un ritratto di marco taralli
di Quirino Conti
In un bel casale nella campagna romana, ancora non troppo differente
da quando - attorno ai resti di ciò che era stato l’eclettica dimora
dell’imperatore Adriano - era battuta in lungo e in largo da nostalgici
viaggiatori del Nord, ma pure da banditi e briganti di ogni risma, tra querce,
allori e vaste macchie d’acanto che in qualche scorcio meglio preservato
ne facevano l’esatto modello di un paesaggio classico à la Poussin, lì ho
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maestro Gianluigi Gelmetti. Stavamo preparando il Don Giovanni per il
teatro dell’Opera di Roma.
Dopo qualche anno, fu ancora il maestro Gelmetti, generoso quanto geniale,
a farci incontrare di nuovo. Stavolta per un progetto inimmaginabile, almeno
per me: con la massima convinzione, mi si chiedeva di scrivere il libretto
di un’opera a soggetto mozartiano. Marco Taralli ne era l’autore designato.
Nonostante cercassi in ogni modo di sfuggire a quella straordinaria ma pure
eccentrica - ancora per me - richiesta, non riuscii a evitare l’onda di calore,
qualità e onestà che mi assediava da ogni parte. Tanto che, dopo la resa,
non solo accettai di scrivere il testo, ma mi occupai contemporaneamente
di regia, scene e costumi. Come se non avessi avuto altra passione che
quella.
Nasceva così La maschera di Punkitititi, prima opera di Marco Taralli.
E un’eccellente occasione, per me, di conoscere un musicista e un
compositore. Ma per conoscerlo davvero. E non solo dal talento,
dal mestiere, dall’intelligenza, dal cuore e dalla sensibilità. Giacché
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gettarci l’uno nella vita dell’altro. In ciò che eravamo di più riposto. In quella
terra franca - e sconosciuta - che è, appunto, la libertà di un autore. Quasi
fossimo tornati nel giardino dell’Eden.
E fu in quella terra di mezzo che mi comparve una creatura del tutto
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allora; esecutori straordinari, grandi interpreti, direttori eccellenti, coltissimi
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sensibile poeta. Che avrebbe scelto di tiranneggiarci in ogni maniera pur
di salvaguardare, nel caso, ciò che, senza apparente fatica, gli nasceva
come da una fonte inesauribile e umanissima. Giacché Marco Taralli era
anche il custode infaticabile del suo tesoro di “racconti sonori” e delle
storie che meticolosamente stendeva su un ordinatissimo pentagramma.
Geloso - e persino ostile, nella sua mitezza - se si fosse tentato di violare
quell’oscuro recinto nel quale coltivava i suoi resoconti musicali. Da
solo, a mani nude, senz’altra possibilità di difendere quel luogo se non
con la sua stessa tenace e ferma integrità. Per una partitura ideale che
- seppure con leggerezza - gli gravava nella mente come un dovere e
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lavoro - la felicità era evidentissima e quasi incontenibile - fu come se si
stesse scoperchiando il cielo: e ne dilagasse musica ovunque. Tanto che
la storia di quel remoto museo delle cere che della Maschera era lo sfondo
iniziò a prenderne colori, temperature, dimensioni, consistenze, volumi,
ma soprattutto respiro. Come se avesse generato - con i suoi personaggi
- un mondo, un luogo e, insieme, il loro inconfondibile linguaggio stilistico.
La loro “forma”, emozionante e percepibile. In ogni dettaglio. Custodendo
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Tanto che, quando l’ascoltammo dal tavolo di regia, da quel momento la sua
musica si trasformò in una materia ancora diversa, cangiante e mutevole.
Come si dice fosse naturale in quelle creature celesti capaci, anche molto
rapidamente, di divenire tutto: di volta in volta, persino pioggia. O pietra.
Ma quei giorni ricchi di sentimenti e battaglie, presto trascorsero.
E, dopo protratti tentativi di separazione, ciascuno cercò di tornare alla
sua quotidiana porzione di realtà. Come fosse possibile averne un’altra
oltre quell’intera cosmologia di passioni e sentimenti. Quella che si era
fatta avanti, solida e inconfondibile, dal fondo del golfo mistico, dentro le
sue note. E quando per qualche ragione tornammo a sentirci - tutti noi che
avevamo partecipato a quelle vicende, attenti all’instancabile narrazione
del loro autore, di chi cioè con la sua musica aveva reso persino visibili
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diaspora quasi evitavamo di far ritorno a quei giorni: come per un dovere
di sensibilità o, chissà, di pudore e di riguardo. Verso sentimenti ancora
vivi, veri. Se il mondo sapesse cos’è un musicista e un compositore; ma
lo sapesse davvero!
Facciata della Basilica di Santa Maria di Collemaggio (L’Aquila)