Danno da emotrasfusione e da somministrazione di emoderivati RAFFAELLA NOCERA Sommario 1. Responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per omissione di vigilanza e di controllo – 2. Danno da emotrasfusione e da somministrazione di emoderivati – 3. Indennizzo a favore delle vittime di attività trasfusionali – 4. Responsabilità del produttore di emoderivati risultati infetti. Legislazione c.c. 2043, 2049, 2050, 2055 – l. 13.3.1958, n. 296, Costituzione del Ministero della sanità, art. 1 – l. 23.12.1978, n. 833, Istituzione del Servizio sanitario nazionale, art. 6, 1° co., lett. c) – l. 4.5.1990, n. 107, Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati, artt. 4, 2° co., 8, 2° co., lett. f ) e 24 – l. 25.2.1992, n. 210, Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati, artt. 1, 2° e 3° co., e 4, 1° e 3° co. – l. 25.7.1997, n. 238, Modifiche ed integrazioni alla legge 25.2.1992, n. 210, in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, art. 1, 1°, 3° ,6° e 9° co., – D.lgs. 6.9.2005, n. 206, Codice del consumo, a norma dell’art. 7, l. 29.7.2003, n. 229, artt. 115, 117, 1° co., 139 e 140. Bibliografia Bighetti Azzolini 1996 – Bilotta 2005 – Costanzo 1999 – Favilli 2002 – Lamorgese 1999 – Mazziotti 2001 – Pompilj 2005 – Rodolfi 1999 – Rodolfi 2001 – Russo 2002 – Sacchettini 2005 – Tampieri 1996. 1. Responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per omissione di vigilanza e di controllo. Secondo consolidato orientamento della giurisprudenza, l’attività della p.a. deve svolgersi nel rispetto dei limiti imposti non solo dalla legge, ma anche dall’art. 2043 c.c. . Pertanto, atteso che i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione dettati dall’art. 97 Cost., vanno considerati alla stregua di limiti esterni alla sua attività discrezionale, la p.a. subisce le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., benché al giudice ordinario sia precluso qualsiasi sindacato sulla predetta attività (Cass. S.U., 18.5.1995, n. 5477, Rep. Giur. It., 1995, responsabilità civile, 133; Cass. 3.3.2001, n. 3132, Giur. It., 2001, 1248; Cass. 17.10.2001, n. 12572, Rep. Giur. It., 2001, responsabilità civile, 110). Sono stati altresì individuati i criteri ai quali il giudice deve attenersi, laddove sia stata proposta domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della p.a. . I criteri cui deve attenersi il giudice di merito avanti al quale sia dedotta una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della p.a. attengono: a) la sussistenza di un evento dannoso; b) la incidenza del danno su un interesse rilevante per l’ordinamento; sia esso un interesse indifferenziatamente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo) ovvero nelle forme dell’interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto; c) la riferibilità dell’evento dannoso ad una condotta positiva od omissiva della p.a.; d) la imputazione a titolo di dolo o di colpa della p.a., non già sulla base del mero dato obiettivo della semplice adozione e / o alla esecuzione di un atto illegittimo, ma del- la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa (Cass. S. U., 22.7.1999, n. 500, Rep. Giur. It., 2001, responsabilità civile, 111). Tra i casi in cui può proporsi domanda risarcitoria nei confronti della p.a., assumono particolare rilevanza quelli in cui i danni siano stati prodotti in seguito alla omissione di vigilanza da parte di autorità all’uopo preposte. Si pensi, ad es., al riconoscimento della responsabilità extracontrattuale delle autorità preposte alla vigilanza nel settore bancario e finanziario, laddove in seguito all’omissione dei doverosi controlli, si siano verificati danni per i risparmiatori. Con riferimento al ben noto crack della Cassa di risparmio di Prato, e all’omissione o scorretto esercizio dei poteri di controllo da parte della Banca d’Italia, la Cassazione rilevava che: La responsabilità extracontrattuale della p.a., per violazione del principio del << neminem laedere>> è astrattamente ravvisabile anche in un comportamento colpevole consistito nella diffusione di informazioni inesatte, in omissioni ovvero in leggerezze e negligenze commesse dalla p. a. nell’esercizio di poteri di vigilanza e controllo (Cass. S. U., 27.10.1994, n. 8836, Giust. civ., 1995, I, 1295). Analoga omissione la giurisprudenza ravvisa nel caso in cui soggetti affetti da gravi patologie (quali talassemia, leucemia, emofilia