecaldano è radicata nella stessa natura
biologica degli uomini, e l’etica è solo «una
pratica volta a risolvere le questioni di interazione privata e pubblica tra gli uomini e
su questa terra». L’autore aggiunge poi che
«per il non credente, il premio per la sua condotta morale deriverà principalmente dalla
consapevolezza di aver fatto ciò che è bene,
giusto e doveroso». Crediamo che questo
valga per ogni essere umano evoluto.
un libro utile e serio
Secondo un esponente dell’Uaar (Unione Atei
e Agnostici Razionalisti), questo lavoro di
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tà si vada continuamente facendo; se essere laici significa essere antidogmatici; se il
cristiano è chiamato a vivere in uno speciale atteggiamento di ascolto dei segni, forse
per essere veramente cristiani occorre fare
spazio al ‘laico’ al proprio interno.
Del resto i dubbi e l’inquietudine che certa
tradizione cristiana ha lungamente insegnato a temere e a reprimere sono momenti di
grazia e di passaggio, segni di vitalità della
fede. Anche se magari dispiacciono alla ‘religione’. (Il libro di Lecaldano purtroppo
sembra considerare del tutto inessenziale
la distinzione tra religione e fede).
Sarebbe assurdo rifiutare o comprimere o
deformare le realtà che la teologia chiama
penultime in nome di quelle ‘ultime’: è all’interno delle prime che viviamo e operiamo, è in esse che si incarnano lo stile e la
speranza delle ‘ultime’.
Un Dio che distogliesse l’essere umano dall’amore per la vita e per gli altri, dalla responsabilità e dall’autonomia, non sarebbe
il Dio in cui crediamo. Non esiste l’alternativa radicale, l’aut-aut tra Dio e gli uomini.
Dio non vuole sottrarre niente all’uomo, non
è ostile all’autonomia, all’autorealizzazione, alla felicità, al progresso degli esseri
umani. Dio vuole che l’uomo decida del suo
destino, della sua vita inserita nella vicenda storica. L’obbedienza a Dio, non assimilabile a nessun’altra obbedienza, non si
pone in contrasto con l’autonomia e la libertà di coscienza, ma si invera e si riconosce in in esse. Una fede adulta e veramente
cristiana riconosce che Dio non solo lascia
agli esseri umani la loro libertà, ma li chiama di continuo a libertà.
Solo in questo senso posso porre Dio a fondamento della mia etica: in quanto ‘fondamento’ e senso ultimo della mia vita, della
mia speranza e della mia autonomia.
Ma questo si può dire solo ad altri credenti,
e forse non a tutti: quando vi sia la certezza
di parlare la stessa lingua.
Parlando con non credenti o diversamente
credenti (o con cristiani che non hanno
compiuto alcun cammino di consapevolezza), è meglio rispettare la loro intelligenza
e coscienza, rifarsi solo a ciò che può essere condiviso senza creare barriere ideologiche e comunicative, senza ridurre Dio a un
elemento di contrapposizione. In questo
senso anche silenzio e discrezione possono
avere un forte significato etico. Anche il credente deve vivere la morale come scelta
dell’altro, solidarietà radicale con tutte le
altre persone umane, e tanto più forse con
quelle che sente più ‘altre’.
Lilia Sebastiani
CINEMA
Giacomo Gambetti
L
’opera di Luis Buñuel
merita sicuramente
la massima considerazione, in tutto l’arco della storia del cinema. Ed è
molto bello e significativo
che un altro grande autore
di questa arte, il portoghese Manoel de Oliveira, abbia ora realizzato un film
che è una specie di continuazione di un grande film
dello stesso Buñuel Bella di
giorno (1967). De Oliveira
è un... giovane regista di oltre novant’anni – ma davvero giovanissimo di spirito e di mente – e questo
sottolinea come la coscienza storica e critica possa
essere – diremmo, soprattutto – delle persone... anziane. Probabilmente molti registi giovani, all’avanguardia e alla fama (televisiva) nei nostri giorni, ignorano o quasi sia il nome sia
le opere di Buñuel e di de
Oliveira.
Con Belle toujours (cioè
«Bella sempre») de Oliveira
sviluppa a suo modo la vicenda raccontata da Buñuel,
mantenendo pressoché inalterati i caratteri dei personaggi, e con un attore, Michel Piccoli, che è lo stesso
del primo film, mentre Catherine Deneuve non ha accettato di riprendere il ruolo che era stato suo e che,
per altro, è ottimamente ricoperto qui da Bulle Ogier.
E rimane anche, nel film di
oggi, il gioco del «mistero»
sul comportamento della
protagonista e sul complesso della situazione. De Oliveira ci ha finora condotto
a un suo cinema di carattere eminentemente letterario e psicologico e qui,
anche se il riferimento iniziale è a un altro film, il carattere letterario rimane integro, sottolineando ancora una volta l’originale peculiarità di questo grande
regista, la sua acutissima
tensione stilistica, la sua
profonda attenzione alle
psicologie e alle inquadra-
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Ricorsi storici
Belle toujours
Babel
ture.
Alejandro Gonzales Iñarritu, produttore e regista del
film americano Babel, si
muove su una strada apparentemente lontana ma in
realtà simile a quella di de
Oliveira: la strada della riflessione psicologica e culturale sul mondo in cui viviamo, mondo dell’ambiguità, dell’incertezza, del
non-dialogo, della inconsistenza realistica. Racconta
tre storie, che sono in realtà una sola, che si sviluppano nel deserto del Marocco, poi in Messico, poi
su un personaggio giapponese, vedovo con figlia. In
Marocco, in una occasionale sparatoria rimane ferita una turista americana,
e i mass-media, come si
dice, parlano immediata-
mente e ovviamente di attacco terroristico, e non
certo di un avvenimento
casuale.