etc.) e perciò necessitati all’uso di plasmaderivati, abbiano contratto malattie infettive (quali AIDS, epatite B ed epatite C). Caso in cui non soltanto è ammessa la cofigurabilità della responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero della sanità (oggi della salute), ma si rileva altresì che: L’anzidetta configurabilità non deve, poi, ritenersi esclusa ( …) per effetto di una mancanza di elemento soggettivo – volitivo relativo agli eventi dannosi allegati; oppure per effetto dell’esercizio di valutazioni proprie della discrezionalità della P. A. e di scelte di indirizzo politico (Trib. Roma 27.11.1998, Guida al diritto, 1999, 2, cit. 107). Pertanto, è pur vero che, anche nei confronti della p. a. la statuizione dell’illiceità della condotta, non può prescindere dall’accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico. Tuttavia… Nell’ipotesi di danno prodotto a terzi per la inosservanza di regole di correttezza… << è sufficiente a dimostrare la colpa dell’amministrazione l’avvenuta violazione di queste regole, le quali, correlate ai doveri di prudenza, di diligenza e di imparzialità e di legalità, costituiscono un limite esterno alla discrezionalità propria della P. A. >> (Cass. 13/5/1997, n. 4186). Il riportato principio deve, evidentemente, ritenersi appicabile sia quando si tratti di comportamento provvedimentale illegittimo ( come nella fattispecie esaminata dalla suddetta decisione della S. C. ), sia – a maggior ragione – nell’ipotesi de qua (Trib. Roma 27.11. 1998, Guida al diritto, 1999, 2, cit. 107). 2. Danno da emotrasfusione e da somministrazione di emoderivati E’ interessante notare che nella decisione citata (Trib. Roma 27.11.1998), la responsabilità della p. a. viene ricondotta all’inosservanza sia dell’art. 2043 c.c., che degli artt. 2049 e 2050 c.c. . Tuttavia non sembra che nel caso in specie ci siano i presupposti per ricondurre la responsabilità del Ministero della sanità all’ambito degli artt. 2049 e 2050 c.c. . Anzitutto, l’art. 6, 1° co., lett. c), l. 23.12.1978, n. 833, Istituzione del Servizio sanitario nazionale, attribuisce allo Stato esclusivamente le funzioni amministrative attinenti alla produzione, registrazione, ricerca, sperimentazione, commercio e informazione concernenti (tra l’altro), gli emoderivati. Laddove l’effettiva produzione degli stessi, come del resto, la relativa distribuzione, non vengono effettuate dal Ministero. In proposito, l’art. 4, 2° co., l. 4.5.1990, n. 107, Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati, prevede, a livello regionale ed interregionale, appositi centri ed aziende convenzionate per la produzione di emoderivati. Inoltre l’art. 8, 2° co. lett. f) della stessa legge, attribuisce ai centri regionali di coordinamento e compensazione il compito di inviare il plasma alle aziende produttrici di emoderivati e di distribuire gli emoderivati ottenuti ai presidi ospedalieri. Emerge così che l’attività di raccolta del plasma e di produzione e distribuzione degli emoderivati, risulta ripartita tra molteplici soggetti, con i quali il Ministero della sanità non ha certo un rapporto riconducibile al quello intercorrente tra padroni e committenti e rispettivi domestici o commessi. Rapporto che invece costituisce il presupposto stesso per l’applicabilità dell’art. 2049 c.c. . E’ ugualmente improprio il riferimento all’art. 2050 c.c., poiché può qualificarsi pericolosa soltanto l’attività diretta alla produzione di emoderivati che, come si è visto, è dalla legge affidata ad appositi centri ed aziende convenzionate, ai quali si impone altresì l’osservanza di misure atte ad impedire la diffusione di malattie. In definitiva, la responsabilità della p. a. andrebbe ricondotta esclusivamente alla violazione del principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. ( App. Roma 23.10.2000, Rep. Giur. It., 2001, responsabilità civile, 333). Attori ed intervenuti hanno richiamato a sostegno dell’affermata responsabilità del Ministero convenuto gli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c. . Come già ritenuto dalla Corte d’appello, tra gli enti (unità sanitarie locali, ospedali ecc. tutti dotati di autonoma personalità giuridica) che hanno provveduto all’effettiva somministrazione degli emoderivati nell’ambito del servizio sanitario nazionale ed il Ministero, non sussiste un rapporto di dipendenza ovvero di committenza che possa giustificare l’applicazione dell’art. 2049 c.c., sicché improprio è il richiamo alla suddetta disposizione. Ugualmente improprio è il fugace riferimento all’art. 2050 c.c. l’attività pericolosa non è quella del Ministero che, come si vedrà, esercita la vigilanza in materia sanitaria e di uso dei derivati del sangue, ma semmai quella dei soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione dei prodotti (Trib. Roma 14.6.2001, NGCC, 2002, I, cit. 562 e 563). Tuttavia, benché i diversi soggetti coinvolti nell’attività di produzione, distribuzione, somministrazione ecc. di emoderivati, siano muniti di autonoma personalità giuridica, spetta comunque al Ministero della sanità, ex art. 1, l. 13.3.1956, n. 296, << sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al coordinamento, eventualmente necessario, per adeguare l’organizzazione e l’efficienza dei servizi stessi alle esigenze della sanità pubblica>>. In ragione di ciò, l’eventuale concorso di responsabilità in capo ad ulteriori soggetti non esclude la possibilità per i danneggiati di agire, ex art. 2055 c.c., nei confronti di uno solo dei coobbligati in solido, qual è appunto il Ministero della sanità. Ai motivi di perplessità già riferiti, vanno poi ad aggiungersi ulteriori dubbi circa l’effettiva sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta omissiva del Ministero della sanità, ed i danni irreversibili derivati dal contagio. Al riguardo deve rilevarsi che, secondo meticolosa ricostruzione fornita dalla giurisprudenza stessa, I test diagnostici di rilevazione dell’epatite B, C e dell’HIV non sono in grado di accertare l’epoca del contagio, sicché il riferimento ad essi non è utile a questo scopo, essendo essi idonei soltanto a rivelare la presenza del virus nell’organismo al tempo in cui l’esame è effettuato (Trib. Roma 14.6. 2001, NGCC, 2002, I, cit. 568). Si consideri inoltre che nel 1978 fu approntato il test diagnostico rivelatore del virus da epatite B; nel 1985 fu approntato il test <<ELISA>>, rivelatore dell’HIV; ed infine nel 1989 fu approntato il test rivelatore del virus da epatite C, benché fin dal 1988 fosse stato imposto il c.d. termotrattamento contro il rischio di trasmissione del virus da epatite C. Si rivela così assai problematico individuare un nesso eziologico tra l’omissione di vigilanza da parte del Ministero, e i danni derivati dal contagio, quantomeno nei casi in cui la malattia sia stata contratta nel periodo precedente a quello in cui fu approntato il relativo test diagnostico. In altri termini, laddove il Ministero della sanità avesse esercitato la propria funzione di vigilanza e di controllo, del resto espressamente prevista dall’art. 1, l. 14.7.1967, n. 592, poi abrogata dall’art. 24, l. 4.5.1990, n. 107, comunque non sarebbe stato possibile impedire la trasmissione di nessuna delle predette patologie, se contratte prima del 1978, del 1985 o del 1988, poiché in assenza dei relativi test rivelatori, i virus non erano ancora riconoscibili. Sarebbe invece ipotizzabile la sussistenza del predetto nesso eziologico, qualora potesse dimostrarsi che la malattia sia stata contratta successivamente al 1978, al 1985 o al 1988. Tuttavia non potrebbe assolversi a tale onere probatorio in alcun modo poiché, come si notava, i test diagnostici non sono in grado di rivelare l’epoca del contagio. 3. Indennizzo a favore delle vittime da attività trasfusionali L’art. 1, 2° co., l. 25.2.1992, n. 210, Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati, dispone quanto segue: << L’indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV>>. Il 3° co. dello stesso articolo attribuisce analogo beneficio a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali. L’indennizzo è calcolato mediante rinvio alle tabelle elaborate per la liquidazione delle indennità civili e militari ( tabella B allegata alla l. 29.4.1976, n. 177, come modificata dall’art. 8 della l. 2.5.1984, n. 111). A seguito di modifiche ed integrazioni alla predetta legge, introdotte dalla l. 25.7.1997, n. 238, l’indennizzo consiste in un assegno reversibile per quindici anni, cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito (art. 1, 1° co.), ovvero in un assegno una tantum erogato a favore dei familiari, laddove l’avente diritto sia deceduto (art. 1, 3°co.). Significativa è l’estensione dei benefici della citata l. n. 238 del 1997, al coniuge che sia stato contagiato, nonché al figlio contagiato durante la gestazione (art. 