Gonzales Iñarritu, infatti,
è regista fedele al concetto
del «caso» come è stato del
grande René Clair e come
è stato del notissimo e bravo polacco Krzysztof Kieslowski prima ancora del
suo famoso Decalogo. Ci
sono di mezzo due bambini marocchini, la governante dei figli della turista
ferita e il matrimonio del
figlio. Più debole e più casuale è l’inserimento tra i
personaggi della figura
giapponese. Ma quello che
conta, per il regista (autore a suo tempo di Amores
perros e di Ventuno grammi) è, anche secondo la
guida del titolo del film, la
«babele» delle lingue e dei
comportamenti, è quindi
l’incomprensione di situazioni e di pensieri che non
passano» dall’uno all’altro
nel mondo di oggi, ma rimangono circoscritti, malgrado tutto, alle proprie origini. È questo il suo pensiero di fondo cui fanno da riscontro, per altro, valide
considerazioni di carattere
sociologico e culturale. Si
può forse fare riferimento a
quel cinema di Michelangelo Antonioni che fu detto
della «incomunicabilità»,
ma ci sembra che la differenza sia nel fatto che Antonioni abbia maggiormente approfondito la cura stilistica, mentre qui è messo
in rilievo l’aspetto per così
dire logistico e comportamentale.
Quello che a noi sembra
particolarmente significativo è che Belle toujours e
Babel pur così distanti fra
loro, siano comunque tali
da porsi sul piano di un cinema di riflessione, ormai
quasi espulso dalla produzione contemporanea. Nel
privilegiare una «azione» a
tutti i costi esasperata e rumorosa, nel proporre un
ritmo di racconto sollecitato al massimo da un montaggio il più delle volte frenetico e asincronico, molto cinema di oggi sottolinea
sì, da un lato, la propria rispondenza al tempo in cui
viviamo, ma soprattutto il
disagio per non dire l’incapacità di un racconto riflessivo, disteso, pensato.
De Oliveira e Iñarritu, ciascuno coi propri mezzi, le
proprie scelte, la propria cultura, la propria età, si inoltrano sul terreno che noi preferiamo, un terreno che rifugge dalla finalità a sé stante di una corrispondenza
spesso finta al contemporaneo, e di una accettazione
pressoché chiusa, a favore
invece del capire, del confrontare, e del ragionare.
❑
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21/11/2006, 15.11
ROCCA 15 DICEMBRE 2006
ROCCA 15 DICEMBRE 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
Lecaldano non dovrebbe mancare nelle biblioteche ‘atee’ che si rispettino; io direi che
non dovrebbe mancare nemmeno in quelle
di chi crede. Anzi dovrebbe essere una lettura quasi d’obbligo, un test d’autenticità
per la qualità della propria fede e della propria etica, per uscire dalle strettoie pericolose e anti-umane dello scontro di civiltà,
dalla divisione degli uomini sulla base del
credo religioso.
Il progetto di un’etica ‘laica’ merita molto
più che semplice rispetto, ma condivisione
e collaborazione.
L’etica è lo studio razionale della vita morale dell’essere umano, di tutto quanto concerne il suo agire nel mondo: un agire libero (se non esiste libertà, non vi è possibilità
di giudizio etico), ma ‘situato’, perché ovviamente la libertà umana è sempre storico-relativa, limitata e contestuale. Ne consegue che etica non potrà che essere coraggiosamente limitata, contestuale, provvisoria. Anche per chi crede. Credere, se è autentico, non è mai uno status ma una prospettiva, un dinamismo, una responsabilità, anche uno stile, se vogliamo: ma sempre uno stile dialogico.
Un’etica che potesse essere non solo attuata, ma ‘capita’, solo all’interno di una comunità credente, non servirebbe alla crescita del genere umano. Del resto sappiamo che anche la cosiddetta comunità credente si presenta come un monolite solo
nell’immagine assai astratta che se ne fanno coloro che ne sono al di fuori: in realtà
al suo interno è molto variegata, fino alle
incomprensioni e alle contrapposizioni più
aspre.
La tolleranza che oggi sentiamo come parte integrante dell’essere cristiani riconosciamo di doverla per gran parte a correnti di
pensiero nate fuori della chiesa e in opposizione ad essa, comunque dalla chiesa per
lungo tempo osteggiate; e tuttavia sentiamo che aver scoperto il valore/dovere della
tolleranza non significa un ‘meno’ ma un
‘più’ di cristianesimo, inteso come uno sforzo di sequela attualizzante del programma
di Gesù di Nazaret che ha portato agli uomini un Dio solidale e in ascolto, capace
anche di ritirare il suo infinito per fare spazio alla finitezza degli esseri umani; un Dio
che troppo spesso ci sembra silenzioso, ma
forse attraverso il suo silenzio manifesta l’attesa della nostra parola autonoma.
Essere cristiani significa essere pronti a scoprire ciò che Dio e lo Spirito operano anche – e forse soprattutto – nei non credenti.
Se è vero che il laico è l’uomo del dubbio e
della tolleranza, che non crede di possedere una qualsiasi verità ma crede che la veri-