1, 6° co.). I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo hanno l’onere di presentare la relativa domanda entro il termine perentorio di tre anni, in caso di epatiti post-trasfusionali, e di dieci anni, nel caso di infezioni da HIV. Termini decorrenti dalla data in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno (art. 1, 9° co.). I benefici descritti restano comunque limitati alle infermità prodottesi successivamente all’entrata in vigore della l. 25.2.1992, n. 210. Al riguardo, il Pretore di Milano ebbe a sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della l. 25.2.1992, n. 210, come integrata dall’art. 1, 2° co., l. 25.7.1997, n. 238, nella parte in cui, laddove siano state contratte infezioni da virus HIV e HCV, in seguito ad emotrasfusione o a somministrazione di emoderivati, anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 210 del 1992, fanno decorrere l’indennizzo dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, anziché dal verificarsi dell’evento dannoso o dalla conoscenza che l’interessato ne abbia avuto. A sua volta il Pretore di Trento sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, 2° co., come modificato dall’art. 7, 1° co., d.lg. 23.10.1996, n. 548, convertito nella l. 20.12.1996, n. 641, nonché dell’art. 3, 7° co., l. n. 210 del 1992 e dell’art. 1, 2° co., l. n. 238 del 1997, nella parte in cui non riconoscono, a beneficio di coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali (HCV), contratte anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 210 del 1992, un equo indennizzo a carico dello Stato, per il periodo compreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento dell’indennizzo previsto dall’art. 1, 3° co., della predetta l. n. 210 del 1992, a favore di chi abbia contratto epatite post-trasfusionale. La Corte Costituzionale dichiarava infondate le questioni sollevate, rilevando che: Il diritto a misure di sostegno assistenziale in caso di malattia, alla stregua dell’art. 38 della Costituzione, non è indipendente dal necessario intervento del legislatore nell’esercizio dei suoi poteri di apprezzamento della qualità, della misura e delle modalità di erogazione delle provvidenze da adottarsi, nonché della loro gradualità, in relazione a tutti gli elementi di natura costituzionale in gioco, compresi quelli finanziari, la cui ponderazione rientra nell’ambito della sua discrezionalità (per tutte, da ultimo, sentenza n. 372 del 1998). Non mancano a questa Corte gli strumenti di controllo delle scelte del legislatore nemmeno in questo caso, sotto il profilo specialmente del rispetto della parità di trattamento e del nucleo minimo della garanzia; ma tali strumenti non le consentono certo di sostituire alle necessarie valutazioni politiche del legislatore una propria decisione che, in mancanza di criteri giuridico-costituzionali predeterminati, si risolverebbe in un’esorbitanza in un campo che non è il proprio e nel quale trovano comunque applicazione gli strumenti ordinari dell’assistenza sociale, anche in relazione alle menomazioni alla salute di cui è questione (Corte Cost. 22.6.2000, n. 226, Riv. Giur. Lav., 2001, II, cit. 234). Ulteriore questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3° co., e 2, 1° e 2° co., l. n. 210 del 1992, fu sollevata dal Tribunale di Firenze, relativamente alla parte in cui, nel quantificare l’indennizzo dovuto a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali, non prevedono la liquidazione, sia pure in misura ridotta, del danno biologico. Opportunamente la Corte Costituzionale rilevava che la disciplina prevista dalla l. n. 210 del 1992, opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in materia di risarcimento del danno. Atteso che <<la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura quest’ultimo, quanto alla sua entità, in relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto all’indennità sorge per il solo fatto del danno irreversibile>>. Di modo che Ferma la possibilità per l’interessato di azionare l’ordinaria pretesa risarcitoria, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha dunque previsto una misura economica di sostegno aggiuntiva, in un caso di danno alla salute, il cui ottenimento dipende esclusivamente da ragioni obiettive facilmente determinabili, secondo parametri fissi, in modo da consentire agli interessati in tempi brevi, una protezione certa nell’ an e nel quantum, non subordinata all’esito di un’azione di risarcimento del danno, esito condizionato all’accertamento dell’entità e, soprattutto, alla non facile individuazione di un fatto illecito e del responsabile di questo (Corte Cost. 16.10.2000, n. 423, Riv. Giur. Lav., 2001, II, cit. 236). D’altro canto, la distinzione intercorrente tra profili risarcitorio ed indennitario era stata precedentemente delineata in modo altrettanto netto dalla Corte Costituzionale stessa, sia pure in riferimento ad altra fattispecie ( menomazioni riportate a causa di vaccinazione antipoliomielitica da quanti vi si fossero sottoposti e da quanti avessero prestato ai primi assistenza personale diretta). Riassumendo con ordine, la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare una di queste tre conseguenze: a) il diritto al risarcimento pieno del danno riconosciuto dall’art. 2043 del codice civile, in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall’art. 32 della Costituzione in collegamento con l’art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia stato subito in conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, a norma degli art. 38 e 2 della Costituzione, a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell’ambito dell’esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali, in tutti gli altri casi (Corte Cost. 18.4.1996, n. 118, Giust. civ., 1996, I, cit. 1882). Per quanto la giurisprudenza abbia evidenziato che il diritto all’indennizzo sorge << per il solo fatto del danno irreversibile>>, in modo da approntare a beneficio degli interessati << una protezione certa nell’an >> oltre che nel quantum (Corte Cost. 16.10.2000, n. 423, Riv. Giur. Lav., 2001, II, cit. 236), sembra che il legislatore abbia sovrapposto il profilo risarcitorio a quello indennitario, laddo- ve subordina il riconoscimento del diritto all’indennizzo, all’accertamento del nesso causale intercorrente tra la trasfusione, o la somministrazione di emoderivati, e le menomazioni all’integrità psico-fisica o la morte (art. 4, 1° e 3° co., l. 25.2.1992, n. 210). 4. Responsabilità del produttore di emoderivati risultati infetti La responsabilità del produttore per danni derivati dalla somministrazione di emoderivati, è dalla giurisprudenza ricondotta all’ambito applicativo dell’art. 2050 c.c. . Al riguardo, pare del tutto isolata la tesi tendente ad escludere la pericolosità dell’attività di produzione di farmaci, per se diretta alla manipolazione di sostanze particolarmente delicate quali gli emoderivati (Trib. Napoli 9.10.1986, Rep. Giur. It.,1988, responsabilità civile, 156). In senso contrario si fa invece rilevare che la produzione di farmaci va considerata attività pericolosa di modo che non può dirsi abbia fornito prova liberatoria da responsabilità, il produttore di emoderivati contenenti, per insufficiente screening della base ematica, il virus dell’epatite B, il quale non si sia attenuto alle più avanzate tecniche note ed anche solo astrattamente possibili all’epoca della produzione (Trib. Milano 19.11.1987, Rep. Giur. It., 1988, responsabilità civile, 158). Analogamente, va considerata attività pericolosa la produzione di farmaci contenenti gammaglobuline, per cui vanno condannati in solido al risarcimento del danno, il produttore delle gammaglobuline, l’importatore e rivenditore e il produttore del farmaco che non abbiano eseguito sul prodotto tutti i necessari accertamenti idonei ad escludere la presenza di virus ( Trib. Roma 27.6.1987, Rep. Giur. It., 1988, responsabilità civile, 157). La prova liberatoria è particolarmente rigorosa atteso che non è sufficiente la prova negativa di non aver violato alcuna norma di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l’evento dannoso (Cass. 29.4.1991, n. 4710, Rep. Giur. It., 1991, responsabilità civile, 66). Principio che la giurisprudenza ha applicato alla vicenda che vide coinvolto il produttore del << Trilergan >>, un farmaco antiallergico, emoderivato, che costituì veicolo di trasmissione dell’epatite B ai danni di diversi pazienti. Ai fini della responsabilità sancita dall’art. 2050 c.c., debbono essere ritenute pericolose, oltre alle attività prese in considerazione e per la prevenzione infortuni o la tutela dell’incolumità pubblica, anche tutte quelle altre che, pur non essendo specificate o disciplinate, abbiano tuttavia una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalle modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati; pertanto la produzione e l’immissione in commercio di farmaci contenenti gammaglobuline umane e destinati all’inoculazione nell’organismo umano, costituisce attività dotata di potenziale nocività intrinseca, stante il rischio di contagio del virus della epatite di tipo B, non espressamente previsto dalla normativa riguardante gli emoderivati, ma tuttavia compreso nell’ampia previsione stabilita da dette disposizioni; ne consegue che il produttore, come l’importatore, del farmaco, e prima ancora il produttore delle dette gammaglobuline, per liberarsi dalla presunzione di responsabilità contemplata dall’art. 2050 cit. devono fornire la prova, particolarmente rigorosa, dell’adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno con la verifica dell’innocuità del prodotto mercè quei metodi, anche sperimentali, di analisi e controllo che la scienza medica fornisce, indipendentemente dal loro costo o perfezionabilità, non bastando la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorrendo quella positiva, di aver impiegato ogni cura e misura atta ad impedire l’evento dannoso (Cass. 20.7.1993, n. 8069, Foro It., 1994, I, 455). La prova relativa alla sussistenza del nesso eziologico intercorrente tra l’assunzione del farmaco ed il danno riportato dal consumatore, può essere fornita anche mediante presunzioni ex art. 2727 ss. c.c. (Trib. Roma 20.4.2002, Rep. Giur. It., 2002, II, responsabilità civile, 363). E’ interessante rilevare che, secondo recente orientamento, nel caso in cui il danno sia derivato dalla somministrazione di un farmaco prodotto all’estero ed importato in Italia, e l’importatore sia stato citato non quale rappresentante del fabbricante, ma in proprio, la sua responsabilità andrebbe ricondotta all’ambito dell’art. 2050 c.c., anziché a quello della disciplina in materia di responsabilità del produttore. Nell’ipotesi di danno conseguente all’assunzione di farmaco prodotto all’estero ed importato in Italia, se l’importatore viene citato in proprio, e non come rappresentante del fabbricante, la sua responsabilità va esaminata non sotto il profilo della responsabilità del produttore, ma dell’esercente di attività pericolosa, ex art. 2050 c.c., con conseguente inversione dell’onere della prova, se viene dimostrato il nesso di causalità tra l’assunzione del prodotto ed il danno (Trib. Roma 20.4.2002, Rep. Giur. It., 2002, II, responsabilità civile, 364). Principio che, da un lato sembra disattendere l’orientamento, citato in precedenza, tendente ad estendere, in ogni caso, anche all’importatore, il disposto dell’art. 2050 c.c.; e che, dall’altro, lascia intravedere la possibilità che alla fattispecie in esame possa trovare applicazione anche la disciplina in materia di responsabilità del produttore. Al riguardo, l’art. 115, D.lgs. 6.9.2005, n. 206, Codice del consumo, a norma dell’art. 7, l. 29.7.2003, n. 229, con particolare riferimento alla responsabilità per danno da prodotti difettosi, stabilisce che << prodotto, ai fini del presente titolo, è ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile>>. A tale ampia accezione di <<prodotto>>, del resto analoga a quella a suo tempo prevista dall’art. 2, 1° co., D.P.R. 24.5.1988, n. 224, ben potrebbero ricondursi anche i prodotti farmaceutici. Analogamente, se per difettoso si intende il prodotto che non offra << la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze >> (art. 117, 1° co. D.lgs. 6.9.2005, n. 206), non vi alcun dubbio che tale vada considerato anche l’emoderivato risultato infetto. Si consideri inoltre che gli artt. 139 e 140 D.lgs. cit., attribuiscono alle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite in apposito elenco istituito presso il Ministero delle attività produttive, la legittimazione ad agire a tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti, all’uopo <<richiedendo al tribunale: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazione accertate >>. Rimedio che potrebbe rivelarsi particolarmente utile soprattutto se diretto ad inibire la commercializzazione di prodotti farmaceutici nocivi, quali gli emoderivati infetti, idonei, come si è visto, a recare danni irreversibili ad un numero notevole di persone. INDICE BIBLIOGRAFICO FINALE BIGHETTI AZZOLINI M., Art. 2043 c.c., in Commentario breve al codice civile a cura di Cian e Trabucchi, IV edizione, CEDAM, 1996. 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